L’ospite accanto a me è Franco Fabbri. Musicologo. E musicista di primo piano perché è stato dal 1965 chitarrista, cantante e compositore nel gruppo degli Stormy Six http://www.recsando.it, gruppo con il quale ha conosciuto molteplici esperienze: dalla tournée con i Rolling Stones del 1967 al Premio della critica discografica tedesca nel 1980 (miglior disco rock dell'anno; al secondo posto i Police); da concerti nelle più remote piazze italiane, in stadi, palasport, in centri sociali, fabbriche occupate, feste patronali e Festival de l'Unità fino a recitals alla Biennale di Venezia, ai Teatri dell'Opera di Amburgo e Francoforte, alla Volksbuhne di Berlino, a Settembre Musica. Con gli Stormy Six ha pubblicato otto album in studio e due dal vivo, oltre a un proprio CD di musiche elettroniche (Domestic Flights, Fonit Cetra). Ha ideato il progetto ‘Cassix’ (membri degli Stormy Six più Chris Cutler, Heiner Goebbels, Alfred Harth), collaborato con i LA1919 e con Luciano Margorani.
Nel 1983 ha prodotto colonne sonore elettroniche per Nosferatu di Murnau e Metropolis di Lang. Come critico e studioso è noto soprattutto per i suoi lavori sui rapporti tra musica e tecnologia “Elettronica e musica”, Fratelli Fabbri, 1984; “Il suono in cui viviamo”,
http://www.feltrinelli.it Feltrinelli, 1996, libro che ho caro sui miei scaffali); sull'analisi della canzone (in “Fabrizio De André. Accordi eretici”, Euresis 1997, “Mina. Una forza incantatrice”, ancora Euresis, 1998, e nell'Enciclopedia della musica, Einaudi).
Per Arcana ha pubblicato: ” Album Bianco - Diari Musicali 1965-2000” http://www.bielle.org.
Insegna all’Università di Torino (due corsi: “Musica contemporanea dei media” e “Popular music”), alla Statale di Milano (“Economia dei beni musicali”), e a Savona (Laurea specialistica in Scienze della Comunicazione, corso di “Musicologia”). Ha scritto la parte relativa alla popular music della “Storia della musica” UTET, che esce in questi giorni.
Tanti i suoi studi sui generi musicali, pubblicati in vari libri e riviste internazionali (World Music, Politics and Social Change a cura di Simon Frith, Manchester University Press, Encyclopaedia of Popular Music of the World, Cassell, "Popular Music", Cambridge University Press, Atlante del Novecento, a cura di L. Gallino, M. L. Salvadori, G. Vattimo, UTET).
E' stato chairman della IASPM (International Association for the Study of Popular Music), fa parte della redazione di "Musica/Realtà" e del comitato scientifico della collana "Le sfere".
Ha lavorato anche a RadioRai conducendo "Radio Tre Suite" e, successivamente, è stato protagonista di lucidi giudizi sul degrado in cui è precipitata quell’antenna; segnalo, ad esempio, un suo intervento di tempo fa (ahimé ancora attuale) che potete leggere cliccando su: http://www.amicidiradiotre.com e ancora, un più recente, articolo che svela trucchi della rivelazione negli ascolti di RadioRai: cliccare qui. http://www.amicidiradio3.com
- Benvenuto a bordo, Franco…
- Grazie! Ricordo che il mio rientro a Radio Tre, dopo molti anni di assenza, avvenne in una rubrica intitolata “Sound Trek”. Il ritorno sull’Enterprise mi sembra benaugurale. “Bend me up, Scottie!”
- Il sommellier Giuseppe Palmieri de “La Francescana” di Modena, diretta dal patron e magico chef Massimo Bottura , mi ha consigliato di farti assaggiare durante la nostra conversazione nello Spazio questo Prelit Rosso Collio, Damijan 2001, inviandomi anche una nota in spacefax che dice “bicchiere interessante perchè il risultato è un vino fatto di note che vanno dai lieviti ai tostati alle frutta di contadina memoria”.
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore…insomma, chi è Franco secondo Franco …
- Sono un viaggiatore, che ama le culture e le musiche. Forse perché sono nato in Brasile da genitori italiani, ma molto presto sono venuto a stare in Italia (cambiando città, prima di stabilirmi definitivamente a Milano), fin dall’infanzia ho avuto la sensazione di appartenere a più luoghi contemporaneamente, e sono cresciuto prendendo atto della falsità dei luoghi comuni sulle identità nazionali e locali. Non che mi sfuggissero le differenze: ma le vivevo, piuttosto che essere educato a basarle su pregiudizi. Lo devo alle circostanze, ma anche e soprattutto ai miei genitori. I primi dischi che ho ascoltato (infinite volte) erano “Delicado”, la “Rapsodia svedese”, “Un cavallo senza cowboy” (Quartetto Cetra), la Sinfonia “Dal nuovo mondo” di Dvorak. Poi anche “Rock Around the Clock”.
- L’esperienza con gli Stormy Six quale influenza ha avuta sul tuo successivo lavoro di musicologo?
- Un’influenza determinante. Insieme ai miei compagni di viaggio (soprattutto Massimo Villa e poco più tardi Umberto Fiori) mi rendevo conto dell’inadeguatezza della critica musicale di allora rispetto all’intensità dei nostri progetti. Dico “compagni di viaggio” non solo metaforicamente: gran parte delle nostre discussioni sui massimi e sui minimi sistemi dell’estetica, della semiotica e della critica musicale avvenivano in macchina o sul camioncino degli Stormy Six. Ho iniziato a scrivere di musica ancora nel pieno dell’attività del gruppo (su “Laboratorio musica”, su “Musica/Realtà”), poi in un dibattito a Berlino Est ho conosciuto lo studioso di estetica e musicologo, Günter Mayer, che mi ha messo in contatto con Philip Tagg. Qualche mese dopo Tagg mi invitava alla prima conferenza internazionale di studi sulla popular music, e più tardi a studiare con lui a Göteborg.
- Negli studi scientifici sulla percezione musicale, c’è chi sostiene sia proprio l’esperienza d’ascolto a favorire l’interpretazione delle strutture mentali che producono le strutture della musica, altri consigliano il tragitto opposto partendo dalle neuroscienze, specie di marca cognitiva, per approdare ad un più sicuro risultato. Il tuo pensiero…
- Non è il mio campo di ricerca: tendo a considerare il livello della percezione come una scatola nera che produce un risultato, una classificazione in tipi e strutture (da quelle elementari come i “musemi” definiti da Tagg, ai generi musicali), che è invece l’ambito del quale mi occupo. Naturalmente mi incuriosiscono e mi affascinano vari approcci allo studio della percezione e di tutta quella parte “oscura” che viene prima della semiosi: soprattutto mi interessano i punti di vista non dogmatici, che prendono in considerazione la possibilità che diversi canali (quelli basati su strutture antropologiche, addirittura geneticamente determinate, e quelli basati sull’esperienza e sulla cultura) si intreccino e influenzino. Insomma, se una musica ci fa muovere in un certo modo, penso che c’entrino sia la nostra memoria genetica e il fatto che siamo dei bipedi a simmetria bilaterale, sia l’esperienza prenatale, sia ciò che abbiamo sentito e visto (e variamente elaborato) in tutta la nostra vita.
- Ha scritto John Cage: “Quel che occorre, ed occorrerà, al musicista non è un computer che risparmi la fatica, ma che anzi accresca il lavoro da fare”.
E’ stato ascoltata quella sua riflessione del 1967 ? E, se sì, da quale scuola in particolare?
- Direi di sì, ma indipendentemente dalle scuole. La prima cosa che mi viene in mente è l’aspirazione demiurgica dell’Ircam dei primi anni, che continuava e amplificava l’ideologia costruttivista dell’epoca di Darmstadt. Credo che quella che hai citato sia una delle pochissime affermazioni di Cage che avrebbe potuto essere sottoscritta da Stockhausen o da Boulez, allora. E l’idea che uno strumento sia tanto più potente musicalmente quanto più intensamente mette alla prova il musicista è molto pertinente all’estetica dell’avanguardia (mi viene in mente anche Ferneyhough). Ma certo il senso della frase di Cage era diverso: contro la fordizzazione del lavoro compositivo (proprio uno dei concetti ispiratori dell’Ircam), e forse secondo una modalità in cui il computer non ha una funzione molto diversa dal Libro dei Mutamenti. Una sfida, e un oracolo. Ma naturalmente, c’è anche molta routine, in giro.
- L’intreccio fra suono, gesto, danza e parola è una delle tendenze più significative della nuova musica. Lo propone in teatro Bob Wilson, tanto per fare un solo nome, ma anche, partendo dall’area musicale, Philip Glass collabora a performances multimediali. Un teatro della mente che provoca il desiderio di ascoltare con gli occhi e vedere con le orecchie. Questo desiderio sinestesico è suggerito dalle nuove tecnologie oppure è cosa che viene da lontano?
- Non avrei dubbi: viene da lontano. Del resto, quante volte i realizzatori di progetti multimediali citano Skrjabin? Per non dire Wagner, o l’opera barocca (o la Musica per i Reali fuochi d’artificio). Ma le tecnologie informatiche permettono di sperimentare e realizzare lavori che in passato avrebbero avuto dimensioni gigantesche, e che anche gli artisti più affermati avrebbero fatto fatica a farsi commissionare o finanziare. Mi viene in mente An Index of Metalsdi Fausto Romitelli, che può anche essere letto come una reinterpretazione in forma di concerto multimediale delle sequenze psichedeliche di 2001: Odissea nello spazio su Atmosphères di Ligeti. Ancora nel 1968, ci voleva Kubrick e la 20 th Century Fox. Adesso lo si vede e ascolta in una sala da concerto.
- Grazie alle tecniche digitali, oggi è possibile fondere una traccia vocale di un brano con le parti strumentali di un altro, è il concetto base della Bootleg Culture, fenomeno – lo dico a beneficio dei miei avventori meno informati - che pur risalendo ai primi anni ’90 ha avuto riconoscimenti e successo di recente, come attestano i festival Transmediale di Berlino e Sonàr di Barcellona. Premessa per chiederti: in un genere musicale fondato sulla contaminazione, sul copia e incolla, quale nuovo senso ha assunto il parlare di identità espressiva?
- A me pare che questi lavori, pur basati su materiali “estranei”, mostrino ancora tracce evidentissime del carattere e dell’esperienza di chi li ha creati. In questi giorni sto ascoltando Way Out, un cd che Massimo Villa ha realizzato servendosi di Reason (uno dei tools più usati in questo campo), e sebbene ci siano le tracce di uno “stile campionato” che è diventato una lingua franca di quei festival, dopo pochi minuti mi è venuto in mente che è a casa di Massimo che ho ascoltato per la prima volta Bitches Brew di Miles Davis. Quel collage lì (anche Bitches Brew, in larga parte, lo era) poteva averlo fatto solo Massimo, qualunque sia la natura dei materiali che ha ritagliato e incollato.
- E' trascorso un quarto di secolo dal primo urlo anarchico dei Sex Pistols e dall'esplosione rivoluzionaria del punk e della sua eco anche in altri campi espressivi, nonché nel costume giovanile.
Aldilà di spille e catene, che cosa ne è rimasto? Ne rintracci segni nel panorama musicale di adesso?
- Come molti altri generi, ma certo in modo esemplare, il punk assommava elementi episodici, legati alle circostanze del tempo, e aspetti che con cautela definirei universali, come la tendenza a ritornare alle origini quando uno stile ha esaurito le sue risorse. In entrambi i sensi, il punk si alimentava del confronto con la controcultura hippy e con il rock progressivo dei primi anni Settanta. Un punk privato della sua urgenza di mandare a quel paese l’ingenuità e le utopie dei liceali, e di negare i virtuosismi ostentati e la ricchezza smodata di Rick Wakeman, diventa un genere come tutti gli altri. I segni nel panorama attuale certo ci sono (il punk c’è stato, quindi c’è), ma molti dei suoi elementi costituitivi che erano quasi esclusivi allora (la brevità, la velocità, la semplicità, la trasandatezza) sono stati assorbiti altrove.
- I Black Rebel Motorcycle Club, i Muse, gli Strokes, i Travis, gli Starsailor, i Coral, i Raveonettes… alcuni dicono che il rock è risorto, altri che non è mai morto. Tu come la pensi?
- Mi tirerei fuori dal dibattito sulla presunta morte del rock. Che il rock fosse morto l’ha scritto per la prima volta con presunta autorevolezza Simon Frith: un caro amico, un sociologo, uno che più volte ha scritto di non capire un accidente di musica. È fin troppo ovvio osservare che le circostanze grazie alle quali negli anni Sessanta e Settanta la musica (non solo il rock) è stata il terreno di scontro e lo strumento privilegiato della lotta ideologica per il cambiamento non si ripresentano ora. Ma il rock non era motivato solo da quella. Se mi è permesso un confronto sicuramente eccessivo, la Terza di Brahms non è l’Eroica di Beethoven. Ma Brahms era un genio, e dimostrò che la sinfonia non era morta. E dopo di lui c’è stato Mahler, e poi Prokofiev, Sostakovic, eccetera. Questi ottimi gruppi rock dei nostri tempi trasmettono lo stile a un futuro del quale non sappiamo abbastanza.
- Mi pare che i videoclip… a proposito di recente è uscito un ottimo libro Meltemi di Paolo Peverini di cui troverete una nota su Cosmotaxi... i videoclip, dicevo, mi pare attraversino una fase di stanca. Ripetitivi, nella maggior parte dei casi si rassomigliano tutti. Sei d'accordo o no? E, se sì, perché succede?
- Sì, salvo rare eccezioni sono d’accordo. È difficile inventare qualcosa quando c’è un monopolio globale della committenza. Il videoclip è ucciso da Mtv, dal suo formato obbligatorio, dalla sua funzione irrigidita. I videoclip migliori sono stati fatti quando nessuno sapeva ancora se si sarebbero venduti, se sarebbero stati usati per passaggi promozionali senza pagare viaggi, limousine e alberghi (e danni ai medesimi) per i gruppi, o se – come invece è avvenuto – sarebbero finiti in un flusso, con un format di tipo radiofonico. Forse il crescente successo commerciale del dvd cambierà le cose.
- Radio Rai, da alcuni anni è in crisi profonda, e non solo d’ascolti. Ma oltre la contrazione della platea radiofonica dell’antenna pubblica, colpisce la perdita in ampiezza del registro culturale, le desolanti scelte spacciate per ragioni tecnologiche, e via vaneggiando.
Esiste una sola causa o più cause che hanno determinato questo disastro?
- Mi sto convincendo sempre di più che l’omologazione di Radio Rai, specialmente di Radio Tre, si inserisca in una strategia di privatizzazione: fra non molto, Radio Due e Radio Tre verranno cedute (a buon prezzo, dato il calo di ascolti) ai soliti noti, che si troveranno una struttura produttiva comunque tecnologicamente aggiornata, e un personale demotivato e piegato a qualunque destino. È stato un errore enorme quello del centro-sinistra, quando era al governo e almeno parzialmente controllava la Rai, di sottovalutare l’aspetto tecnologico, di cederne il controllo fin da allora alla destra, permettendo che per quella strada si preparasse il terreno a uno stravolgimento della funzione pubblica. Ricordo che quando sull’Unità scrissi dell’inconsistenza dei dati dell’Audiradio, e parlai del sistema Radiocontrol adottato in Svizzera, www.radiocontrol.ch, gli unici a reagire furono i parlamentari di AN. Se in Italia si fosse usato Radiocontrol, probabilmente si sarebbe scoperto (allora) che Radio Tre era più ascoltata di molte radio commerciali, che aveva anche un pubblico giovane, che aveva una grande autorevolezza (pubblicitariamente utilissima). Gli argomenti usati da Valzania per stravolgerla sarebbero stati falsificati in partenza.
- Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, non necessariamente elogiativa… che cosa rappresenta quel videomito nel tuo immaginario? Ammesso che qualcosa rappresenti, s’intende…
- Per ragioni generazionali, mi sono appassionato alla fantascienza prima che Star Trek arrivasse in Italia. Una delle mie letture preferite era il ciclo di Pianeta Tchai, di Jack Vance: quella fantascienza antropologica (o, forse, alienologica) è all’origine di alcune passioni della mia vita, come il bar di Guerre stellari o l’antropologia delle musiche contemporanee. Guardo sempre Star Trek con piacere, e mi sto divertendo molto con la nuova serie. Posso dire che, insieme a Loveline su Mtv e a qualche documentario di Geo&Geo è l’unica ragione per la quale accendo la televisione.
- Siamo quasi arrivati a Fàbbrya, pianeta musicale abitato da alieni che fin dall’età scolare si nutrono di note al vinile e combattono un virus che ammorba l’etere chiamato Selector… se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di Prelit Rosso Collio, Damijan 2001 consigliata dal sommelier Giuseppe Palmieri de “La Francescana” di Modena… Però torna a trovarmi, io qua sto… intesi eh?
- Intesi. Selector è una tigre di carta!
- Vabbè, ti saluto com’è d’obbligo sull’Enterprise: lunga vita e prosperità!
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