L'ospite accanto a me è Gloria Piccioni.
Giornalista, studiosa di comunicazione, lavora da anni nell'informazione
culturale sulla carta stampata ma facendo anche qualche lieta gita in
Tv, ammesso che quel festoso aggettivo io l'abbia messo al posto giusto.
Ha il merito, non tanto diffuso in giro, di occuparsi non solo di grandi
dibattiti e noti autori, ma anche d'incuriosirsi e investigare su temi
e nomi considerati dai media "laterali". Ma "laterali"
a che? Me lo dite per favore? Domanda che Gloria, evidentemente, s'è
posta, occupandosi di tali cose sulle pagine di grandi testate, laddove
cioè è più difficile fare passare notizie e ragionamenti
su persone e fatti che non siano noti suppergiù come Noè
o Maradona.
Donna di gusti raffinati (anche a tavola), ha capito che la letteratura
non abita soltanto nella via dei dorsi e nella piazza delle copertine,
ma anche in altri luoghi. Ne è prova un suo delicato ed appassionato
libro dedicato alle poesie e canzoni di Vinícius de Moraes; per
saperne di più: http://www.accu.mi.it
Tra i suoi impegni giornalistici più recenti: è stata
caposervizio delle pagine culturali di Liberal settimanale, ed ora che
la testata è bimestrale - si chiama FL - ne è caporedattore.
- Benvenuta a bordo, Gloria
- Ciao Armando. Carino qui. Cosa mi offri?
- Voglio farti assaggiare questo Dolcetto dei Seghesio
qua il
bicchiere
ecco fatto.
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne
la guida, a Roma direbbero "è un bel manico", però
noi nello spazio stiamo, schizziamo "a palla", la cosa che
sto per dirti io l'ho già fatta minuti fa, anche tu, in poche
battute, trasmetti sulla Terra il tuo ritratto
no, non fare quegli
scongiuri!
ci sto pur'io su 'sto tram
mica m'auguro che
- Che dire...ho iniziato nell'84 a lavorare nelle pagine culturali
di un quotidiano romano. Da allora, mi sono sempre occupata dello stesso
settore anche in altre testate. Ho avuto la fortuna, sin da ragazzina,
di conoscere e frequentare "amici di famiglia" che hanno fatto
la storia della cultura del Novecento italiano: Ungaretti, Carlo Bo,
Cesare Brandi, Goffredo Parise, Romano Bilenchi, Mario Luzi. Ovviamente
sono stati per me un punto di riferimento, non solo culturale. Così,
a poco più di vent'anni, quando ebbi il mio primo incarico come
autrice di una rubrica che si chiamava "Nostro Novecento",
superai gli imbarazzi e mi lanciai nel giornalismo intervistando alcuni
di quegli amici.
Ascolto musica, senza pregiudizi, dal rock al classico, attraverso jazz,
samba & bossa nova e altre escursioni etniche, tifo per la Juventus
(un mio amico laziale mi chiama "tapina bianco nera"), vado
al cinema, apprezzo l'arte, Vermeer e Burri tra i preferiti. Sono romantica
e conto sull'amicizia.
- Non è un mistero che l'informazione culturale sulla stampa
anglosassone, ma anche francese, sia più ricca e variegata della
nostra. Del resto, ci vuole poco. Eppure anche lì, specie negli
Stati Uniti, il peso del mercato si fa sentire. Perché non raggiungiamo
quella stessa vivacità, quella stessa completezza?
- L'analisi sarebbe lunga e complicata. Proprio di recente, abbiamo
organizzato alla Fondazione Liberal un incontro fra tre scrittori sull'editoria:
vi hanno partecipato Andrea Camilleri, Giuseppe Pontiggia e Lidia Ravera.
Sono venuti fuori molti spunti interessanti. Quello che è emerso
con maggior convinzione, è che l'editoria italiana è più
attenta alla politica economica che a quella culturale. Che considera
il mercato il sommo giudice di ogni iniziativa, senza tuttavia saperlo
realmente individuare, né tantomeno indirizzare. Salvo poi sorprendersi
quando il mercato stesso, in modo indipendente, decreta successi e insuccessi
(vedi il caso Camilleri) semplicemente esprimendo dei gusti, che guarda
caso hanno a che fare con la qualità molto più di quanto
l'editore non supponga. Secondo me ci vuole più coraggio, bisogna
rischiare di più, uscire dalle logiche dell'effimero tanto sostenute
da media e tv. In questo l'informazione culturale anglosassone può
essere davvero un esempio, anche soltanto da un punto di vista grafico:
basta guardare i loro giornali. Sono pieni di testo, titoli e poi testo
e ancora testo. Qualche piccola illustrazione, spesso d'autore, penso
al "New Yorker", per dirne una. Invece da noi c'è sempre
il bisogno di giustificarsi: un articolo non deve essere troppo lungo,
occorre spezzarlo con grandi immagini. Anche questa è mancanza
di coraggio.
- Sei abituata ad essere assediata da editori ed autori, per incontrarti
ne ho scavalcato i corpi accampati fuori della tua porta, ma ti difendi
valorosamente scegliendo di testa tua. Una confidenza: specie ad un
autore esordiente o poco noto, serve veramente una recensione? O non
si dovrebbe pensare a qualche altra forma di presentazione del suo lavoro?
Parlarne all'interno di ragionamenti complessivi
attraverso inchieste
altre
cose insomma...
- Se si vuole sapere qualcosa di un libro, specialmente se di qualità,
dove reperire notizie se non sui giornali? Via via, sempre di più
anche su Internet. Ma difficilmente in tv, dove ai libri sono dedicati
spazi risicatissimi o di vetrina, quando l'autore lo consente, vedi
"Maurizio Costanzo Show". Per non parlare poi delle presentazioni
dei libri stessi, che non si sa perché compiacciono l'autore,
costano all'editore, e servono all'avventore per mangiare qualche panino
se e dove viene offerto. Rendimento, credo (in termini di libri venduti),
scarsissimo. All'autore esordiente occorre soprattutto fortuna: la buona
sorte di incontrare un editore che creda in lui, che abbia voglia di
lanciarlo, ancora e soprattutto con l'aiuto della carta stampata. E
di qualche tv.
- Lo ammetto: sono indiscreto. Come interpreti la funzione della critica
letteraria oggi?
- Credo che anche i recensori e i critici, quanto a effimero, abbiano
le loro colpe. Somministrano giudizi in pillole, sbrigativi trafiletti
che poco hanno a che fare con la critica letteraria e molto con il consumo,
con la cultura dell' usa e getta. Nei giornali - io c'ero - a un certo
momento è invalsa la tendenza a diminuire gli spazi della cultura.
Per risparmiare, certo, ma anche per lo stesso arbitrario pregiudizio
che al fantomatico mercato non è la cultura che interessa. Lo
stesso atteggiamento che in certi anni si è avuto a proposito
dello "scrivere facile": se no il pubblico non capisce. "Esplicatio
pro cretino", insomma. Non solo erano già spariti quei critici
che avevano ancora voglia di farsi ammazzare per "un punto e virgola"
(era il caso di Giuseppe De Robertis), ma via via sono scomparsi dai
giornali gli inserti culturali. Il risultato è che la funzione
della critica letteraria oggi è nulla. Fatta eccezione per qualche
firma che sempre volentieri si rincorre, spinti dall'ammirazione per
quell'autore.
- Ritieni che sia possibile, oppure no, un'affermazione in tempi brevi
dell'e-book?
- Devo confessare che la mia frequentazione dello web è molto
recente. Quindi, a giudicare da me, che tuttavia non sono del tutto
estranea al mondo delle tecnologie, non credo che i tempi dell'affermazione
siano proprio brevissimi. Caso personale a parte, credo che l'amore
per l'oggetto libro sia inestinguibile. Almeno per chi è posseduto
da questo sentimento. Forse per i giovanissimi, per quelli che hanno
con la lettura un rapporto difficile, l'e-book potrebbe essere una strada
alternativa di incontro culturale. In questo senso è sperabile
che si affermi in tempi brevissimi, provando magari a rendersi più
invogliante di una play-station. Ma francamente ne dubito.
- So che agli editori italiani riservi vari rimproveri, non ti chiedo
di elencarli qui tutti sennò facciamo notte, dinne uno solo,
quello che ritieni il più grave
- Non osano abbastanza. O, almeno, sono pochi quelli che ci provano.
Dovrebbero lanciare delle sfide culturali. Come fece Adelphi, che pubblicò
autori trascurati, se non addirittura condannati, dalla cosiddetta "intellighenzia"
del tempo. E risultati ci sono stati, eccome. Oggi i libri Adelphi compaiono,
come per caso, persino negli spot pubblicitari in tv . Poi dovrebbero
pubblicare meno libri, essere più selettivi in nome della qualità.
- E dopo gli editori, passiamo agli autori. Mica sono innocenti. Ma
anche se lo fossero, parecchi di loro meriterebbero Erode. Ti chiedo
quindi: qual è la cosa che ti fa venire la scarlattina quando
la trovi in un romanzo?
- La forzatura. La mancanza di naturalezza. Il voler costruire una
scrittura magari complessa che si inerpica su trame inesistenti, a volte
tragicamente negative, volutamente "trash". Solo qualche grande
è riuscito a farlo bene. Mi irrita che la prosa, la narrazione
non mi trasporti, non mi intrattenga, non mi meravigli.
- E' in letteratura o in altre aree espressive (arti visive, cinema,
teatro, musica, etc.) che ritieni ci siano oggi i lavori più
interessanti nella ricerca di un nuovo linguaggio?
- Credo che negli ultimi anni, l'unico, vero nuovo linguaggio sia quello
della Rete. Internet, le sue possibilità, le fascinazioni del
mondo virtuale. Per il resto, il panorama è abbastanza desolante,
con le sole eccezioni del cinema e della musica. Ma sono eccezioni,
appunto, che confermano quella che io credo sia una regola. Che la novità
di un linguaggio, cioè, sia affidata alla cifra, personalissima,
di un singolo autore. Quella cifra, quel talento, sarà in grado
di resistere nel tempo, affermandosi sempre come nuovo. Niente a che
fare con la moda, la tendenza, lo spirito del tempo. In momenti di maggior
vitalità, si incontrano più autori in grado di esprimere
una loro cifra. E la prima parte del Novecento, sia in arte che in letteratura,
ma anche nella musica e nel cinema è stata davvero prodiga.
- A tutti gli ospiti di questa taverna spaziale, prima di lasciarci,
chiedo una riflessione sul mito di Star Trek
che cosa rappresenta
secondo te
- Il mio primo incontro con "Star Trek" è stato...
come posso dire... "mediato". A quei tempi non ero minimamente
attratta dalla fantascienza, dall'"alien" che è in
noi. Ma imparai ad apprezzare "Star Trek" dopo aver visto
uno spezzone del "Saturday night live" in cui John Belushi,
Dan Aykroyd e Chevy Chase ne facevano la parodia. Un divertimento indimenticabile.
Da allora il Dottor Spock, quelle orecchie appuntite, quel rassicurante,
incrollabile spirito di ricerca avventuroso e flemmatico mi hanno per
sempre conquistata.
- Siamo quasi arrivati a Pyccjònya, pianeta liberal abitato
da alieni gloriosi il cui diletto è mettere ai torchi libri e
autori
se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo
qui l'intervista, perché è finita la bottiglia di Dolcetto
dei Seghesio. Però torna a trovarmi, io qua sto
intesi eh?
- Grazie Armando, questo nettare era davvero divino. Tornerò
perché sull'Enterprise il virtuale non è un'illusione,
tutto è reale, come questo gustosissimo vino. Mica come in "Matrix",
dove il cattivo mangiava un filetto con gran gusto, pur sapendo che
quel piacere era falso, mentre le forze di liberazione, appunto in nome
della libertà, professavano una vita insapore, con cibi che non
si potevano neanche guardare, pappe disgustose... Qui il virtuale è
reale. Ed è buonissimo. Tornerò.
- Ti ringrazio, e ti saluto com'è d'obbligo sull'Enterprise:
lunga vita e prosperità!
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