L’ospite accanto a me è Nicoletta Vallorani. Scrittrice. Marchigiana d’origini, da qualche tempo vive a Milano. S’è laureata a Pescara con una tesi sulla letteratura americana contemporanea che prendeva in esame tre scrittrici: Vonda McIntyre, Joanna Russ, James Tiptree jr.
Subito dopo ha praticato un’intensa attività saggistica diventando una figura di spicco della critica italiana di fantascienza, firmando molti articoli per riviste, nonché prefazioni a volumi Mondadori, ad esempio, nelle collane "Classici Urania" e "I Massimi". Approderà poi alla scrittura di science fiction pubblicando propri racconti su <Pulp>, <Dimensione Cosmica>, <Futuro Europa>, <Pianeta Italia>.
Nel 1992 vince il Premio Urania con il romanzo “ Il cuore finto di DR” (Mondadori), tradotto anche in Francia.
“Ed è proprio qui” – come scrive un critico in uno dei tanti siti web che si occupano di lei – “che la contaminazione tra science fiction e noir dell'autrice mostra elementi di un'autonomia che in seguito diverrà più evidente. E prende anche corpo una scrittura che troverà felice esito nel 2002, con il romanzo “ Eva”; in quest'opera, infatti, inizia a delinearsi più compiutamente l'universo della Vallorani”.
Per una guida alla sua ricca bibliografia: http://www.gialloweb.net/biblio/vallorani.htm
Il più recente lavoro di Nicoletta è di quest’anno terrestre 2004: “Visto dal cielo” pubblicato – come il precedente “Eva” – da Einaudi, Stile Libero.
Leggetelo, è una straordinaria sorpresa nel nostro panorama letterario.
Un libro che su di uno spessore linguistico di grande qualità e attualità, accoglie e guida il lettore in un percorso magnetico e icastico pur trattando la materia del racconto attraverso momenti che sembrano sottratti ad incubi: fotogrammi schizzati di una realtà che sa impazzire come solo la realtà ci riesce.
Avevo già letto con interesse “Le sorelle sciacallo” (Derive e Approdi, 1999), ma qui ci troviamo di fronte ad una scommessa ardita, e vinta, di usare il noir rinunciando ai suoi effetti speciali.
Quei pochi amici che seguono queste mie note, sanno che parlo con molta riluttanza e diffidenza della narrativa, ma qui abbandono quella mia dichiarata antipatia per il romanzo, e un motivo c’è. Risiede nel fatto che Nicoletta m’appare scrittrice di personaggi e linguaggio più che di trame, nonostante le sappia costruire, ma quest’ultimo fatto non mi commuove. M’interessano i primi due.
Ha scritto Carlo Lucarelli: “Mi ricordo alcuni dibattiti, più o meno recenti, sulla capacità degli scrittori italiani di raccontare la realtà e sulla funzione della letteratura noir, accusata di essere, suo malgrado, addirittura reazionaria. Le problematiche sociali e le tematiche politiche, anche se «di sinistra», finirebbero per nascondere una visione oggettivamente conservatrice, trasformando gli autori di noir in utili idioti…al di là dei dibattiti, però, ci sono i romanzi a dimostrare se si possa o no parlare di oggi in modo adeguato e soprattutto se ci sia qualcuno che lo faccia. ” Visto dal cielo”, di Nicoletta Vallorani, è uno di quelli che dimostra che si può e che c'è qualcuno che lo fa.”
Se v’interessa il seguito di questa recensione cliccate su: http://www.carmillaonline.com
Altri siti utili per rintracciare pensieri e brividi di, e su, NV: http://www.trax.it/; http://www.ipinguini.com/; http://www.cafeletterario.it/.
Naturalmente, c’è anche dell’altro, accendete i motori di ricerca e buon viaggio.
- Benvenuta a bordo, Nicoletta…
- Grazie. A bordo è esattamente il posto dove voglio essere.
- Ne ho piacere. Voglio farti assaggiare questa Bonarda Doc di Torre Fornello … qua il bicchiere… ecco fatto.
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore… quello fisico lo sappiamo già seducente…insomma, chi è Nicoletta secondo Nicoletta…
- Una pasticciona, un’alchimista che sta cercando di creare l’oro e ottiene sempre sostanze più importanti: gli affetti, le amicizie, la lealtà, il dolore. Anche il dolore, sì. E’ il rovescio della medaglia. Capire che è importante non significa volerlo o accettarlo. Solo metabolizzarlo in questa avventura che adoro, cioè vivere. E’ un’avventura fatta di pezzi, uno più esaltante dell’altro, ai quali è necessario dedicare tutta la nostra attenzione. Dopo, si scrive. La scrittura non è la mia vita, ma ne è l’effetto collaterale. E’ come respirare accorgendosi dell’aria che respiri e trasformando quest’atto attraverso la consapevolezza.
- A te studiosa e scrittrice di fantascienza, propongo un gioco incoraggiato anche dall’ambientazione in cui si svolge questa nostra conversazione. Siamo in un lontano futuro, le tue opere sono fra quelle terrestri che si sono salvate dalla solita catastrofe (per esempio, quella che si augura Svevo, ed io con lui), come vorresti, come ti piacerebbe che un critico di quel remoto tempo scrivesse una nota sul tuo lavoro?
Evita lingue aliene e scrivi, per nostra comodità di lettura, quella nota in italiano.
- Mi piacerebbe che qualcuno dicesse quello che Luigi Bernardi una volta ha detto delle Sorelle sciacallo: quello che scrivo è un atto di libertà. Un atto consumato nel silenzio, ma dopo che c’è stato tanto rumore, tanta vita, tanto movimento. L’atto attraverso il quale quello che DOBBIAMO fare diventa quello che VOGLIAMO fare. Contrariamente a quanto qualcuno pensa di me, non sono una persona coraggiosa. Sono solo una che pensa che le parole abbiano un peso e DEBBANO significare. Avere un senso. Riferirsi alla vita. Ecco, mi piacerebbe che si dicesse che i miei romanzi sono fedeli alla vita, un pegno pagato all’onestà intellettuale che deve definirci come esseri umani. In caso diverso siamo cactus. Niente di più.
- Più domande in una, lo ammetto: sono vorace.
Com’è nato “Visto dal cielo”? Quale n’è stata l’idea motrice? In quanto tempo lo hai scritto?
- E’ nato nel tempo che è passato da una mia particolare esperienza di insegnante, quando ancora mi facevo le ossa in scuole dove, potendo scegliere, nessun insegnante sarebbe mai andato. Non ci sono finita per vocazione (anche se poi ho scoperto che insegnare è davvero l’unica cosa che so fare), ma mi ci sono trovata. E ho imparato tante cose che non riesco a raccontare, con un coefficiente di umanità altissimo. Questo libro è un pegno di riconoscenza e risponde alla volontà di dare la parola a chi per definizioni non ce l’ha. Ragazzi marginali, storie strampalate, esistenze rese complicate da problemi che nessuna scuola – tanto meno quella italiana di oggi – è in grado di risolvere. Gli insegnanti lavorano dentro e contro questa struttura, e molti sono gente incredibile. La gente non lo sa. Chi pensa le riforme dovrebbe essere mandato una volta sola per due ore in una classe di un Istituto professionale per l’industria e l’artigianato nell’hinterland milanese. Ce ne sono alcuni fantastici. Altri, invece, sono scuole di confine, luoghi periferici e dimenticati, dove adesso si sta cercando di svendere un modello americano in un contesto che americano non è. Mi piacerebbe vedere come questi geni dell’organizzazione scolastica escono di classe dopo due ore passate lì dentro e poi rimandarli a progettare le riforme. Sarebbe un’esperienza educativa.
Circa il tempo di scrittura: per me è sempre complicato rispondere a questa domanda. Una storia, qualunque storia, rimane un tempo indeterminato nella mia testa. I fatti devono sedimentare, oppure, come dico io, i personaggi devono decidere che cominciano a parlare per raccontarmi la loro storia. E’ un processo che non riesco a controllare, e neanche voglio farlo. A volte, mi è anche difficile stabilire quanto tempo ho impiegato a lasciare che la storia sedimentasse. Quello che posso dire è che poi, una volta che ho cominciato a scrivere, “Visto dal cielo” è stato completato in due estati: un tempo doppio rispetto agli altri romanzi. Ma, per me, ben speso.
- Una volta tanto il “bugiardino” editoriale dice la verità allorché afferma per “Visto dal cielo” che è “La prima ghost-story della stagione dei movimenti”. Qual è, sul piano storico, la sostanza prima che ne forma l’ectoplasma? E quale, sul piano esistenziale, l’intima luce delle sagome da te ideate?
- La sostanza è politica. Attenzione: politica, non ideologica. Politica perché pertinente alla polis, al luogo che abitiamo rendendolo vivo. E’ di questo che volevo parlare: del modo in cui una comunità si struttura – o si destruttura – come tale. Credo che stiamo vivendo un momento complicato, un momento in cui, qui, la società civile è sottoposta a pressioni che possono danneggiarla, spaccarla, frantumarla in tante monadi incapaci di coesione. Allora, in un momento come questo, è ancora più importante essere consapevoli di quello che ci sta accadendo. Poi, di questa consapevolezza ognuno fa quello che gli pare, ne ricava cioè la presa di posizione ideologica in cui si riconosce di più. Questo mi interessa relativamente. Quello che invece mi interessa molto è capire che in tempi in cui lo scemo del villaggio diventa re, il buon senso pare trasformato in una pratica rivoluzionaria. Non credo che dobbiamo spaventarci per questo. Credo anzi che sia un motivo di più per continuare a praticarlo.
L’intima luce delle sagome delineate: il libro avrebbe potuto chiamarsi, o meglio, è nella mia testa una sorta di vonneguttiana crociata degli innocenti. Ci sono ragazzi che muoiono, immolati sull’altare di convinzioni condivisibili, oppure per sbaglio, sotto una camionetta o con in mano un frammento di cluster bomb. Questa cosa non deve succedere. Nulla può giustificare questo genere di morte. E quando accade, i fantasmi dei morti tornano: non nei fatti, cioè come accade in “Visto dal cielo”, ma sotto forma di memoria, e memoria non cancellabile. Su un paracarro in una piazza di Milano c’è una scritta: DAX VIVE. Ecco, è questo il punto: la memoria. La scrittura è memoria, sia che sia graffito urbano, sia che sia un libro.
- Diceva Magritte: “L’importante è il mistero, non la sua soluzione”. Vale anche per le tue pagine?
- Non risolvo niente neanche nella vita, ti immagini se posso farlo nei libri. Mi piacciono gli esseri incompleti, le questioni irrisolte, i misteri. Mi piacciono perché ti costringono a camminare su un confine. I confini separano due posti diversi, ma se ci cammini sopra puoi guardare da una parte e dall’altra. Conosci due mondi, capisci qualcosa in più.
- Laurie Anderson canta "Language is a virus" citando William Burroughs che diceva "Il linguaggio è un virus venuto dallo spazio". Segue, quindi, una domanda acconcia in un viaggio spaziale: sei d’accordo con quella definizione?
- Ho una fiducia profonda nel linguaggio, e credo che bisogna usarlo, ma rispettarlo. Le parole pesano e non vanno sprecate. Detesto la mancanza di chiarezza, detesto la diplomazia. Il rispetto però è importante. Allora si tratta di capire dove finisce il rispetto e dove comincia la menzogna. Certe volte è complicato. E sì, mi piace molto che il linguaggio sia un virus: qualcosa che si trasmette, cioè, e che passa da una persona all’altra, comunque creando un ponte, un contatto che a volte è involontario e inconsapevole, ma che, ne sono convinta, è l’unico tramite possibile per la conoscenza.
- E’ nella letteratura oppure in altre aree che credi ci siano oggi i lavori più interessanti nella ricerca di nuove modalità espressive?
- La risposta è complicata, e di nuovo l’unica cosa che posso dire è che credo che le cose migliori siano il frutto di una contaminazione. Neil Gaiman dice che gli piacciono i graphic novel più dei romanzi perché i primi, per definizione, richiedono una operazione cooperativa. Una comunicazione, cioè: l’atto consapevole di venirsi incontro e di sostenersi per comunicare insieme un significato condiviso. Allora questa penso che sia proprio una bella avventura. Non so, quella di uno come Lucarelli che comincia scrivendo romanzi, poi si mette a fare un programma in televisione che investiga su misteri di cronaca per poi passare a misteri ben più scabrosi e politici, e intanto scrive sceneggiature, lavora alla radio e vive. Ce ne sono di artisti così, da noi e all’estero. Io non so se sono i migliori: di certo sono quelli da cui io imparo di più.
- Ti sei misurata con successo anche nella letteratura per ragazzi che – da Tolstoi a Stevenson fino ai nostri Calvino, Malerba, ed altri ancora, solo per fare alcuni nomi – è giustamente ritenuta una delle pratiche di scrittura fra le più difficili. Qual è, a tuo avviso, la sua principale difficoltà?
- Ai lettori giovani non si raccontano balle. Hanno un rapporto con la parola che somiglia a quello che rivendico io. Pensano che una storia deve SIGNIFICARE qualcosa, e se non è così non te lo mandano a dire. Questa è una sfida notevole: come autore, sei senza pelle, e sei obbligato all’onestà intellettuale e al rigore. E’ come essere in classe, in una scuola del genere di quelle che citavo prima, e sapere che non ti rispetteranno perché sei la loro insegnante di inglese, ma solo se dimostrerai loro che come PERSONA sei degna di rispetto.
- Perché da noi non c'è una letteratura di fantascienza all’altezza di altri generi letterari nei quali, invece, abbiamo prodotto grandi cose? Il mercato editoriale del settore, infatti, si dice costretto ad usare prevalentemente traduzioni per mancanza di testi italiani di valore.
Ti prego, non darmi risposte patriottiche…
- Non so, io credo che ci sia una letteratura di fantascienza di valore. C’è Evangelisti, per esempio, e intorno all’esperienza di Carmilla si radunano scrittori di buona fattura e di grande onestà intellettuale, appunto. Certo, è una situazione molto diversa da quella americana, ma di nuovo, come per il discorso sulla scuola, non è possibile sviluppare un discorso sulla fantascienza senza tenere conto dei contesti. In Italia non c’è mai stata una tradizione di lettura e di scrittura di letteratura di genere e di fantascienza in particolare. Se ne è sempre letta poca e con un po’ di vergogna, e l’editoria italiana, in passato, non ne ha mai avuta grande stima. Non c’è una tradizione di divulgazione scientifica degna di questo nome, non ci sono grandi padri in numero sufficiente… insomma, questa è la nostra cultura, e in questa cultura la fantascienza non è una pianta facile da accudire. E tuttavia, pur con tutti questi limiti, quello che c’è oggi, in termini di collane fantascientifiche ma anche di testi fantascientifici pubblicati in collane aspecifiche, non mi pare male. Si può fare di meglio, ma credo che certi autori ci stiano già provando.
- Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, non necessariamente elogiativa…Ora che ho a bordo una grande studiosa di fantascienza, l’occasione è ancora più ghiotta per chiedere: che cosa rappresenta quel videomito nel tuo immaginario?
- Ti ricordi il discorso sull’alchimia? E’ questo: un esperimento alchemico riuscito.
Un gran frullatore in cui si fa qualcosa che noi italiani siamo abituati a considerare negativo e che invece non lo è affatto: si prende il canone letterario e lo si passa al filtro della cultura popolare; così si vede come se la cava. Appunto, di nuovo, è come mandare un professore ordinario di filosofia teoretica in una quinta professionale turistico. Se è un bravo divulgatore possono venire fuori cose davvero interessanti…
- Siamo quasi arrivati a Vallorànya, pianeta dagli inquietanti colori acidi dove, in un agghiacciato puppentheater, mamme killer, bambine bulimiche e sorelle parricide recitano in un eterno loup sul suono di un carillon elettronico… se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di Bonarda Doc di Torre Fornello…
- …e se non volessi andarmene?
- Coglieresti una mia segreta speranza. Direi allora (essendo uno scansafatiche, anche in un momento così emozionante, uso parole già confezionate), come nel finale di “Baci rubati”: <Noi saremo un esempio. Noi non ci lasceremo mai, nemmeno per un’ora. Io non lavoro. Non ho alcun impegno nella vita. Lei sarà la mia unica occupazione. Capisco che tutto questo è troppo improvviso perché lei dica subito sì e che voglia rompere dei legami provvisori che la uniscono a persone provvisorie. Ma io sono definitivo>.
Aggiungerei, ancora 4 parole, tanto per cambiare, ancora una volta di altri: lunga vita e prosperità!
È possibile l'utilizzazione
di queste conversazioni citando
il sito dal quale sono tratte e menzionando il nome dell'intervenuto.
Vi preghiamo di non richiedere alla redazione recapiti telefonici, mail o postali dei nostri ospiti che non dispongano di un sito web; non possiamo trasmetterli in ottemperanza alla vigente legge sulla privacy. |
|