L'ospite accanto a me è Gabriele Frasca.
Narratore e poeta, conta anche una massiccia produzione saggistica.
E' docente di Letteratura Italiana all'Università degli Studi
di Napoli "Federico II".
Per conoscere la sua bibliografia, cliccate su: www.filmod.unina.it;
un suo video lo rintracciate in www.raisatzoom.com,
mentre se visitate http://www.fucine.com,
è proprio il caso di dire che gusterete un assaggio dei suoi
versi, andateci e capirete il perché di questa mia, speciosa,
presentazione conviviale.
Gabriele, secondo me, ma non sono il solo a pensarlo, è una figura
importante nello scenario letterario italiano sia per rilievo nella
produzione estetica, sia per intelligenza critica.
Le sue prime pubblicazioni - Rame (versi) del 1984, Il fermo
volere (narrativa) del 1987, entrambi pubblicati da Corpo 10 - subito
m'interessarono moltissimo e le ho care sui miei scaffali.
Le sue più recenti prove: una raccolta di poesie intitolata Rive,
per Einaudi, e Santa Mira, romanzo stampato da Cronopio, entrambi
usciti nel 2001.
SANTA MIRA è ambientato in una piccola città sul mare
dalle cui basi militari partono aerei Nato per bombardare Belgrado e
accade che
no eh? Mica vi racconto tutto, i librai stanno lì
apposta. Noto solo che possibili anagrammi di quel titolo sono MAR STANAI
e MIRA SATAN . Il resto, trovatelo voi.
Proprio in questo romanzo appena citato, vi ho riletto, impreziosita
da maturità, quella singolare cifra stilistica che, pure radicata
sulla pagina, viaggia verso l'oralità; l'opera di Gabriele la
si legge con le scansioni dei fiati d'un racconto che ti viene fatto
in un bar, in treno, in un angolo di metropoli. "
è
per questo che a volte / c'è lo sbronzo notturno che attacca
discorsi / e racconta i progetti di tutta una vita
", scriveva
Pavese. Con questo non voglio insinuare che Gabriele scriva da 'mbriaco,
è solo vanità d'una citazione che mi pare acconcia
potevo
evitarmela dite?
sì, ma non ho resistito. Perfino tecnicamente
questo suo andare per voce appare dal modo in cui, per esempio, scrive
le battute di dialogo, mai ha usato le virgolette, ma ora rinuncia anche
a quel trattino che indica l'inizio d'una battuta, presente nella sua
prima opera narrativa "Il fermo volere".
Lo stile è potenza, si legge sul Corriere dello Sport, espressione
che mi pare da usare anche in letteratura. Potrei aggiungere che dietro
i versi e le prose di Gabriele ci sono sfondi di dolenzìa esistenziale,
impegno civile, ma questo m'interessa meno o forse per niente, in nessuna
pagina di nessun autore. Lo stile è potenza. E' per questo che
amo la sua scrittura.
- Benvenuto a bordo, Gabriele
- Ciao Armando, lunga vita e prosperità, a te, all'equipaggio
e a tutte le forme di vita cosciente nelle quali c'imbatteremo.
- Voglio farti assaggiare questo Barolo "Castiglione" '87
di Vietti
qua il bicchiere
ecco fatto.
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne
la guida, a Roma direbbero "è un bel manico", però
noi nello spazio stiamo, schizziamo "a manetta", prudenza
vuole che tu trasmetta sulla Terra il tuo ritratto
- Alto, rossiccio, quarantaquattrenne.
- Bene. Metterò questa polaroid all'esterno dell'Enterprise
per spaventare alieni malintenzionati.
E comincio col chiederti: nel tuo lavoro letterario, nello scrivere
in versi o scrivere in prosa, cambiano solo le tecniche, oppure, con
esse, o prima di esse, anche le finalità della scrittura?
- Magari cambia solo la scena, intorno, ovvero i particolari della stessa,
identica scena. Ho due postazioni diverse, diciamo pure due consolle,
ma le uso indifferentemente. Lo scrittoio ideale per me, se mai ne esiste
uno, è in fin dei conti lo stesso, con il computer e la solita
ingovernabile pila di libri, nel caso stia lavorando a un saggio, e
nient'altro che il posacenere, con un bicchiere o una tazzina, se sto
invece scrivendo altro. Ma, in fin dei conti, libri bicchieri o posacenere,
ne sono consapevole, si tratta pur sempre di sostanze additive, così
che finisco con lo scrivere sempre altro, e le finalità
del mio lavoro restano comunque le stesse. Mi piacerebbe che l'opera
alla quale mi sono dedicato venisse intesa come un unico reticolo. Poi,
forse, è anche una questione di ore, e di tonalità di
luce, anche se questo non è sempre vero: in genere dall'alba
al tramonto mi risulta più facile la prosa, narrativa o saggistica,
con una certa propensione per le ore antelucane. Teatro e poesia, da
sempre, tendono invece a essere un'attività della sera, una stella
della sera, anche se talvolta mi càpita di dettarmi versi mentre
cammino, quale che sia l'ora del giorno. C'è sempre un ritmo
deambulante nella poesia, e sono innumerevoli, per tutti, i versi "scritti"
con i piedi. La notte, fortunatamente, dormo.
- Ha scritto Roman Jakobson in "Poetica e Poesia": "Il
confine che divide l'opera poetica da ciò che non è tale,
risulta più labile di quello dei territori amministrativi cinesi".
Sei d'accordo con quella enunciazione? O ritieni che il confine sia
riconoscibile?
- Vi sono solo regole diverse per procedere all'innesto, ma nessun confine.
In opera c'è sempre un "narrare", vale a dire un transito
"programmato" di informazione non genetica, che è giusto
quel necessario "informarsi" dell'individuo (riorganizzare
in modo "degenerato", nell'accezione immunologica del termine,
il propagarsi funzionale delle "forme" sinaptiche) con cui,
in quanto specie, sopravviviamo. Se c'è qualcosa che distingue
la poesia dalla prosa (narrativa o "scientifica" poco importa)
sta solo nell'origine "sociale", vale a dire nei materiali
utilizzati per "informare", più o meno permanentemente;
si tratta in verità di una differenza di supporto, di medium
(ecco perché la poesia e la prosa possono tradursi l'una nell'altra).
La macchina metrica che sostanzia la poesia è un ordigno memoriale,
che consente all'informazione non genetica di sopravvivere e propagarsi
(di parassitare, oserei dire) in epoche di cultura orale. La prosa,
invece, può emergere solo con il diffondersi di culture chirografiche
che utilizzino supporti opportunamente agili e leggeri (papiro, carta
e via discorrendo). Ma il principio resta lo stesso: narrare e innestare.
L'informazione non genetica, contrariamente a quella genetica tout
court, non si diffonde con la generazione, ma secondo le modalità
proprie di un contagio.
- Che cos'è secondo te che dovrebbe distinguere il traguardo
espressivo della letteratura dalle altre forme di comunicazione artistica,
oggi?
- Le forme di comunicazione dell'informazione non genetica sortite dalla
diffusione dei media elettrici, poi elettronici, utilizzano supporti
capaci di una presa ancora più agile e leggera. Se già
il libro tipografico è una cascata d'informazione, e prevede
pertanto qualcosa come un interruttore con cui procedere a un innesto
lieve, individuale (non vi è più bisogno della memoria
collettiva da inglobare, anzi la memoria è già divenuta
"esterna", irrigidita, consultabile), nel caso della radio
e della televisione, così come della stessa rete, l'informazione
può fluire virtualmente attraverso ogni individuo senza essere
mai nemmeno contenuta. Gl'interruttori, poi, sono saltati del tutto.
Si tratta di una specie di paradossale "non informazione non genetica",
in quanto può addirittura fare a meno di "informare";
è insomma come se l'informazione ci scorresse a lato, in parallelo,
in una versione decisamente "disneyland" del dualismo cartesiano.
Il fare poetico (preferisco questa tautologia all'espressione "letteratura",
che mi sembra troppo connotata dalla cultura tipografica, e pertanto
attualmente inservibile) può svolgere in questo flusso ancora
tutta la sua funzione: perché opera tagli, squarci, lacerazioni,
e così facendo va dritto alla memoria del singolo. Si tratta
di un'operazione sulla carne, vivificante come la presa di un respiro:
il fare poetico, in quanto pratica che prevede quanto meno una coppia,
è l'arte di dire quanto s'avrà da ridire (ed è
un bacio con la lingua), e dunque incide lì dove tutto il resto
al più accarezza.
- E' nella letteratura oppure in altre aree che credi ci siano ai nostri
giorni i lavori più interessanti nella ricerca di nuove modalità
espressive?
- Dovunque, credo, dopo gli opportuni tagli, si rimettano ad agitare
forme. Con la macchina del fare poetico, una volta per davvero incorporata,
si può procedere in ogni direzione: cinema, fumetto, musica...Ad
esempio, si potrebbero fare, se ve ne fosse volontà sociale,
delle cose veramente taglienti con il vecchio tubo catodico, fino a
fare fibrillare lo schermo di una sua massa viva. Probabilmente, al
momento, però è l'accoppiata fare poetico + supporto digitale
(mi sto riferendo alla musica delle macchine, o alle macchine musicali)
il luogo più vivo della ricerca.
- Dopo vent'anni di lavoro, Hans Magnus Enzensberger ha presentato "Poesie-Automat",
un computer programmato per scrivere versi. Come giudichi quell'esperienza?
- Non saprei, non conosco la macchina in questione. Forse, così,
a naso, mi sembrerebbe automatica ma muta. È solo il solito modo
per fare la cosa vecchia con un mezzo nuovo.
- L'arte elettronica, la vedi come una smaterializzazione del corpo
fisico delle arti così come le conoscevamo? Oppure una mutazione
genetica?
- Il problema non è smaterializzare il supporto, renderlo leggero,
consultabile, da passeggio (un bel microchip nel cranio con l'Enciclopedia
Britannica, il catalogo del Louvre, l'intera letteratura italiana, e
tutte le forme possibili che può assumere un corpo nello spazio?).
Il nostro cervello, come macchina sinaptica, funziona solo, dicevo,
per quanto "degenera", vale a dire per quanto utilizza per
gli stessi scopi neuroni che di loro nascerebbero per tutt'altra funzione.
Ecco: se io e te mandassimo a memoria, che so, il trentatreeismo canto
dell'Inferno, e poi fossimo in grado di scoperchiarci vicendevolmente
il cranio (magari ispirati dal canto) per dare un'occhiatina, sebbene
la porzione di informazione immessa sia stata addirittura identica,
scopriremmo che non solo non abbiamo utilizzato gli stessi neuroni ma
non abbiamo nemmeno attivato le stesse sinapsi. Il contagio non procede
mai allo stesso modo; c'è sempre, nel transito dell'informazione,
un matrimonio (come avrebbe detto il giornalista-poeta americano Don
Marquis) fra una "pietanza appetitosa" e un'"appassionata
digestione". Insomma, quello che importa non è quanto muti
o si smaterializzi il supporto, ma in che misura e come si rimaterializza
in chi lo riceve. Da questo punto di vista una filastrocca vale un ipertesto;
in gioco vi è lo stesso tasso di fare poetico, e come sia stato
congegnato per innestarsi.
- In un'intervista rilasciata alla Rai, http://www.mediamente.rai.it,
riflettendo sulla figura di Pynchon, dici che in un futuro, con le nuove
tecnologie, si ritornerà, ad una percezione di tipo orale. Se
non ho capito male, cosa questa che è la mia specialità,
la fonosfera sopravanzerà l'iconosfera? Come sei arrivato a formulare
questa profezia?
- Esiste solo la fonosfera, fortunatamente. Anche le immagini, se vogliono
"informare", devono risciogliersi in suoni, così come
la televisione, ripeteva solitamente Marshall McLuhan, la si finisce
col guardare con le orecchie (figurati la rete...). Il privilegio ottico,
rispetto al sensorio umano così decisamente audiotattile (come
quello di tutti i mammiferi), è solo l'effetto più, alla
lettera, "vistoso" della cultura tipografica; ma, per quanto
ci sia ancora tanta resistenza, e la voglia magari di tenersi a galla
(a farfalla? a stile libero? facendo il morto?) da parte di figure elitarie
e un po' obsolete di "lavoranti" delle tipografie, siamo oramai
lontani da quella tipologia della cultura. Possiamo ammetterlo o meno
(che differenza fa?) ma siamo interamente immersi nell'informazione,
che ci attraversa come un flusso di percezioni, come da sempre hanno
fatto suoni e ritornelli. Noi non scivoliamo sul mondo come un sistema
di puntamento sullo schermo di un videogame; il mondo, il percepibile
(e la macchinazione sociale di quest'ultimo, che è l'informazione),
in realtà ci viene addosso, ed è tutto, se vogliamo sopravvivere,
da "sentire" ("niente tace", o meglio ancora "non
v'è cosa che non abbia voce", avrebbe detto, assordato dalle
"autostrade informatiche" imperiali, un guastatore mediale
del calibro di Paolo di Tarso). Per questo credo che ci sia ancora la
necessità del taglio del fare poetico: porre pause, mettere in
forma, trattenere. Questo flusso, se ti attraversa e basta, ti fa una
cosa morta, come può essere morto un ripetitore. Se impari a
tagliarlo e a lavorarlo, se lo pieghi alla tua necessità di prendere
fiato (se insomma te lo sai tenere dentro e ricacciare poi), allora
vuol dire che stai vivendo. Questo metodo di sopravvivenza lo chiamo
da tempo il "dolce stilo".
- Ricordo un tuo verso di anni fa: e gli echi della radio in nessun
posto. Potrebbe essere applicato anche a RadioRai che, nel complesso
delle sue reti, è in crisi d'ascolto rispetto alle private.
Tu hai prodotto molto per l'emittente pubblica, specie nella nuova drammaturgia
sonora, insomma te ne intendi di quel mezzo, come spieghi quella crisi?
- Il fare poetico (ma si potrebbe altrettanto bene definire "fare
narrativo") è radiofonia "pura", da cui, all'apparenza,
le incredibili potenzialità della radio. Ma la radiofonia, così
come al momento può essere intesa, per darsi deve essere "applicata",
avere cioè il supporto tecnico che la spinga ben al di là
della portata di una voce. La nostra (per quanti ulteriori nuovi media
di massa si siano avvicendati nel corso degli anni) è ancora
tutta per intero una cultura elettrica e radiofonica, è per questo
che in essa trova tanto spazio l'ossessione per la "sintonia"
(dalle parole d'ordine dei totalitarismi all'ordine delle parole della
globalizzazione, senza trascurare le intolleranze per tutto ciò
che risulta balbuziente e distonico). Non credo insomma possa esistere
più una comunità che non sia innanzitutto una "comunità
d'ascolto in tempo reale"; il problema, allora, è che le
emittenti radiofoniche (televisive e quant'altro), proprio perché
abbisognano di strutture tecniche e dunque capitali, tentano sempre
di "presentire" i propri ascoltatori così come fortemente
sentono la "committenza" (o il mandante, insomma quello che
mette i soldi). La radio pubblica locale, attualmente, offre un intero
spaccato delle varie colate laviche di potere che si sono susseguite
nel nostro disgraziato paese. Come se non bastasse, se ne attende una
nuova (più arrogante e mediocre della precedente). Non vedo proprio
come potrebbe mai essere diversa da quella che è. La "mediocrazia",
malattia genetica di ogni medium, è del resto una tirannide a
scartamento ridotto.
- La proprietà intellettuale al tempo di Internet ha posto nuovi
problemi. Non mi riferisco a plagi o cose simili, ma a fenomeni che
teorizzano la fine del diritto d'autore, suggerendone anche il sabotaggio.
Tu che ne pensi dei vari Luther Blisset, Linux, Wu-Ming, eccetera? Io
campo pure di SIAE e la benedico, dottore la prego
voglio la verità!
Qualunque essa sia, sono preparato a tutto!
- Sì, il diritto d'autore è agli sgoccioli. Quello di
edizione, invece, Luther Blisset o Wu Ming 2, 3, 4 o 5, è in
inarrestabile espansione. I supporti si pagano sempre, e li pagheremo
sempre di più a caro prezzo.
- Hai tradotto "Un oscuro scrutare" di Philip. K. Dick. Puoi
rispondere con competenza a quanto sto per chiederti. Perché
da noi non c'è una letteratura di fantascienza? Il mercato editoriale
del settore, infatti, è florido, ma è costretto a usare
traduzioni per mancanza di testi italiani decenti.
Ti prego, non darmi risposte patriottiche!
- Perché una nazione produca della fantascienza, per così
dire, hi tech (quella dei voli spaziali, delle macchine parlanti e degli
alieni), c'è bisogno che vi sia una produzione tecnologica adeguata,
e le inevitabili derive millenaristiche, ossessive e imperiali, legate
alla sperimentazione scientifica e alle liturgie dei suoi capitali.
Solo gli USA e la vecchia Unione Sovietica (sia pure in modo più
farraginoso; pensa a quanta ruggine rodeva i metalli delle storie spaziali
di Lem) potevano permettersi un tale immaginario, e solo l'Occidente
tecnologico, adesso, può addirittura farcelo diventare reale
e cruento. A che cosa mai stiamo assistendo, in questi giorni, se non
a uno scontro fra due millenarismi, quello religioso, che conosciamo
fin troppo bene (è tanta parte della nostra storia, del resto),
e quello scientifico-tecnologico (a sua volta di derivazione religiosa),
la cui spietata visione del mondo, o dell'oltremondo, cominciamo magari
a scoprire solo ora? Due pensieri imperiali collidono, due grandi macchine
dispotiche che cercano d'imporre la loro "sintonia". Chi ha
frequentato la fantascienza più distopica, quella alla Dick per
intenderci, magari ora si sente a "casa". Per quanto riguarda
l'Italia, credo sia troppo impegnata a realizzare farse (pensa all'ultimo
governo), per poterne immaginare di peggiori.
- A tutti gli ospiti di questa taverna spaziale, prima di lasciarci,
chiedo una riflessione su Star Trek
che cosa rappresenta quel
videomito nel nostro immaginario?
- Star Trek era un sogno di convivenza, la pulita, soleggiata, attrezzatissima
cucina di una felice famigliola occidentale lanciata negli spazi siderali;
il frutto insomma di generazioni di sognatori, da quelli che hanno creduto
nell'"american way of life" a quelli che hanno salmodiato
"peace & love, brother", da quelli insomma che espandevano
nelle galassie la fiducia nel progresso, per un meraviglioso universo
di personcine perbene, a quelli che attendevano un po' di giustizia
almeno dagli alieni, o quanto meno dai freak con le loro odorosissime
canne fumanti. Ed era anche il sogno dell'asilo globale dove ogni giorno
sorride una nuova sorpresa, ed è, malgrado piccoli incidenti
e inevitabili apprensioni, sempre festa. Sempre. È impossibile
rivederne un solo episodio, in specie quelli della prima serie, senza
provare una profonda nostalgia. Ma è solo la nostalgia di quanto
fossimo ancora in grado di sognare.
- Siamo quasi arrivati a Fraska-G, pianeta di cellulosa abitato da alieni
che incidono versi su rame e poi li cancellano con apposite lime durante
feste di pagina su immaginarie rive
se devi scendere, ti conviene
prenotare la fermata. Stoppiamo qui l'intervista, anche perché
è finita la bottiglia di Barolo "Castiglione" '87 di
Vietti
Però torna a trovarmi, io qua sto
intesi eh?
- Lunga vita e prosperità, a tutti. Ne abbiamo per davvero bisogno.
È possibile l'utilizzazione
di queste conversazioni citando
il sito dal quale sono tratte e menzionando il nome dell'intervenuto.
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