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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Leo ex Machina

Tre curatori, Antonino Bove, Vittore Baroni, Gumdesign, propongono alla Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea "Lorenzo Viani" di Viareggio – diretta da Alessandra Belluomini Pucci – Leo ex Machina Ingegni leonardeschi nell’arte contemporanea.
Partecipano oltre cento artisti internazionali chiamati a ideare, muovendosi tra funzionalità e immaginazione, nuove “macchine leonardesche” ispirate al mito e alla contemporaneità di Leonardo Da Vinci.

In foto: macchina leonardesca, ingranaggi battello a pale.

Il tema della “macchina” si è più volte intersecato con l’arte contemporanea, dai Futuristi a Duchamp, da Fluxus alla Net Art. L’iniziativa, curata dall’associazione culturale BAU di Viareggio in collaborazione con la “Lorenzo Viani”, si inserisce in questa prospettiva, coniugando il genio leonardesco con problematiche attuali.
L’esposizione coincide con la pubblicazione e presentazione in anteprima del numero Dodici della rivista d'autore BAU, Contenitore di Cultura Contemporanea, con art direction di Gumdesign che cura anche il progetto grafico della mostra. In aggiunta ai lavori di BAU Dodici, Leo Ex Machina include opere a tema leonardesco di numerosi artisti storici, per la prima volta esposti in Versilia, provenienti dal Museo Ideale “Leonardo Da Vinci” di Vinci e dalla Collezione Carlo Palli di Prato. Tra questi, figurano alcuni protagonisti di primo piano della ricerca letteraria, artistica e performativa degli ultimi decenni in ambito di Poesia Visiva, Arte Concettuale, Body Art.
Da Joseph Beuys a Eugenio Miccini, da Hermann Nitsch a Orlan, da Nam June Paik a Stelarc. Un percorso che coniuga arte e tecnologia, visionari marchingegni e curiosità storiche.

Leo ex Machina
Galleria Lorenzo Viani
Palazzo delle Muse
Piazza Mazzini, Viareggio
Info: 0584 - 58 11 18
fax: 0584 - 58 11 19
gamc@comune.viareggio.lu.it
28 giugno - 11 ottobre 2015


Esseri Rumorosi

La casa editrice Fratini ha pubblicato un libro – Esseri Rumorosi Brevi racconti del sonoro – che così presenta: “Il volume raccoglie i 180 ‘suonetti’ che furono trasmessi ogni notte a mezzanotte, per nove mesi, dalla Rete 2 della Radio Svizzera in lingua italiana. Brevi racconti che richiamano l'attenzione verso l'immagine di un mondo che tiene il suono in alta considerazione, fanno di esso uno strumento primario di riflessione analizzando un’esperienza o il guizzo di un ascolto casuale, e ne ricava conclusioni, talvolta magari un po' fantastiche, anche solo per il semplice gusto di immaginare e speculare.
All'interno QR-CODE con link a registrazioni di ‘suonetti’ ”.

Due gli autori, Mechi Cena e Francesco Michi; per notizie: QUI.
Ecco una loro definizione di suonetto: “Fare un suonetto è il nostro modo di fare musica, / non proprio narrativa e tanto meno / poesia”.

Il volume si avvale di una nota critica di Roberto Barbanti che insegna presso il Dipartimento di Arti Plastiche dell’Università di Paris 8; ha sviluppato la sua attività di ricerca principalmente nell’ambito delle arti multi-media con particolare attenzione alla relazione tra le arti, la tecnica e l’ecologia.
Così scrive nel suo intervento: Tra esperienza esistenziale, ricerca teorica e nuova modalità espressiva i ‘Suonetti’ di Francesco Michi e Mechi Cena sono un’opera che colpisce immediatamente per la sua raffinata e discreta sensibilità, calibrata in quasi ogni sua riga tra il sorriso autoironico che non teme di svelare la propria debolezza e il senso cupo di esperienze esistenziali che si avvinghiano nella critica banalità del quotidiano.

Mechi Cena – Francesco Michi
Esseri Rumorosi
Nota critica di Roberto Barbanti
Pagine 400, Euro 16.00
Fratini Editore


Catatonia notturna

Un motto popolare afferma che “la notte porta consiglio”. Niente di più falso.
E se, invece, così fosse? Avremmo trovato allora spiegazione al pessimo umore del risveglio.
No. La notte porta ombre, ansie, affanni. In tanti sogni e in tanti insonni.
A Giorgio Manganelli portava pensieri che sembrano vissuti sui confini magnetici della penombra condensandosi in sospettose ipotesi sulla Notte.
È quanto si ricava da un testo ritrovato grazie alla letterata e figlia dello scrittore, Lietta (ha dedicato al padre anche un Centro Studi), che l’editore Aragno pubblica con il titolo Catatonia notturna. Come nasce il titolo lo spiega Lietta Manganelli in uno scritto introduttivo: … “Notte. Titolo d’autore “bruciato” da una raccolta di racconti, uscita con il medesimo titolo, rimaneva il problema, insolubile, di inventare un titolo che fosse abbastanza manganelliano […] ho utilizzato il metodo che sempre uso per risolvere il problema: da Circolazione a più cuori a I borborigmi di un'anima mi sono sempre affidata a mio padre. Ho letto e riletto tutto il testo, poi ho ricominciato daccapo sempre aspettando un suggerimento. Due frasi mi continuavano a balzare all’occhio, sempre quelle due frasi attiravano la mia attenzione: Notte tenebricosa e Catatonia notturna.

Scritto nel 1965, l’anno dopo Hilarotragoedia, è un assortimento di tenebre indagate attraverso ipotesi. Laddove a una che afferma se ne oppone un’altra che smentisce la precedente con garbo assassino.
Corpo inesausto che sfinisce, la Notte manganelliana ha molte lune che si dispongono diligentemente di traverso eccitando cicli del raccolto e mestrui, ma soprattutto avvita vertigini di linguaggio che si fa detective di se stesso, cercando plurali verità e molteplici menzogne interrogando testimoni, numi e miti ricevendone criptiche risposte.
Gran bel libro sulla Notte, di seduzione ipnotica, la Notte – scrive Lietta Manganelli – pensata, amata, odiata, fuggita, ma soprattutto ipotetica e ipotizzata […] il proporre ipotesi, il “come se…” è sempre stato il fil rouge della sua tormentata esistenza e dei suoi forse “ipotetici” scritti […] mi viene il sospetto che, soprattutto da quando ha cambiato dimensione, anche Manganelli, sia diventato un’ipotesi, o forse lo sia sempre stato….

Aveva detto “L’importante è proporre delle ipotesi. Nessuna attività è più nobile di questa, più degna dell’uomo”.
E Albert Einstein: «Un'ipotesi è una frase la cui verità è momentaneamente presunta, il cui significato è oltre ogni dubbio».

Giorgio Manganelli
Catatonia notturna
Prefazione di Lietta Manganelli
Pagine 144, Euro 12.00
Nino Aragno Editore


Il giardino della Memoria


La sera del 27 giugno 1980 alle ore 20.59'.45'' come risulta dalle registrazioni radar, il Dc9 I-Tigi Itavia partito alle ore 20.08 da Bologna (anziché, come previsto, alle 18.15) verso Palermo fu colpito da un missile nel cielo di Ustica e s’inabissò con ottantuno persone a bordo.
A 35 anni da quella data in cui persero la vita in tanti, il nostro Paese si porta dentro la ferita terribile di quella strage, così come se la portano dentro le vite dei parenti delle vittime.
Il 27 giugno, dunque, ricorre il XXXV Anniversario della strage e l’Associazione Parenti delle Vittime prosegue nel suo impegno civile (che mai ha conosciuto pause dal 1980) e chiede al Paese, al Governo, di prendere atto che la verità conquistata in questi anni, con l’impegno di tanti, può essere completata soltanto con un’azione decisa e consapevole che apra la strada ad una vera e definitiva collaborazione internazionale.

La memoria e l’arte, nell’attività dell’Associazione, sono state da sempre le facce della stessa medaglia. Ecco perché anche quest’anno il ricordo della strage è sostenuto da vari artisti.
E’ sempre l’Arte - scrive Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione - che lega le nostre emozioni alla memoria in un percorso che non è mai retoricamente celebrativo, ma diventa ogni giorno impegno per la verità e la giustizia e ci porta insistentemente a ripetere “che il DC9 è stato abbattuto all’interno di un episodio di guerra aerea… e nessuno ha dato alcuna spiegazione”. Chiediamo di voltare pagina. A partire da questo ‘nessuno ha dato spiegazioni’, nel 35° Anniversario dobbiamo pretendere che il Governo della Repubblica, la nostra diplomazia, si attivino con determinazione nei confronti di paesi amici ed alleati per avere risposte definitive.

Dal 27 giugno al 10 agosto nel Giardino della Memoria, nel Parco della Zucca, lo spazio antistante il Museo per la Memoria di Ustica, l’Associazione promuove per la settima edizione un programma di iniziative di teatro, musica e poesia per ricordare la Strage di Ustica e far vivere questo luogo, dove l’installazione permanente di Christian Boltanski incornicia i resti del relitto abbattuto, nel segno dell’arte e della partecipazione civile, grazie ad interpreti d’eccellenza della scena italiana ed internazionale.
La rassegna è parte di BolognaEstate 2015, cartellone d’iniziative promosso e coordinato dal Comune di Bologna realizzato anche grazie al sostegno di Unipol.

Sabato 27 giugno, in occasione del XXXV Anniversario della Strage di Ustica, si terrà un concerto di Franco Battiato, in un ideale abbraccio tra Bologna e Palermo.
E’ dedicata a Judith Malina, scomparsa il 10 aprile scorso - indimenticabile presenza il 10 luglio 2013 al Giardino della Memoria - la settima edizione della rassegna Dei Teatri, della Memoria, con la direzione artistica di Cristina Valenti, che ospiterà, dall’1 al 29 luglio, ogni mercoledì, interpreti d’eccellenza della scena contemporanea accanto alle creazioni degli artisti più giovani.

E’ il battito cardiaco il tema portante de La Notte di San Lorenzo, sabato 10 agosto, serata di poesia ideata e curata da Niva Lorenzini, che conclude il programma d’iniziative al Giardino.
Nell’immaginare il filo rosso che unisce le parole ugualmente preziose di poeti tanto diversi e lontani nel tempo, da Caproni a Porta, da Fortini a Sanguineti, da Valduga a Niero, sino alla scrittura di un testimone d’eccezione quale Pietro Ingrao, il progetto è ispirato alla registrazione fatta in moltissimi paesi da Boltanski di battiti cardiaci umani per accompagnare la musica delle parole e il loro particolare potere di creazione.

Su tutti i materiali di comunicazione de Il Giardino della Memoria sarà riportato il QR Code (QR sta per "Quick Response"), che rendendo immediatamente fruibile il contenuto collegato, rappresenta un modo per adottare un linguaggio contemporaneo nella trasmissione della Memoria.

Ufficio Stampa Il Giardino della Memoria
Raffaella Ilari, mob. +39.333 – 43 01 603, raffaella.ilari@gmail.com

XXXV Anniversario della Strage di Ustica
Il giardino della Memoria
nell’ambito di BolognaEstate 2015
spazio antistante il Museo per la Memoria di Ustica
Parco della Zucca, Via di Saliceto - Bologna
Info: Cronopios T.051 – 22 44 20 - info@cronopios.it
Ufficio Stampa Comune di Bologna
Raffaella Grimaudo: Raffaella.Grimaudo@comune.bologna.it ; tel: 051 – 21 94 664
27 giugno – 10 agosto 2015


In pensiero


A Cosmotaxi piace parlare delle riviste ben fatte specialmente se hanno edizioni sul web.
Oggi segnalo in pensiero Arti e linguaggi che sperimentano il presente rivista che si guarda si legge si ascolta diretta da Gianmaria Nerli.
Bella pubblicazione per qualità di pensiero e composizione grafica.
Ogni numero ha un suo book trailer, ecco, ad esempio, QUI il più recente.
Segue una conversazione con Gianmaria Nerli.

Come, dove e quando nasce “in pensiero”?

”In pensiero” nasce a Roma da un gruppo di scrittori, artisti, filosofi, musicisti, critici, intellettuali sparsi per varie città italiane, e ha la sua prima uscita nel 2008 dopo un paio d’anni di gestazione. L’obiettivo è quello di dare vita a una rivista che riunisca diverse arti e linguaggi, e si esprima attraverso diversi media: opere d’arte di diverse discipline e saggi di pensiero, quel tipo di saggio che si fa carico, come dice Adorno, della propria parzialità.

Quali ragioni espressive muovono la rivista?

Come dice il titolo, le prime ragioni della rivista affondano in una relazione desiderante e insieme dolorosa con il mondo presente, che si traduce in uno stato di preoccupazione, appunto uno ‘stare in pensiero’, e insieme in una speranza, in uno stimolo alla ricerca, un ‘mettersi in pensiero’, un mettersi sulle tracce di porzioni possibili di inpensato. L’idea cardine è quella di ricostruire innanzitutto sotto forma di domande, di interrogativi essenziali alcuni degli innumerevoli fili che intrecciano il pensiero e la realtà contemporanee. Queste domande, con i loro fili da tirare e loro nodi da sciogliere, sono proposte direttamente agli artisti, agli scrittori, agli intellettuali, agli scienziati, che rispondono ognuno con il proprio linguaggio, con la propria sensibilità, con il proprio pensiero. La rivista nasce dal montaggio di queste opere (poesie, canzoni, video, performance, fotografie, dipinti, reportage, cortometraggi, racconti, animazioni, saggi, fumetti), che sono un insieme di risposte allo stesso groppo di problemi racchiuso nella domanda iniziale. Ci piace pensare che l’insieme di queste narrazioni, quasi fossero parti di un’unica prismatica e sfaccettata immagine del nostro presente, ci aiutino a capire e a sperimentare un po’ di più il mondo che abbiamo tra le mani. Una via per ribadire che ogni arte, ogni forma espressiva, ogni linguaggio conosce in modo esclusivo, per ribadire che quello che si dice con un romanzo non lo si può dire, mettiamo, con un brano musicale e viceversa, per ribadire che anche nell’epoca del crossover i confini di senso esistono; ma che solo riunendo in una visione d’insieme questi linguaggi e queste opere riusciamo a avere un’immagine più precisa del sapere contemporaneo. Un modo per arrivare, per via in qualche modo allegorica, a forme nuove di narrazione, perché no di grande narrazione, che ci sappiano far conoscere, ma che ci insegnino anche a sperimentare, dato che in ogni sperimentazione c’è un desiderio segreto di speranza, di emancipazione.

Nel varare “In pensiero” che in modo anfibio opera su carta stampata e sulla rete, qual è la prima cosa che in redazione avete deciso era da evitare e quale quella che per prima era invece da fare?

Fin dall’inizio abbiamo deciso che “in pensiero” doveva essere un’esperienza che si propagava attraverso l’oggetto rivista, lasciando al web solo una funzione informativa. In un secondo momento abbiamo deciso di rendere l’e-book del volume scaricabile on-line, ma solo come testimone, se così vogliamo dire, dell’oggetto rivista. La prima cosa che abbiamo deciso di evitare sono state le note a piè di pagina dei saggi, per ribadire che un saggio di pensiero, a differenza di altre importantissime tipologie di saggio, non ha bisogno né di note, né di un linguaggio specialistico. Insieme abbiamo deciso che ogni presentazione era anche un piccolo evento, una mostra, un concerto, una performance, una proiezione, a seconda di quello che presentava il numero.

In questa nostra epoca delle psicotecnologie, a tuo parere, in quale modo è principalmente cambiato il modo di percepire la realtà che ci circonda?

La vulgata postmoderna che voleva la morte delle grandi narrazioni ci ha abituato a pensare la realtà intorno a noi determinata solamente da fattori tecnici o tecnologici, eliminando dalla scena qualsiasi elemento di pensiero, di cultura, di ideologia; ecco, il risultato è che questa è la grande narrazione che oggi è egemone, anche perché è la grande narrazione che ha condotto il neoliberismo a essere la forma vincente del capitalismo contemporaneo. Come l’unica realtà sociale percepibile sono i numeri aleatori della finanza e non le scelte di istituzioni spesso sovranazionali (senza contare le non scelte della politica), così la cultura e l’arte ci sono presentate sganciate dalla realtà, strumento principalmente di evasione, e non linguaggio essenziale di conoscenza. In questo modo l’unica realtà che conosciamo è quella solidissima che ci identifica nella grande comunicazione di massa, social e no.


Perché la parola “avanguardia” da tanti adesso è considerata una parolaccia?

In un famoso saggio degli anni Sessanta, “Del modo di formare come impegno sulla realtà”, Umberto Eco scriveva che, a differenza dell’opinione comune che privilegia l’arte tradizionale, «arroccata al limite estremo della comunicabilità, l’avanguardia artistica è l’unica a intrattenere un rapporto di significazione col mondo in cui vive». Eppure non tutte le epoche sono per l’avanguardia: oggi le avanguardie che conosciamo quando va bene ripetono il già detto, nella maggior parte dei casi sono al di là del «limite estremo della comunicabilità», rintanate il piccole enclave di adepti super specializzati che non comunicano minimamente neanche tra di loro. Ogni eredità va sempre resa viva dalle generazioni che la ricevono, e con grande rammarico va detto che della grande eredità delle avanguardie oggi rimane questo. Senza che questo renda l’arte tradizionale meno insulsa di un tempo. Non rimane che la strada faticosa di sperimentare e di ritrovare il modo di «arroccarsi al limite estremo della comunicabilità» per riuscire a significare.


Casa Museo Pietro Ghizzardi (1)

La prima volta...1970?... 1971?... che ho sentito il nome di Pietro Ghizzardi (1906 - 1986) è stato in una casa romana di Via Angela Merici, lì abitava Cesare Zavattini e mi trovavo da lui per girare un servizio tv per la Rai. Zavattini mi parlò di quel pittore-scrittore, con il suo solito entusiasmo manifestato in una folla di parole che pareva sgomitassero fra loro onde uscire per prime dalle sue labbra.

In foto, Pietro Ghizzardi fotografato da Berengo Gardin nel 1975

Nel corso del tempo, mi sono procurato più occasioni d’informarmi su quell’artista che, sia pure lentamente, diventava anno dopo anno più noto. Ma da quella prima volta in cui Zavattini me ne parlò, di anni ne sono trascorsi oltre quaranta (… roba da record olimpico della Lentezza) prima che mi recassi questo mese nella Casa Museo “Al Belvedere” di Boretto.
Le cose sono andate nel modo che segue.
Mi è accaduto di ricevere un comunicato stampa da Raffaella Ilari che informava di una mostra con foto del grande Berengo Gardin a Ghizzardi e, trovandomi per fortunato caso in quel periodo a Reggio Emilia, poco distante da Boretto, non mi sono lasciato sfuggire l’occasione.
Lì ho conosciuto due splendide persone: Nives Pecchini Ghizzardi, nipote dell’artista e fondatrice nel 1992 della Casa Museo, e sua figlia Lucia Ghizzardi curatrice di quel museo che ospita quadri, murales, sculture, incisioni, manoscritti delle opere letterarie, materiali d’archivio fotografico e video, oggetti d’uso di Ghizzardi.

La prima, Nives, ha origini contadine, fisico piccolo e asciutto misuratosi vittoriosamente con le fatiche della terra, un volto esposto per anni al freddo tagliente e al sole cocente, illuminato da due occhi vivacissimi. Origini contadine, dicevo, già, ma negli anni ha acquisito altre capacità, è diventata, infatti, una bravissima fotografa delle opere di Ghizzardi e una provetta corniciaia delle stesse.
Lucia, pronipote di Pietro, ha l’aria vispa di una bambina cresciuta in fretta, grande precisione di linguaggio (lo vedrete fra poco nel corso di queste note) nel ricordare l’artista che ha conosciuto convivendoci in famiglia per alcuni anni. Usa eleganti misure: nessun tono esclamativo – vizio che macchia parecchi parenti di noti personaggi – intensa competenza storica circa le opere, felici lampi di narrazione d’episodi domestici.
La cordialità di queste due signore è stata manifestata anche dall’apertura di una bottiglia di bollicine alla quale, ovviamente, non ho mancato di fare onore… “e ti pareva!”, mi sembra di sentire da alcuni di voi fra i più malevoli.

L’occasione della mostra, a cura di Nicolò Cecchella e Giulia Morelli – inaugurata il 16 maggio, chiuderà il 29 giugno – ha una sua storia nella quale ricompare il nome di Zavattini.
Dalla presentazione di Giulia Morelli in catalogo: “Gianni Berengo Gardin incontrò quasi per caso la vicenda – e la persona – di Pietro Ghizzardi, era il 1975. Il giovane, ma già affermato, fotografo si trovava nella Bassa reggiana, accompagnato dal luzzarese Cesare Zavattini, per documentare il secondo atto della ricerca socio-antropologica intrapresa dallo sceneggiatore neo-realista e dal fotografo americano Paul Strand tra il 1953 e il 1955 con Un Paese, leggendario foto-libro sulla provincia emiliana rurale pre-boom.
Dopo 20 anni Zavattini, con il giovane Berengo Gardin, desiderava nuovamente sentire il polso di quella stessa minuta e semplice società, ormai sempre più inserita nell’ingranaggio capitalista e lontana dalla tramontata “civiltà contadina”. Da queste premesse prese le mosse “Un paese vent’anni dopo” […] il secondo fotolibro di Zavattini e Berengo Gardin, per una curiosa e significativa coincidenza, vide la luce editoriale presso lo stesso editore – Einaudi – e nello stesso anno – il 1976 – di “Mi richordo ancora”, l’autobiografia di Pietro Ghizzardi, vincitrice del Premio Letterario Viareggio nel 1977 come migliore Opera Prima per la narrativa […] durante il soggiorno di Berengo Gardin a Luzzara, Zavattini caldeggiò l’incontro tra l’obbiettivo del fotografo ligure e la frugale e umile esistenza dell’artista, che avvenne presso la “Piccola Galleria” di Boretto, la casetta-studio di Ghizzardi di via Anteo Carrara, così chiamata poiché sia sulle pareti all’interno sia sul muro del cortile erano esposte le opere del pittore, realizzate con colori auto-prodotti da elementi naturali su cartoni da imballaggio di recupero”.

A 40 anni di distanza dall’incontro tra l’obbiettivo di Berengo Gardin e la mite esistenza di Ghizzardi, la Casa Museo Al Belvedere “Pietro Ghizzardi” ha estratto dall’Archivio Storico e presentato al pubblico per la prima volta 15 scatti inediti di Gianni Berengo Gardin che ha affermato: “… sono tornato diverse volte a trovarlo nel suo studio a Santa Croce, chiacchieravamo moltissimo, per ore: mi raccontava quello che stava dipingendo o mi leggeva i suoi scritti. Portavo con me la mia Leica, ma accadeva spesso che me ne tornassi a Milano senza aver scattato una foto. Ed è strano, per un fotografo, passare molte tempo con qualcuno senza fare foto! Voleva dire che me ne dimenticavo completamente, preso dalla sua persona. Non capita di frequente”.


Casa Museo Pietro Ghizzardi (2)

Sulle biografie di Ghizzardi e Berengo Gardin, nella precedente nota, ho dato in link i tratti essenziali. Avviciniamoci adesso ai due profili.

Cesare Zavattini dall’Introduzione a “Mi richordo anchora” (a cura di Gustavo Marchesi e Giovanni Negri), Einaudi, 1976.
“C'è un uomo nella Bassa sui settant'anni che si chiama Pietro Ghizzardi ed è un grande uomo.
Ma da parecchio prima che cominciasse a dipingere e a far parte della trinità padana dei naifs, Ligabue, Rovesti e lui. La pittura non c'entra per il tipo di grandezza cui mi riferisco, essendo grande perché ha sofferto grandemente, perché è stato umiliato grandemente e nelle pagine di questo libro con qualche accento profetico domanda: «Fino a quando continuerete a fare questo?».
Io lessi le sue memorie quando erano in boccio e dissi: «Corro subito ad abbracciarlo ». Poi non corsi ad abbracciarlo, passò del tempo, si dimentica, questa è la vita, e si onora purtroppo più facilmente un artista che un uomo.
Lo incontrai dopo la prima mostra luzzarese dei naifs al pranzo invernale dopo la mezzanotte, diventato ormai rituale, tutti avevamo trovato il nostro posto a tavola e Ghizzardi no. Ricordo ancora che se ne stava in piedi in un angolo con la paura di disturbare, sdentato, il paletò abbottonato male".

In foto, la Casa-Museo Ghizzardi a Boretto, in Via De Rossi 27/B

A proposito di Berengo Gardin, così Nicolò Cecchella scrive in catalogo.
“Nella sua opera Berengo Gardin ha agito e agisce diversamente da buona parte della fotografia contemporanea, dove spesso una singola storia tende ad assumere valenze simboliche assolute e universali prevaricando la molteplicità a favore di uno sguardo di sintesi. Piuttosto l’azione intrapresa da Berengo Gardin è quella di restituire una Storia che assume i caratteri universali passando attraverso la rappresentazione delle variegate vicende umane. Gardin tende ad una narrazione “larga” che passa di lavoro in lavoro e al centro, al fondo quanto in superficie troviamo l’uomo, sempre l’uomo uguale e diverso a se stesso ed è per questo motivo che lo sguardo di Gardin si può dire costantemente e irriducibilmente rivolto alla vita”.


Casa Museo Pietro Ghizzardi (3)

Come dicevo in apertura i curatori della mostra sono Nicolò Cecchella e Giulia Morelli.

Cecchella, artista e fotografo, è nato nel 1985 in provincia di Reggio Emilia. I suoi lavori sono stati esposti in Italia, Francia e Russia. Nel 2013 è premiato a Portfolio Europa – International Portfolio Review (Festival Fotografia Europea) da una giuria internazionale di critici e curatori. Hanno scritto di lui: Grazia Neri, Giovanni Chiaramonte, Marina Cicogna, Carlo Petrini, Laura Incardona, Lynda Frese. Nel 2014 è segnalato al Premio Combat (Livorno), finalista al Premio Mantegna (Mantova) e al Premio Arte (Milano), promosso dall'omonima rivista. La sua pratica artistica si esplica anche tramite la parola scritta (critica estetica e poesia), le arti visive ed il teatro. È uno dei membri fondatori del Teatro Sociale di Gualtieri.

A Nicolò Cecchella ho chiesto: quali le principali caratteristiche dello scenario sociologico dell'umanità nella quale si trovò a vivere ed agire Ghizzardi all'epoca in cui cominciò la sua attività artistica?

Ghizzardi, figlio di fittavoli agricoli della Pianura Padana del primo ‘900, iniziò a dipingere ancora ragazzo, contro la volontà dei familiari, su supporti di fortuna, producendo da sé i colori. Lavorò come contadino fino ai 60 anni, senza mai abbandonare la pittura, fedele ai valori della terra e del lavoro. Fu scoperto come pittore da Zavattini a fine anni ’50, proprio a ridosso della pubblicazione del suo foto-libro “Un Paese”, realizzato con il fotografo americano Paul Strand, in cui si registrava accanto alla vita di una piccola comunità rurale sulla via del boom economico – Luzzara – le ultime tracce della millenaria civiltà contadina autoctona, presentendo il suo diradarsi fino a scomparire dallo scenario antropologico italiano, da lì a pochi decenni. Questo è esattamente l’ambiente in cui Ghizzardi visse e operò, questo il mondo che ritrasse, celebrò e deformò nella sua pittura e nella sua scrittura. Vent’anni dopo, nel 1977, Ghizzardi vinse il premio Viareggio Opera Prima con la sgrammaticata autobiografia “Mi richordo anchora” (Einaudi, 1976), un’ode a un mondo rurale e arcaico ormai estinto e un’invettiva popolare verso il capitalismo avanzante in cui per lui era impossibile inserirsi ed identificarsi: era lo stesso milieu che Zà volle nuovamente testimoniare con “Un paese vent’anni dopo”, affiancato da Berengo Gardin. Berengo, in quell’occasione, fotografò anche Ghizzardi. Un contesto cambiato, quello dei tardi ‘70, che aveva abbandonato per sempre la storia senza nomi del mondo contadino, perdendo un poco della sua innocenza e della sua verità.

In foto, Giulia Morelli mentre intervista Gianni Berengo Gardin.

Giulia Morelli è nata a Parma nel 1986, laureata in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano con tesi sul teatro britannico contemporaneo. È critica teatrale, studiosa di teatro, drammaturga. Lavora nella redazione del Teatro di Rai5 a Roma e collabora come critico e curatore editoriale con alcune fra le principali riviste teatrali nazionali (Hystrio, Sipario, Il Tamburo di Kattrin). Ha inoltre collaborato con diversi teatri e festival nazionali ed esteri (Piccolo Teatro, Milano; YMT UK, Londra; Orchestra del Teatro Regio, Parma; Lenz Rifrazioni – Nd’T, Parma; Biennale Teatro, Venezia) nella produzione, organizzazione e comunicazione. Dal 2012 è segretaria della Casa Museo “Pietro Ghizzardi” dove si occupa dell’attività museale e della comunicazione e promozione.

A Giulia Morelli ho chiesto: mi pare che vada sempre più profilandosi un pensiero critico su Ghizzardi che tende ad estrapolarlo dalle file dei naifs. Se sì, è da te condiviso? E quali sono le ragioni che sostengono quest'orientamento?

Ghizzardi fu inizialmente inserito nell’alveo della pittura naif perché autodidatta. Tra gli anni ’60 e ’70 il “naifismo” era un filone estremamente in voga, una moda culturale che travisò l’origine zavattiniana del fenomeno, raggruppando attorno a sé manifestazioni artistiche tra loro molto distanti. La peculiarità espressiva, la cifra fortemente autoriale del pittore – lontana dalle edeniche e formalizzate rappresentazioni naif – fu rilevata ben presto da critici di primo piano (De Micheli, De Grada, Solmi, Margonari, Jakowsky), pur non sfatando completamente il mito del “selvaggio geniale”. Dopo la sua morte, nel ’86, il dibattito riprese: Barilli e Sgarbi, tra gli altri, si espressero a favore della piena “contemporaneità” dell’artista e alcune importanti mostre – “Pietro Ghizzardi – Rétrospective”, Nizza (2004), “Arte, genio e follia”, Siena (2009), “Banditi dell’arte”, Parigi (2012), “Borderline”, Ravenna (2013), “Homage to Henri Rousseau”, Tokyo (2013) – hanno contribuito a facilitare questo riposizionamento che va sia nella direzione dell’Outsider Art o Arte Irregolare che dell’arte contemporanea tout-court. Negli ultimi mesi è in corso un proliferare di iniziative rivolte all’artista di stampo commerciale e sensazionalistico, in cui il tema della follia è spesso e impropriamente chiamato in causa – Ghizzardi non fu mai istituzionalizzato! – che rischiano di andare a detrimento del pittore. Dal canto nostro, come Casa Museo e Archivio Storico, vogliamo continuare a lavorare affinché l’artista ottenga pieno riconoscimento nel panorama della storia dell’arte contemporanea attraverso iniziative istituzionali di alto valore.


Casa Museo Pietro Ghizzardi (4)

Torna in scena Lucia Ghizzardi già incontrata nelle stanze della Casa Museo.
A lei che ha avuto la possibilità di ben conoscere l'artista, ho chiesto: quali sono i tratti del suo carattere che più ricordi?

L’asciuttezza del suo stile di vita, quasi francescano nella sua frugalità, è stato coerente alla sua opera pittorica e letteraria. L'essenzialità ha caratterizzato tutta la sua vicenda umana ed artistica. Fortemente pervaso da una sorta di religiosità panteistica, rassicurante ma non priva di conflitti, ha vissuto una giovinezza appartata dove certamente le sofferenze da lui stesso narrate ampiamente nell’autobiografia “Mi richordo anchora” gli sono state abbondantemente elargite, senza tuttavia privarlo di un'intima serenità che ha conservato fino al termine dei suoi giorni, guardando alle umane miserie con compatimento e comprensione. La sua narrazione pittorica e letteraria è il più bel viaggio negli anfratti più reconditi della natura umana, indagata con amore, alla ricerca del senso primario dell'essere e per molti aspetti vicina alla contemporaneità dell'Espressionismo novecentesco. La sua intrinseca curiosità per la vita, a cui conferiva un valore sacrale, come verso la natura, lo contraddistingueva insieme a una spiccata gentilezza d'animo e a una delicatezza, che spesso era intesa fraintesa per ingenuità. Basti pensare la tenacia con la quale ha sfidato il tempo: decenni trascorsi nel misconoscimento, trascorsi a lavorare duramente nei campi e poi quando anche la terra gli fu tolta, a fare lavori che oggi chiamiamo “socialmente utili” senza rinunciare però a dipingere ogni notte e ogni giorno quegli uomini e quelle donne che gli passavano accanto senza vederlo mentre lui in silenzio esplorava le loro anime scoprendole con fare fanciullesco, talora irriverente, con un segno non canonico lontano dall'ufficialità dell'arte e pertanto considerato “sbagliato”. Così questo poderoso uomo arcaicamente contemporaneo ha dipinto e scritto per decenni con totale trasporto, con passione carnale ha raccontato i suoi giorni le sue “avventure”, come le definiva.

Foto: Pietro Ghizzardi, In famiglia, murales

Come ho ricordato nell'introduzione a questa conversazione, vinse il Viareggio Opera Prima nel 1977, tante le mostre già dedicategli in vita.
Ghizzardi fu scrittore-pittore o pittore-scrittore? Oppure è necessaria un'altra definizione?

Mi riesce difficile rispondere, dal momento che pittura e scrittura ebbero nella sua esperienza artistica un ruolo complementare. Certamente posso affermare che all’inizio fu il ricorso al segno, rivelatore della sua intima necessità di esprimere l’urgenza espressiva, che gli consentiva di determinarsi soggetto attivo attraverso la rappresentazione figurativa e a dar voce a quella spiritualità negata a uomini semplici e umili. Fin dal principio è possibile osservare che in molte sue opere scriveva la sua firma accompagnata dalla data e nominava il santo che quel giorno era segnato sul lunario, e talora seguivano anche brevi appunti che riguardavano il soggetto rappresentato, oppure sul retro del quadro, in terza persona, si presentava al futuro spettatore dell’opera: ”Pietro Ghizzardi ha dipinto il giorno tale per il Santo tale la bella Amabile … o Il tal poeta.. “. Presagiva forse una riconoscimento che prima o poi si sarebbe inverato e del quale con riservatezza possedeva un’intima certezza. La scrittura, alla quale conferiva un alto valore, all’inizio era un accento prezioso che nobilitava il segno pittorico. A metà anni '60, quando venne “socialmente” e ufficialmente riconosciuto in quanto pittore, traslò a poco a poco il segno nella scrittura e le parole cominciarono a colorarsi per dare voce al suo lamento, sempre più ricche e ridondanti di consonanti tanto da assomigliare alle note musicali che forgiavano una sorta di litania per gridare il suo dolore inferto da una modernità che cambiava eticamente il mondo e cancellava per sempre quella civiltà contadina che lo aveva generato. Credo si possa dire che fu pittore e scrittore in modo inscindibile, un creativo fuori da ogni declinabile percorso che cercò sempre di addentare la verità della vita con instancabile curiosità.

Casa Museo “Pietro Ghizzardi”
Via De Rossi 27/B, Boretto
Info e prenotazioni visite:
info@pietroghizzardi.it
Tel: 340 – 50 72 384


Frankfurter Kunstverein


C'era una volta...
- Un re! - diranno subito i miei visitatori.
No, ragazzi, avete sbagliato. Non siamo nell’incipit di Pinocchio, anche se, come vi accorgerete leggendo questa nota, forse qualcuno il naso lungo ce l’ha.
C'era una volta… in Italia, a Firenze, un Centro d’arte e cultura contemporanea nei sotterranei di Palazzo Strozzi, si chiamava e si chiama la Strozzina.
Dalla nascita, nel 2007, in poche battute, con mostre bellissime, divenne – con la direzione di Franziska Nori (in foto) – una delle ribalte più avanzate nello scenario espositivo italiano, ottenendo rilevanti attenzioni anche all’estero.
Poi nell’autunno scorso le dimissioni della Nori e il solito rituale saluto con formali elogi alla direttrice dalla direzione di Palazzo Strozzi.
Motivo apparente del contrasto, la sospensione di una mostra a due mesi dall’apertura, ma non sono da escludere altre motivazioni; sta di fatto che, come scrive Roberto D’Agostino. “E' vero: aveva intorno Firenze e per casa Palazzo Strozzi, ma senza Franziska Nori ‘la Strozzina’ sarebbe rimasta quel che è: una bella cantina".
Sul sito web della Strozzina oggi, nella sezione Archivio, più non compaiono notizie, un tempo presenti, delle mostre ordinate dalla Nori cancellando così un’imponente memoria storica della Galleria, però conservando nel bookshop i cataloghi perché sono in vendita e poiché documentano grandi avvenimenti sono possibili occasioni d’introiti.
Insomma, ancora una volta l’Italia si lascia portar via una presenza di rilievo internazionale, perché, ovviamente, c’è chi non se l’è lasciata sfuggire: la Germania.
Nori, infatti, guida da mesi il Frankfurter Kunstverein a Francoforte, fra i principali centri espositivi tedeschi dedicati al contemporaneo.
Due mostre ora in corso, una di Thomas Feuerstein e l’altra di Trevor Paglen.


Frankfurter Kunstverein
Direttrice Franziska Nori

Thomas Feuerstein: Psychoprosa
dal 29 maggio al 30 agosto

Trevor Paglen: The Octopus
dal 20 giugno al 30 agosto 2015


Piero Gobetti


Spero che sui media italiani sia ricordato che oggi 19 giugno ricorre la nascita di Piero Gobetti ma non ci conto troppo.
Nacque a Torino nel 1901, morì a 25 anni nell’ospedale di Neuilly-sur-Seine il 15 febbraio 1926 con la salute fiaccata da due bastonature ricevute da squadristi fascisti.
Eccone un ritratto fatto da Carlo Levi: “Era un giovane alto e sottile; disdegnava l'eleganza della persona, portava occhiali a stanghetta da modesto studioso; i lunghi capelli arruffati, dai riflessi rossi, gli ombreggiavano la fronte e gli occhi vivissimi, così penetranti che era difficile sostenerne lo sguardo a chi non fosse ben sicuro di sé”.

Antifascista su posizioni liberali (solo Gramsci e pochi altri lo amavano fra i comunisti), scrisse di Mussolini: Egli non ha nulla di religioso, sdegna il problema come tale, non sopporta la lotta con il dubbio: ha bisogno di una fede per non doverci più pensare, per essere il braccio temporale di un'idea trascendente. Poteva essere il duce di una Compagnia di Gesù, l'arma di un pontefice persecutore di eretici, con una sola idea in testa da ripetere e da far entrare "a suon di randellate" nei "crani refrattari".
Il suo pensiero maturato in quei lontani anni, ancora oggi ben fotografa il carattere degli italiani: Il fascismo è il governo che si merita un'Italia di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali, e che per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell'economia come delle coscienze.

Scrive Diego Fusaro: “Gobetti era un rivoluzionario liberale. Inevitabile, nel rievocarne la figura, partire dall'ossimoro, tanto più insolito e singolare, se calato nella storia politica italiana che ha fatto del liberalismo - oltre le benemerenze risorgimentali - una tradizione conservatrice o al più moderata. Intanto quell'ossimoro non è definizione arbitraria o affibbiata dall'esterno a Gobetti. E' un'autodefinizione. Che fa corpo col programma stesso che il giovane uomo di pensiero attribuì via via a se stesso, negli anni che vanno dalle prime prove editoriali - "Energie Nuove", la collaborazione a l'Unità di Salvemini - fino alla più matura opera destinata a divenire rivista e infine saggio nel 1924: "Rivoluzione liberale”.

Il messaggio di Gobetti può essere riassunto come bene ha scritto Pietro Polito:

1. l’Italia non ha avuto né la Riforma né la rivoluzione; la storia d’Italia è stata sinora una storia di servi e il fascismo ne è l’estrema conseguenza;

2. il rinnovamento del Paese non può avvenire attraverso un mutamento di nomi e di sigle, ma solo attraverso una rivoluzione;

3. una rivoluzione autentica non può non essere liberale;

4. una rivoluzione si può dire liberale quando parte dal basso;

5. la partecipazione dal basso del Principe impedisce (può impedire) il tralignamento della rivoluzione in un mero cambiar di padrone da parte degli schiavi;

6. gli attori della rivoluzione liberale sono il movimento popolare, ai tempi di Gobetti il movimento operaio, e una elite di intellettuali liberali formatisi nel vivo della lotta politica;

7. il principale segno che la rivoluzione liberale è riuscita è la formazione di una nuova classe dirigente espressione dei nuovi movimenti popolari in ascesa;

8. gli scopi della rivoluzione liberale sono fondamentalmente tre: a) la formazione di un’economia della fabbrica che renda più mite, tagliandogli le unghie, la logica mercantile del capitalismo; b) la creazione di uno stato delle autonomie; c) la maturazione negli Italiani di una coscienza dello Stato e della responsabilità.


Biografia di una chiocciola

La @ è una forma grafica diventata familiare da quando esiste Internet, eppure la sua esistenza risale a secoli fa.
Per sapere tutto, ma proprio tutto, di quel logogramma, vi consiglio un libro pubblicato da Castelvecchi: Biografia di una chiocciola Storia confidenziale di @.
Ne è autore Massimo Arcangeli. Nato a Roma, è docente di Linguistica italiana all’Università di Cagliari, membro del collegio di dottorato dell’Università La Sapienza, garante per l’Italianistica nella Repubblica Slovacca e direttore dell’Osservatorio della Lingua Italiana Zanichelli. Coordinatore di diverse iniziative editoriali, collabora con la Rai e con numerosi giornali, tra cui «la Repubblica» e «il Fatto Quotidiano». Tra i suoi più recenti libri: “Cercasi Dante disperatamente. L’italiano alla deriva” (Carocci, 2012) e, con Stefania Rabuffetti, “Orizzonti inversi. Poesia di tutti, poesia per tutti” (Aracne, 2014).

Ponendo @ sul cursore del motore di ricerca Google, al primo rigo appare la parola “chiocciola” riferita al segno ricorrente nella posta elettronica. Graficamente esso, infatti, rappresenta una a stilizzata con attorno un ricciolo: da qui la somiglianza con il mollusco, di cui riproduce il guscio.
Su quel segno grafico, Arcangeli innesta un’affascinante ricerca storiografica raccontando, con scorrevolissima scrittura che talvolta non disdegna il tono umoristico, attraverso rigorose documentazioni le curiose storie di dispositivi e macchinari, telegrafi e tastiere, simboli e caratteri che hanno in qualche modo contribuito alla creazione della posta elettronica. Su tutto svetta lei, la chiocciola informatica, con una vicenda che inizia dal Medioevo, navigando in un’epopea di tastiere e sequenze di caratteri: episodi di una «guerra», combattuta a colpi di prototipi e brevetti, che avrebbe portato all’affermazione planetaria della tastiera QWERTY, all’invenzione della carta carbone e a quella di un rudimentale modello di macchina per scrivere. Macchina che, a sua volta, è ricca di una storia nella quale lampeggiano anche nomi italiani quali Pietro Conti e soprattutto Pietro Ravizza avvocato novarese il quale, dopo un ventennio di studi e sperimentazioni, nel 1855, brevettò a Torino il suo “Cembalo scrivano”.
Tutti i capitoli del libro, non trascurando alcun passaggio letterario o iconico, puntano a fare una fotografia stratigrafica di quella @ che segna la pelle della nostra epoca elettronica.

Scrive Arcangeli: Da quando ho iniziato a considerarla di casa, @ mi ha ispirato l’immagine capricciosa di una a “sciarpata”. Colpevole Marshall McLuhan, con la sua distinzione tra media freddi e media caldi, quella sciarpa sarebbe servita a tenere @ al riparo dal freddo polare del medium più partecipativo, globale e “intersecato” che ci sia: Internet.

Massimo Arcangeli
Biografia di una chiocciola
Pagine 120 con illustrazioni in b/n
Euro 16.50
Castelvecchi


Saper morire


Lo so: l’intestazione di questa nota può scoraggiarne la lettura, ma se (pur scontato qualche gesto apotropaico da parte di alcuni lettori) proseguite a leggere, forse, vi accorgerete che la cosa è meno terribile di quanto promettono, o minacciano, quelle due parole. Costituiscono il titolo di un libro – Saper morire Cosa possiamo fare, come possiamo prepararci – pubblicato da Bollati Boringhieri.
Ne è autore Gian Domenico Borasio nato a Novara nel 1962.
Dirige la cattedra di Medicina palliativa dell’Università di Losanna. È stato per vent’anni a capo del gruppo di ricerca sulla sclerosi laterale amiotrofica (SLA) del Dipartimento di Neurologia dell’Università di Monaco di Baviera. Tra i fondatori del Centro interdisciplinare di medicina palliativa di Monaco, Borasio è autore di oltre 300 articoli specialistici e 14 testi di medicina. Ha redatto il protocollo palliativo per accompagnare la fase terminale di Eluana Englaro ed è presidente del comitato scientifico dell’Associazione "Per Eluana". Il Ministero della Giustizia tedesco l’ha nominato membro della commissione che ha stabilito i principi per una legge sul testamento biologico. Gian Domenico Borasio è cattolico praticante ed è stato per molti anni membro del consiglio scientifico dell’Accademia Cattolica della Baviera.

Da ateo quale sono, pochissime volte mi è accaduto di leggere, così come m’è capitato con Borasio, pagine tanto libere scritte da un cattolico.
“Saper morire” non è un libro filosofico (anche se conclusioni filosofiche se ne possono trarre), non si avventura in percorsi mistici, non attraversa scoscesi sentieri morali, è una panoramica senza cupezza sui problemi fisici, psicologici e giuridici che ogni creatura umana deve affrontare nell’ultimo tratto di vita.
Sconfessa credenze, prima fra tutte che la morte sia dolorosa perché oggi, anche nei casi più difficili, se ben condotte le cure palliative, è possibile renderla sopportabile.
Autorizza tecniche di meditazione (non sono patrimonio esclusivo di culture orientali ma attraversano pure religioni occidentali e anche il mondo laico) non perché così s’allevino i sintomi e men che meno s’arresti il decorso di una malattia, ma perché possono essere in grado di cambiare in meglio il modo in cui le persone vedono la vita e l’infermità.
Osserva polemicamente quanto gli studi universitari e la pratica trascurino d’informare e preparare i medici ad affrontare con i loro pazienti terminali l’ultimo periodo della vita. Eppure a ogni medico (e a ogni paramedico) capiterà d’assistere nel corso della propria carriera professionale a moltissimi di quei casi estremi ed è incredibile quanto siano poco preparati – esclusi pochi reparti specializzati – sul piano non soltanto psicologico.
Ne è una prova la scarsità di articoli e libri sull’argomento scritti da medici rispetto al fiume d’inchiostro sul tema speso da filosofi, bioeticisti, religiosi.
Borasio non trascura nessuno degli argomenti intorno alla fine dell’esistenza, inclusi quelli cosiddetti scomodi quali l’eutanasia e il suicidio assistito ritenendoli strumenti che debbano avere leggi assolutamente chiare, che non si prestino a dubbie interpretazioni com’è accaduto, ad esempio, in Germania (ma lì la cosa ora è in via di soluzione).
Nel libro, a proposito di suicidio assistito, è ricordata anche l’organizzazione svizzera Exit, nome acconcio quant’altri mai, che ha sezione anche in Italia svolgendo una preziosa opera d’informazione tesa a non rendere possibili nuovi, strazianti, casi Englaro.
L'occasione di questa nota mi è propizia per una cosa che volevo scrivere da tempo. Spesso in occasione di persone uscite dal coma risuonano voci esultanti sui media ribadendo critiche ai sostenitori dell'eutanasia visti come mostri, quasi a far credere che quell'essere, fatto un balzo dal letto, filasse alle Olimpiadi. No, non è così. Molti usciti dal coma passano prima di morire anni di gravi sofferenze e mai recuperano per intero tutte le facoltà che rendono la vita degna d’essere vissuta.
Nel concludere questa nota voglio ricordare una storiella zen.
Ha a che fare con l’illuminazione sulla propria vita che, viene detto, spesso accompagna la fine.
“Quando Fa Chang, disteso sulla stuoia, stava per morire, udì uno scoiattolo squittire sul tetto della capanna. Sorridendo, levò il braccio ad indicare il soffitto e a voce forte disse. “E’ questo! Proprio questo! E null’altro!”.

Gian Domenico Borasio
Saper morire
Traduzione di Enrico Passoni
Pagine 208, Euro 16.50
Bollati Boringhieri


Art Kane a Modena


Fra giorni alla Galleria Civica di Modena, inaugura una mostra dedicata a uno dei grandi maestri della fotografia del secolo scorso: lo statunitense Art Kane (nome d'arte di Arthur Kanofsky), 1925 – 1995.
Titolo Art Kane. Visionary, a cura di Jonathan Kane , Holly Anderson, Guido Harari.
Organizzata e prodotta della Galleria modenese e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena in collaborazione con Solares Fondazione delle Arti di Parma e Wall of Sound Gallery di Alba, questa grande retrospettiva dedicata ad Art Kane, a vent'anni dalla sua scomparsa e nel novantesimo anniversario della sua nascita, presenta per la prima volta in Italia un centinaio di fotografie classiche e inedite che hanno contribuito a formare l’immaginario visivo della seconda metà del Novecento.

Art Kane è il leggendario fotografo che alle 10 di un mattino d'agosto del 1958 immortalò per la rivista "Esquire" ben 57 leggende del jazz su un marciapiede della 126ma strada, ad Harlem, ignaro di aver creato l'immagine più significativa della storia del jazz, universalmente nota come "Harlem 1958". Una fotografia che gli è valsa la medaglia d'oro dell'Art Directors Club di New York e così potente da ispirare un libro, un documentario del 1994 che ottenne la nomination all'Oscar ("A Great Day in Harlem"), e più di recente un film di Spielberg, "The Terminal" (2004), con Tom Hanks.
L'obiettivo di Kane si è posato poi altre volte sui grandi della musica, dai Rolling Stones a Bob Dylan, ai Doors, a Janis Joplin, ai Jefferson Airplane, e ancora Frank Zappa, i Cream, Sonny & Cher, Aretha Franklin, Louis Armstrong, Lester Young, creando una serie infinita d’icone, come, una su tutte, quella memorabile del 1968 – qui riprodotta – dei Who avvolti nella bandiera britannica. Ma Kane è stato molto di più: uno, le cui immagini visionarie hanno influito sulla coscienza sociale di più di una generazione e lasciato un segno sulla cultura mondiale.
Ha attraversato gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta come una furia, rivoluzionando la fotografia commerciale, l’immagine di moda, il ritratto di celebrità e il nudo, grazie ad un utilizzo spericolato del grandangolo, di pellicole dai colori ipersaturati e di un umorismo surreale ad alto tasso erotico.

"Penso ad Art Kane come ad un colore acceso, diciamo, come un sole color zucca in mezzo ad un cielo blu. Come il sole, Art fissa il raggio del suo sguardo sul suo soggetto, e quel che vede, lui fotografa, e di solito si tratta di un'interpretazione drammatica della sua personalità". Così diceva Andy Warhol.

Art Kane è stato un illusionista - scrive Guido Harari - il maestro di un impressionismo fotografico che ancora oggi sollecita emozioni e distilla idee. Venezia è sempre in pericolo, i musicisti rock annunciano sempre l’avvento di un qualche Nuovo Mondo, la solitudine nell’era di Internet è ancora più cosmica, i diritti civili vanno rinegoziati ogni santo giorno, il degrado dell’ambiente ci spinge sempre più rapidamente verso l’estinzione, e Kane, con un’attualità stupefacente, proiettava già tutto questo in un mondo di fantasia che pare amplificare la realtà di oggi. In pochi anni ha rivoluzionato la fotografia, scoprendo tecniche nuove e personalizzandone altre per liberarla dal suo presunto "verismo". La fotografia di Kane è energia pura, vera immaginazione al potere: “La realtà per me non è mai all’altezza delle aspettative visive che genera”, ha detto. “Più che registrarla con le mie foto, mi preme condividere il modo in cui sento le cose”.

In coincidenza con l'inaugurazione della mostra, uscirà un nuovo numero della pubblicazione, cartacea e web, di "Civico 103", dedicato stavolta al celebre fotografo americano.
La nuova veste digitale del magazine è sviluppata come web app (civico103.net) con una particolare attenzione al responsive design che rende i contenuti della rivista fruibili e ottimizzati da tutti i dispositivi mobili e non. La versione cartacea è una pubblicazione a diffusione gratuita distribuita presso le sedi espositive dell'istituto modenese, nelle biblioteche, presso gli istituti culturali cittadini, nelle librerie, e nei principali punti informativi della città. Può anche essere scaricata gratuitamente da questo sito.

Ufficio Stampa Galleria civica di Modena: Cristiana Minelli
tel. +39 059 – 20 32 883, galcivmo@comune.modena.it

Art Kane
Galleria civica di Modena
corso Canalgrande 103
Info: +39 059 – 20 32 911 / 20 32 940
fax +39 059 – 20 32 932
Dal 25 giugno al 20 settembre 2015


FUOCOfuochino


Se consultate la voce “fuochino” sul vocabolario on line della Treccani, troverete la seguente dizione: “Nelle miniere e nelle cave, operaio (detto anche brillatore di mine) che provvede all’accensione delle micce o al collegamento dei fili elettrici per far brillare le mine”.
Ecco, ho pensato… sì, anch’io penso, ‘mbè?... ecco il ruolo che ben ‘addice all’artista patafisico Afro Somenzari che nella cava della piccola editrice FUOCOfuochino, da lui fondata, fa scoppiare cariche esplosive che pur pesando pochi grammi (vale a dire in editoria poche pagine) di chiasso ne fanno e, c’è da giurarci, anche di danni al paludato mondo di sussiegosi personaggi che producono pesanti tomi. Sarà che io preferisco i tomini.
Le pubblicazioni di FUOCOfuochino sono tutte di poche parole, sanno che la carta è stanca e non intendono ulteriormente sfiancarla.
Nel catalogo (funestato anche da un mio scritto) testi dello stesso Afro, Lorenza Amadasi, Pupi Avati, Roberto Barbolini, Alberto Casiraghy, Gianni Celati, Paolo Colagrande, Guido Davico Bonino, Brunella Eruli, Ugo Nespolo, Valerio Magrelli, Maurizio Maggiani, Cristiana Minelli, Lamberto Pignotti e tanti altri nomi con presentazioni di Andrea Cortellessa, Ernesto Ferrero, Paolo Nori, Walter Pedullà, Gino Ruozzi, e altre firme ancora.

Finora editi oltre 100 testi, i più recenti sono: “Tifosi teppisti” di Jacopo Felix Narcos, “Tradimento” di Fabio Fumagalli, “Risposta” di Don Backy.


Costruisci il tuo robot

Robot deriva dalla parola ceca "robota" che significa "lavoro pesante". A voler essere pignoli, bisognerebbe pronunciare quel termine con l’accento sulla seconda o: robòt. Lo incontriamo per la prima volta nel dramma in tre atti “R.U.R.” (Rossum's Universal Robots, I robot universali di Rossum) scritto nel 1920 dal ceco Karel Čapek dove, però, appaiono uomini artificiali organici non meccanici, costruiti producendo artificialmente le diverse parti del corpo e assemblandole insieme. In quella piéce sono utilizzati come forza lavoro a basso costo. La parola fu suggerita allo scrittore dal fratello Josef, il quale aveva già affrontato il tema in un suo racconto del 1917, "Opilec" (L'ubriacone), nel quale però aveva usato il termine “automat”, automa.
Anche il termine “robotica” lo incontriamo per la prima volta in letteratura, infatti, lo leggiamo nel racconto di Isaac Asimov intitolato "Bugiardo!" (1941), presente nella sua famosa raccolta “Io, Robot”.
Origini letterarie a parte, il robot ha assunto un ruolo centrale nello scenario tecnologico dei nostri giorni: è presente nelle nostre case, nelle sale operatorie, nelle fabbriche, nell’esplorazione spaziale.
Ci sono anche momenti apparentemente ludici mi riferisco ad esempio al Darpa Challenge (Darpa è la più importante agenzia del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti) che quest’anno al primo dei 25 finalisti – il coreano Team KAIST – ha assegnato, il premio di due milioni di dollari.
Alla competizione partecipava anche “Walkman” robot umanoide italiano; QUI è presentato ed è possibile vederlo in azione.
Riusciranno un giorno i robot ad avere un comportamento simile o, addirittura, uguale a noi umani?
Su questo tema, ben risponde Paolo Gallina, docente di robotica presso l’Università di Trieste, intervistato su questo stesso sito.
Ecco che cosa dice: La maggior degli scienziati che si occupa di intelligenza artificiale è convinta che, prima o poi, la tecnologia riuscirà a produrre una “mente sintetica” in grado di “avvicinarsi” a quella di un uomo in carne e ossa. Per certi versi credo sia possibile. Ma credo anche che i dibattiti che questo tema scatena siano alimentati da una mancata condivisione di definizioni. Quando si afferma che un robot umanoide potrà un domani essere simile a un uomo si dà per scontato cosa sia un uomo. La scienza, al di là degli aspetti biologici, non lo sa ancora.

La casa editrice Editoriale Scienza seguendo una linea di pubblicazioni che la vede sensibile protagonista nell’informazione scientifica per infanzia e adolescenza, ha pubblicato Costruisci il tuo robot un libro, con 61 pezzi allegati studiati per creare tre modellini a carica: Newton, Edison ed Einstein.
Non servono colla né forbici, è sufficiente incastrare i pezzi seguendo le istruzioni e inserire uno dei tre piccoli motori che si trovano nella confezione.
L’autore è Steve Parker che nelle pagine si avvale del disegnatore Owen Davey.

A proposito di Editoriale Scienza, l’Editrice annuncia una nuova collana intitolata “Le scoperte di Bebo e Bice”, dedicata ai bambini in età prescolare. La peculiarità della serie è di rivolgersi a bambini così piccoli proponendo, in ciascun volume, un semplice esperimento legato alla storia narrata. I libri sono firmati da Tecnoscienza.it .
Per promuovere la collana, è stata recentemente lanciata su YouTube un'omonima serie web, composta da un trailer e da due video con esperimenti, dedicati ai libri: “I colori” e “Il galleggiamento”.

Steve Parker
Costruisci il tuo robot
Illustrazioni di Owen Davey
Pagine 32, Euro 19.90
con 61 pezzi allegati
Età: da 8 anni
Editoriale Scienza


Nuove invenzioni e ultime novità


State cercando disperatamente un Mefistofono Bassoparlante e neppure su E-Bay lo trovate? Don’t panic please! Sto per dare soluzione alle vostre angosce.
Quel raro strumento, degno del verme di Roussel che danzando faceva risuonare suoni sulle corde di una cetra, lo trovate in un assortito bazar che ha per insegna “Nuove invenzioni e ultime novità”. L’ha fondato nel 1916 Gaston De Pawlowski che nacque il 14 giugno 1874 a Joigny dans l'Yonne, in Borgogna, e morì nel 1933 a Parigi stroncato da una crisi cardiaca.
De Pawlowski fu appassionato di ciclismo – come il suo connazionale, e contemporaneo, Alfred Jarry – praticando il giornalismo sportivo di quella passione a due ruote e scrivendo nel 1912 un libro che ebbe uno strepitoso successo tanto da conoscere più edizioni: “Viaggio nel paese della quarta dimensione”. Romanzo apparentabile alla fantascienza che trattava un tema, la Quarta Dimensione appunto, che nei primi del Novecento suscitava interessi, dibattiti, perfino liti.

Adesso Stampa Alternativa ha pubblicato un delizioso volume intitolato (come il bazar di cui dicevo in apertura) Nuove invenzioni e ultime novità a cura di Antonio Castronuovo (degno gestore di quel bazar), uno dal palato letterario sopraffino di cui recentemente mi sono occupato in occasione dell’uscita di Bibi-la-Bibiste.
Ecco un esempio delle invenzioni di De Pawlowski che anticipano gli oggetti impossibili di Jacques Carelman.

Dentiera elastica per le famiglie povere: Composta da 32 denti artificiali, la protesi è montata su false gengive di caucciù rosso. Può essere utilizzata in alternanza dai componenti di una stessa famiglia che abbiano bocche di dimensioni diverse. Secondo le esigenze del singolo giorno, le visite da fare, i passi da intraprendere, la protesi passa di bocca in bocca e si adatta perfettamente alle esigenze di ciascuno. Indichiamo inoltre alle persone meno fortunate che non possono permettersi la dentiera prima illustrata, il modello ridotto per famiglie miserabili che comprende solo 6 denti, più che sufficienti per un’alimentazione che, in questi tempi di vita così cara, è bene sia limitata.

Così conclude Castronuovo la sua prefazione: “Nuove invenzioni e ultime novità è uno di quei libri che il tempo ha collocato nella geografia delle opere solitarie e forse anche un po’ stonate rispetto ai gusti di sempre. Non è infatti libro adatto a chi soggiace al richiamo del realismo; lo è invece per chi sa intravedere nella inutilità fantasiosa la maggiore utilità culturale”.

A quel territorio appartengono tanti autori attraverso i secoli, quelli che l'estensore di questa nota più ama, dalla caratteristica che fa dire a Giorgio Manganelli: “La prima qualità che deve avere uno scrittore è di essere inutile”.

Gaston De Pawlowski
Nuove invenzioni e ultime novità
A cura di Antonio Castronuovo
Pagine 208, Euro 13.00
Stampa Alternativa


Creativa Produzione


La Fondazione Ragghianti di Lucca – diretta da Maria Teresa Filieri propone una nuova interessante mostra: Creativa Produzione La Toscana e il design italiano 1950-1990.
I curatori sono Gianni Pettena, Davide Turrini e Mauro Lovi cui si deve anche allestimento e grafica.

Nell’ambito delle iniziative culturali Piccoli Grandi Musei 2015. Toscana ‘900. Musei e Percorsi d’arte promosse dalla Regione Toscana, dall’Ente Cassa di risparmio di Firenze e dalla Consulta delle Fondazioni bancarie toscane, la Fondazione Ragghianti propone, con il sostegno di Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, un’esposizione che focalizza l’attenzione sui rapporti tra cultura del progetto e mondo produttivo in Toscana dagli anni Cinquanta a oggi. Attraversando l’opera di importanti designers italiani e internazionali, la mostra pone l’accento sul ruolo fondamentale delle realtà produttive della regione, rilevandone la capacità nel selezionare e nell’attrarre talenti, soprattutto dal mondo dell’arte e dell’architettura, e nel definire con loro la progettazione e la realizzazione di oggetti e prodotti di uso quotidiano. Ne emerge il ruolo di primo piano della Toscana nella costruzione dell’identità del design italiano.
Il percorso espositivo affronterà molteplici settori di produzione dall’arredo agli oggetti d’uso in porcellana, ceramica, vetro, argento, al design del marmo e presenterà testimonianze grafiche e materiche di aziende come Bitossi, Casigliani, Colle Vilca, Edra, Egizia, Fantacci, Giovannetti, Mancioli, Martinelli Luce, Officina, Pampaloni, Piaggio, Poltronova, Richard Ginori, Sarri, Ultima Edizione e Up & Up.
Un attento sguardo sarà rivolto anche al fenomeno dell’autoproduzione.

Catalogo Edizioni Fondazione Ragghianti, Lucca, 2015.
Saggio introduttivo di Gianni Pettena.

Ufficio Stampa Fondazione Ragghianti:
Elena Fiori, elena.fiori@fondazioneragghianti.it

Creativa Produzione.
La Toscana e il design italiano 1950-1990
Centro Studi sull’arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti
Via San Micheletto 3, Lucca
Info: Tel 0583 – 46 72 05; Fax 0583 – 49 03 25
Dal 13 giugno al 1 novembre 2015
Ingresso gratuito


Teoria dell'andatura


Honoré de Balzac (Tours, 20 maggio 1799 – Parigi, 18 agosto 1850), nasce nell’anno in cui Fouché chiude il Club dei Giacobini: la Rivoluzione è finita.
Nel corso della sua vita vedrà nascere una folla di grandi figure della letteratura e delle arti visive: Poe, Flaubert, Baudelaire, Dostoewskij, Carducci, Cezanne, Verga, Zola, Mallarmé, Verlaine, Huysmans, Gauguin, Pascoli… che dite, può bastare?... direi di sì.
Per uno sguardo alla sua movimentata biografia: CLIC.
Autore prolifico quant’altri mai, Balzac è ricordato per La Commedia umana, un insieme di scritti comprendenti romanzi realistici, fantastici e filosofici, racconti, saggi, studi analitici, e novelle a volte, secondo le edizioni, raggruppate in un solo titolo. L'opera, raccolta per la prima volta in volumi nel 1841, è costituita di 137 libri nei quali s’intrecciano le vicende di vita di ben 2300 personaggi.
Sul letto di morte, Balzac – mentre, secondo una malalingua, la moglie lo tradiva nello stesso edificio – invocava l'aiuto del medico Horace Bianchon, proprio uno di quei 2300 personaggi della sua Comédie humaine.

Della sterminata produzione letteraria di Balzac fa parte Teoria dell’andatura, a cura di Franco Rella mandata nelle librerie dall’editrice Moretti&Vitali.
Quest’acuta operina uscì in cinque puntate, tra il 15 agosto e il 5 settembre del 1833, sulla rivista L’Europe Litteraire.
Riflette sul camminare, su come dalle movenze del corpo sui passi sia possibile ricavare un’immagine interiore del viandante, delle sue caratteristiche psicologiche.
Il tema doveva affascinare assai lo scrittore perché mi sono accorto che lo ritroviamo anche nello incipit di “Splendori e miserie delle cortigiane” dove si legge: “Nel 1824, all'ultimo ballo dell'Opéra, parecchie maschere furono colpite dalla bellezza di un giovane che passeggiava per i corridoi e nel ridotto, con l'aria di chi cerchi una donna trattenuta a casa da circostanze impreviste. Il segreto di quell'andatura, ora indolente ora affrettata, è noto solo alle donne d'età e ad alcuni emeriti perdigiorno”.

Per Balzac “lo sguardo, la voce, il respiro e l’andatura, sono identici; ma poiché non è concesso all’uomo di poter vigilare contemporaneamente su queste quattro manifestazioni diverse e simultanee del suo pensiero, cercate quella che dice la verità: conoscerete l’uomo per intero”.
Per Mariolina Bongiovanni Bertini, riporta Franco Rella, questo testo è da avvicinare alle “pagine più ardue di Peau de chagrin e di Louis Lambert” trattandosi di “un denso intrecciarsi di registri diversi, di una sintesi dissonante e originale di comicità e metafisica, di humour giornalistico e di filosofica gravità”.
Balzac: “Qui io sarò sempre collocato tra il metro dello scienziato e la vertigine del folle”.
Teoria dell’andatura, infatti, fonde analisi sociopsicologica con l’intuizione artistica.
Franco Rella: Gli esempi delle varie andature e dei vari camminatori sono divertenti, ma sul fondo c’è sempre quell’ideale “cupo e tragico” che Hugo aveva individuato nell’opera di Balzac. In ogni azione noi proiettiamo qualcosa che modifica ciò che ci sta intorno, e nell’azione modifichiamo noi stessi, per sottrazione.

Honoré de Balzac
Teoria dell’andatura
A cura di Franco Rella
Pagine 104, Euro14.00
Moretti&Vitali


La tavola di Dio

La più famosa cena dell’antichità in Occidente è quella che vide a tavola Cristo e i suoi commensali fra i quali ce n’era uno notevolmente inaffidabile che si esibiva come Totò Cuffaro detto “vasa vasa”.
Cena che, al riparo da paparazzi all’epoca inesistenti, è stata, però, rivisitata dalla fantasia di moltissimi artisti visivi. Per indicare, ad esempio, una mostra che si può vedere fino al 31 ottobre alle Stelline di Milano, ecco l’elettronica “Inside the Last Supper” un affresco multimediale di Studio Azzurro che fa vivere, comprendere e commentare quel famoso capolavoro leonardesco.
Cena famosa e, purtroppo, dopo le note cronache giudiziarie dei nostri anni, non possiamo definirla cena elegante (per non confonderla con quelle vivacemente animate da igieniste dentali e nipoti di personaggi egiziani), anche se lo fu elegante per la sua solenne sobrietà.
Pensate che il menu sarebbe stato composto di erbe amare, pane azzimo, una salsa chiamata “Charoset”, agnello arrostito, vino.
Come faccio a saperlo? Perché ho letto un libro che di quella riunione enogastronomica finita maluccio, illustra non solo le pietanze servite in quell’occasione, ma un’infinità di altre cose.
Da quale fu l’ora in cui fu consumato quel fatale pasto a chi lo cucinò, da qual era il meteo quella sera fino alla curiosità che stuzzica tanti di noi: chi pagò il conto?
A fornirci queste informazioni è Lauretta Colonnelli in un libro, pubblicato dalle Edizioni Clichy, intitolato La tavola di Dio.

L’autrice Nata a Pitigliano (Grosseto), residente a Roma dal 1969, dopo gli studi classici si è laureata in Filosofia all'Università La Sapienza, dove è stata per due anni assistente di Adriano Magli presso la cattedra di Storia del Teatro. Seguono due anni in Rai come programmista. Dal 1979 giornalista all'Europeo, dal 1992 caporedattore della cultura ad Amica, dal 1996 alla sezione culturale del Corriere della Sera. Pubblicazioni recenti: il saggio su "Gli irripetibili anni '60 a Roma" (ed. Skira, 2011) e il libro "Conosci Roma?" (ed. Clichy, 2013): una passeggiata tra i segreti della Città Eterna raccontati in 450 domande e altrettante risposte.

Il libro è strutturato attraverso moltissime domande – una sorta d’intervista alla sapiente autrice – che riassumono tutte le curiosità possibili intorno a quella cena.
Le risposte, veloci e dense, sono il frutto di ricerche letterarie (dalle sacre Scritture a saggisti d’oggi) e iconiche (da Giotto a Leonardo, da Veronese a Tiziano). Non solo, però, autori classici perché s’indaga anche su come quell’evento è interpretato da autori d’oggi da Marc Chagall ad Andy Warhol.
Da qui tante risposte ad altrettante domande: di quanto sono aumentate le porzioni della sacra cena negli ultimi mille anni? Chi ha dipinto la pagnotta più grande? Perché quasi tutti gli artisti hanno riempito di coltelli la mensa di Gesù? In quale Ultima cena appare il primo tovagliolo della storia dell'arte?
Il volume ha degli apparati ben articolati che guidano il lettore: dall’Indice dei nomi alla cronologia delle opere visive citate, ai riferimenti bibliografici.

“La tavola di Dio”: uno di quei libri raffinati che è un piacere leggere e tenere sui propri scaffali.

Lauretta Colonnelli
La tavola di Dio
Pagine 250, Euro 15,00
Edizioni Clichy


Slangopedia

Nella Treccani, alla voce ‘linguaggi giovanili’, scrive Michele Cortellazzo: "Certamente, condizione essenziale per l’uso del linguaggio giovanile non è solo la posizione anagrafica, ma anche l’appartenenza a un gruppo giovanile, che si realizza nella condivisione, da parte degli appartenenti, dei luoghi di incontro (la scuola, il bar, il muretto) e delle occasioni di aggregazione e socializzazione (la musica, lo sport, gli hobby). La posizione anagrafica va, al giorno d’oggi, intesa in senso esteso: diversi processi di natura personale (ad es., la cosiddetta sindrome di Peter Pan) e sociale (il sempre più tardo inserimento nel mondo del lavoro e, parallelamente, il sempre più tardo affrancamento dalla famiglia d’origine) rallentano il passaggio dall’età giovanile all’età adulta e il singolo rimane, almeno soggettivamente, nella dimensione giovanile anche quando anagraficamente non può più essere considerato tale".

Mi sembra questa precisazione un buon approccio per avvicinare una valorosa pubblicazione di Stampa Alternativa: Slangopedia Dizionario dei gerghi giovanili.
Ne è autrice la giornalista Maria Simonetti. Romana, laureata in Storia Medioevale, ha collaborato nei primi anni ’80 a programmi Rai, da “Mixer” a “Quelli della notte”, in seguito al settimanale ‘Panorama’ e dal 1987 a ‘L’Espresso’ come redattrice di società, cultura e spettacolo.
La storia di Slangopedia Dizionario dei gerghi giovanili parte dal 1988 quando Simonetti scrisse, proprio sull’Espresso, un’inchiesta intitolata: “Parliamoci in under 18”. Successivamente, con lo svilupparsi di Internet le furono richieste idee per allestire il sito web del settimanale e lei realizzò, sfruttando l’interattività del nuovo mezzo, una rubrica nella quale ospitava contributi di nuove parole provenienti da giovani e giovanissimi.
Nel 2001, sul website dell’Espresso nasceva Slangopedia vocabolario di espressioni giovanili, ora in volume.
Scrive l’autrice La particolarità di questo dizionario sta nel fatto che è autocompilato: la scelta delle parole è stata libera da parte dei ragazzi, non indotta o pilotata da università, centri studi, sondaggi o uffici marketing. Parole che dipingono dal vero la vita quotidiana, i sogni, i desideri e le ansie dei giovanissimi di oggi.

Ed ecco sfilare più di 1000 parole dall’A di “Abbrodirsi” (Dormire, rilassarsi, distendersi) alla Z di “Zuccherino” (La pastiglia d’ecstasy), passando, ad esempio, per l’acronimo “CTM” (Cazzi Tuoi Mai, rivolgendosi interrogativamente a qualche impiccione) o attraverso il famoso “Scialla” (Sta sereno – ma non nel nascosto senso del tweet di Renzi a Letta) reso famoso dal film di Francesco Bruni.
Il libro si avvale d’una prefazione di Valerio Magrelli (… a proposito, ricordo ai più distratti di non perdere la goduriosa lettura del suo recente La lingua restaurata), prefazione dalla quale traggo parte del suo brano conclusivo: Se Giuseppe Gioacchino Belli amava paragonare la ricchezza della lingua romana a “un magazzino de dogana”, questa agevole Slangopedia, pur nel suo intento puramente documentario, non potrà che accrescere tale impressione di sgomento, rispetto all’immensità di quei magazzini verbali che assicurano la comunicazione nelle società tecnologizzate […] Chissà, forse al momento dell’uscita di questo testo, alcune fra le parole presenti saranno già scomparse come la luce delle stelle morte, mentre altre si saranno appena fatte strada nei nuovi gerghi “in fieri”. Comunque sia, lunga vita alla lingua, mobile, impura e bastarda.

Maria Simonetti
Slangopedia
Prefazione di Valerio Magrelli
Pagine 144, Euro 14.00
Stampa Alternativa


Canadassimo


Dove va a nascere un irriverente trio canadese ? In un’università che ha un nome da gioco enigmistico: Laval. Laval è, infatti, un palindromo, lo potete leggere non solo da sinistra a destra ma anche viceversa.
Il trio si chiama BGL dalle iniziali dei tre cognomi degli artisti che lo formano dal 1966: Jasmin Bilodeau, Sébastien Giguère, Nicolas Laverdière.
BGL – nella foto, tratta dal loro sito – rappresenta il Canada alla 56ª Biennale di Venezia con Canadassimo una gigantesca installazione immersiva, con il Padiglione, assegnatogli completamente, trasformato da una struttura ad impalcature che si estende anche all’esterno, mentre all’interno è arricchita da una moltitudine di oggetti insoliti.
Nell'ultimo decennio le loro installazioni, sculture e performance hanno ottenuto una particolare attenzione della critica. Attraverso l'uso di una vasta gamma di materiali spesso riciclati: legno, cartongesso, cartone e oggetti di diversa provenienza.
BGL privilegia un approccio sia spiritoso sia critico nei confronti della società consumista.

Marc Mayer direttore della National Gallery of Canada, è il commissario del padiglione canadese; Marie Fraser docente di Storia dell'Arte e Museologia all'Università del Québec a Montréal è la curatrice di “Canadassimo”.
Cosi scrive nel catalogo della 56° Biennale di Venezia.
Più volte definita provocatoria e critica, la pratica artistica del collettivo BGL usa lo humor e la stravaganza per esplorare il mondo degli oggetti e contemporaneamente solleva questioni sociali e politiche correlate alla natura, allo stile di vita moderno, all'economia e al sistema dell’arte.
Insieme alle sculture e alle performance, le gigantesche installazioni del collettivo gettano i visitatori a capofitto in situazioni inaspettate, incoraggiandoli a mettere in discussione il proprio comportamento e a cambiare il modo di osservare la realtà.
Canadassimo propone un percorso inusuale attraverso il Padiglione Canadese che sarà completamente trasformato. Al di sotto dell’impalcatura, che oscura parzialmente la facciata dell’edificio dando l’impressione che l’allestimento della mostra sia ancora in corso, si troverà l’entrata di un dépanneur, il minimarket di quartiere, diffuso in tutto il Quebec, che vende cibo in scatola e prodotti indispensabili di uso domestico. Dietro a questo negozio, tipicamente caotico e consunto, si trova uno spazio abitativo simile a un loft che, pur essendo più organizzato, si presenta chiaramente come la riserva di un entusiasta del riciclo. Accanto sarà collocato quello che il collettivo BGL ha soprannominato “lo studio”, uno spazio gremito di innumerevoli oggetti di tutti i tipi, fra i quali barattoli di latta ammucchiati ricoperti di colate di vernice. Dopo aver camminato attraverso questo bizzarro spazio abitativo/lavorativo, i visitatori si potranno rilassare sulla terrazza con una meravigliosa vista sui Giardini”
.

Canadassimo beneficia del sostegno della Royal Bank of Canada, sponsor ufficiale, di Aimia, sponsor principale, e della National Gallery of Canada Foundation.

Ufficio Stampa: Studio Pozzi Milano ǀ Tel. +39 0276003912
Alessandra Pozzi ǀ Tel. +39 3385965789 email press@alessandrapozzi.com
Anna Chiara Ferrero ǀ Tel .+39 3332180184 email annachiaraferrero@gmail.com


Biennale di Venezia
Padiglione del Canada - Giardini
Canadassimo
Artisti: Collettivo BGL
9 maggio – 22 novembre 2015


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