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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Un mestiere difficile


Oggi qui si parla di traduttrici e traduttori.
Mi suggerisce l’argomento un libro di recente pubblicato da Azimut intitolato Il mestiere di riflettere a cura di Chiara Manfrinato.
E' nata a Palermo, dove si è laureata in Lingue e letterature straniere. Lavora in àmbito editoriale come traduttrice di narrativa dal francese e dall’inglese, editor, correttrice di bozze, lettrice. Si interessa in particolare di esordienti, letteratura postcoloniale e meticcia.
A proposito del libro, dice l’editore Guido Farneti: “Il volume è un’idea di Chiara Manfrinato. Si tratta della prima antologia in Italia in cui a venti traduttori è stato chiesto non di tradurre, ma di creare, di raccontare come hanno vissuto la traduzione di uno dei loro libri”.
Il volume si apre con una sapida introduzione della curatrice e si chiude con una postfazione di Marina Rullo traduttrice e fondatrice di Biblit.

A narrare alcune tra le più singolari, e spesso divertenti, esperienze editoriali, troviamo: Federica Aceto, Susanna Basso, Rossella Bernascone, Emanuela Bonacorsi, Rosaria Contestabile, Federica D’Alessio, Riccardo Duranti, Luca Fusari, Daniele A. Gewurz, Giuseppe Iacobaci, Eva Kampmann, Chiara Marmugi, Anna Mioni, Daniele Petruccioli, Laura Prandino, Anna Rusconi, Lisa Scarpa, Denise Silvestri, Andrea Sirotti, Paola Vallerga, Isabella Zani

Fruttero e Lucentini in “Ferri del mestiere. Manuale involontario di scrittura” (Einaudi) hanno scritto: “Il problema del tradurre è in realtà il problema stesso dello scrivere e il traduttore ne sta al centro, forse ancora più dell’autore. A lui si chiede d’essere al tempo stesso Napoleone e il suo più infimo scudiero, di avere lo sguardo d’aquila dell’uno e la maniacale pignoleria dell’altro. Gli si chiede di dominare non una lingua, ma tutto ciò che sta dietro una lingua, vale a dire un’intera cultura, un intero mondo, un intero modo di vedere il mondo […] Il traduttore è l’ultimo, vero cavaliere errante della letteratura”.

A Chiara Manfrinato ho chiesto: nell’accingersi a tradurre un testo letterario, la prima cosa da ricordare e la prima da dimenticare…

Credo che un traduttore letterario debba dimenticare se stesso: annullarsi è il primo passo per potersi adattare alla voce dell’autore di turno. D’altro canto, credo pure che un traduttore letterario debba ricordare se stesso: le letture macinate e digerite, l’intercalare e i tic linguistici delle persone incontrate nella vita, i colori e i suoni e i sapori e gli odori sperimentati riempiono un’immaginaria valigia dalla quale capiterà inevitabilmente di dovere attingere.

Leggevo tempo fa in un forum su Biblit una domanda che faccio mia, non cito il nome di chi la formulava perché era uno pseudonimo.
“Alcuni ritengono che le traduzioni formino un corpus a parte nella letteratura nazionale. Ma esiste davvero una diversità tra la lingua delle traduzioni e la lingua delle opere scritte direttamente in italiano?”.
Se avessero rivolto a te quella domanda come avresti risposto?

Penso che esistano buone traduzioni la cui lingua è decisamente più bella (e per più bella intendo più curata e anche più viva) di quella di certi romanzi scadenti scritti in italiano. Allo stesso modo, esistono cattive traduzioni o anche semplicemente traduzioni mediocri che, col passare del tempo, hanno influito negativamente sull’italiano, rendendolo piatto, scialbo, innaturale e infarcito di calchi. A mio modo di vedere, il traduttore ha il compito di preservare e, allo stesso tempo, di arricchire la propria lingua, cosa non facile e che richiede enorme consapevolezza e sensibilità.

Per una scheda sul libro: CLIC!

A cura di Chiara Manfrinato
“Il mestiere di riflettere”
Pagine 172, Euro 12:50
Azimut


Il mouse nel museo


Da anni conosco e stimo Luca Melchionna, con la sua preziosa collaborazione ho realizzato servizi e interviste al Mart dove lavora all’Ufficio Stampa.
Poiché con addetti stampa, di enti pubblici e imprese private, sono in contatto quotidiano, assai spesso penso di dire loro, affettuosamente, d’andare a prendere lezioni proprio da Luca, anche se ci sono casi tanto disperati che forse neppure lui accetterebbe.
Insomma un gran professionista della comunicazione questo Luca Melchionna, nato a Bressanone nel 1971.
E’ un giornalista freelance che si occupa d’arte contemporanea e comunicazione sul web. Lavora, come dicevo poco fa, all'Ufficio Stampa del Mart e collabora con riviste, associazioni e gallerie d'arte. Laureato in Storia contemporanea a Bologna, prima di vagare tra web e musei ha lavorato nelle radio e televisioni locali del Trentino Alto Adige.
Allorché ho saputo che nell’àmbito del Festival della Scienza di Genova partecipava ad un convegno su Archivi, biblioteche, musei al tempo del web 2.0 non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di conoscere il suo pensiero al proposito.
Ecco la risposta che mi ha dato.

Il mio contributo è stato in primo luogo teorico. Ho sostenuto che i musei non devono avere paura di cedere maggior controllo dell'esperienza museale agli utenti. Da salvaguardare non c'è l'autorità ma l'autorevolezza. E chi snobba il web 2.0 ne perde, perché delega ad altri il racconto di quello che succede al museo.
Ho poi passato in rassegna i progetti online del Mart, spiegando che l'obiettivo è anche portare fisicamente al museo nuovi utenti raggiunti attraverso le reti sociali.
Come sai, la galassia museale tradizionalmente arranca su questi temi. Ma tra gli interventi presentati al convegno mi va di sottolineare alcune piccole gemme. L’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza “G. Agosti” di Torino ha sviluppato un sistema archivistico che stimola l’intervento degli utenti per correggere e integrare le schede biografiche dei partigiani. L’Istituto saggiamente mantiene un alto livello di controllo sui contenuti generati dagli utenti, e chiede anche documentazione cartacea. Inoltre, dissemina Google Maps di punti di interesse con narrazioni sulla Torino antifascista; i testi sono stati ottimizzati per un lettore giovane e frettoloso.
Di taglio didattico anche l’ottimo lavoro della Biblioteca Sala Borsa di Bologna, che lascia libertà di commento ai propri utenti, e che stimola comportamenti virtuosi (il rispetto per l’integrità dei libri), chiedendo loro di scrivere racconti sul tema della sottolineatura selvaggia.
Velleitaria e arrogante (sembrava di essere nel ’78) la tirata sulla Web Art del giovane (almeno all’anagrafe) collettivo EVES, che sentenzia “La comunicazione oggi ricopre un ruolo commerciale e quindi privo di contenuto morale e messaggio”. Mah...

Rabbrividisco alle parole di quel giovanotto, e al “Mah” di Luca Melchionna, aggiungo il mio “Mah!” con il punto esclamativo grosso quanto un asso di bastoni.


Dida


Niente equivoci, non sto per dire del giocatore milanista Dida, pseudonimo di Nelson de Jesus Silva, valoroso estremo difensore, ma di un libro intitolato proprio così Dida con il sottotitolo chiarificatore La didascalia nel testo drammatico; è stampato da Infinito Edizioni.
Lo ha scritto Emina Gegić autrice multimediale originaria della Bosnia Erzegovina, è nata nel 1976 a Goražde. Si è laureata presso l’Accademia delle Arti Sceniche di Sarajevo. Dal 2006 è guest docent per la sceneggiatura presso il Sae Institute di Milano.
La Gegić, con “Dida”, propone un saggio originale su di un aspetto poco studiato del testo teatrale e non solo teatrale: la didascalia. Quel breve (ma talvolta non è tale, si pensi a “Il martirio di S. Sebastiano” di D'Annunzio) scritto in corsivo o maiuscolo che trasmette agli interpreti la volontà dell’autore, la sua visione dello svolgimento dell’azione e dell’interpretazione della stessa.
Della didascalia sono indagate le origini avvenute con l’invenzione della stampa, se n’analizza il percorso storico, gli effetti positivi (e negativi) sugli attori e sul regista, per affrontare nell’ultimo capitolo la nuova funzione che la didascalia assume nello spettacolo multimediale.
Per quanto mi riguarda, nella mia carriera registica assai spesso ho dovuto evitare di seguire le didascalie così come quando in un testo radiofonico mi capitò di leggere L’Inquisitore: cupo, terribile. Il suo tono è lievemente inquisitorio.
Ci sono autori che tengono molto alle loro didascalie (Ionesco, come ricorda la Gegić), ma nello spettacolo, di solito, le didascalie sono viste dal regista più come un impaccio che come un’indicazione. Del resto, spesso accade che la messa in scena sia ambientata in epoca diversa rispetto al testo, con intenzioni ancora diverse, interventi di strumenti tecnologici che portano le emozioni interpretative dalla sensorialità all’interiorità e, quindi, escludono talvolta quasi del tutto (si pensi alla Fura dels Baus o ai nostrani Motus), le originarie ambientazioni e intonazioni.
Diversamente accade nel teatro di tradizione, dove spesso la didascalia è, specie dagli interpreti di più antica scuola, rispettata alla pari delle battute dei personaggi.
Dida ha il merito di studiare quella forma ritenuta ancillare nella scrittura di un copione approfondendone forza e limiti in uno studio che mette insieme semantica del testo e pratica scenica.

Per una scheda sul libro: QUI.

Emina Gegić
“Dida”
Prefazioni: Maurizio Schmidt, Darko Lukić
Curatrice versione italiana: Elvira Mujčić
Pagine 123, Euro 12:00
Infinito Edizioni


Comunicare spettacolo (1)


In oltre trent’anni di lavoro nello spettacolo, solo poche volte m’è capitato di partecipare o d’assistere a produzioni che nel loro budget di partenza includevano l’ufficio stampa.
Nella maggior parte dei casi è una voce che s’aggiunge quando la trasmissione è quasi in onda, o gli attori stanno per andare in scena oppure il film sta per uscire (ammesso che esca) in distribuzione.
A chiacchiere quel ruolo è detto importante (come lo è), nei fatti la cosa non trova riscontro. C’è anche di peggio, spesso càpita di vedere in quel ruolo persone del tutto impreparate a sostenerlo. Ecco perché pervengono nelle redazioni comunicati degni d’essere recitati dai Fratelli De Rege.
Eppure alle origini del press agent troviamo un uomo che proprio di spettacolo si occupava: Edward Bernays.
C’è pure chi (Bruno Ballardini, “Gesù lava più bianco”, Minimum Fax), con articolate e dotte ragioni, riconosce in Paolo di Tarso il primo stratega della comunicazione e primo addetto stampa e – visto che la stampa non c’era ancora – ricorreva alla persuasione orale. Nell’epoca moderna, però, è Bernays che inventa il mestiere di press agent occupandosi dei Balletti Russi di Diaghilev, Enrico Caruso, delle Ziegfeld Follies.
Lo s’apprende sfogliando un prezioso libro sulla comunicazione che pubblicato una prima volta nel 2005, ha ottenuto molto successo e quest’anno conosce una nuova edizione.
Si tratta di Comunicare spettacolo Teatro, musica, danza, cinema. Tecniche e strategie per l’ufficio stampa; editore Franco Angeli.
N’è autore Roberto Canziani; giornalista, critico teatrale al quotidiano di Trieste “Il Piccolo”, insegna nel corso di laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo dell'Università di Udine.
Il volume s’avvale anche di contributi scritti da noti professionisti della comunicazione: Anna Bandettini, Silvia Bergero, Roberto Campagnano, Gianfranco Capitta, Simona Carlucci, Antonella Chini, Lia de' Stefani, Fabrizia Maggi, Francesca Pedroni, Barbara Regondi, Flavia Schiavi, Ugo Volli.
Ecco un volume che farebbero bene a comprare i molti che vogliono misurarsi nell'area della comunicazione e, in particolare, di quella del campo dello spettacolo, ma a mio avviso, risulta utile pure a chi vuole occuparsi di produzioni editoriali o riguardanti le arti visive.

Segue una breve conversazione con l’autore


Comunicare spettacolo (2)


A Roberto Canziani ho chiesto: a parole, molti s’affannano a sostenere l’importanza dell’Ufficio Stampa, ma alla prova dei fatti, a me pare, che pochissimi abbiano capito il ruolo strategico che ha un ufficio stampa. Perché succede? Colpa della committenza? Mancanza di scuole ad hoc? Sostanziale, anche se inconfessata, insensibilità al problema della comunicazione?

La sensibilità comune percepisce la prosa, il teatro d’innovazione, lo spettacolo lirico, la musica colta eseguita dal vivo, eccetera, come espressioni d’arte e quindi forme della cultura. Pochi spettatori sono consapevoli del versante mercantile legato a queste attività e, a parte qualche considerazione sul prezzo del biglietto, è raro che il pubblico rifletta sui costi economici di progetti e iniziative culturali. Altrettanto fanno gli artisti, per i quali esprimersi è in primo luogo un’esigenza individuale o una necessità, alla quale far fronte reperendo (faticosamente) risorse, cioè denari. Non succede spesso che artisti e pubblico si pongano il problema dell’interdipendenza tra arti e mercato (compito che delegano a organizzatori e agenti) e siano capaci di mettere a fuoco ciò che agisce come mediatore tra i due, cioè la comunicazione. Ma per esistere, dal punto di vista economico, lo spettacolo dal vivo ha bisogno di essere ‘intensamente’ comunicato, poiché da solo (per le limitazioni spazio-temporali inerenti alle arti dal vivo) non riuscirebbe mai a far quadrare i bilanci. Ecco definito il ruolo strategico delle attività di comunicazione, e l’orizzonte su cui va collocato il lavoro dell’Ufficio Stampa.

I nuovi media che cosa hanno cambiato nelle tecniche di promozione?

Parlavo prima di Ufficio Stampa, ma Ufficio Media sembra oggi una definizione più pertinente dal momento che i canali si sono moltiplicatati (radio, televisioni, e ora free press, internet, editoria digitale) e tendono a convergere. Vedi il recente e inedito affiatamento di cellulari e web, che è destinato a modificare (come ha già fatto la telefonia cellulare da sola) i nostri comportamenti di fruizione dell’informazione e dell’intrattenimento.

Quando nelle produzioni non ci sono nomi noti, qual è oggi in Italia la cosa più difficile da promuovere: la musica leggera? La sinfonica? La lirica? Il teatro? Il cinema? Insomma, esiste, a tuo avviso, un genere che le redazioni radiotv, della carta stampata, del web, accettano meno volentieri oppure no?

Non è questione di generi, ma di ‘notiziabilità’, cioè del valore che un evento ha di interessare e coinvolgere i lettori. E di far diventare ‘spettacolare’, la notizia stessa di ‘spettacolo’. A priori, un personaggio celebre ha un alto indice di notiziabilità, a prescindere dal settore o dal genere. Al contrario, la mancanza di un nome riconoscibile sposta irrimediabilmente verso il basso quell’indice. E allora, che si tratti di cinema (magari ben fatto) o coreografia (che sconta un pubblico numericamente ridotto), la promozione diventa più difficile.

Per una scheda sul libro: QUI.

Roberto Canziani
“Comunicare spettacolo”
Pagine 214, Euro 19:50
Franco Angeli


Una stella s'avvicina


Se non ha ulteriopri impegni con la mostra romana (Museo Andersen) di Domenico Mangano, se non viene rapita da focosi alieni, se non trova ingorghi sulle rotte spaziali, Teresa Macrì fra pochi giorni giungerà sull’Enterprise nella taverna di cui, secondo alcuni, sono il gestore e secondo altri il tenutario.
Verrà a dirci del suo più recente libro pubblicato da Meltemi – In the Mood for Love – ma parleremo di tante altre cose e di come la Divina vede l’universo della nuova espressività.
Tra le sue pubblicazioni, ricordo ai più distratti: Il corpo postorganico (1996, nuova ed. 2006), Cinemacchine del desiderio (1998) entrambi con Costa & Nolan; Postculture (2002) con Meltemi.
Ecco com’è presentata questa sua recente fatica.

Quanta pittura aleggia nei frames di “In the Mood for Love”, il cult-movie di Wong Kar-Wai? Quanto cinema passa nelle opere di Douglas Gordon, quanta visionarietà nei film di Harmony Korine e Terrence Malick, quanta pop-music risignifica la ricerca identitaria di Phil Collins e Martin Creed? Quanto scarto politico sottendono i re-nactement di Jeremy Deller e Rod Dickinson?
Questo libro affronta, in modo inedito, il legame tra arte e pop culture attraverso l’analisi di artisti e registi tra i più significativi degl’ultimi anni.
Riplasmata nei reality show, abusata nei pulp movie, spettacolarizzata nelle mostre, rinegoziata nella rete, l’immagine diasporica postmoderna non fa che seguire l’erraticità dell’esistente. Passando dal paradigmatico film “Marie Antoinette” di Sofia Coppola alla sensazionale opera “The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living” di Damien Hirst, dalla polemica installazione “La Nona Ora” di Maurizio Cattelan alla satirica sit-com “South Park”, dal situazionismo di “The World Won’t Listen” di Phil Collins al grunge di Kurt Cobain, il volume si configura come una sorta di indagine transmediale, una collisione di arte, musica, cinema, clip, reality, video, favola, sport, animazione, disegno, video sharing, social broadcast, tecnologia, esperienze underground e entertainment.

Mi pare che ce ne sia abbastanza per incuriosire perfino i meno curiosi.
E poi, guest star, c’è l’autrice… prossimamente su questo schermo.

Teresa Macrì
“In the Mood for Love”
Pagine 232, Euro 20:00
Meltemi


It is difficult


Ogni tanto da qualche angolo si leva un lamento circa la scomparsa dell’arte impegnata sul piano politico. Chi ne lagna l’assenza, forse, la ricerca nelle vetuste forme derivate dal realismo socialista di un tempo. Per fortuna, quelle cose non si fanno più e chi ancora le pratica può perfino incuriosire qualcuno, ma sarà guardato probabilmente con lo stesso sguardo curioso con cui si guarda un fossile.
L’arte impegnata esiste oggi con nuove forme.
Che forse il graffitismo nato nelle aree sociali disagiate nelle metropoli americane non era (ed è) arte di protesta? E che dire di vasti territori d’arte africana contemporanea e dei tanti dissidenti provenienti dalla Cina e d’altri paesi?
No, quell’arte esiste oggi. Usa nuovi strumenti, propone percorsi di raffigurazione che hanno scansioni febbrili come il nostro tempo.
Ad esempio, uno di questi artisti dalla maiuscola figura è Alfredo Jaar che in questi giorni è possibile vedere in una mostra a Milano – titolo: It is difficult – dalla duplice dislocazione: Spazio Oberdan e Hangar Bicocca.
Allo Spazio Oberdan protagonista è l’Africa mentre all’Hangar Bicocca sono esposte grandi installazioni.
Nato a Santiago del Cile nel 1956, dove ha compiuto studi d’architettura e di regia cinematografica, Jaar si è trasferito a New York nella metà degli anni ’80, e lì ancora lavora.
Le sue opere sono state esposte in alcuni tra i più importanti musei d’arte contemporanea internazionali e all’interno di grandi eventi espositivi come le Biennali di Parigi (1982), Venezia (1986), São Paulo (1987), Johannesburg, Sydney (1990), Istanbul e Kwangju (1995), Documenta 8 (1987) e Documenta 11 (2002) di Kassel.
E’ scritto acutamente nella presentazione della mostra milanese: Jaar crede in una correlazione tra etica ed estetica, attribuisce fondamentale importanza a un ruolo attivo e socialmente responsabile della cultura e insiste sulla necessità di ribadire, attraverso l'energia creativa dell'arte, posizioni etiche, anche fortemente critiche, di fronte a temi difficili e a fatti gravi come ingiustizie, genocidi, emergenze umanitarie.
Nelle sue opere, sempre improntate a estrema perfezione formale, adotta linguaggi e strumenti diversi, dalla scultura all'installazione, dal video alla fotografia, al light box fino ad opere di dimensioni ambientali
.

Curatori: Gabi Scardi e Bartolomeo Pietromarchi.
Il sito web dell’artista: QUI.
Catalogo edito da Corraini dove oltre ai curatori si trovano interventi di Paul Gilroy e Paolo Fabbri; schede a cura di Nicole Schweizer.

Per i redattori della carta stampata, delle radiotv, del web, l’Ufficio Stampa è guidato da Lucia Crespi: lucia@luciacrespi.it

Alfredo Jaar
“It is difficult”
Spazio Oberdan e Hangar Bicocca
Milano
Fino all’11 gennaio 2009


Una storia del libro


Una decina d’anni fa uscì un libro di Klaas Huizing intitolato “Il mangialibri” in cui agiva un parroco del ‘700, Johann Georg Tinius, realmente esistito, appassionato di libri al punto d’arrivare alla rapina e all’omicidio per saziare la sua sete di volumi. Quando fu arrestato ne aveva raccolti ben 65mila.
Non so (o non ricordo) chi sia stato l’avvocato che difese Tinius, ma se quel parroco m’avesse chiesto consiglio non avrei avuto esitazioni, gli avrei consigliato Flaminio Gualdoni (che avvocato non è, fra poco le sue note biografiche), ma è tanto appassionato della carta stampata da capire e ben difendere quel bibliomaniaco.
Tanta fiducia in Gualdoni la ricavo anche da un suo lavoro che ho appena finito di leggere: Una storia del libro Dalla pergamena a Ambroise Vollard.
Lettura emozionante perché la storia del libro è narrata come la storia di un essere vivente seguito da prima della nascita perché “la vicenda del libro ha inizio prima della carta”.
Questa creatura che in un’immaginaria ecografia prenatale s’annuncia come forma lignea tanto che “il nome del libro, biblion in greco e liber in latino, portano entro sé il significato primo di corteccia d’albero: ugualmente l’ideogramma cinese indicante il libro lo schematizza come tavoletta lignea o di bambù”.
Il libro poi nasce, cresce, e Gualdoni ci fa assistere a tutte le sue varie età ciascuna con i suoi vizi e le sue virtù con un attraversamento dotto (sterminato l’indice dei nomi) e appassionato che mai conosce pause, mai s’abbandona a pesantezze accademiche
Insomma, una lettura imperdibile al termine della quale ho avuto la sensazione di vedere la mappa di un labirinto raffigurata in un ologramma.
Amo i libri, naturalmente. Ma se qualcuno volesse regalarmi il libro che più mi piacerebbe avere è quello che nel 1995 fu esposto al Victoria & Albert Museum in una mostra dedicata appunto al libro, alla sua storia e al suo futuro; è di due artisti contemporanei – William Gibson e Tennis Ausbaugh – il cui testo su dischetto si cancella per sempre man mano che si legge.

Segue ora una breve conversazione con Flaminio Gualdoni.


Flaminio Gualdoni


Insegna Storia dell’arte antica all’Accademia di Brera. Ha diretto i musei di Modena, di Varese e la Fondazione Arnaldo Pomodoro a Milano. Dirige le riviste FMR e ‘La rivista bianca FMR’. Collabora alle pagine culturali del “Corriere della Sera”. Per le sue pubblicazioni: QUI.

A Flaminio Gualdoni (in foto) ho chiesto: dia una sua definizione del bibliofilo…

Flaminio GualdoniUn malato, affetto da una patologia meravigliosa, inestirpabile, e sicuramente non dannosa per la salute: anche se per il portafogli… Come ama ripetere il mio amico Ugo Nespolo, bibliofilo feroce, a drogarsi si spenderebbe meno.

Nella storia del libro, il passaggio dal ‘volumen’ al ‘codex’, dalla lettura ad alta voce a quella silenziosa, che cosa ha significato?

Una delle conseguenze, secondo me, cruciali nella nostra storia: un segno forte del’affermarsi dell’individuo sul senso comunitario, il prevalere della visività della parola sulla sua sonorità (il che ci ha “costretto” a inventare la grafica editoriale), il trascolorare dell’oralità nella cultura alta in favore dell’auctoritas della parola scritta, il rapporto di libera scelta tra lettore e autore. Elementi, tutti, che hanno avuto ripercussioni fondanti sul modo stesso di pensare l’individuo, la libertà, la cultura.

Perché ha scelto – come anche nel sottotitolo è precisato – di finire il libro con Vollard e la sua epoca?

Perché avendo scelto di dare uno spazio importante alla dimensione estetica del libro, alla sua qualità di opera delle arti (dalla tipografia alla legatura all’illustrazione), Vollard rappresenta la faglia a partire dalla quale il destino del libro si presenta irrevocabilmente divaricato: da un lato il libro da leggere e basta, dall’altro il libro da leggere, sì, ma anche da toccare, carezzare, contemplare, odorare. Gli ultimi decenni del Novecento raccontano due storie, non una. Era meglio, a mio avviso, arrestarsi a quella soglia.

Le recenti tecnologie sono impegnate a produrre nuove forme di libro, che cosa cambierà nel libro? Che cosa cambierà per il lettore?

Appartengo alla schiera dei “non-apocalittici”: tutto ciò che le nuove tecnologie apportano, a partire dall’informatica e dal web, aggiunge molto al leggere ma non sottrae nulla all’identità storica del libro. E poi, come ama ripetere Eco, a letto o in spiaggia non ci sono alternative…

Flaminio Guardoni
“Una storia del libro”
Pagine 143 con 96 tavole fuori testo
Euro 25:00
Skira


Le Aziende In-Visibili (1)


L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l' inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.

Sono parole di Italo Calvino (1923 – 1985) che si trovano nel suo libro del 1972 Le città invisibili.
Su quell’opera, Marco Minghetti ha ideato una complessa operazione metaletteraria pubblicata dall'l’editore Schweiller; titolo: Le Aziende In-Visibili.
Ecco in breve di che cosa si tratta.
99 nomi dell’arte, della cultura e del mondo imprenditoriale, sono stati invitati a confrontarsi con le 55 Città Invisibili di Italo Calvino. La sfida: racchiudere in un breve apologo (ciascuno di 3.000 battute circa), la rivisitazione di una delle Città Invisibili, vissuta da ogni autore attraverso la propria conoscenza umana e professionale, percorrendo le strade di una ricerca narrativa individuale e collettiva, varcando, grazie alla forza dell’analogia, i confini del tradizionale modo di guardare al mondo delle aziende. Un’occasione (funestata anche da un mio racconto) per approfondire la visione umanistica di cosa oggi significa fare impresa, come favorire l’innovazione e la creatività. Ma che soprattutto utilizza la metafora del mondo aziendale per parlare della nostra contemporaneità.
Il volume s’avvale di un testo e 190 immagini di Luigi Serafini.
Il libro sarà presentato alla Triennale di Milano martedì 21 ottobre alle 18:00.

Segue un incontro con Marco Minghetti


Le Aziende In-Visibili (2)


Da vent’anni manager di una delle più grandi aziende italiane, Marco Minghetti è il Fondatore dello Humanistic Management.
Autore di numerosi saggi ed articoli su questo tema, è Titolare della Cattedra di Humanistic Management creata presso l’Università di Pavia.
Conduce il blog Le Aziende In-Visibili, per conto di Nòva24, il settimanale dedicato all’Innovazione e alla Creatività de Il Sole 24 Ore.

A lui ho chiesto: che cosa ti ha spinto a ideare quest’operazione? E perché hai pensato proprio a Calvino e alle sue città invisibili?

L’operazione si inquadra in una riflessione metadisciplinare sviluppatasi inizialmente intorno alle riviste «Hamlet» (da me fondata nel marzo 1997 e diretta fino al luglio 2003) descritta in termini teorici generali nel ‘Manifesto dello Humanistic Management’ (Etas, 2004); approfondita nei volumi ‘L’Impresa shakespeariana’ (Etas, 2002, illustrato da Milo Manara), e ‘Nulla due volte’ (Scheiwiller, 2006), che ho scritto in collaborazione con il Premio Nobel per la Letteratura Wislawa Szymborska. Ho chiamato l’approccio messo a punto in questo percorso “humanistic management”: una apertura al nuovo che guarda alle possibilità dell’Information & Communication Technology coniugate a discipline che solo da qualche tempo hanno cominciato ad essere utilizzate in contesti imprenditoriali – la letteratura, la filosofia, l’antropologia, la drammaturgia, la cinematografia (per approfondimenti: www.humanisticmanagement.it . “Dalla poesia all’apprendimento”: così è sintetizzata la questione nella controcopertina del ‘Manifesto’.
Per portare avanti il discorso, dopo Shakespeare e Szymborska cercavo un riferimento altrettanto “alto” e al tempo stesso più vicino alla sensibilità comune. Calvino, di cui tutti a scuola abbiamo letto qualche pagina e che al tempo stesso è uno dei pochi autori italiani apprezzati all’estero, mi è parsa una scelta ottimale. In particolare la traduzione delle Città Invisibili in “aziende invisibili” mi è sembrata subito perfetta per il progetto che volevo realizzare
.

Questo tuo progetto intende andare anche oltre la letteratura investendo altre arti.
Perché questo desiderio di nuovi codici? E a quali altri approdi pensi?

In sintesi diciamo questo: è da trent’anni che con Lyotard tutti affermiamo che le grandi narrazioni tradizionali (ivi compresa quella che fa capo al paradigma del romanzo ottocentesco) non sono più adatte a descrivere la complessità del mondo contemporaneo, ma di fatto questa condivisione teorica non si è tradotta in pratiche narrative veramente nuove, almeno per quanto riguarda i due versanti che più mi interessano, quello letterario e quello manageriale. L’idea da cui sono partito era dunque quella di realizzare una nuova modalità di scrittura mutante che andasse oltre le barriere e le divisioni classiche del sapere.
Ora, il modo più ovvio e radicale di riprodurre la poliedrica virtualità dei punti di vista con cui si può leggere il reale è fare scrivere insieme un numero il più possibile elevato di persone, provenienti da campi disciplinari e da esperienze eterogenee, facendole interagire come se fossero i neuroni di uno stesso cervello, creando sinapsi creative al servizio di una opera finale collettiva, interconnessa e condivisa, dall’identità molteplice, certo, ma al tempo stesso unica e coerente.
Come ha ben messo in luce il recente libro Wikinomics, il concetto di ‘mushup’, di contaminazione, trasformazione e trasferimento fra conoscenze, discipline e prodotti artistici o di altro tipo, è essenziale per lo sviluppo della conoscenza e della innovazione nella nostra epoca neo-alessandrina. Sotto questo aspetto assai significativa è la presenza di 190 immagini di Luigi Serafini (il grande artista italiano scoperto proprio da Calvino) che commentano il testo, che è divenuto così un “romanzo a colori”.

In foto l’immagine ideata da Serafini per la copertina del libro

In una battuta, l’idea è stata quella di scrivere un romanzo mushup che possa essere a sua volta riscritto attraverso altri linguaggi, a partire da quello dei blog e dei video. Il prossimo passo infatti potrebbe essere la creazione di una web opera in cui i 128 episodi del romanzo si traducano in altrettanti videoclip da diffondere in Internet. Un primo video è già stato realizzato dai ragazzi dell’Accademia dell’Immagine di L’Aquila ed è visibile QUI.

Marco Minghetti
& Living Mutants Society
“Le aziende In-Visibili”
Pagine 429; Euro 29
Scheiwiller


ValenzAlchemica


La Fondazione Teatro Regionale Alessandrino è un complesso di produzione culturale, un sistema di teatri che dedicano particolare attenzione alla drammaturgia contemporanea, al rinnovamento della scrittura scenica e dei linguaggi artistici specie a quelli che vedono protagonisti autori e interpreti del territorio.
N’è testimonianza anche questa rassegna, chiamata ValenzAlchemica, arrivata alla sua terza edizione, e che ha non a caso il sottotitolo Festival teatrale del Genius Loci.
Gabriele VacisGabriele Vacis, uno dei nomi prestigiosi della nuova scena italiana, guida questa rassegna.

Il nome della città di Valenza dove, al Teatro Sociale, vanno in scena gli spettacoli, ha ispirato un indovinato parallelo con l’alchimia così spiegato: La valenza caratterizza le possibilità di combinazione di un elemento, il numero di legami che un atomo forma con altri atomi. L'alchimia, antica pratica protoscientifica, combinava elementi di chimica, fisica, astrologia, arte, semiotica, metallurgia, medicina, misticismo nell'alveo di una eclettica "arte tramutatoria". Valenza Alchemica coniuga teatro, musica, danza, letteratura, design, scienze, attraverso la trasformazione, il gioco e la combinazione delle arti.

La terza edizione di ValenzAlchemica presenterà in ordine di calendario spettacoli di Jurij Ferrini. Simona Barbero. Laura Bombonato.
Jurij Ferrini sarà in scena con una sua visione del MacBeth di Shakespeare; Simona Barbero la vedremo in First Life; Laura Bombonato proporrà Le vieux juif.

“ValenzAlchemica”
Teatro Regionale Alessandrino
Da oggi al 31 ottobre 2008


Un film di 30 secondi


L’editore Franco Angeli ha mandato in libreria Spot, un film in 30 secondi Come nasce e si produce la pubblicità televisiva.
Libro che illumina passo passo, con grande chiarezza espositiva, dalla prima riunione fino alla proiezione sugli schermi il percorso che compie l’idea pubblicitaria per raggiungere il pubblico. Percorso che coinvolge plurali momenti tecnici e professionalità, dal management al modello produttivo, alla realizzazione artistica.
L’autore è Massimo Carpegna regista e musicista, titolare della casa di produzione Movie Industrial Film Production; docente di “Filmica Industriale” presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione e dell’Economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia.
Ha detto di recente Carpegna: “In questo mio libro ho cercato, in maniera sintetica, di raccontare il percorso delle pubblicità televisive. Il taglio è manualistico, ma non è un testo solo per addetti ai lavori“.
La lettura, infatti, può interessare – aldilà d’ogni benvenuta curiosità per tutti i mestieri – anche chi, senza volere diventare regista o produttore di spot, intende studiare uno dei fenomeni più rilevanti dell’universo mediatico che ci circonda, con i suoi meccanismi tecnici e sociali.
Il volume s’avvale d’interventi, nell’ordine d’apparizione, di Paola Vezzani. Gisella Cenni. Benedetta Melli. Giorgio Giusti. Vittorio Grilli.

A Massimo Carpegna ho chiesto: da tempo, in tv o in rassegne estive, s'assiste a maratone di proiezioni consistenti in spot pubblicitari.
Aldilà della più o meno perniciosa nostalgia, la pubblicità è in grado di restituirci la cipria del tempo? Quale il valore della sua testimonianza?

La pubblicità televisiva è figlia della settima arte, il cinema, e persegue l’obiettivo di orientare le scelte d’acquisto del consumatore; come tale è la migliore testimone dei costumi, delle tendenze, dei valori del tempo in cui si attiva, che racconta e condiziona. Guardate gli spot inseriti nelle trasmissioni Rai di Ettore Bernabei: rassicuranti, educativi, informativi, castigati, com’era la rete televisiva pubblica sotto la sua guida. Oggi le direttrici sono diverse, come diverso è il nostro tempo. E diverso è pure il rapporto tra “contenitore” e pubblicità, dove il secondo, ormai, condiziona il primo e non il contrario.

Un guru della pubblicità qual è Bob Isherwood, pur apprezzando gli autori dei nostri spot, vede marcati limiti negli esiti perché, a suo avviso, troppo local e poco global, avvalendosi cioè di riferimenti, battute, codici tutti interni al costume italiano.
Sei d’accordo con questa critica?

Sono perfettamente d’accordo. Questo è anche il difetto, salvo rarissimi casi, del nostro cinema, che non vende all’estero come quello di altri Paesi. Le “commedie all’italiana” pubblicitarie, tanto per citare un esempio, con calciatori, ex miss Italia, cantanti/fantasisti e monumenti del quiz televisivo, pur se pregevoli e divertenti, sono essenzialmente “local” ed affatto “global”.

Kevin Roberts, a Cambridge dove insegna, sostiene che i marchi sono in crisi, il brand muore, quello che conta sono gli stili di vita.
Il brand era costruito sul concetto di superiorità: macchina più veloce, telefonino più leggero, lana più morbida, eccetera. Ora, è il momento del “lovemark” fatto di tre componenti: mistero, sensualità, intimità.
Fin qui Roberts. Su questo tema vorrei che tu dicessi qualcosa

È una tesi che nasce da un’analisi oggettiva: la difficoltà del marketing in un mondo in cui le performance di prodotto sono ormai date per scontate e dove prodotti molto economici competono alla pari con altri “storicizzati” ma di prezzo più elevato. Una strategia che ricatturi periodicamente la nostra attenzione, stimoli la curiosità con approcci multisensoriali ed in strettissima relazione con le aspirazioni personali è, a mio parere, efficace, perchè suggestiva di una lealtà alla marca aldilà della ragione e sovrastante il rumore di fondo della comunicazione di massa.

Per una scheda sul libro e l’Indice: CLIC!

Massimo Carpegna
“Spot, un film di 30 secondi”
Pagine 256, Euro 27:00
Franco Angeli


Su e giù con Amy


Amy è okay. Amy è una stronza. Amy è grassa. Amy è magra. Amy è fine. Amy è rozza.
Amy è brutta. Amy è bella. Amy è dozzinale. Amy è elegante. Amy è svelta. Amy è lenta…
Quante Amy esistono in Amy Winehouse da me molto amata?
Nata a Londra nel 1983, ha vinto cinque Grammy (di grammi senza la ipsilon, non ne parliamo).
Ha esordito nel 2003 con l’album “Frank” seguito tre anni dopo da “Back to Black” che, trascinato dal singolo Rehab, ha venduto più di quattro milioni di copie.
Il suo sito web: QUI.

A lei è dedicato Su e giù con Amy Winehouse – pubblicato da Kowalski – n’è autore Peter Fruit, per chi ci abbocca.
Il libro è scritto bene dall’autore col nome fantasiosamente ortofrutticolo, nello stile di Lester Bangs, da ‘gonzo journalist’ – un tipo cioè che alla cronaca resa creativamente v’aggiunge proprie febbrili invenzioni, e scarti di memoria. Godibile, perché asseconda con la scrittura il ritmo di tutto un ambiente teso all’anfetaminica ricerca del successo.
La fortuna della Winehouse discende dall’incontro (2002) con Simon Fuller, produttore di Annie Lennox, delle Spice Girls e di altri nomi famosi. Da allora nasce con Amy un personaggio che vede associarsi all’indubbio talento vocale un rilievo mediatico dovuto in parte ad una sapiente regìa promozionale e molto ai tanti tumultuosi episodi (arresti, risse, ricoveri in clinica per disintossicazioni) di cui la cantante s’è resa protagonista.
Il volume segue ascese e cadute di questa rock star che si trascina con lacerata indolenza fra soul, blues, e jazz. E che, inoltre, è un’esemplificazione di quanto lo show business sia capace nel bene e nel meglio come nel male e nel peggio.
Ho aperto questa nota con una serie d’immaginarie e contrastanti affermazioni su Amy, la concludo con una frase che proprio a lei appartiene: Sono meglio nei dischi che nella vita reale.

Peter Fruit
“Su e giù con Amy Winehouse”
Pagine 191, Euro 11:00
Kowalski


Crescete e moltiplicatevi


Nel libro della Genesi si legge che Dio ordina all’uomo: “…Siate fecondi…crescete e moltiplicatevi”.
Da lì ha origine l’idea diventata pernicioso luogo comune che fare figli sia segno sia d’ordine morale e, perfino, di prosperità economica degli Stati.
A questo tema è dedicato il più recente numero del bimestrale dell’Uaar L’Ateo diretto da Maria Turchetto.
Nell’editoriale, la direttrice, con il suo solito stile dotto e birichino al tempo stesso, ripercorre la storia di quel luogo comune popolazionista ch’ebbe poi grand’affermazione in epoche più vicine a noi, specialmente nel XVI e XVII secolo, all’epoca della formazione dei moderni stati-nazione.
Serviva allora carne da cannone e occorrevano braccia al lavoro, eppure non mancarono voci che già allora s’opposero a quella teoria, come ad esempio Robert Malthus.
I sostenitori del “crescete e moltiplicatevi” – scrive la Turchetto – continuarono a ripeterlo nel Novecento. Le cose erano, in realtà, un po’ cambiate. Nelle guerre la tecnologia cominciava a contare più della fanteria, e lo stesso avveniva per la produzione industriale. Ma preti, politici ed economisti non demordevano […] Dopo il crollo di Wall Street, Alvin Hansen e gli altri keynesiani radicali sostennero che tra le cause della stagnazione dell’economia occidentale andava annoverata la crescita demografica più lenta rispetto al secolo precedente. Anche in questo caso le obiezioni non mancarono: se così fosse – disse ad esempio Joseph Alois Shumpeter – dovrebbe esserci il boom economico in Africa, dove figliano come conigli. Aveva ragione, ma nemmeno a lui dettero retta”.
Oggi, con argomentazioni nuove, i popolazionisti hanno ripreso voce, ma le condizioni del globo anche con il suo naturale impoverimento delle risorse (e le offese ambientali arrecate a quelle esistenti) vanno in senso contrario al ‘crescete e moltiplicatevi'.
Insomma, date retta ad Adolgiso: addizionarsi spesso, sottrarsi talvolta, dividersi se necessario, moltiplicarsi mai.

Sullo stesso argomento nella rivista ci sono interessanti studi condotti da plurali angolazioni in articoli di Orazio Nobile, Luca Pardi, Federica Turriziani Colonna, Ruggero Ruggeri, Francesco D’Alpa, Debora Da Dalt, Giovanni Mainetto, Antonietta Dessolis, Vittoria Haziel, Giorgio Ferri. Per l’Indice completo: QUI.
In breve: un numero imperdibile per chi è interessato culturalmente al tema o a questo dedica studi specialistici.
Per l’acquisto della rivista: le librerie Feltrinelli e quelle di Rinascita d'Empoli e Roma, oppure scrivere a Casella Postale 755, 50123 Firenze Centro.
L’abbonamento annuale a 6 numeri costa 15 euro. Assolutamente ben spesi.


Jonas Mekas in Italia


Cosmotaxi Special per “Jonas Mekas”

Lucca, 10 ottobre - 2 novembre 2008


Parole di JM


“In realtà tutto il mio lavoro non è che un unico, lunghissimo film che ancora si sta sviluppando…”


Chi, Dove, Quando

Considerato un esponente di spicco del rinnovamento del linguaggio cinematografico e sperimentatore delle risorse artistiche dei nuovi media visuali elettronici, Jonas Mekas, film-maker e critico statunitense di origine lituana, è il protagonista della mostra curata dalla Fondazione Centro Studi sull’Arte “Licia e Carlo Ludovico Ragghianti” in collaborazione con il Lucca Film Festival 2008 che all’artista dedica, in concomitanza con l’esposizione, un’ampia retrospettiva che occuperà 15 ore di proiezioni.
Fonazione: il ChiostroLa mostra, a cura di Benn Northover, allestita nei locali della Fondazione Ragghianti (nella fotina, il Chiostro), presso il Complesso monumentale di San Micheletto, sarà inaugurata il 10 ottobre alle 17.30 e visitabile - il lunedì escluso - fino al 2 novembre 2008 dalle 10 alle 13 e dalle 15 al 19.
Mekas sarà presente a Lucca dal 9 al 15 ottobre.
Inoltre il Lucca Film Festival ospiterà: Paul Fraser dal 9 al 11; Enrico Ghezzi dal 17 al 18; Marc'O dal 14 al 19; Jean Pierre Kalfon dal 15 al 17; Agnes Feuvre dal 17 al 19; Christian Lebrat dal 14 al 17; Brady Corbet dal 17 al 19; Balthazar Clementi dal 14 al 19; Franco Brocani dal 16 al 18.

La Fondazione Ragghianti, diretta da Vittorio Fagone, è nata nel 1981; per visitare il suo sito web: CLIC!
Come per tutte le altre manifestazioni dedicate all’arte ed alla cultura visuale contemporanea realizzate dalla Fondazione l’ingresso è gratuito, offerto dalla Cassa di Risparmio di Lucca.

Per informazioni: tel. 0583 – 46 72 05; fax 0583 – 49 03 25
Mail: info@fondazioneragghianti.it

Cosmotaxi ringrazia l’architetto Angelica Giorgi coordinatrice delle mostre e degli eventi alla Fondazione Ragghianti; questo ’special’ è stato realizzato, infatti, grazie al suo prezioso aiuto.


Special per JM: bio dell’artista


Jonas Mekas ha dedicato tutta la sua vita e la sua opera all’affermazione del cinema indipendente come forma d’arte. Regista, critico, editor, distributore, archivista e poeta, Mekas ha contribuito significativamente alla nascita dei moderni movimenti cinematografici d’avanguardia.
Jonas MekasNasce nel 1922 a Semeniskiai, in Lituania.
Nel 1944, con suo fratello Adolfas, Jonas viene rinchiuso nei campi nazisti e costretto ai lavori forzati. Nel 1949, dopo aver vissuto per quattro anni in un campo profughi, i fratelli Mekas arrivano in America e si stabiliscono a Brooklyn, New York. Due settimane dopo il suo arrivo, Jonas chiede in prestito del denaro per comprare la sua prima Bolex 16mm e comincia a registrare i momenti della sua vita.

Avevo poco tempo a disposizione, che mi permetteva di girare solo pochi frammenti di ripresa. Mi sono detto: Bene, molto bene – se non ho sei o sette mesi da dedicare alla realizzazione di un film, me ne farò una ragione; filmerò brevi frammenti, giorno per giorno, ogni giorno... se potrò filmare solo un minuto – filmerò solo un minuto.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, oltre ad organizzare numerose proiezioni di cinema sperimentale, Mekas fondò il magazine “Film Culture” e cominciò a scrivere la sua colonna ‘Movie Journal’ sul New Yorks Village Voice. Partecipò anche alla fondazione della “Film- Makers' Cooperative”, della “Filmmakers' Cinematheque” e degli “Anthology Film Archives”. Ancora oggi, gli Anthology Film Archives sono ritenuti uno dei centri più importanti del mondo per la conservazione, l’esposizione e lo studio del cinema indipendente e d’avanguardia.
È stato fonte di ispirazione per generazioni di registi, tra cui Martin Scorsese, Andy Warhol e Jim Jarmusch.
La produzione di Mekas come regista spazia dai film narrativi (“Guns of the Trees”, 1961 e “The Brig”, 1963) a i "diary films" come “Walden” (1969); “Lost, Lost, Lost” (1975); “Reminiscences of a Voyage to Lithuania”, (1972); “Zefiro torna”, (1992); “Birth of a Nation” (1997); e “As I was Moving Ahead, Occasionally I saw Brief Glimpses of Beauty” (2001). Le sue opere sono state ampiamente proiettate in festival e musei di tutto il mondo, tra cui la Biennale di Venezia, il Tate Modern di Londra ed il Museo di Arte Moderna di New York.
Nel 2006 l’Associazione dei registi cinematografici americani ha premiato gli Anthology Film Archives e Mekas con il DGA Honours award, riconoscendo l’impegno di Mekas nei confronti dell’arte cinematografica. Nello stesso anno, Mekas è stato premiato durante la cerimonia della Los Angeles Film Critics Association per il suo importante contributo alla cultura cinematografica americana. Nella sua selezione annuale di 25 film, “Reminiscences of a Journey to Lithuania” di Mekas è stato indicato dalla United States National Film Preservation Board per essere conservato nei registri della Library of Congress' National Film Registry.
Nel 2007, Mekas ha lanciato l’epica serie 365 che include la creazione di 365 video e cortometraggi pubblicati una volta al giorno per un anno sul suo sito web.
Questo progetto continua a godere di largo seguito internazionale, perciò il suo sito in Rete è in continua espansione.


Special per JM: Vittorio Fagone


Come dicevo in apertura la Fondazione Ragghianti è diretta da Vittorio Fagone di cui vanto l’amicizia da molti anni. Abbiamo fatto insieme lavori per RadioRai nei primi anni ‘80 e con lui ho fatto anche (ci crediate o no) un viaggio spaziale nel settembre del 2000, pochi mesi dopo la nascita di questo sito.
Sue estese notizie biobibliografiche QUI.
E’ stato fra i primi critici in Italia a cogliere, in anni lontani, la nascita di un nuovo modo di fare arte attraverso l’ibridazione di generi e tecniche; ad accorgersi delle nuove energie che si rappresentavano attraverso l’interlinguaggio, l’intercodice.
Vi propongo il suo intervento in catalogo.

Jonas Mekas“A un anno esatto dall’originale realizzazione dell’ampia e articolata esposizione dedicata a Michael Snow la Fondazione Ragghianti in collaborazione con Lucca Film Festival presenta l’opera di Jonas Mekas, un altro protagonista del rinnovamento del linguaggio cinematografico e sperimentatore delle risorse artistiche dei nuovi media visuali elettronici.
I due episodi segnano in modo positivo l’attività della Fondazione Ragghianti da sempre attenta al rapporto tra cinema e arti visuali mentre confermano l’alto livello internazionale raggiunto dalle iniziative promosse dal Lucca Film Festival.
L’influenza di Jonas Mekas sul cinema sperimentale praticato oltre che negli Stati Uniti in diversi paesi europei dall’Italia alla Francia, dalla Germania all’Inghilterra e alla Spagna, è stata notevole e risulta ancora attiva sulle ultime generazioni di videoartisti affermatisi nella svolta del ventunesimo secolo.
Per quanti interessati in Italia negli anni Sessanta alle espressioni innovative del linguaggio cinematografico in relazione con le arti visuali c’è una data e un luogo che vanno considerati memorabili.
Nel maggio 1968 la Galleria d’Arte Moderna di Torino organizzava una presentazione del New American Cinema che dava risalto come indiscutibile protagonista del nuovo fronte sperimentale di ricerca al ricco repertorio di film realizzati da Jonas Mekas. Con Ugo Nespolo, già negli anni Sessanta uno dei più significativi sperimentatori italiani del “cinema d’artista” come dimostrato dalla grande mostra che attualmente gli dedica il Museo del Cinema della Mole Antonelliana a Torino, in questo momento particolarmente attivo a Lucca come originale scenografo pucciniano, ho potuto ricordare che la manifestazione di Torino, curata da Aldo Passoni, aveva coinvolto e entusiasmato amatori del cinema e delle arti visuali, colpiti dalla lucida consapevolezza e capacità comunicativa di Jonas Mekas.
L’attento pubblico lucchese ritroverà qui i fondamentali e profondamente innovativi film che, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, Mekas ha realizzato.
Nel libro L’immagine video. Arti visuali e nuovi media elettronici da me dedicato all’evoluzione delle ricerche di un nuovo linguaggio sperimentale nel campo del cinema e dei nuovi media elettronici, pubblicato nel 1990 da Feltrinelli e quest’anno ripubblicato in quanto considerato dall’editore “un testo fondamentale di riferimento per quanti interessati alla nascita e agli sviluppi dell’arte video”, le annotazioni sull’opera cinematografica di Jonas Mekas, sono tra le più numerose. Risultava necessario per chi qui scrive sottolineare come nel cinema sperimentale di Jonas Mekas si realizza un’inedita prospettiva teorizzata insieme a Dominique Noguez negli anni Sessanta e Settanta in molte occasioni espositive in Francia e in Italia di un “cinema differente” che non si cura delle regole e delle funzioni dominanti della comunicazione, meno preoccupato del destinatario che dell’autore, del referente che del messaggio stesso, del principio di realtà che del principio del piacere, del simbolico che dell’iconico, in breve, meno preoccupato del senso che della forma e ancora più radicalmente un film largamente personale, che si rapporta principalmente, nella sua concezione, nella sua realizzazione e nella sua diffusione, all’arte e all’artigianato (non al commercio e all’industria).
Il “cinema differente” si caratterizza soprattutto per due aspetti: la determinazione linguistica molto più libera, diretta e, in definitiva, efficace; l’autonomia e l’indipendenza dalle strutture condizionanti della produzione industriale. I due elementi sono, ad evidenza, correlati.
L’esposizione dell’opera cinematografica di Jonas Mekas qui presentata è anche particolarmente significativa di un’inedita e produttiva possibilità di utilizzare in senso creativo le risorse comunicative sulle quali il mezzo elettronico opera con maggiore costanza, la nozione del tempo, memoria e simultaneità. Conseguenti sono l’istantaneità che consente di presentare un’immagine ripresa non convenzionalmente senza sottoporla a nessun tipo di trattamento, il ritardo del tempo di proiezione, la condizione di utilizzare contemporaneamente più camere o più monitor per una scomposizione o ricomposizione della visione, elementi che nella loro complessità contribuiscono a una creativa dilatazione, o più esattamente a una innovativa temporalizzazione dell’immagine.
Questo carattere storicamente oppone con forza, a partire dagli anni Sessanta, le pratiche dell’arte video orientate verso un’espansione topologica del tempo, alla televisione vincolata al canone di una temporalità e di una spazialità unidimensionali”.


Special per JM: Sandra Lischi


“Celebrazione del cinema, celebrazione della vita: lo sguardo di Jonas Mekas”, è questo il titolo che Sandra Lischi ha dedicato in catalogo a questa rassegna.
La Lischi è una delle nostre migliori studiose di quel confine tra cinema e video d’arte, per una sua biobibliografia cliccare QUI.

Ecco un momento del suo saggio.

Jonas Mekas“E’ significativo che oggi Mekas, di fronte agli sviluppi tecnologici, al digitale, alla rete, abbia coniato il termine di “eye-pod poems” (gioco di parole con I-Pod) immaginando una fruizione quotidiana e frammentata, estremamente ubiqua e personale, dei suoi poemetti visivi – ce lo ricorda in questo catalogo Miriam Vorbrugg a proposito del progetto di Mekas 365 Day Project.
Mekas è un pioniere e un protagonista straordinario, ormai leggendario, di questo cinema in prima persona, autobiografico e diaristico. Registra da decenni la vita (la propria, quella della comunità lituana a New York e degli amici, i viaggi, gli incontri, la natura, la città) e, scrive Adriano Aprà, uno dei maggiori studiosi italiani del New American Cinema, lo fa ‘con la purezza antica dell’immigrato (Walden, nostalgia di una natura incontaminata) e insieme con la modernità elettrica dell’action camera. I suoi colpi d’occhio incorporano l’io soggettivo perché sono la traccia registrata del corpo di Jonas Mekas (il suo occhio, la sua mano, il suo passo), e il tempo viene reinventato da una gestualità improvvisata e quindi in parte inconscia.’
Questa “trascrizione” avviene in modi particolari e con uno stile e un’eleganza ben definiti, non ha niente del flusso ininterrotto consentito dalle tecnologie elettroniche (seppure Mekas, dal 1987, abbia affiancato la telecamera alla sua cinepresa Bolex): nel suo cinema c’è, e viene svelata, anche la dimensione fotografica, accostando al movimento continuo quello a scatti. Del resto in questa mostra ci sono molte foto estratte dai suoi film e lo stesso Mekas, parlando dei suoi frozen film frames (letteralmente fotogrammi congelati) dice che fotografia e cinema sono cugini, e parla del proprio desiderio di scorporare dal film due, tre immagini singole per lasciarle vivere autonomamente
Il percorso della mostra alla Fondazione Ragghianti consente di approfondire l’aspetto fotografico e quello pittorico, con l’esposizione di fotogrammi dai film di Mekas, accostandovi opportunamente anche la proiezione in continuità dei film di famiglia e utilizzando ancora un’altra forma, quella della installazione (molti cineasti scelgono oggi questa costruzione per ri-creare e ri-spazializzare i propri film: i critici hanno coniato per questo fenomeno il termine di “cinema esposto”). Si aggiungono così all’esplorazione del lavoro di Mekas la dimensione della multivisione e quella dell’evocazione sonora”.


Parole di JM

“Cercherò di capire il nuovo artista, invece di dirgli che cosa deve fare”


Special per JM


Cosmotaxi Special per “Jonas Mekas”

Lucca, 10 ottobre - 2 novembre 2008

Fine


Emergenze Creative


Va riconosciuto all’Italia il notevole contributo che dà al peggioramento delle condizioni ambientali del pianeta Terra. Mari, fiumi, laghi, campagne sono ben nutriti quotidianamente con sostanze tossiche mentre l’aria è apprezzabilmente appestata da nuvole di gas, roba di fronte alla quale la nube purpurea immaginata da Mattew Phips Schiel diventa un balsamo salubre.
Maggiore merito, quindi, hanno quelle rare iniziative che portano l’attenzione su questo drammatico problema ignorato dal mondo del profitto e dai media a esso collegati.
N’è ottimo esempio la mostra della quale oggi qui si parla.

Camerani: Corpi GemelliAtul Bhalla, India; Stefano Bombardieri, Italia; Maurizio Camerani, Italia (in foto l’opera che espone: ”Corpi Gemelli”); Chen Qiulin, Cina; Maria Rosa Jijon, Ecuador; Anila Rubiku, Albania; Giancarlo Scagnolari, Italia; Lara Usic, Croazia; Xing Danwen, Cina; Saul Zanolari, Svizzera - per note in particolare sui loro lavori, cliccate QUI - questi gli artisti invitati da Maria Livia Brunelli e Silvia Cirelli alla mostra Emergenze Creative.
Tre sono le sezioni in cui è divisa l'esposizione: energia, rifiuti e acqua.
Qualche cenno sulle curatrici.
Maria Livia Brunelli, oltre alle mostre allestite come independent curator, dirige la MLB Home Gallery, uno spazio espositivo di grande suggestione all'interno di un palazzo quattrocentesco di fronte al Castello Estense di Ferrara; prossimamente ve ne dirò di più in queste pagine web.
Silvia Cirelli, sta lavorando all’allestimento di una mostra che si terrà, dal 30 ottobre di quest'anno presso la CO2 Contemporary Art di Roma.

Ho chiesto alle due curatrici di presentare in sintesi la mostra “Emergenze Creative” che inaugurerà il 9 ottobre al MAR, Museo d’Arte della Città di Ravenna.
Le sentirete rispondere con una voce sola, prodigi della tecnologia di bordo su Cosmotaxi.

L’idea di una mostra su tematiche ambientali è nata come evento collaterale a “Rifiuti, acqua, energia: Sviluppo locale & valorizzazione economica Ravenna 2008”, progetto ideato dal Laboratorio Labelab.
Gli artisti, di levatura internazionale e provenienti da diverse realtà geografiche (dalla Cina all’India e dall’America Latina all’Europa), hanno dato voce al tema della sostenibilità ambientale affrontandolo attraverso diversi mezzi espressivi (dalla video-arte alla fotografia, dalla pittura all’installazione).
Siccome Maria Livia è curatrice in Italia e Silvia a Pechino, abbiamo pensato di unire Oriente e Occidente per riflettere su temi (rifiuti, acqua, energia) che interessano tutti.
Da parte degli artisti l’adesione è stata totale e abbiamo dovuto respingere diverse candidature, ma l’idea è di rendere la mostra itinerante aggiungendo di volta in volta nuovi artisti. La mostra inizia con due opere molto suggestive, luminose, che emergono dalla penombra...
.

“Emergenze Creative”
A cura di Maria Livia Brunelli e Silvia Cirelli
Museo d’Arte della città di Ravenna
Via di Roma 13
Info: 0544 – 48 23 56; info@museocitta.ra.it
Dal 9 fino al 25 ottobre ‘08


riScatto


Felicissimo il titolo di questo libro che grazie all’invenzione grafica di quella S maiuscola posta dentro la parola rappresenta come meglio non si potrebbe il tema del volume.
riScatto è un libro fotografico collettivo con splendide immagini a colori scattate da bambine etiopi vittime di violenza sessuale.
Al termine di un lungo percorso di recupero fisico e psicologico intrapreso grazie ai volontari dell’Associazione di Como Il Sole hanno partecipato ad un corso tenuto dal fotografo Gin Angri.
Il libro è stampato dalle Edizioni Infinito che nella nostra editoria si sono date il ruolo di amplificare i segnali di denuncia di tanti drammi talvolta poco noti e di documentare l’opera volontaria di quanti s’adoperano per curare le ferite procurate dalla ferocia dovuta a tirannie e brutalità.

Tutto iniziò con Samrawit, quattro anni, stuprata da tre ore, sanguinante e senza lacrime, deposta sulle ginocchia di una donna italiana che si era sempre occupata di bambini. Da quell’abbraccio silenzioso e figlio del dolore, in un’Addis Abeba fangosa e malinconica, nacque nel 2002 il progetto “Fiori che rinascono”, un’oasi di speranza per i bambini d’Etiopia lacerati nel corpo e nell’anima dalla violenza sessuale ”.

Si apre così la prefazione di Olivia Piro, fondatrice dell’Associazione “Il Sole” che assiste in Burkina Faso, Etiopia, India e Sri Lanka ragazzi afflitti dalla tragedia della violenza, della guerra, della fame.
Il volume riporta le foto – intercalandole con gli articoli della Convenzione dei Diritti del Fanciullo del 1989 – d’undici ragazze fra i 12 e i 17 anni.
Racconta Gin Angri in un suo intervento: Abbiamo iniziato con 5 macchine digitali Nikon 40, un computer portatile e una stampante. Il digitale si è rivelato da subito fantastico per questo tipo di attività formativa, per la possibilità di verificare immediatamente l’immagine scattata e per l’opportunità di offrire, al di là di un controllo tecnico-compositivo, anche una gratificazione personale.

I proventi del libro vanno al progetto di recupero delle bambine violentate in alcuni Paesi dell’Africa.
Per informazioni, interviste e organizzare presentazioni, ci si può rivolgere a Maria Cecilia Castagna ai numeri telefonici: 06 – 93 16 24 14 o 320 – 35 24 918, oppure indirizzando a lei una mail: info@infinitoedizioni.it
Per una scheda sul libro: QUI.

Il Sole Onlus
“riScatto”
Con foto a colori
Pagine: 128; Euro 13:00
Infinito Edizioni


L'urlo di Prato


Che ci crediate o no, alcuni anni fa (dicembre 2004) con i Kinkaleri ho fatto un viaggio spaziale.
Da allora ad oggi i KK ne hanno combinate di cose e tutte fra le più interessanti prodotte dalla nuova scena italiana.
La più recente è intitolata L’urlo e parte da Prato.
Intendiamoci, in Italia motivi di urlare ce ne sono dappertutto mica solo a Prato, basta vedere, perfino solo in foto sui giornali, i volti di chi ci governa ed eccoci pienamente nella performance di Kinkaleri, ma qui si tratta anche di altro.
Dal 29 settembre e fino al 13 ottobre dieci grandi manifesti dalla dimensione di 6x3m saranno affissi per le strade e presso gli spazi pubblici della città toscana.
Ad essere utilizzato è un supporto di grande comunicazione quale il cartellone pubblicitario per la diffusione nel panorama metropolitano di alcune immagini urlanti e spiazzanti realizzate dal gruppo.
Per saperne più estesamente, cliccate QUI.
Un intervento inteso come spazio di rappresentazione che Kinkaleri propone nell’ambito di Territoria #3 'Lo Spazio del Contemporaneo', un articolato progetto di rete sulla cultura contemporanea promosso dalla Provincia di Prato con il contributo della Regione Toscana.


Visioni in vista


L’infelice titolo di questa nota l’addosso a Lamberto Pignotti (quando posso addossargli colpe, mi sento felice e fiero giustiziere) che di recente ha prodotto due contemporanee operazioni: una mostra e un libro dai nomi assonanti.
La mostra – dal 28 settembre al 12 ottobre a Pedaso, in provincia di Ascoli Piceno - intitolata Poesie in vista è visitabile alla Marcantoni Arte Contemporanea; Il libro, pubblicato dalle Edizioni Campanotto, è: Di quelle sfumate visioni.
Da qui al titolo che ho messo il ruzzolone è degno di un improvvido scalatore.
Ma è colpa di Pignotti o no?... Dite che lui non c’entra?... Ma prendetevela lo stesso con lui, maltrattarlo è sempre cosa giusta e pia.
Mostra e libro, sia pure in separate occasioni sono legate dallo stile e dalla teorica di Lamberto che – lo ricordo ai più distratti – è stato in anni lontani il fondatore di un nuovo modo di concepire la poesia verbovisiva.
A proposito del suo lavoro, una volta ha detto: “L’area della poesia visiva, arte tipicamente multimediale e interdisciplinare, ha trovato le ispirazioni, le sollecitazioni più diverse, dalla teoria della letteratura all’iconologia, dal neo-positivismo alla linguistica, dallo strutturalismo al marxismo, dalla sociologia alla semiotica, dalle analisi della pubblicità alle riflessioni sui fumetti, sulla moda, sui video-clip, sulle foto di un giornale... Uno, prima di farsi degli amici, va in giro, facendo addirittura incontri inconcludenti e perfino sbagliati, e poi sceglie qualcuno con cui avere magari dei rapporti privilegiati. In tal senso può essere utile incontrare Marcuse e McLuhan, attingere a Gombrich e alle sfilate di moda, ispirarsi a Sklovskij e alle tavole di un fumetto...”
Da qui anche la sua operazione sinestesica da lui rinominat… come?... no, battezzata no, non ci tiene a quelle cose… rinominata sinestetica.
Gli ho chiesto in modo brusco: so che al Premio Suzzara s’è parlato di sinestesia e del tuo lavoro a quella collegato; puoi dirci di più sul Premio e sulla sinestesia?

Il Premio Suzzara, fondato da Zavattini, è giunto quest’anno alla sua 46a edizione intitolata "Nuove sinestesie" con opere e installazioni di 11 artisti e di due gruppi. Su suggerimento del curatore Claudio Cerritelli, sono stato incaricato di fare la copertina del catalogo, di figurare nella mostra con una mia antologica e di presiedere la giuria; mi è stato inoltre dato uno speciale premio alla carriera. Tutto ciò è derivato dal fatto che ho applicato l'espressione "sinestesia", che significa associazioni e convergenze di più sensazioni, dalla psichiatria e dalla letteratura alle arti visive. Non è agevole qui dare spiegazioni stenografiche. dovrei rimandare almeno a due miei libri. "Sine aesthetica-Sinestetica" (Empiria, Roma, 1990 ) e "I sensi delle arti" (Dedalo, Bari, 1993 ). Per quanto riguarda il mio interesse personale, la sinestesia prende l'avvio dalla poesia visiva che rapporta parole e immagini e dalle mie performance delle poesie commestibili, profumate e tattili. E poi perché non ricordare l'esperienza di "Inferno e dintorni" concretizzata mercè un certo Armando Adolgiso anche alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma?

Primi anni ‘80, che tempi! Anni italiani migliori di questi, guai ce n’erano, però oggi è peggio. Torniamo a noi due è meglio và…
“Di quelle sfumate visioni”, in un flash…

Il libro "Di quelle sfumate visioni" pubblicato ora da Campanotto di Udine, rappresenta in fondo, con le sue tavole, una particolare narrazione sinestetica: si tratta di particolari di "visioni", ritagliate da immagini ordinarie di riviste in modo da decentrare o marginalizzare il campo visivo, e correlate a espressioni, scritte con pennarelli colorati a piè' di pagina, suggestivamente iterative assai spiazzanti nei confronto delle immagini stesse.

Mostra "Poesie in vista", Marcantoni Arte Contemporanea, Pedaso, fino al 12 ottobre '08
"Di quelle sfumate visioni, Ed. Campanotto, Pagine 42 a colori, Euro 18:00


Ashenden


E’ dal 1999 che Adelphi con il suo tradizionale gusto letterario dedica spazio a William Somerset Maugham giungendo quest’anno con la pubblicazione di Aschenden o l’agente inglese all’undicesima opera dello scrittore.
Inglese, ma nato a Parigi il 25 gennaio del 1874, studiò a Heidelberg e si laureò in medicina a Londra nel 1897.
Il successo del suo primo romanzo, “Liza di Lambeth” (1894), lo convinse a dedicarsi alla letteratura.
Fu come drammaturgo che diventò inizialmente popolare, a partire da “Lady Frederick” che nel 1911 piacque tanto da fare di lui l’autore più richiesto nel West End, dove l’anno dopo ben quattro suoi lavori tennero il cartellone contemporaneamente.

In Ashenden, apparso per la prima volta nel 1928, Maugham nella prefazione rivela uno dei più intensi momenti della sua vita, l’appartenenza ai servizi segreti inglesi e così scrive: Questo libro è basato sulle mie esperienze nel Servizio Informazioni britannico durante la Grande Guerra, rielaborate a fini narrativi.
Grande apologo sulla “finzione”, attraverso tecniche narrative ben congegnate – virtù che si ritrova in tutto il suo lungo percorso di scrittura – Maugham agisce un’analisi, spesso impietosa, dei suoi personaggi rendendoli simboli dell’epoca in cui vivono e della tragedia della guerra in cui sono immersi.
Divenuto ricchissimo, viaggiò a lungo in Oriente da dove trasse ispirazione per vari romanzi.
Autore di circa ottanta titoli usava dire di non ricordare le origini delle storie perché erano queste ad andare da lui.
Morirà a Nizza, il 16 dicembre 1965.

Masolino D’Amico, degli ultimi anni di Maugham traccia il seguente ritratto: “Sempre più simile a una mummia orientale con le sue giacche di velluto, le sue pantofole ricamate e la sua papalina, il decrepito ‘Willie’ brillava solo negli intervalli della sua disperazione cosmica, quando anche grazie ai cocktail serviti a ore precisissime sprizzava ancora qualche lampo dell’antica malignità”.
Malignità. Già. Perché uno dei tratti della personalità di Maugham è stato da molti identificato in un’ironia crudele e cinica; n’è testimonianza un suo aforisma: “La gente mi ha sempre interessato, ma non mi è mai piaciuta”

W. Somerset Maugham
“Aschenden o l’agente inglese”
Traduzione di Franco Salvatorelli
Pagine 277, Euro 19:00
Adelphi


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