L’ospite accanto a me è Silvio Castiglioni. Attore, regista, direttore dal 1998 del Festival Santarcangelo dei Teatri giunto in questo 2004 alla sua XXXIV edizione.
Sintetizzo il suo ricco curriculum. Laureato in filosofia con uno studio su <Il teatro di marionette> di von Kleist. Tra i fondatori del CRT-Centro di Ricerca per il Teatro di Milano nel cui ambito ha maturato le prime esperienze formative (con Odin Teatret di Eugenio Barba e Bread and Puppet); e quindi del Teatro di Ventura, gruppo col quale ha realizzato in dieci anni numerosi spettacoli e, fra l'80 e l'83, ha lavorato all'organizzazione e alla direzione del Festival e dell'Istituto di Cultura Teatrale di Santarcangelo. Decisivo in questo periodo l’incontro con la danzatrice giapponese Katzuko Azuma. Particolarmente significativa anche la collaborazione col regista cileno Raùl Ruiz concretizzatasi in un film e quattro spettacoli.
La prima regia è del 1985: “Il cacciatore di vento”, da un racconto di Tonino Guerra. Seguono: “Il tortuoso amore”, su testi di Clarice Lispector (1990); “Camille C.” di Maria Inversi (Teatro La Comunità, Roma 1991); “Marta e Maria”,di Renato Gabrielli (CSRT Pontedera, 1992). Nel ‘95 ha scritto e interpretato “Corpi estranei”, un assolo dedicato a von Kleist. Nel ‘98, in collaborazione con François Kahn, scrive e interpreta “Il sogno e la vita”, una fantasia sul signor Hoffmann, prodotto dal Centro Teatrale Bresciano. Ha scritto e interpretato “Remengòn”, voci dalla guerra, (CRT di Milano) liberamente ispirato a un racconto di Nuto Revelli, che in tre anni ha totalizzato più di cento repliche in Italia e all’estero.
Molte le collaborazioni con musicisti contemporanei, come voce solista e come drammaturgo. Dopo aver collaborato dal ‘94 al ‘97 con Leo de Berardinis in qualità di codirettore, dal ’98, come vi ho già detto, è direttore artistico del Festival di Santarcangelo.
Tra i lavori più recenti: nel 2001, per un pubblico di ragazzi, è regista de “La fattoria degli animali” da George Orwell, su testo di Francesco Niccolini; nel 2002 ha diretto e interpretato “Il sogno della Croce”, e nel 2003 “La Cena del pane”, due spettacoli creati nell’ambito del Festival Crucifixus dedicato al teatro sacro; nello stesso anno ha interpretato al Festival di Santarcangelo “In fondo a destra” di Raffaello Baldini per la regia di Federico Tiezzi e debutta con “Filò”, un lavoro ispirato al poema di Andrea Zanzotto; nel 2004 è nell’ “Antigone di Sofocle” di Bertolt Brecht, ancora per la regia di Federico Tiezzi.
- Benvenuto a bordo, Silvio…
- Ciao Armando
- Voglio farti assaggiare questo Diacono Gerardo di Torre Fornello…qua il bicchiere…ecco fatto.
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore…insomma, chi è Silvio secondo Silvio…
- Silvio è figlio di contadini . Per il mio maestro Grotowski, la prima cosa da capire è di chi sei figlio. Ed io è sempre alla dimensione contadina cui riconduco tutto quello che faccio, sennò ho l’impressione di non capirci nulla.
- Di Festival teatrali ce ne sono molti, ma quello di Santarcangelo ha una sua unicità.
Illustrala ai più distratti fra i miei avventori che non ne ricordassero le caratteristiche…
- Del Festival di Santarcangelo, un grande critico mi ha detto sere fa che non capiva come non fosse il Festival nazionale del teatro in Italia. Non tocca certo a me decidere in tal senso. Posso solo dire che la nostra prima caratteristica è il lavoro di gruppo, il progetto tutto, infatti, è elaborato in àmbito collettivo. Quattro i principii cui c’ispiriamo: duttilità, flessibilità, profondità di sguardo, capacità d’accogliere le sfide. Tutto quanto avviene, poi, ed è questo un vantaggio, non è nascosto in una grande città, ma realizzato in un paese che in dieci giorni diventa la cittadella del teatro e dei teatri, s’impregna di sostanza scenica e offre l’opportunità a tutti gli ospiti (artisti, giornalisti, un nostro pubblico che ogni anno viene a trovarci da ogni parte d’Italia, e anche turisti con curiosità culturali), di vivere in una dimensione stimolante, in un circuito di comunicazione emotivo e intellettuale.
- Siamo al momento di una domanda fatalmente ovvia quanto inevitabilmente necessaria: che cosa ha caratterizzato l’edizione 2004 di Santarcangelo dei Teatri…
- Il Festival 2004 si è affidato, nel solco della sua tradizione, ma quest’anno ancora più marcatamente, ad artisti disposti al rischio di mettersi in gioco, di sfidare il rischio anche del fallimento, perché un vero progetto culturale, deve includere, secondo me, il fallimento nell’orizzonte delle possibilità.
Abbiamo esplorato degli estremi espressivi, come per fare un esempio, ospitando da una parte i Motus, gruppo tecnologicamente agguerrito e dall’altra Tino Caspanello che lavora sulla scena nuda, ma non per questo vuota o meno incisiva.
- Ma hai seguito criteri anagrafici, tematici, linguistici, di genere?
- No, Armando, niente di tutto questo. Fin dall’inizio ci è stato chiaro che volevamo puntare su artisti, come prima ti dicevo, disposti a rischiare. A contrastare il processo di derealizzazione che corrode le vite di tutti noi, magari creando suoni e immagini capaci di opporre una resistenza all’ascolto e allo sguardo, di non farsi consumare dalla prima occhiata, proprio come gli orsi dei nostri manifesti di quest’anno, sempre in bilico tra realtà e artificio.
- Maurizio Grande in un suo intervento di anni fa si chiese: “Ma chi è l’attore: un corpo promosso a figura? Una maschera promossa a persona? Un sostituto promosso a originale?”
Tu come risponderesti a tali domande?
- Anche attraverso l’esperienza che conduco qui a Santarcangelo. Per esempio, in una sola giornata ho visto due spettacoli che sul tema da te sollevato si muovevano in modo diametralmente opposto. Nello spettacolo dei “Masques”, l’attore è trattato come materia da plasmare, terra da modellare, ed è, quindi, docile, abbandonato, remissivo, obbediente alla mano del suo creatore, ma questa non appaia una condizione di deprivazione perché, come dice Mimmo Cuticchio, l’aspirazione d’ogni attore è quella d’essere un pupo.
Nell’altro spettacolo, i belgi del Tg Stan, ho assistito ad un lavoro realizzato senza regista, senza puparo; quel gruppo rivendicava la necessità d’affrancare l’attore da ogni dipendenza: Questo agire comporta una grandissima responsabilità, non produce azioni e intonazioni volute da un regista, ma suggerite a ciascun attore dalla convinzione di muoversi e parlare in una maniera invece di un’altra. Suscita domande del tipo “Perché vai in scena?”… “Perché dici, e dici in quel modo, quelle cose?”.
In tutti i due esempi che ho fatto, all’attore è chiesto di farsi finestra attraverso la quale vedere la realtà, perché questo è il compito dell’attore: custodire da una parte e rivelare dall’altra proprio la realtà.
- Teatro di avanguardia, sperimentazione, alternativo, e poi con i fatali prefissi neo, post, trans… insomma, che cosa vuol dire per te “teatro di ricerca” oggi?
- Il teatro di ricerca non è una formula né una ricetta. E’ una condizione.
Condizione che può essere attraversata da tutti, anche da chi ha compiuto (da autore, da attore, da regista) un cammino professionale di tipo tradizionale e decide di rimettersi in gioco, di attraversare un rischio.
- Fra i meriti del nuovo teatro, c’è la creazione di un intercodice fra varie espressività, attirando nella propria area linguaggi che vanno dalla letteratura al fumetto, dalle arti visive alla tv, dalla danza ai videogiochi…è identificabile oppure no un territorio da dove sono arrivati i contributi maggiori per numero e peso?
- Diciamo che principale caratteristica della vita contemporanea è la compresenza di universi linguistici, il teatro riflette queste modalità, usandone gli strumenti. I migliori risultati si hanno quando però non ci s’innamora di questi strumenti, ma piuttosto del quoziente di sfida e di rischio… torno volutamente su questo termine – rischio – che ho già usato in questa nostra conversazione e che mi pare s’attagli a chi fa ricerca.
- Non solo performers quali Orlan e Stelarc, per fare un paio di nomi noti, usano il proprio corpo come esplorazione antropologica della fisicità. Penso, ad esempio, a quanto accade alla Genetic Savings and Clone, la società nota per la clonazione del gattino Cc, che ha ispirato la nascita della BioArts Gallery alla quale si riferiscono gli artisti biopunk – come Dale Hoyt che n’è capofila - che considerano le biotecnologie una nuova forma estrema di Body Art.
Come interpreti quest’interesse delle arti per una sorta di “neocorpo”?
- Il corpo è tutto ciò che ci resta e dobbiamo ripartire sempre da esso.
Le offese, le umiliazioni, ma anche tutte le speranze e le liberazioni, riconducono al corpo.
Se il corpo è – come dicevano nell’antichità – il tempio dell’anima, se offendi il corpo offendi l’anima, se salvi il corpo salvi l’anima.
Ben vengano quei performers che hai nominato prima, hanno prodotto e possono produrre ancora importanti contributi, anche se penso che parte del teatro contemporaneo – pur ispirandosi a volte al lavoro degli artisti prima da te menzionati – sia più avanti di loro, costretto ad affrontare problematiche comunicative più complesse di quelle evidenziate in una performance svolta in una galleria d’arte.
- Premesso che proprio nel Festival che dirigi ci sono stati spettacoli comici, o almeno di alcuni che in questa direzione s’impegnavano aldilà, o aldiquà, dei risultati raggiunti, noto che – a differenza dei tempi di Carmelo Bene o Leo de Berardinis - negli spettacoli del nuovo teatro trovi pochissimo spazio la comicità…
- Uno dei temi ricorrenti del teatro contemporaneo – e specie di quello più avanzato – è l’impossibilità della tragedia. Ma se la tragedia è impossibile, la commedia si manifesta in modo alquanto difficile… e poi via non essere cattivo, i nomi che hai fatto prima… beh, erano sublimi nel coniugare il comico e il tragico, l’alto e il basso e quindi…
- Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, non necessariamente elogiativa… che cosa rappresenta quel videomito nel tuo immaginario? Ammesso che qualcosa rappresenti, s’intende…
- Sono stato un vorace consumatore di letteratura fantascientifica fino a non sopportarla più per anni. E’ stata una grande coltura… come vedi chiudo questo nostro incontro: con una metafora agricola, omaggio alle mie origini cui molto tengo… ST è capitato in un momento di mio distacco dalla SF, non posso dirne con competenza, ma tengo a dire a proposito di fantascienza che amo molto Phillip Dick…
- Siamo quasi arrivati a Castigliònya, pianeta scenico abitato da alieni cacciatori di vento e di corpi estranei… se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di Diacono Gerardo di Torre Fornello…. però torna a trovarmi, io qua sto…intesi eh?
- E’ stato un viaggio piacevolissimo, tornerò di sicuro.
- Vabbè, ti saluto com’è d’obbligo sull’Enterprise: lunga vita e prosperità!
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