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Segnalato su Webtrekitalia - Portale di cultura Trek

L’ospite accanto a me è Antonio Caronia. Insegna Sociologia dei processi culturali e Comunicazione multimediale all’Accademia di Belle Arti di Brera, Estetica dei nuovi media alla NABA (Nuova Accademia di Belle Arti), è inoltre Director of Studies del M-Node del Planetary Collegium di Plymouth.
Lo stimo – e sono solo uno dei molti – un protagonista degli studi sull’influsso e gli effetti delle nuove tecnologie sulla dimensione umana nell’epoca delle reti, sulla proiezione futura dell’interazione fra sistema dei media e sistema nervoso centrale; non a caso traduttore di Ballard, Burroughs, Gibson, è uno dei più acuti studiosi del cyberpunk. La complessità del suo pensiero è data dal metodo d’indagine interdisciplinare che usa fondendo filosofia e scienza, antropologia e sociologia, arte e comunicazione. Il risultato è un’originale veicolazione culturale intercodice che ha tra i suoi obiettivi l’analisi di come e perché “il nuovo corpo artificiale e disseminato funzioni come strumento di contatto e di inserimento nel nuovo paesaggio tecnologico, nella nuova dimensione del mondo, in cui naturale e artificiale si confondono […] in un nuovo general intellect, una mente davvero collettiva, che non prescinda dal corpo, perché il nostro corpo digitale è ormai ovunque.“
Oltre a un notevole volume di articoli, ha scritto: Il cyborg: saggio sull'uomo artificiale (1985) ampliato e ristampato da Shake nel 2008; Il corpo virtuale (1996); Houdini e Faust. Breve storia del cypberpunk (1997), Philip K. Dick. La macchina della paranoia (2006), entrambi con Domenico Gallo; Universi quasi paralleli (2009); Un'ambigua utopia (con Giuliano Spagnul, 2009) e Filosofie di Avatar, (curatore con Antonio Tursi, 2010), titoli questi per l’Editrice Mimesis della quale Caronia dirige la collana Postumani.

Per una sua più completa biografia: QUI.

  

Benvenuto a bordo, Antonio…
Grazie. Non ero mai stato sull’Enterprise, solo sulla Kobayashi Maru. È emozionante...
In questa taverna spaziale è giusto stappare una bottiglia stellare, ho chiesto consiglio al giovane ma già affermato chef Gabriele Muro del ristorante Giuliana 59. Mi ha proposto d’assaggiare durante la nostra conversazione nello Spazio questo Amarone della Valpolicella prodotto da Lorenzo Begali… cin cin!
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore…insomma, chi è Antonio… secondo Antonio…
Che imbarazzo... Non credo di potermela cavare ricorrendo all’autorità di Rimbaud... je est un autre... No, vero? È che ho scarsissimi rapporti con la mia interiorità, e quei pochi che ho sono rovinosi. Ci provo. Forse non sono proprio così, ma è così che vorrei essere: io mi vedo come un ribelle. Ribelle alla società, ovvio, ma forse più ancora ribelle a me stesso. Ribelle a quello che sono stato. A quello che sono e che è sempre così maledettamente inadeguato. A quello che vorrei essere e che so già, se lo diventassi, non mi piacerebbe per niente.
Nel chiudere la scheda introduttiva, segnalavo la collana “Postumani” di Mimesis da te diretta.
Qual è la sua finalità di comunicazione?
Fornire al pubblico (a quelli che sono interessati) degli strumenti di riflessione (cioè dei libri) adeguati sul tema del postumano. Che spieghino che l’ “uomo” (l’uomo della modernità, non la specie biologica Homo sapiens) è un concetto recente – non lo dico io, l’ha scritto Foucault – e che come è nato nel XVII secolo, così sta finendo adesso, per una serie di motivi che dovrebbero essere evidenti a chi sia capace di vivere la contemporaneità guardando l’orizzonte, e non la punta delle sue scarpe. In un dibattito che ebbi una ventina d’anni fa con Vittorio Sgarbi quest’ultimo sbeffeggiò il termine (ma non il concetto, compito superiore alle sue forze). Non sono interessato a convincere lui, perché so che è impossibile, ma qualcuno (anche uno solo) di quelli che stavano tra il pubblico quella sera e che gli davano ragione. Per mancanza di informazione, non perché erano stupidi.
Lasciamo Sgarbi al suo mesto destino… Nel parlare di postumanesimo è d’obbligo – oltre a tanti scrittori e filosofi: da Ballard a Max More – pensare anche a Ray Kurzweil e alla sua Teoria della Singolarità, specie ora che dirige da circa un anno la Singularity University.
Quale importanza dai alle idee di quel futurologo e inventore?
Purtroppo, gli do tanta importanza da aver polemizzato con lui più di una volta. Penso che il movimento transumanista nelle sue diverse componenti (quindi Max More e sua moglie Natasha, Extropy e naturalmente anche Kurzweil, e i loro ispiratori, come Eric Drexler e Hans Moravec) sia portatore di una visione del postumano caricaturale e meccanicistica, e quindi pericolosa, perché scredita il concetto agli occhi di chi ha un minimo di buon senso. Come tutti i transumanisti, Kurzweil è convinto che si possa superare il limite biologico della nostra specie tramite la tecnologia (e già questo è indice di una visione distorta tanto della tecnologia quanto della biologia), ma pensa addirittura che si possa prevedere il momento in cui ciò accadrà - dice nel 2050. Mi pare una cosa ridicola: una versione neanche tanto sofisticata del peggior positivismo. Il postumano come superamento del concetto moderno di uomo non ha nulla a che vedere con una pretesa fuoruscita dalla specie Homo sapiens: se quest’ultima cosa accadrà (e nessuno di noi può neanche lontanamente prevederlo), sarà – come per ogni altra estinzione di specie – l’effetto dei processi di selezione naturale, non certo delle supertecnologie di Moravec e Kurzweil.
Molti studiosi sono divisi nel giudicare le prospettive del futuro di noi umani.
Al pessimismo, ad esempio, di Katherine Hayles (“Come siamo diventati post-umani”), o di Bill Joy, scienziato della Sun Microsystems, il quale sostiene che “il futuro non ha bisogno di noi uomini”, s’oppongono, per citarne alcuni, Chris Meyer e Stan Davis i quali nel libro “Bioeconomia” sostengono che la futura complessità non sarà incomprensibile e offrirà molti vantaggi; oppure Andy Clark, docente di scienze cognitive all’Università dell’Indiana, autore di “Natural-Born Cyborgs”: ‘… nel futuro continueremo a innamorarci, a desiderare di correre più veloci, di pensare più efficacemente, crescerà però l’abilità di creare strumenti che espandono la mente”.
Il tuo pensiero?
Mi vuoi rendere la vita difficile... Una studiosa femminista di letteratura, un informatico, due economisti, un cognitivista... Come posso confrontare pensieri così disparati senza dire banalità? E poi, al secondo bicchiere di Amarone... Intanto, se me lo consenti, devo dichiarare il mio disaccordo sul fatto che la Hayles sia pessimista: è solo femminista, e trovo magistrale la sua ricostruzione della genesi del postumano a partire dal collegamento tra Wiener e il liberalismo... Bill Joy è una simpatica persona, ma non è un pensatore. E infatti ha scritto una corbelleria. Il futuro avrebbe bisogno eccome di noi umani (o postumani), visto che siamo noi che l’abbiamo creato. Disgraziatamente, siamo anche noi che l’abbiamo abolito (spero temporaneamente), come hanno gridato in faccia al mondo, con una certa efficacia, i punk londinesi già nel 1976: “No future!”. Il mio pensiero? Non essendo hegeliano (e quindi, temo, neppure più marxiano - e non essendo mai stato platonico), io penso che sia impossibile fare previsioni. Le previsioni possono farle coloro che credono nell’esistenza di una “natura umana” passibile di descrizione. Ma io credo che Homo sapiens sia la specie meno descrivibile e inquadrabile di tutte, visto che è l’animale del possibile, che non ha alcuna “essenza” precisa se non la cinica e versatile adattabilità a ogni insieme di condizioni ambientali possibili. Non lo dico io, l’ha detto Nietzsche. Ma certo che continueremo a innamorarci, a desiderare, a pensare, che vuoi che facciamo se non questo? Solo che, nel XXII secolo, lo faremo in modi inconcepibili, respingenti e forse anche ributtanti per gli umani del XX secolo (sul XXI non so dire, ci passerò troppo poco tempo...)
Kevin Warwick studia l'integrazione Uomo-Macchina innestando chips nel proprio corpo e pensa a nuove tappe del Cyborg Project dall'Università di Reading; secondo molti scienziati in un tempo meno lontano di quanto s'immagini impareremo codici capaci di svelare nuovi segreti della natura, passeremo la barriera dell'infinitamente piccolo, si dilaterà la concezione di Spazio, saremo capaci di percepire nuovi stati e livelli di esistenza, la nostra coscienza-mente-identità sarà più vasta e ne saremo consapevoli… quale uomo immagini uscirà da queste acquisizioni, quale sarà l'atteggiamento esistenziale che più lo differenzierà da noi?
Non posso che risponderti come ti ho risposto prima. Non lo so. Non lo può sapere nessuno. Era già difficile, se non impossibile, prevedere l’evoluzione culturale nei millenni e nei secoli passati, quando i tempi del cambiamento culturale erano lenti, in certi casi tanto lenti da far pensare che le culture fossero eterne. Ma oggi è ancora peggio, da quando c’è una società che ha nell’innovazione continua e accelerata la sua condizione fondamentale di esistenza, che vive nel rivoluzionamento continuo di processi produttivi e di mentalità. Il capitalismo è nato ieri in Europa, ma è nato con dei ritmi di cambiamento talmente rapidi e forsennati da espandersi in poco tempo su tutto il pianeta, da creare in poco più di tre secoli mutamenti epocali nella psicologia individuale e sociale degli individui. Bene, possiamo dire che questa è una tendenza destinata a durare? Non possiamo dire neanche questo. È vero, Marx ha clamorosamente sbagliato quando ha profetizzato il crollo del capitalismo sotto il peso delle sue contraddizioni: il capitalismo gli ha fatto marameo ed è brillantemente sopravvissuto alle lotte del proletariato nel XIX e nel XX secolo (è il proletariato classico, semmai, che non è sopravvissuto). Ma questo è un sistema economico-sociale che è comunque sempre sull’orlo dell’estinzione anche per altri motivi, ecologici o di altro tipo. Ed è un sistema, però, che prevede al suo interno una pluralità di modelli di comportamento e di azione mai vista in passato. Impossibile, quindi, secondo me, dire quali saranno le conseguenze in termini di mentalità dell’impatto dell’integrazione fisio-psicologica dei corpi con le tecnologie.
Il filosofo tedesco Marc Jongen afferma: “L’uomo è il suo proprio esperimento”.
Insomma, dobbiamo smetterla di considerare l’uomo come soggetto personale che ci portiamo dietro da duemila anni?
Non conosco il filosofo che tu citi, ma mi pare di ricordare che nello Zarathustra a un certo punto Nietzsche dica “L’uomo è stato un esperimento”, o qualcosa del genere. Ma forse il senso dell’asserzione di  Nietzsche è diverso da quello di questo Jongen, non saprei dire. Quanto al soggetto, sì, se vogliamo seguire il metodo di Foucault dobbiamo liberarci della nozione di “soggetto” in senso cartesiano, il “cogito” insomma, dobbiamo smettere di pensare che il “soggetto” sia una sostanza, una formula stabile e rassicurante. Dobbiamo piuttosto parlare di un continuo “processo di soggettivazione”, e quindi, in qualche modo, di un esperimento che facciamo su noi stessi. Non credo che smetteremo mai di farlo. Il postumano è anche questo.
E’ corretto affermare che il transumanesimo si pone in quella corrente di pensiero che partendo da Spinoza e, a grandi tappe, passando per Nietzsche arriva fino a Deleuze e Foucault?
Se sì, oppure se no, perché?
Be’ no, penso proprio di no. Forse Spinoza c’entra, ma letto in modo dogmatico e ultra-sostanzialista, quindi (dal mio punto di vista) sbagliato e inutile. Ma Nietzsche, Deleuze e Foucault mi pare siano proprio l’opposto dei transumanisti. Hai citato tre filosofi che hanno fatto di tutto per criticare e demolire il concetto di “natura umana”, mentre i transumanisti, proprio per la loro visione rigida e meccanica del “superamento dell’uomo”, sono attaccatissimi a una visione dogmatica e fissa dell’uomo stesso.
Il postumanesimo, talvolta, ha permesso rivendicazioni del termine anche in ambienti neonazisti (sia pur occultati dietro l’ambigua dizione di “Sovraumanesimo”). Da qui plurali sospetti – in buona e in malafede - sui teorici del postumano.
Perché è stato possibile quest’equivoco?
E, inoltre, qual è, nella tua interpretazione del postumanesimo, la linea demarcatrice (o l’abisso) che separa postumanesimo e nazismo…
Penso che l’equivoco derivi proprio dalla lettura di Nietzsche come precursore del nazifascismo – una lettura, come sai, totalmente infondata e dovuta alla disgraziata pubblicazione postuma di uno pseudo-libro di Nietzsche (“La volontà di potenza”) a opera della sorella. Ma l’Uebermesch di Nietzsche non ha niente a che fare col livido e razzista “superuomo” dei fascisti e dei nazisti.
Il confine che mi chiedi, per me, passa semplicemente tra chi concepisce il postumano come un processo (un “divenire”, per dirla con Deleuze) e chi lo concepisce come un traguardo, un obiettivo (o un ritorno all’origine, che per il fascismo è la stessa cosa).
Dalle risposte che mi hai dato finora, è venuta fuori una tua posizione diversa – per citare parole di un tuo saggio – da un “beato e ingenuo ottimismo tecnologico e il tetro e pessimista catastrofismo”. Puoi riassumerne, con chiara sintesi come sai fare, le motivazioni?
A pensarci bene, ottimisti tecnologici e catastrofisti (tecnofili e tecnofobi) sono accumunati da un presupposto comune: entrambi pensano che tra linguaggio e mondo ci sia un isomorfismo, una corrispondenza punto a punto, una totale trasparenza (se non ci si è arrivati, ci si arriverà, pensano). I tecnofobi la temono, questa trasparenza, i tecnofili la desiderano. Io credo invece di sapere che c’è, e ci sarà sempre, un’eccedenza del mondo sul linguaggio e un’eccedenza del linguaggio sul mondo: che ci sarà sempre qualcosa di nuovo da raccontare, e che ci sarà sempre un modo diverso di dire cose già dette. Per questo non posso essere né tecnofilo né tecnofobo: sono un realista fantastico (perché so che la realtà non è mai data una volta per tutte).
A te che sei stato fra i primi studiosi della letteratura cyberpunk (con la sua eco anche fuori delle pagine: dal cinema ai fumetti, dalla videoart ai videogames), chiedo d’illustrare in sintesi qual è stato il suo principale merito nello scenario espressivo contemporaneo…
Avere descritto con straordinaria spavalderia ma anche con attonito stupore i primi passi del matrimonio che (dal punto di vista fenomenologico) caratterizza il passaggio dal capitalismo delle merci materiali al capitalismo della conoscenza: il matrimonio fra tecnologie e corpi.
“Non riesco a capire perché le persone siano spaventate dalle nuove idee. A me spaventano quelle vecchie”, diceva John Cage.
Perché in molti (non solo fra gli adepti a religioni, specie se monoteiste), ma anche fra progressisti, o cosiddetti tali, hanno paura delle scienze e dei suoi approdi? Da dove viene quel panico verso il nuovo?
I “progressisti” hanno una delle peggiori religioni possibili, quella appunto del “progresso”, che significa credere di sapere in che direzione andrà la storia. Quando la storia se ne frega della loro filosofia e va in un’altra direzione, si spaventano e in genere fanno corbellerie. Io sono dalla parte di una sinistra libertaria, e non positivista, quindi credo di non spaventarmi del nuovo – o quanto meno sono più possibilista. Detto questo, devo anche dire però che considero di un cinismo ributtante l’uso strumentale e propagandistico che la destra liberale (in tutto il mondo) fa della categoria di “nuovo”. Col pretesto del “nuovo” Bush sr. e la Thatcher hanno iniziato l’opera di macelleria sociale che oggi Tremonti, Berlusconi, Sarkozy e Marchionne stanno perfezionando.
Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, inventata come sai da Roddenberry, riflessione non necessariamente elogiativa… che cosa rappresenta quel videomito nel tuo immaginario? Ammesso che qualcosa rappresenti, s’intende…
Rappresenta, rappresenta. Il mio itineraio intellettuale maturo è cominciato dalla fantascienza, e il fatto che oggi legga quasi solo più filosofia non significa che non ci sia affezionato. Va da sé che per molti Star Trek rappresenta “la fantascienza” molto più che Asimov o Kubrik, per non dire Dick e Ballard. Io credo che Star Trek sia uno dei sogni più ingenui e affascinanti che la cultura americana abbia mai partorito su se stessa: una visione colonialista ma non militarista della funzione degli Usa nel mondo. Per me è ovvio che la visione di Roddenberry sia imperialismo mascherato, ma lo è con una tale grazia e una convinzione così onesta che non me la sono mai sentita di organizzargli contro un boicottaggio...
Siamo quasi arrivati a Caronia-A, pianeta abitato da cyborgs che hanno come testo sacro un libro intitolato “Il corpo virtuale”… se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di Amarone della Valpolicella di Lorenzo Begali consigliata da Gabriele Muro chef del ristorante Giuliana 59…  Però torna a trovarmi, io qua sto… intesi eh?
Volentieri. Appena avrò pubblicato un libro su Foucault e Star Trek prometto che ne avrai la prima copia...
Grazie per essere salito a bordo, ti saluto com’è d’obbligo sull’Enterprise: lunga vita e prosperità!

 

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