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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Sopruso: istruzioni per l'uso

Devo uscire per fare poche compere (ad esempio, il vino che chissà perché finisce sempre troppo presto in casa mia, mah!), però devo calcolare un tempo superiore al necessario.
Per sapere di eventuali urgenze professionali, ecco che nella posta elettronica, tra eliminare mail indesiderate, scansare tentativi di phishing e truffe varie, se ne va del tempo. Ascensore. Bloccato perché due tenendo le porte aperte conversano serenamente due piani più sotto. Quando le due carogne decidono di salutarsi, mi muovo, ma… ma devo prima svuotare la cassetta postale dei volantini pubblicitari non deposti nella cassetta metallica fuori del cancello come dovrebbe essere fatto. Finalmente la strada. Finalmente? Navigo in un mare di sopraffazioni: macchine che sfrecciano ignorando il rosso... commercianti che manifestano marcata impazienza alla mia sia pur minima esitazione... assordato dalla radio di automobili piombate al semaforo... leggo sui muri scritte agghiaccianti.
Breve: è bastata mezz’ora per tornare a casa col sangue agli occhi.
Sul tavolo, però, c’è un lenitivo d'inchiostro per le ustioni psichiche riportate, un libro che ho finito di leggere ieri, l’autore è Valerio Magrelli. Sfoglio di nuovo il suo Sopruso: istruzioni per l’uso pubblicato da Einaudi.
Accade come quando si fissa un compagno di sventura della stessa tragedia trovando in quella figura conforto all’atroce destino capitato a entrambi. (Perché poi non si dica anche “Ben comune intero gaudio” è cosa che andrebbe approfondita pur ahimè prevedendo quale sia l’amara riflessione finale su noi umani).
Leggere un libro di Magrelli (a mio avviso, e non solo a mio avviso, tra i più grandi poeti contemporanei) è sempre per me, e per molti, una gioia sia quando traccia traiettorie esistenziali sia quando pratica l’indignatio politica.
Autore che attraversa plurali territori della scrittura: singolare saggista con Nero sonetto solubile, finissimo traduttore del Matrimonio di Figaro o del Barthes di Dove lei non è, sia ancora nelle splendide pagine di due libri imperdibili Addio al calcio e Geologia di un padre.

Questo recente “Sopruso: istruzioni per l’uso” può essere visto come uno sguardo a Magrelli nel privato con le sue (quanto mai giuste!) intolleranze alle violenze che è costretto a sopportare da gente e gentaglia ora con la tunica da Hare Krishna ora da personcine in giacca e cravatta che infestano tanti luoghi e anche questa Roma sempre meno magica e sempre più velenosa, tanto per riecheggiare un altro suo titolo.
Libro sulle sconcezze che più patisce e meno sopporta, sì, certo, ma questo è anche il libro più politico che ci abbia dato finora Magrelli. Assolutamente politico. Perché coglie l’origine del vivere ignorando chi è l’altro, cioè sopraffacendo che è l’origine di ogni fascismo. Questo è un testo che andrebbe letto nelle scuole per fare educazione civica.
Detto così può sembrare a qualcuno che sia un libro pedante, noioso. Erore, direbbe Petrolini. Perché è un libro divertente. Anche quando la pagina s’illividisce di rabbia, ecco arrivare improvviso il graffio umoristico, lo sberleffo comico. Oppure la geniale invenzione linguistica come, ad esempio, rivelare come il “nostro prossimo” altro non sia che il “mostro prossimo”.

Dalla presentazione editoriale.
«Nocivi contro innocui: viviamo sotto il segno zodiacale del Sopruso, immersi in un impercettibile pulviscolo di ingiustizie. Basti solo pensare alle continue aggressioni sonore, agli estenuanti allarmi acustici, alle infinite richieste con cui le amministrazioni ci molestano impunemente. In queste pagine furibonde e paradossali, Valerio Magrelli traccia la cupa genealogia della prepotenza, per esortare alla difesa di alcuni diritti ormai dimenticati».

Valerio Magrelli
Sopruso: istruzioni per l’uso
Pagine 130, Euro 13.00
Einaudi


Scenario Festival 2019


Nuova edizione di Scenario Festival, un progetto di Associazione Scenario con DAMSLab - Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna.

La direzione artistica è di Cristina Valenti docente di Storia del Nuovo Teatro presso il Corso di Laurea magistrale in Discipline teatrali dell’Università bolognese.
Proveniente da studi di carattere storico e filologico (il suo volume “Comici artigiani” ha vinto il Premio Pirandello per la saggistica teatrale), negli ultimi anni ha rivolto la sua attività al teatro contemporaneo d’innovazione, al quale si è dedicata sia sul piano della produzione scientifica sia sul piano dell’organizzazione.
I suoi interessi attuali riguardano i teatri del disagio (handicap, carcere), il teatro di impegno sociale e civile, la ricerca delle giovani generazioni (in particolare quale Direttrice dell’Associazione Scenario).
Fra i volumi pubblicati figurano studi monografici dedicati al Living Theatre e ad artisti ed esperienze teatrali contemporanee.

Ecco un profilo di Scenario da una sezione del sito dell’Associazione: “Il Premio Scenario ha compiuto trent’anni nel 2017. A promuoverlo, nel 1987, è stato un piccolo gruppo di soggetti teatrali riuniti nell’Associazione omonima che si sono dati come scopo il sostegno dei giovani artisti e l’attenzione ai nuovi linguaggi, individuando nel rapporto fra le generazioni e nella trasmissione dell’esperienza i fondamenti per la vitalità e lo sviluppo della cultura teatrale.
Da allora la storia del premio ha attraversato molte generazioni di artisti, diverse fasi teatrali, “ondate” di rinnovamento, venti di crisi, assetti istituzionali più o meno favorevoli. Ma Scenario non ha cambiato la formula e l’ispirazione che lo tengono in vita, e nemmeno il ruolo che svolge, seppure in una geografia teatrale profondamente mutata.
Indirizzato a lavori in fieri e non a spettacoli già perfezionati, il premio ha confermato negli anni i suoi tratti fondamentali: l’attenzione rivolta non a drammaturgie testuali, ma a progetti performativi, ovvero a scritture nate sulla scena, e una vocazione del tutto inclusiva, senza preclusioni di linguaggi o ambiti disciplinari. Lo dimostra il panorama degli artisti che compongono le “Generazioni Scenario”, ossia i vincitori e segnalati che dal 1987 a oggi sono stati protagonisti dei diversi percorsi del premio: oltre al “Premio Scenario” capostipite, dedicato ai nuovi linguaggi per la ricerca, i tre inaugurati successivamente: il “Premio Scenario per Ustica” (dal 2005, dopo un’edizione zero nel 2003) dedicato all’impegno civile e alla memoria, il “Premio scenario Infanzia” (dal 2006), dedicato ai giovani spettatori e il nuovo “Premio Scenario Periferie” (dal 2019), rivolto ai giovani artisti attivi nei contesti periferici e in percorsi di meticciato e dialogo fra culture”.

Estratto dal comunicato stampa
«Nucleo centrale del Festival è la Finale della XVII edizione del Premio Scenario dedicato ai nuovi linguaggi per la ricerca e per l’inclusione sociale e della I edizione di Scenario Periferie che rinnova lo storico impegno di Scenario dedicato all’interazione con i territori del sociale, rivolgendosi ai giovani artisti attivi in contesti periferici e in progetti di meticciato e dialogo fra culture.
Artisti under 35 provenienti da tutto il territorio nazionale presenteranno alla Giuria e al pubblico 12 corti teatrali di venti minuti a conclusione di un articolato percorso di selezione: una finestra di eccezionale valore sul panorama teatrale emergente.
I 12 finalisti saranno valutati da una Giuria presieduta da Marta Cuscunà (teatrante e femminista, vincitrice del Premio Scenario per Ustica 2009) e composta da Gianluca Balestra (presidente di Elsinor e direttore del Teatro Cantiere Florida di Firenze), Stefano Cipiciani (vicepresidente dell’Associazione Scenario, presidente di Fontemaggiore), Elena Di Gioia (direttrice artistica Agorà), Cristina Valenti (presidente e direttore artistico dell’Associazione Scenario, docente di Storia del Nuovo Teatro e Teatro sociale, Università di Bologna) che al termine della Finale assegnerà due premi di 8.000 euro ai vincitori rispettivamente del Premio Scenario e del Premio Scenario Periferie, come sostegno produttivo ai fini del completamento degli spettacoli. Un riconoscimento di 1.000 euro sarà conferito alle due compagnie segnalate.
Le quattro compagnie della Generazione Scenario 2019, dopo la Premiazione che avverrà venerdì 5 luglio alle ore 18, replicheranno in orario serale (ore 21.30) in Piazzetta Pasolini i corti teatrali vincitori e segnalati del Premio Scenario e del Premio Scenario Periferie.
Dal 2 al 6 luglio al termine degli spettacoli presso Il Cameo, in Piazzetta Pasolini, si svolgerà il DopoFestival con la selezione musicale di Madame Hussein ispirata agli spettacoli in rassegna.
Ingresso libero fino a esaurimento posti.
In caso di pioggia gli spettacoli previsti all’esterno si svolgeranno presso il DAMSLab/Teatro»

Per conoscere il programma del Festival: CLIC!

Ufficio Stampa: Raffaella Ilari
Mob: +39 333 4301603 – Email: raffaella.ilari@gmail.com

Informazioni
Associazione Scenario
Organizzazione cell. +39 392.9433363 –
email organizzazione@associazionescenario.it
FB: @Associazione Scenario
Instagram: @associazionescenario
Twitter: @Premio Scenario

Festival Scenario
Direzione artistica: Cristina Valenti
Area Manifattura delle Arti, Bologna
Dall’1 al 6 luglio


Museo dell'emigrazione a Gualdo Tadino (1)

Tra le località italiane che oltre alle bellezze paesaggistiche posseggono ricchezze di arte e testimonianze storiche raccolte in musei, fondazioni, luoghi di culto, c’è Gualdo Tadino.
Troverete un accogliente Ufficio Turistico, una varietà di ristoranti, parecchie occasioni alberghiere, tra questi locali quello che vanta la più lunga tradizione è il famoso “Gigiotto” aperto dal 1891.

(In foto uno scorcio di Gualdo Tadino) Quindicimila abitanti che dispongono – cosa ormai rara per una piccola comunità – di due sale teatrali e due schermi cinematografici. Insomma, è un luogo che merita di essere conosciuto più di quanto lo sia e v’invito ad andarci, mi ringrazierete.
Fra le attrattive che riserva Gualdo Tadino ai visitatori, spicca il Polo Museale.
Inoltre, nella Chiesa monumentale di S. Francesco è installata la mostra Stanza Segreta mentre al Museo del Somaro Cosmotaxi ha dedicato una visita QUI.

Il Polo, egregiamente diretto dall’antropologa Catia Monacelli (CLIC per il suo sito web con biografia e foto), contiene il Museo dell'emigrazione su cui in particolare si sofferma questa mia nota. Museo quanto mai importante oggi che l’Italia vive uno dei periodi più travagliati della sua storia non solo sul piano economico ma pure sul piano civile.
Allestito in modo da meritare grande encomio, testimonia con documenti fotografici, scritti, filmati, e con reperti d’epoca, la tragedia dell’emigrazione italiana.
Le condizioni dei nostri emigranti erano di estremo disagio.
Eppure, oggi tanta parte d’italiani pare abbia dimenticato quel passato e si comporta con gli immigrati come di fronte a un fenomeno sconosciuto e, come spesso succede alle cose sconosciute, temibili.

Alberto Sordini dirige la collana editoriale "I Quaderni del Museo dell'Emigrazione", ecco quanto scrive in un testo che mi ha fatto conoscere la direttrice Monacelli.

«Il museo vuole essere un luogo della memoria. Per non dimenticare un pezzo importante della storia del nostro paese e per capire i fenomeni dell’oggi. Prima si è voluto oscurare questo evento perché disturbava l’orgoglio nazionale, come se quasi milioni di emigranti non facessero parte di questo paese, poi si è voluto contrapporre la nostra emigrazione “buona” con quella “cattiva” di coloro che arrivavano in Italia a cercare fortuna. Oggi si scrive che i nostri emigranti erano richiesti e che non erano clandestini, scordandosi i mille modi utilizzati per entrare in paesi che non volevano i nostri emigranti e ancora cinquant’anni fa gli italiani morivano nei tentativi disperati di entrare clandestini ai valichi alpini con la Francia e la Svizzera. C’è chi sostiene che noi non esportavamo delinquenza, dimenticando il ruolo avuto nella criminalità organizzata di parecchi paesi dove sono emigrati gli italiani. Questo non toglie nulla alla nobiltà della nostra emigrazione. Con la povertà, con la miseria si esportano inevitabilmente altre cose. Contro l’intolleranza dell’oggi vale la pena riesumare l’epoca in cui anche noi eravamo diversi, anche noi turbavamo il paesaggio umano di città straniere, e capitava che venissimo considerati un pericolo per l’ordine pubblico. Ricordarlo ci aiuterebbe non solo a capire chi adesso vive la stessa sorte nel nostro paese; ma anche a non rinnegare esistenze cui dobbiamo parte dell’odierno benessere e quindi della dignità individuale e nazionale. La nostra emigrazione ha avuto questo merito».

QUI i nomi di chi lavora a quest’importante museo.

Segue ora un incontro con Catia Monacelli.


Museo dell'emigrazione a Gualdo Tadino (2)


A Catia Monacelli (in foto) ho rivolto alcune domande

Museo dell’emigrazione. Quando nasce e quali i suoi propositi di comunicazione?

Il Museo dell’Emigrazione Pietro Conti nasce nel 2003 per sottolineare il patrimonio storico, culturale ed umano legato al grande esodo migratorio che coinvolse l’Italia a partire dalla fine del 1800 e che ha riguardato più di 27 milioni di partenze. Realizzato con la tecnica delle proiezioni video, coinvolge il visitatore in un emozionante percorso a ritroso: l’arrivo, il viaggio e la partenza. Documenti, immagini e racconti provenienti da tutte le regioni d’Italia.
Un viaggio corale che ha per protagonista l’emigrante: gli addii, l’incontro e lo scontro con il paese straniero, la nostalgia, le gioie e i dolori quotidiani, l’integrazione nella nuova realtà, le sconfitte e le vittorie, il confronto e la riflessione con l’immigrazione di oggi.
Il Museo è centro studi, laboratorio didattico e luogo di memoria.

Oltre alle visite, quali sono le attività collaterali che il Museo propone?

Ad esempio, i laboratori didattici del Museo dell’Emigrazione concepiti come luogo di discussione e di progettazione collettiva dove i docenti hanno la possibilità di confronto e di scelta dell’impostazione metodologica; sono una banca-dati, un complesso di attrezzature, un luogo mentale: una o più modalità di fare storia, di vivere l’attualità e di rapportarsi con il passato, utilizzando fonti multimediali, contenuti, metodologie e tecniche multidisciplinari.
Il lavoro con le classi si svolge durante una giornata articolata in attività di gruppo che prevedono, generalmente, un’introduzione, un’attività pratica ed una discussione sull’esperienza vissuta. Sono privilegiati momenti di condivisione, esplorazione, simulazione. Le tematiche affrontate sono diversificate a seconda dell’ordine scolastico

L’Umbria quale peso ha sopportato negli anni delle varie ondate di emigrazioni?

Rimasta nei suoi tratti fondamentali sostanzialmente immutata da quella che era nel periodo preunitario, la società umbra appariva intorno al 1880 caratterizzata da un tenace immobilismo, a sua volta causa ed effetto di una arretratezza economica, sociale e politica. Asse portante dell’economia era l’agricoltura, che però versava in condizioni di estrema arretratezza: la proprietà della terra era per la maggior parte concentrata nelle mani di pochi proprietari, interessati solo al mantenimento dello statu quo politico e sociale; strettamente connesso alla grande proprietà, frazionata e povera di capitali, era l’istituto mezzadrile, il rapporto di conduzione più diffuso della regione. La produzione era assai scarsa e le rese assai basse e non sembra vi siano stati aumenti sostanziali nei due decenni postunitari. Un intervento che, operato dal nuovo stato unitario, ebbe riflessi su vasta scala in Umbria, fu il prelievo fiscale, la cui forte crescita nei primi decenni unitari contribuì ad un impoverimento progressivo della regione e dei contadini in particolare. Gli “equilibri del non sviluppo” incominciavano ad essere intaccati e cominciava ad essere scossa la tradizionale rassegnazione della gente nei campi. Ne era un sintomo la comparsa dell’emigrazione all’estero.

Dopo le emigrazioni cominciate nel 1870 e poi quelle del secondo dopoguerra, stiamo assistendo in questi anni una nuova emigrazione. Quali le sue caratteristiche?

L’Italia è tornata ad emigrare. Come in passato, la gran parte degli italiani è molto giovane e si colloca in prevalenza nella classe d’età che va dai 18 ai 34 anni. Raramente, però, i giovani emigranti del passato non avevano un’esperienza professionale pregressa, mentre oggi è molto frequente. Il 70% degli emigranti non possiede un titolo di studio superiore al diploma. Ovvero, la retorica dei «cervelli in fuga», con sua rappresentazione del fenomeno odierno come migrazione di cervelli da contrapporre alle migrazioni di braccia del passato, si deve da un lato alla polarizzazione dell’attenzione su un segmento minoritario rispetto al totale – il 30% di laureati – e dall’altro alla rimozione contestuale di due aspetti: il livello di scolarizzazione medio nell’Italia odierna è enormemente cambiato rispetto alle stagioni precedenti gli anni Settanta; anche nei flussi migratori mediamente meno scolarizzati del secondo dopoguerra, erano presenti quote consistenti dei soggetti più istruiti e dotati di competenze professionali del loro territorio, proprio perché chi partiva e chi parte sono spesso individui più forniti di risorse.
I settori professionali in cui la migrazione italiana principalmente si concentra sono peraltro ancora quelli tipici delle migrazioni «proletarie»: in Germania, per esempio, il settore dell’industria, con i suoi 57.000 addetti, è ancora quello dove si trovano più cittadini italiani, mentre al secondo posto si colloca la gastronomia, con 40.000 addetti. Quest’ultimo settore è cresciuto tra il 2008 e il 2015 di ben 15.000 unità e comprende “i lavoratori di mense, bar, ristoranti e quant’altro, ricettacolo dell’occupazione più povera e precaria”


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Gualdo Tadino
Museo dell’emigrazione
Palazzo del Podestà - Piazza Soprammuro
Tel./Fax 0039 075 9142445
E-mail info@emigrazione.it


Quando dicono: Mussolini ha fatto anche cose buone


Tutti i regimi totalitari, di ogni colore, hanno segni in comune: infondere nel popolo sempre grande ottimismo specie nei momenti più bui, esaltazione del giovanilismo rendendo le nuove generazioni attori con le stesse idee della generazione precedente, celebrazione del patriottismo, elogio dell’obbedienza, controllo dei libri di testo nelle scuole, una sospettosa e occhiuta censura su tutte le arti e scolpire nelle menti tante bufale tendenti a vantare imprese del governo.
In Europa, maestro in queste nequizie fu indubbiamente il nazista Goebbels ministro della propaganda del III Reich, ma anche il fascismo si accreditò presso gli italiani inventando imprese non compiute e amplificando in maniera assordante piccole faccende realizzate.
Eppure da noi quelle panzane resistono ancora e sono diffuse spesso in mala fede, ma, quel che è peggio, perfino in buona fede. Significa cioè che hanno fatto presa.
Quelle bufale contribuiscono a dare fiducia in soluzioni ispirate all’autoritarismo come anche recenti risultati elettorali attestano.
Sul tema della propalazione di menzogne divenute verità, è stato pubblicato un libro di grandissima forza documentaristica, eccellenti pagine scritte benissimo che sbugiardano le tante fole messe in giro dai fascisti del Regime prima, dai neofascisti dopo e che hanno trovato immeritato credito.
Titolo: Mussolini ha fatto anche cose buone Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo.
L’autore: Francesco Filippi.
Nato nel 1981, è uno storico della mentalità e formatore.
È Presidente dell’Associazione di Promozione Sociale Deina che organizza viaggi di memoria in luoghi che testimoniano atrocità della Storia e percorsi formativi in collaborazione con scuole, istituti storici e università in tutta Italia.
Ha collaborato alla stesura di manuali e percorsi educativi sui temi del rapporto tra memoria e presente.
Tra le sue più recenti pubblicazioni Appunti di Antimafia-'Ndrangheta (con Dominella Trunfio, 2017) e “Il Litorale Austriaco tra Otto e Novecento. Quanti e quali confini?” pubblicato in Piacenza, Trieste, Sarajevo, un viaggio della Memoria (a cura di Carla Antonini, 2018).

Prima di proseguire in queste mie righe, voglio riportare un giudizio sul duce di un grande antifascista su posizioni liberali: Piero Gobetti. Solo Gramsci e pochi altri lo amavano fra i comunisti. Così scrisse: Egli non ha nulla di religioso, sdegna il problema come tale, non sopporta la lotta con il dubbio: ha bisogno di una fede per non doverci più pensare, per essere il braccio temporale di un'idea trascendente. Poteva essere il duce di una Compagnia di Gesù, l'arma di un pontefice persecutore di eretici, con una sola idea in testa da ripetere e da far entrare "a suon di randellate" nei "crani refrattari".

“C’è da dire” – scrive Carlo Greppi nella Prefazione di ‘Mussolini ha fatto anche cose buone’ – “che il fascismo aveva fatto di tutto per evitare di essere smascherato. Nel 1925, ad esempio, aveva introdotto il reato di «offesa al Duce» che puniva i colpevoli con la reclusione e con una multa, reato poi riformulato nel Codice penale che aumentò la pena, stabilendo la reclusione da uno a cinque anni, e inserito infine nel Codice militare di pace che l’accresceva da tre a dodici anni”.
Il libro passa in rassegna tutte le falsità che passano per vere, a cominciare da quella che cita Mussolini come il creatore dell’istituto delle pensioni.
Il governo italiano, infatti, adottò ufficialmente un primo sistema di garanzie pensionistiche nel 1895. Il futuro “duce” aveva allora 12 anni, un precoce legislatore non c’è che dire!
Seguono poi nel volume altre smentite come potete osservare dall'Indice
Insomma se fossero esistiti più libri come questo di Filippi a cominciare subito dal dopoguerra, forse ci saremmo risparmiata quell’offesa all’intelligenza che è il sopravvivere di tante fole.

In questo breve video l’autore esprime considerazioni sul tema del suo volume.
In quest'altro video di tempo fa un’esilarante esibizione di Roberto Benigni in una folgorante riflessione sulla frase “Mussolini ha fatto anche cose buone”.

Dalla presentazione editoriale
«Dopo oltre settant’anni dalla caduta del fascismo, mai come ora l’idra risolleva la testa, soprattutto su Internet, ma non solo. Frasi ripetute a mo’ di barzelletta per anni, che parevano innocue e risibili fino a non molto tempo fa, si stanno sempre più facendo largo in Italia con tutt’altro obiettivo. E fanno presa. La storiografia ha indagato il fascismo e la figura di Mussolini in tutti i suoi dettagli e continua a farlo. Il quadro che è stato tracciato dalla grande maggioranza degli studiosi è quello di un regime dispotico, violento, miope e perlopiù incapace. L’accordo tra gli studiosi, che conoscono bene la storia, è piuttosto solido e i dati non mancano. Ma chi la storia non la conosce bene – e magari ha un’agenda politica precisa in mente – ha buon gioco a riprendere quelle antiche storielle e spacciarle per verità. È il meccanismo delle fake news, di cui tanto si parla in relazione a Internet; ma è anche il metodo propagandistico che fu tanto caro proprio ai fascisti di allora: «Dite il falso, ditelo molte volte e diventerà una verità comune». Per reagire a questo nuovo attacco non resta che la forza dello studio. Non resta che rispondere punto su punto, per mostrare la realtà storica che si cela dietro alle sparate della Rete. Perché una cosa è certa: Mussolini fu un pessimo amministratore, un modestissimo stratega, tutt’altro che un uomo di specchiata onestà, un economista inetto e uno spietato dittatore. Il risultato del suo regime ventennale fu un generale impoverimento della popolazione italiana, un aumento vertiginoso delle ingiustizie, la provincializzazione del paese e infine, come si sa, una guerra disastrosa. Basta un’ora per leggere questo volume, e sarà un’ora ben spesa, che darà a chiunque gli strumenti per difendersi dal rigurgito nostalgico che sta montando dentro e fuori il chiacchiericcio sguaiato dei social».

Francesco Filippi
Mussolini ha fatto anche cose buone
Prefazione di Carlo Greppi
Pagine 132, Euro12.00
Bollati Boringhieri


Blooming Festival (1)

A Pergola località che fa parte dei borghi più belli d’Italia, si svolgerà Blooming Festival di arti numeriche e culture digitali dal 28 al 30 giugno.
“Blooming” è un progetto di Palazzo Bruschi, Associazione di promozione sociale con sede proprio a Pergola, che ha per finalità organizzare eventi di aggiornamento e sviluppo culturale.
L’importanza di questo Festival, tanto bene ideato e programmato, ben s’inserisce nel tempo storico e filosofico che viviamo.
Interviene, infatti, nel momento in cui un’epoca sta sopraggiungendo cambiando non soltanto regole sociali (questo è già avvenuto nel passato anche se non con la radicalità di oggi), ma perfino con la possibilità che sia il nostro stesso corpo a cambiare avviandosi, come autorevoli studiosi sostengono, verso un, sia pur lontano, futuro post biologico.
Già nel presente avvengono importanti cose, segnali di quanto potrà ancora avvenire.
Il rapporto fra Arte e Scienze, ad esempio.
Dopo secoli sono tornate a far parte dello stesso territorio al quale sempre appartenute (si pensi al Rinascimento): quello della creatività umana senza perniciose partizioni.
La divisione idealistica fra i due campi del sapere è caduta, speriamo per sempre.
Ha scritto Paul Feyerabend in ‘La scienza come arte’: “Ogni opera di scienza è scienza e arte, come ogni opera d'arte è arte e scienza. Solo come spontanea è l'arte nella scienza, così spontanea è la scienza nell'arte”.
Pensiero di grande attualità oggi con l’intreccio multidisciplinare, con forti richiami alle scienze e alle tecnologie, che è alla base del procedere artistico sia nelle arti visive sia nella musica e perfino in letteratura dove, ad esempio, la mescolanza di suoni, immagini e testo varia a ogni riproduzione in “The set of the U” del francese Philippe Bootz, uno dei padri del sottogenere della poesia elettronica; oltre cinquecento combinazioni, invece, in “Bromeliads”, opera in prosa dell'americano Loss Pequeño Glazier, ritenuto con Bootz e lo statunitense Michael Joyce (scrittore d’ipertesti) tra i principali autori di eLiterature”.
E che dire poi di quanto accade nelle arti visive, nella musica, nel teatro tecnosensoriale?

L’intersezione fra la ricerca estetica e quella scientifica sorge anche da luoghi non deputati a quella specifica ricerca. Si pensi ad esempio a quegli artisti che s’interessano alla Singularity University (diretta da Ray Kurzweil, sostenuta da Google e dalla Nasa) che ha per finalità la creazione di una generazione di scienziati in grado di gestire il passaggio dall’umano al post-umano; in grado, cioè, di affrontare il momento in cui i sistemi dei computer avranno la capacità di programmarsi da soli, dall’intelligenza artificiale saranno raggiunte accelerazioni che supereranno le facoltà e le capacità dell’uomo. In altre parole, si assisterà alla nascita di una nuova civiltà technotransumana determinata principalmente dallo sviluppo della genetica, della robotica cognitiva, delle nanotecnologie.

Plurali e affascinanti sono i tracciati che incrociandosi sviluppano nuove forme di conoscenza. Negli ultimi anni, ad esempio, le neuroscienze hanno manifestato un crescente interesse nei confronti dell’arte non solo per studiare il funzionamento del cervello, per comprendere in che cosa consista l’esperienza degli ‘oggetti artistici’ frutto dell’espressione creativa umana. Difatti, i temi dell’arte e dell’estetica si possono investigare, anche grazie a nuove tecnologie e da una nuova prospettiva, quella di un’estetica sperimentale che studi le risposte del cervello e del corpo per mettere in luce le componenti ‘invisibili’ indotte dal visibile artistico.
Come le neuroscienze possono aiutarci a capire l’esperienza delle opere d’arte?
Risponde Semir Zeki, in un prezioso studio “La visione dall’interno”, padre della neuroestetica, nuova disciplina che affianca un approccio neuroscientifico alla consueta analisi estetica dell’ideazione e della fruizione di opere d'arte.

Il futuro rispetto a secoli e perfino decenni fa ha cambiato aspetto e tempo d’inverarsi: ha cambiato natura.
Un uomo morto dopo l’invenzione della stampa e immaginiamolo rinato due secoli dopo, certamente troverebbe cose nuove ma non tanto da imbarazzarlo.
Immaginiamo, al contrario, un tale morto alla fine del 1968 e rinato oggi tornerebbe a rintanarsi nella tomba: viaggio di umani sulla Luna, prima uscita di un satellite artificiale fuori del nostro sistema solare, telefonini, internet, trapianti chirurgici di più organi nello stesso intervento, realtà virtuale, esoscheletro che già permette passi a chi prima era consegnato all’immobilità. Senza dire i cambiamenti di costume intervenuti perché influenzati da nuovi modi dell’esistere.
Mark O’ Connell in un recente libro Adelphi (“Essere una macchina”) avvicina gente quali Elon Musk o Steve Wozniak che affermano che di qui a poco la nostra mente potrà essere scaricata su di un computer e da lì assumere una quantità d’altre forme, non necessariamente organiche. Oppure il famoso biochimico inglese Aubrey de Grey (è impegnato nel progetto SENS > Strategies for Engineered Negligible Senescence) che afferma essere possibile per un umano vivere mille anni. “Com’è possibile!” – esclama O’ Connell – “Dipende solo dai finanziamenti che otterremo per la ricerca” risponde serenamente de Grey.
Eppure una delle cose che ascoltiamo più di frequente da tanti sono le lodi del passato sempre unito a un’accigliata condanna dei nostri giorni dove “con queste diavolerie chissà come andremo a finire”. Perché tanti arretrano di fronte all’oggi, e, peggio, al futuro che scienza e tecnologia propongono a ritmi sempre più accelerati? Perché si rifugiano in un passato immaginato, chissà perché, sempre migliore del presente. Sono gli stessi che parlano male del progresso, ma ben felici che sia stata inventata l’anestesia quando siedono dal dentista.
Michel Serres (“La mente filosofica più fine che esista in Francia”, diceva di lui Umberto Eco) li condanna severamente nel suo “Contro i bei tempi andati”. Ai catastrofisti non consente loro alcun vagheggiamento del buon tempo andato: “Ogni nostalgia del ‘prima’ dovrà mostrare il proprio volto ipocrita di difesa e chiusura preconcetta al nuovo”.

Segue ora una nota sul programma.


Blooming Festival (2)


Il Festival Blooming è alla sua III edizione dopo le prime due che hanno contribuito all’affermazione del progetto dapprima su scala nazionale e poi internazionale.
Quest’anno, infatti, vedrà artisti provenienti da tutto il mondo presentare il proprio lavoro di ricerca nel campo della cultura digitale in plurali aree espressive.
La direzione artistica è a cura di Quiet Ensamble collettivo tra i più importanti nel panorama intermediale in Italia, la cui ricerca è improntata sulle linee di confine tra natura e tecnologia.

Immagini video da Facebook.

Dal comunicato stampa

«Tra gli ospiti annunciati alcuni dei nomi più rilevanti nella new media art internazionale: Cinzia Campolese (Italia), Olivier Ratsi (Francia) e Guillaume Marmin (Francia). Cinzia Campolese vive e lavora a Montréal, è membro del centro di arti digitali Perte de Signal e i suoi lavori sono stati esposti in istituti culturali, gallerie ed eventi come Stereolux, BAM Festival, Chromatics, roBOt e tanti altri; il suo lavoro a Blooming si dipana attraverso specchi, riflessi e proiezioni luminose che altereranno la percezione degli spazi in cui è inserito.
Dalla Francia arrivano invece, per la prima volta in Italia, Olivier Ratsi, co-fondatore del collettivo AntiVJ, con un curriculum importante di presenze nei maggiori festival del mondo (Elektra, Mutek, la Biennale di Montreal), che a ‘Blooming’ presenterà un suo lavoro site-specific – e Guillaume Marmin, la cui pratica artistica si basa sulla ricerca di un nuovo alfabeto sinestetico, un linguaggio comune tra immagine e suono, che lo ha portato nel corso della sua carriera a collaborare anche con il padre della techno Jeff Mills.
Assieme con loro in line-up anche l’olandese Mariska De Groot, che lavora sul binomio luce-suono utilizzando una strumentazione interamente analogica; i collettivi Volna (Russia), OLO Creative Farm e Motorefisico (Italia), ognuno di loro capace di indagare in maniera sempre nuova con le proprie opere i confini dell’interattività digitale; Minus Log, progetto di Manuela Cappucci e Giustino Di Gregorio, nei cui lavori l’attenzione si concentra sullo spazio vuoto, su una comunicazione che nasce dal silenzio; Roberto Pugliese, la cui ricerca si muove tra sound-art e arte cinetica e programmata, e che vanta numerose partecipazioni in festival in tutta Europa.
E poi ancora: Oleg Savunov, Spacetik, Natan, Alessandro Panzetti, Alessio Hong, Roberto Memoli, Cosmica Collective, Kali, Psicofonie Granulari.

Tutti gli artisti presenti a ‘Blooming’ lavoreranno a stretto contatto con luoghi legati al passato, incoraggiando nuovi punti di vista attraverso la ricerca digitale-elettronico-numerica, un’esperienza dinamica in cui il pubblico potrà interagire con i luoghi e con le opere vivendo le città in maniera differente.

Tra i partner del festival c’è RUFA – Rome University of Fine Arts, che presenterà un progetto prodotto dai propri studenti sotto la supervisione di Quiet Ensemble. Tra gli altri progetti collaterali di ‘Blooming 2019’ Luca Cataldo condurrà il workshop “Dalla luce alla proiezione”, un laboratorio rivolto ai bambini, che incoraggia l’utilizzo della manualità con l’uso delle tecnologie analogiche e digitali».

Ufficio Stampa:Daccapo - daccapocreativeagency@gmail.com
+39 3397050840 / +39 340 8288293

Blooming
Info: ciao@bloomingestival.it
Tel: (39) 340 – 377 44 34
Pergola
Dal 28 al 30 giugno 2019


L'altra specie

A partire dalla seconda metà del XX secolo si sono avuti i primi segnali su come Il futuro abbia cambiato natura. Dapprima fisicamente rappresentato, si è ora dematerializzato in un’alba transumana, così come sono definiti i nostri anni da alcuni antropologi.
La tecnofilosofia di Max More, di Eric Drexler il pensiero di Ray Kurzweil con la sua Teoria della Singolarità (oggi studiata nell’Università da lui fondata con i finanziamenti della Nasa e di Google), la genetica, le nanotecnologie, la robotica cognitiva, sono elementi che vanno a disegnare un futuro non più affidato al dinamismo dell’immaginazione, ma alla realtà di laboratori dove sono in corso ricerche che cambieranno la società e le sue regole, le psicologie di gruppo e il pensiero politico, e in un lontano futuro la stessa creatura umana se così ancora la si potrà definire, e in parecchi ne dubitano. Come, ad esempio Kevin Warwick il quale sostiene che il prossimo passaggio dell’evoluzione potrebbe non essere scritto in un libro di biologia ma di informatica per effetto della sempre più raffinata ibridazione Uomo-Macchina.
In un momento, come l’attuale, la figura del robot già ricopre molteplici ruoli: nell’assistenza medica (diagnosi, chirurgia, riabilitazione), nella domotica, nell’industria, nei trasporti, nello sport. La sua presenza suscita dibattiti sociologici, etici, politici.

La casa editrice il Mulino ha pubblicato un piccolo grande libro che su quel panorama scientifico e i temi che ne derivano fa chiarezza in modo eccezionale.
Piccolo libro per dimensioni, è un grande libro per la capacità di trasmettere al lettore in modo semplice ma rigoroso i plurali meccanismi che governano la robotica e i suoi molteplici esiti.
Titolo: L’altra specie Otto domande su noi e loro
Ne è autore Roberto Cingolani.
Laureatosi in fisica presso l’Università di Bari (1985), ha conseguito il diploma di perfezionamento alla Scuola normale superiore di Pisa (1990); membro del team di ricerca del Max Planck Institute di Stoccarda (1988-1991), visiting professor presso l’Università di Tokyo (1997-98) e professore aggiunto presso la facoltà di ingegneria elettronica dell’Università di Richmond, Virginia (1998-2000), dal 2000 al 2005 è stato professore associato di fisica generale presso il Dipartimento di scienza dei materiali dell’Università di Lecce. Nel 2005 è stato nominato direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. In questo video ne profila struttura e finalità.
È stato membro dello staff del Max Planck Institut di Stuttgart. Tra i suoi libri Il mondo è piccolo come un'arancia (Il Saggiatore, 2014) e per il Mulino Umani e umanoidi. vivere con i robot (2015).

Il libro è il risultato di una conversazione tra una biologa, Caterina Visco, e un fisico, Cingolani. Questa forma espositiva scelta si rivela assai indovinata perché le pagine ne acquistano in sintesi.
Merito primo di questo agile volumetto è mantenere una saggia distanza da corrivi entusiasmi che talvolta trasformano la scienza in fantascienza, ma di meriti i due dialoganti ne hanno anche altri.
Perché quel titolo “L’altra specie”? Risponde Cingolani: È un termine creato da me. L’ho coniato quando mi sono trovato davanti qualcosa che, se esistesse in natura, sarebbe appunto una nuova specie.
Il discorso così avviato procede con domande e risposte che vanno da come si crea un’altra specie a cosa c’è oltre l’umanoide, da fino a che punto si può imitare la natura a se i robot avranno emozioni (e stupidità) come noi, fino ad arrivare se è giusto oppure no avere paura di super robot. Cingolani risponde a quest’ultima domanda affermando che … quando si parla della paura che hanno le persone nei confronti delle macchine bisogna tenere in considerazione che gli esseri umani proiettano su qualunque altra individualità artificiale o naturale i propri errori e le proprie debolezze. Si aspettano dagli altri quello che la versione peggiore di loro stessi farebbe. Tuttavia i robot non hanno ormoni, non si arrabbiano, non si ingelosiscono, non si deprimono e non compiono atti inconsulti come noi. Decidono sulla base di un algoritmo, senza variabilità di origine biologica. E la decisione è sempre quella. Allora qual è il pericolo? Non certo che il robot impazzisca. Il vero pericolo può stare nella gestione della memoria e dell’intelligenza, cioè di quell’unica intelligenza della specie che potrebbe governare milioni se non miliardi di corpi artificiali. Quindi, aver paura dell’uomo che gestirà l’infrastruttura più che della macchina stessa.

Dalla presentazione editoriale
«Macchine che sostituiscono il lavoro dell’uomo, animaloidi quadrupedi o plantoidi dalle radici intelligenti, insetti robot, umanoidi alla blade runner, ma anche algoritmi sempre più sofisticati, intelligenze artificiali che applicate ai big data possono controllare centinaia di robot. È questa l’altra specie? Come è nata? È capace di provare emozioni? Dovremo averne paura? Quali problemi etici solleverà la sua esistenza? Nessuno meglio di Roberto Cingolani può raccontarci obiettivi, speranze, fallimenti di una delle più straordinarie sfide della conoscenza: capire il lavoro compiuto dall’evoluzione in miliardi di anni e tentare di imitarlo»

Cliccare QUI per leggere le prime 5 pagine

Robero Cingolani
L’altra specie
Pagine 168, Euro 14.00
Il Mulino


Comunicazione fra carta e web


Come cambia la comunicazione su carta ai nostri giorni contrassegnati dalle “psicotecnologie” (copyright del termine: Dennis De Kerckhove)?
Di solito si fronteggiano due schieramenti: i difensori a oltranza della cellulosa e quelli della pagina elettronica. Da parte mia, credo in ciò che sosteneva Umberto Eco: nessun medium ha mai ucciso un altro, il cinema non ha ammazzato il teatro, la tv non ha assassinato la radio, e così via fino alla scrittura su carta che esisterà anche in un futuro facile da prevedersi sempre più internettiano.
Piuttosto c’è da chiedersi fino a quale punto può vantaggiosamente giovarsi l’integrazione fra il vecchio e il nuovo.
Giorni fa mi è capitato un esempio significativo al proposito.
Un’agenzia di amministrazione condominiale, pur disponendo di un buon sito web, si è dotata di un semestrale che potremmo definire un ‘house organ’ di secondo tipo, vale a dire non diretto ai dipendenti interni dell’azienda, ma ai lettori del territorio, emiliano in questo caso. Già, ma quali sono i contenuti di quella pubblicazione? Prevalentemente storici e culturali.
Impensabile tempo fa che un’amministrazione condominiale pubblicasse un magazine patinato con piccole storie, brevi interviste, incisi storici, curiosità, con un contenuto iconografico che fotografa case e strade sia familiari ai lettori sia, invece, semmai scoperte per la prima volta da quegli stessi lettori. In pratica, nessuna pubblicità diretta ma pagine di servizio che, però, fanno ben intendere la qualità dell’azienda proponente.
È questo un discorso che coinvolge (eccome!) il mondo pubblicitario (mi propongo di tornarci più in là). Kevin Roberts, amministratore delegato della Saatchi & Saatchi, a Cambridge dove insegna sostiene, infatti, che i marchi sono in crisi, il brand muore, quello che conta sono stili di vita e conoscenza. Il brand era costruito sul concetto di superiorità: macchina più veloce, telefonino più leggero, lana più morbida, eccetera. Ora è il momento del “lovemark” fatto di tre componenti: “cultura, sensualità, territorio fisico o sociale”.
Ecco che il web qualcosa ha pur cambiato nell’informazione, perché l’esempio da me presentato mi pare significativo dell’influenza benefica dell’integrazione fra medium vecchi e nuovi.
Ancora una cosa su quella pubblicazione che tanto mi ha incuriosito: la direzione è stata affidata non a una redattrice, pur brava, del giornalismo di varietà o di turismo ma a una scrittrice: Cristiana Minelli (“Pacco di Natale”, “Il colombo è andato alla toilette”, “Ascolta le cicale”).
A lei ho rivolto qualche domanda.

“Manzini Magazine”. Ho scritto in apertura che tempo fa sarebbe stato impensabile un periodico d’amministrazione condominiale che stampasse una rivista.
Quali nuove regole di comportamento nel mondo della comunicazione sono intervenute per fare accadere questo?

“Il mondo della comunicazione non è un mondo a parte rispetto ai contenuti che veicola. Non gli è estraneo, evolve e muta insieme a ciò che comunica. Siamo nell’era digitale, che ormai impera, ma abbiamo ancora bisogno del contatto umano più diretto. Una rivista semestrale, cartacea, risponde perciò a una nuova esigenza: quella di una comunicazione di ritorno, quel vis-à-vis che solo la carta ti può dare, perché le storie condominiali, per essere davvero condivise, si devono sfogliare. E conservare. Devono sbucare dalla buca delle lettere.

Dal primo numero noto che è dato largo spazio ad articoli sulla storia e sulla cultura cittadina. Una proposta culturale che abbraccia architettura e sociologia…

ll dibattito culturale ce lo portiamo dentro, fa capolino ogni volta che facciamo una scelta. Si specchia nel nostro quotidiano, nell'abito che portiamo, nella casa che abitiamo. Attorno al pianeta casa gravita un'orbita eterogenea che “Manzini Magazine” ha intercettato per comunicare qualcosa che va oltre il pianerottolo, il ballatoio di un terrazzo, l’androne di un palazzo, la panchina di un giardino condiviso o un ascensore”.

E pensare che un ministro buontempone un giorno – mica tanto tempo fa – disse: “con la cultura non si mangia”…



I luoghi del pensiero


L’Editore Neri Pozza ha pubblicato un originale saggio, scritto in maniera sapiente e scorrevole al tempo stesso, che percorre i luoghi europei dove sono nate idee che hanno illuminato il mondo.
Un appassionante tragitto attraverso le esistenze di 11 filosofi e i luoghi dove hanno vissuto.
Titolo: I luoghi del pensiero Dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo. Ne è autore Paolo Pagani.
Ha studiato filosofia. Giornalista professionista, ha lavorato in periodici e quotidiani, ha guidato redazioni web e ora è caporedattore Sky a Milano.

Dalla presentazione editoriale

«Questo libro è una originale cartografia intellettuale che racconta la storia delle idee e la loro genesi. Un viaggio reportage alle radici della cultura europea: nomi, case, sepolcri degli uomini che hanno cambiato la nostra visione del mondo. Soprattutto: idee nate da quei nomi, in quelle dimore, interrate in quei sepolcri, ma ancora vive perché potenti, lungimiranti, preziose, eterne, fondative. Perché c'è un'aura in ogni luogo, un linguaggio non detto che si impara ad ascoltare.
Da Spinoza, nel Seicento olandese, Paolo Pagani risale il tempo e lo spazio fino a Thomas Mann, inseguendo e spiando nel loro lavoro quotidiano e nell'impegno di una vita grandi filosofi e scrittori, muovendosi fra stati, città, paesi, borghi, piccoli abitati, baite, stanze in affitto, monti e mari, dal Sud al Nord dell'Europa, sino agli Stati Uniti».

A Paolo Pagani ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro?

È il frutto di molte letture e di qualche viaggio. Mi ha sempre interessato visitare luoghi che spandessero un’atmosfera speciale dal punto di vista culturale, geografie che fecondassero pensieri, testimoniassero temperie di pensiero. In un momento in cui l’Europa traversa una fase drammatica della sua storia, ho pensato fosse utile riassumere qualcuna delle idee colte fondative che stessero alla base del suo portentoso sviluppo ideale nei secoli. E ho perciò individuato nella parentesi temporale tra 600 e 900 un momento ideale per compiere questa ricognizione. Lì dove, faticosamente è nata la Modernità come rottura e sganciamento da dogmi consolidati, Cosa dobbiamo rimpiangere dunque? Cosa non deve andare perduto del nostro inestimabile patrimonio intellettuale? Ecco qua.

I luoghi hanno influenza sui pensieri che in quel paesaggio nascono?

È un assunto assolutamente personale, che non ha la pretesa di trasformarsi in assioma di valore assoluto. Ma che certi luoghi esprimano un senso, trasmettano cioè un’aura speciale è secondo me un fatto. Viaggiando nell’Olanda del Secolo d’oro, il Seicento, è facile accorgersi che le condizioni economico-sociali del tempo e del luogo hanno propiziato quel che scrivo di Spinoza e Cartesio. Lo stesso vale per la Foresta Nera di Heidegger o la Cambridge e l’Irlanda di Wittgenstein. La geografia, così come influenza senza dubbio la Storia, allo stesso modo fa scaturire pensieri. Per luoghi non intendo ovviamente solo città o campagne, ma anche le specifiche “officine” di scrittura dei pensatori di cui parlo.

I capitoli del volume sono dedicati a undici filosofi. Quale criterio ti ha guidato nella scelta dei loro nomi?

La selezione dei personaggi del libro obbedisce quasi esclusivamente a un criterio di gusto e interesse personale. Avrei naturalmente potuto elencarne anche altri, aggiungerne magari. E ciascun lettore del libro è liberissimo di credere che nomi diversi avrebbero contribuito a dare ricchezza al mio lavoro di ricostruzione, al senso di un lavoro di questo genere, metà saggio e metà narrazione. Ma sono gli autori che più ho amato leggere e studiare. Uniti, peraltro, da un filo rosso di coerenza secondo me: sono tutte “vite filosofiche”, in cui biografia e pensiero teorico coincidono in modo quasi scandaloso, alla perfezione. Hanno vissuto così come la loro mente riteneva giusto si dovesse vivere e costruire mondi intellettuali. Sono tutti “costruttori di mondi” come avrebbe detto Stefan Zweig. Va spiegata forse la presenza di Thomas Mann, premio Nobel della Letteratura, in mezzo a tanti filosofi: ho pensato che il suo pensiero politico anti-totalitario, l’esperienza dell’esilio in fuga dal nazismo potesse restituire continuità al senso generale del libro. È stato anche Mann un distruttore di paradigmi, anche nel suo caso la crisi è stata formidabile occasione di conoscenza e crescita di una poetica artistica.

Nello scrivere “I luoghi del pensiero” qual è stata la cosa che hai deciso assolutamente da farsi per prima e quale la prima assolutamente da evitare?

Vedere fisicamente i luoghi. Attraversarli alla ricerca di un alfabeto silenzioso che parlasse assieme a loro, nascosto tra una piazza e un cimitero, una scrivania o una casa. Ho sempre inteso evitare, invece, la tentazione della compilazione prosaica di una guida turistica. Il libro vuole essere sì un reportage da cronista nella storia delle idee, che non disdegna il paragone tra ieri e oggi, tra com’era e com’è ora, ma non trasformarsi in una collezione di suggerimenti pratici, in un resoconto giornalistico.

Per concludere una curiosità che credo ogni lettore si ponga: vista la voluminosa e rigorosa documentazione che il tuo libro possiede. Quanto tempo hai impiegato per compiere questo tuo viaggio-reportage? E quali le principali difficoltà incontrate per reperire tale mole di materiali?

La scrittura mi ha impegnato un arco di tempo di circa sette mesi. La preparazione, invece, potrei dire una vita. Ho compiuto molte letture. E mentre scrivevo sono stato più volte obbligato a interrompere il lavoro per un nuovo viaggio di conferma o di qualche lettura aggiuntiva, propiziata dai libri che mi sono serviti da indispensabile guida teorica. Quello del libro è insomma un viaggio composto da più viaggi nel corso del tempo, anche perché sarebbe stato impensabile partire per un unico viaggio senza temporanei ritorni in giro per l’Europa e gli Stati Uniti. L’idea, l’ispirazione di fondo, le motivazioni a scrivere e indagare si sono sviluppate in anni di appassionato desiderio di disegnare una cartografia intellettuale delle nostre origini di cittadini europei. Difficoltà di ordine pratico non ne ho vissute. È stato impegnativo, come detto, alternare scrittura e inevitabili interruzioni dovute a nuove e più aggiornate letture, o al bisogno di rivedere qualche luogo. Sono tornato più volte nella Zurigo di Thomas Mann, per esempio, che abitò una decina di case nel mondo. O nel Baden di Heidegger, tra Friburgo e Todnauberg. È stato comunque un piacere sottile e prolungato raccogliere materiale, dettagli, particolari. Ho voluto scrivere storie, non un trattato accademico. Storie che andavano raccontate con un linguaggio magari ricco e controllato, ma non accademico né “tecnico”.

…………………………...

Paolo Pagani
I luoghi del pensiero
Pagine 368, Euro 13.50
Neri Pozza


Lamberto Pignotti alla Galleria Marini


Roma si è arricchita di un nuovo centro culturale: la.Libreria-Galleria Marini.
A dirigerne programmi e destini è Adele Marini, accanto in foto con Lamberto Pignotti.
Proprio nei locali di questa Libreria, è stata presentata una mostra di Pignotti, artista di assoluto spicco delle neoavanguardie italiane e padre della Poesia Visiva. Sin dagli anni ’60, ha messo in atto una guerriglia semiologica contestando i mezzi di comunicazione di massa, con un inconfondibile timbro caustico e divertito.
Qualche mese fa, era di ritorno da un’ammirata esposizione parigina al Centre Pompidou e gli chiesi: “Tu, da sempre pestifero discolo antiaccademico, come ti vedi esposto in un importante museo qual è il Pompidou”?
Così rispose: Quando negli anni ‘60 nei manifesti e nei convegni del Gruppo 70 scrivev… no, non è una confusione di date, è che il Gruppo ’70 lo fondammo nel 1963… scrivevo che era l’ora per l’arte di passare dal museo al luna park non pensavo di essere stato anche troppo presto preso sul serio. Ora che tutta l’arte è entrata schiamazzando in massa nel luna park, mi son detto che non è male ritornare al museo, magari dalla porta di servizio, da quella di emergenza… di soppiatto… da intruso.

La Galleria Marini dispone di un articolato sito web e, quindi, si può seguire l’artista di volta in volta presentato.
Per vedere testi e immagini che riguardano Pignotti: CLIC
E poi facendo scroll, come dicono i più raffinati informatici, cioè svolgendo la pagina in verticale, troverete varie occasioni di approfondimento: un’intervista all’artista condotta da Adele Marini, una bio-bibliografia di Pignotti, una scheda sul “Gruppo 70”.

Libreria Marini
Via Perugia 8, Roma
info@libreriamarini.it
06 – 89 83 60 76
Lunedì – Venerdì: 16.00 – 20.00


Le grandi macchine di Leonardo

L’Editoriale Scienza ha pubblicato un bel libro destinato ai ragazzi dai 9 anni in su: Le grandi macchine di Leonardo.
Autori: Davide MorosinottoChristian Hill.
Illustrazioni di Marco Bonatti.

Davide Morosinotto è giornalista, traduttore ed esperto di editoria digitale, da molti anni lavora nel settore dei videogame. Ha pubblicato, anche con pseudonimo, più di trenta romanzi per ragazzi presso vari editori italiani: Mondadori, Rizzoli, Einaudi Ragazzi, Piemme. Alcuni dei suoi libri sono stati tradotti in una dozzina di lingue.
Su questo sito ne abbiamo già scritto in occasione di altri suoi lavori stampati da Editoriale Scienza: Video Games e Cyberbulli al tappeto.

Christian Hill è un ingegnere aeronautico che, dopo la laurea, ha fatto di tutto tranne l’ingegnere: ha sviluppato giochi di ruolo e di miniature, è stato giornalista informatico, ha diretto una rivista di fotografia. Associato a ‘Book on a Tree’, ha pubblicato una quindicina di libri per ragazzi e sta muovendo i primi passi nel mondo delle sceneggiature per cinema e Tv.

Di molte invenzioni si sa con certezza chi le ha ideate, su tante altre no.
Il fatto è che un primo, rudimentale modello, talvolta si perde in lontane epoche storiche e di altre sull'iniziale modello sono poi intervenuti tanti sostanziali interventi da rendere ben opaca la prima origine. A questo s’aggiunga che su molte invenzioni grava la simultaneità della scoperta da parte di due o più inventori ed ecco interminabili udienze in tribunale davanti a giudici perplessi.
Poi, invece, antichi modelli che pure si sono giovati di rimarchevoli miglioramenti tecnologici sono ancora ben riconoscibili oggi sia per funzionalità primaria sia per forma presente nonostante gli interventi di ingegneri e designer.


Estate. Gran caldo. Mettiamo in funzione il ventilatore. Meno male che c’è.
Ma chi lo ha inventato? L’enciclopedia ci soccorre. Omar-Rajeen Jumala nel 1832 costruì il primo ventilatore meccanico. Poi l’americano Schuyler Skaats Wheeler all’età di 22 anni nel 1882 mise a punto il primo ventilatore elettrico.
Il caldo è, però, invincibile. Ci porta al mare. E per chi non sa nuotare? C’è il salvagente.
L’enciclopedia (la si consulta anche in spiaggia col telefonino) informa che quel prezioso indumento gonfiabile ha origini antichissime, ma in epoca moderna l’invenzione va assegnata a Andrew Toti, figlio di emigrati italiani. Fu grazie al suo giubbotto galleggiante che ebbero salva la vita numerosi piloti americani durante la Seconda guerra mondiale; poi si diffuse con la commercializzazione del prodotto ad uso balneare.
A proposito di salvataggio, quanti devono la vita al paracadute! Ed ecco dalla spiaggia si vedono laggiù alcuni che per sport o esercitazioni militari sono paracadutati da un velivolo tuffandosi a mare.
Dalla solita enciclopedia apprendiamo che, dopo vari tentativi spesso funestati da esiti incerti o tragici, il primo lancio riuscito perfettamente da un aereo fu effettuato nel 1912 dal capitano statunitense Albert Berry.
Pomeriggio. Si torna a casa. Sullo schermo tv scene di guerra con carri armati all’assalto.
Chi avrà mai ideato quei mostri d’acciaio? Enciclopedia: fu il colonnello E.D. Swinton che lo presentò il 17 febbraio 1917. I capi militari non gli dettero credito. Churchill sì.
Si è fatto tardi. Prima di andare a cena, facciamo i conti di oggi. Quanto si è speso?
Mano alla calcolatric… no, meglio saperlo subito chi l’ha inventata, la curiosità è tanta.
Nel 1642 il filosofo francese Blaise Pascal realizza una macchina capace di addizioni e sottrazioni; nel 1679 un altro filosofo, stavolta tedesco, Gottfried Leibniz, inventa un meccanismo che è anche in grado di moltiplicare e dividere. Ma per arrivare alla calcolatrice tascabile dei nostri giorni, bisogna aspettare il 1972 quando William Hewlett e David Packard mettono sul mercato quella che, con tanti aggiornamenti tecnici poi intervenuti, conosciamo e usiamo tutti i giorni.

Dietro a tutti gli oggetti che ho nominato nelle righe precedenti, c’è un uomo che li ha ideati, spesso con approssimazioni vicine alla forma odierna: Leonardo, nato il 15 aprile del 1452 a Anchiano, vicino a Vinci, in Toscana e morto a 67 anni in Francia il 2 maggio 1519, a Maniero di Clos-Lucé, Amboise.
Leonardo, oltre ai suoi meriti artistici, vanta decine d’invenzioni che vanno dal cavatappi al deltaplano, dalla gru allo scafandro, dalla mitragliatrice alla moderna chitarra, ad altre cose ancora.
Per orientarsi su tutto quanto, “Le grandi macchine di Leonardo” è uno strumento validissimo.

Dalla presentazione editoriale
«Il giovane ingegnere Leo, che viene da Vinci e si dice sia un pro-pro-pro nipote del geniale Leonardo, si ritrova coinvolto in un’animata discussione: un collega sostiene che il suo illustre avo sia un genio sopravvalutato e lui si ripromette di fargli cambiare idea. Inizia così una sfida a suon di invenzioni: sommergibili, aeroplani, automobili, carri armati, ma anche ventilatori, viti, chitarre, gru e calcolatrici… 40 macchine ideate da Leonardo da Vinci più di 500 anni fa, che ancora oggi sono attuali e utilissime! Il libro contiene inoltre tanti esperimenti che evidenziano i principi scientifici alle base delle invenzioni leonardesche e invita il lettore a cimentarsi nella costruzione di alcuni progetti.
In questo libro per bambini, Davide Morosinotto e Christian Hill raccontano l’abilità di Leonardo come ingegnere, presentando le macchine e i congegni da lui ideati: per ciascuno di questi, il volume mostra il progetto com’era negli schizzi di Leonardo e la sua applicazione attuale. Ad accompagnare tutte le illustrazioni, didascalie per capire come funzionano le macchine e i meccanismi che le compongono».

Davide Morosinotto
Christian Hill
Le grandi macchine di Leonardo
Illustrazioni di Marco Bonatti
Pagine 144, Euro 22.90
Editoriale Scienza


Black Mirror (1)


Per chi non conoscesse la serie tv “Black Mirror”, ecco una sintetica scheda tratta da Wikipedia: «Black Mirror è una serie televisiva britannica, prodotta da Charlie Brooker per Endemol. Si tratta di una serie antologica, in quanto scenari e personaggi sono diversi per ogni episodio. La fiction, ambientata nel futuro, ma in realtà ispirata al mondo di oggi, è incentrata sui problemi di attualità e sulle sfide poste dall'introduzione di nuove tecnologie, in particolare nel campo dei media (il titolo infatti si riferisce allo schermo nero di ogni televisore, monitor o smartphone). È stata trasmessa in prima visione su Channel 4 dal 4 dicembre 2011 e in Italia su Sky Cinema 1 dal 10 ottobre 2012».

La casa editrice Mimesis, cogliendo lodevolmente l’importanza di questo genere di spettacolo, da tempo sta seguendo il fenomeno delle serie tv pubblicando libri sul tipo di fiction seriale in corso.
Ora è da poco nelle librerie uno splendido saggio dovuto al tandem Fausto Lammoglia - Selene Pastorino.
Titolo del loro lavoro: Black Mirror Narrazioni filosofiche.
Utilissimo per i redattori della carta stampata, del web, delle radio-tv, godibilissimo per chi da spettatore è interessato a Black Mirror.

Fausto Lammoglia è nato a Savona nel 1988. È laureato in Metodologia della Ricerca Filosofica presso l’Università degli Studi di Genova con una tesi dal titolo Il Cantico della Carità. Carlo Gnocchi, Baden Powell e la bellezza di educare edito da Europa Edizioni. È docente liceale di filosofia dal 2015 e autore di diversi articoli online che trattano i risvolti filosofici sottesi a molte serie tv. Si occupa inoltre della dimensione filosofica dell’esperienza ludica.

Selene Pastorino (Genova, 1986) ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Genova con la tesi Prospettive dell’interpretazione. Nietzsche, l’ermeneutica e la scrittura in Al di là del bene e del male, pubblicata per ETS (2017). Membro del Seminario Permanente Nietzscheano, il suo interesse per il pensiero di Nietzsche verte in particolare sulla questione dell’interpretazione e del prospettivismo.
Dal 2015 è docente liceale di filosofia e storia.

Dalla prefazione editoriale
«L’espressione black mirror allude a ogni strumento tecnologico che, spento o inattivo, si trasforma in un’oscura superficie riflettente. I black mirrors sono parte integrante della nostra quotidianità, in una maniera così pervasiva da rendere difficile, soprattutto per i cosiddetti nativi digitali, una riflessione sulle implicazioni e le conseguenze di questo dominio. In questo contesto, la serie Black Mirror costituisce un’autentica narrazione filosofica che si impone ai propri spettatori come una domanda di senso: nella relazione con la tecnologia, chi è il vero strumento? Siamo noi a incidere sulla realtà, utilizzando gli schermi, o sono loro ad aver strumentalizzato la nostra realtà, a partire da quella identitaria, passando per le relazioni, fino a giungere al grande agone della politica? Il filo di queste riflessioni ci trae in un labirinto filosofico che scava dentro di noi, svelando, dietro gli spettatori, gli umani che non possono più fare a meno dei loro specchi neri».

In apertura ho già fatto i ben meritati elogi all’editore, ma voglio registrare anche una piccola contrarietà che registro spesso in Mimesis: l’assenza di un ‘Indice dei nomi’. Apparato di grande utilità nei libri di saggistica perché permette velocità di ricerca per citazioni a chi lavora nei media e facilità di rintracciare notizie presso tutti i lettori. Inoltre, a citazione avvenuta, ulteriore pubblicità al volume.
Sia chiaro: non solo Mimesis si macchia di questa che, secondo me, è una colpa, anzi è un’abitudine che presso gli editori si va sempre più diffondendo…sigh!

QUI il sito ufficiale di Black Mirror

Segue ora un incontro con i due autori.


Black Mirror (2)


Al duo Fausto Lammoglia - Selene Pastorino ho rivolto alcune domande.
Li sentirete rispondere con una voce sola: prodigi della tecnologia a bordo di Cosmotaxi.

A differenza delle altre serie tv con la storia che si evolve attraverso varie puntate, Black Mirror è strutturata con episodi autonomi da quanto li ha preceduti e da quelli che seguiranno. Perché, nonostante questa caratteristica, è possibile attribuirle ugualmente la dizione di “serie”?

A differenza di altre serie tv considerate esempi della narrazione complessa, Black Mirror non segue l’evolversi di un’unica vicenda, ma presenta piuttosto il carattere dell’antologia. I suoi episodi si susseguono, cambiando personaggi e ambientazioni, con trame assolutamente disparate, condividendo, però, un “mondo”. Questa dimensione comune è resa possibile dal fatto che i presupposti, filosofici e tecnologici, dei diversi episodi non si contraddicono ma anzi restituiscono una certa omogeneità. Una struttura resa evidente dagli svariati “easter eggs” che si rincorrono da un episodio all’altro, come la nota canzone Anyone who knows what love is would undestand.

Che cosa significa “Complex Tv” e perché BM ne è considerato un maiuscolo esempio?

Negli studi dedicati ai nuovi media si usa questa espressione per indicare il modo in cui si è trasformata la narrazione nelle serie tv durante il corso degli anni. Non soltanto assistiamo a racconti che si sviluppano, spesso in maniera non lineare, nel corso di molti episodi, coinvolgendo tanti personaggi e situazioni, ma spesso la complessità riguarda anche la molteplicità di dimensioni in cui si articola la serie. Queste nuove forme di serialità richiedono una maggiore concentrazione attentiva da parte dello spettatore, che spesso è chiamato a partecipare attivamente, vuoi attraverso le forme paratestuali (i forum, le fanzine, i social, …), vuoi ricostruendo il senso della narrazione. Ecco, in questa prospettiva, Black Mirror è forse una delle serie che più richiede a chi la osserva, se vuole fruirne fino in fondo.

Quali le motivazioni per cui ritenete BM una narrazione filosofica?

Black Mirror non è una serie che si occupi direttamente di filosofia. Non ne parla, ma è filosofica, perché fa filosofia e la provoca. La sua narrazione impone allo spettatore di riflettere su quanto ha visto, sull’esperienza che ha vissuto e che spesso lo coinvolge in situazioni controverse. Ogni episodio propone un diverso scenario, spesso decontestualizzato, in cui le convinzioni dello spettatore si trovano messe alla prova, quando non ribaltate, dall’andamento delle stesse vicende. Gli episodi non finiscono con i titoli di coda, di fronte ai quali anzi si accende il ragionamento dello spettatore.
Diventare autori e poi attori di questi finali “privati” implica uno sforzo filosofico non indifferente.

Aldilà dei filosofi del postumanesimo, ad esempio Moore, Drexler, Peirce e altri, è possibile rintracciare nel passato filosofie che abbiano influenzato Brooker nell’ideazione di BM?

Nel testo citiamo alcuni esempi di filosofi che sembrano riecheggiare nelle narrazioni della serie. Platone, Cartesio, Hegel, Kant, Nietzsche e molti altri volteggiano come spettri negli episodi. Nelle interviste che abbiamo avuto modo di leggere, Brooker parla sempre della sua ispirazione in maniera piuttosto spontanea, per cui non abbiamo modo di confermare le nostre impressioni. Vero è che anche per noi non è possibile essere spettatori indifferenti ed è inevitabile ritrovare la nostra storia, in questo caso, la storia della filosofia, nella narrazione di Black Mirror.

Nell’analizzare BM seconda la vostra ottica, qual è la prima cosa che avete deciso essere assolutamente da fare per prima e quale quella che era assolutamente per prima da evitare?

La prima da evitare è stata l’univocità. Abbiamo deciso di intraprendere questa scrittura a due proprio per allargare gli orizzonti. Poiché Black Mirror non offre delle soluzioni conclusive, ma anzi sprona a proseguire l’esperienza della visione nella riflessione e nell’azione individuale, non volevamo imporre una sola lettura. Allo stesso modo, le nostre proposte interpretative restano tali: anche il nostro libro vuole suscitare domande più che fornire risposte. Il “diktat”, invece, è stato lo stile. Anche qui abbiamo cercato di mantenerci coerenti con la serie: competenti, profondi, non banali ma assolutamente accessibili. Il nostro testo non è stato pensato per una nicchia di esperti. Vuole porsi invece come stimolo ad un confronto con la serie e ciò che mette in scena. Se siamo riusciti nell’intento, allora ognuno troverà la sua lettura del testo: chi è appassionato di Black Mirror avrà modo di ritrovarla tra le nostre pagine, chi è digiuno di filosofia potrà seguire le riflessioni del testo e proseguirle con le proprie (o almeno così ci hanno detto), mentre i “tecnici” crediamo possano trovare qualche spunto utile per ampliare le proprie prospettive.

Molti ritengono le serie tv la forma del romanzo moderno.
A questo proposito qual è il vostro pensiero
?

La serialità è sicuramente il linguaggio contemporaneo per eccellenza. Sta scavalcando anche il cinema, come dimostrano i cast “stellari” coinvolti in molte serie (per esempio, nella prossima stagione di Black Mirror). A differenza del cinema, la serie ha più tempo a propria disposizione e può così approfondire la caratterizzazione dei personaggi e delle vicende, rendendo complessa e stratificata la propria narrazione. In questo senso, condivide con il romanzo una possibilità da cui i film sembrano essere esclusi. Al di là delle potenzialità di questa forma di scrittura, non occorre dimenticare quanto la sua struttura sia conforme alle disposizioni cognitive e le esigenze contemporanee, tanto più quando si tratta di serie disponibili sulle piattaforme digitali. Se non sono il romanzo moderno, le nuove serie tv sono sicuramente una narrazione che ben si adatta alla modernità.
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Fausto Lammoglia
Selene Pastorino
Black Mirror
Pagine 220, Euro 18.00
Mimesis


Elisa Zurlo al Riff


Tra i festival italiani, uno che merita particolari attenzioni per il disegno espressivo proposto è il River Film Festival, in sigla RIFF giunto alla tredicesima edizione che iniziata. il 4 giugno terminerà il 30 di questo mese a Padova svolgendosi con schermo galleggiante sulle acque del fiume Piovego.
Lo dirige Emilio Della Chiesa (QUI un’intervista di tempo fa).
Per conoscere lo staff: CLIC!
Perché merita particolari attenzioni? Perché si avvale di una formula che comprende più generi e stili dell’immagine, basta dare un’occhiata al suo programma.
A dimostrazione delle plurali occasioni del suo palinsesto il RIFF propone anche una sezione dedicata alla Realtà Virtuale. Si lega così al progetto triennale River College VR ideato dall’Associazione Researching Movie

La Realtà Virtuale (VR, acronimo di Virtual Reality), è diventata una conquista scientifica e tecnologica presente in più campi: dall’industria alla chirurgia, dalla videoludica, alle arti (da quelle strettamente audiovisive a quelle del teatro tecnosensoriale), ai film che da quell’invenzione hanno tratto soggetti e avvincenti trame così come serie tv e, per prima, la letteratura con il filone noto come cyberpunk.
La nascita del termine VR risale al 1989, anno in cui Jaron Lanier, uno dei pionieri in questo campo, fondò la VPL Research (Virtual Programming Languages, "linguaggi di programmazione virtuale"). Il concetto di cyberspazio, ad esso collegato strettamente, si era originato nel 1982 grazie allo scrittore statunitense William Gibson.
La VR ha un antenato nel “Sensorama” inventato da un cineasta americano diplomato regista in Italia al Centro Sperimentale di Cinematografia; il suo nome (che avrebbe meritato maggiore fortuna) è Morton Helig (1926 – 1997).
Si tenga presente che Helig pur essendo uomo d’immagini proveniva da studi di filosofia, questa cosa la ritengo importante perché dimostra come la VR, fin dalla sua preistoria, sorgeva in chi conosceva l’importanza degli interrogativi sulla realtà, termine che ha affascinato filosofi d’ogni tempo.

Nella sezione del Riff dedicata alla VR partecipa un’artista che sta suscitando più attenzioni da parte dei critici italiani e anche qualche sguardo dall’estero: Elisa Zurlo.

Di recente è stata invitata su questo sito nella sezione Nadir dove troverete cenni biografici, una sua dichiarazione sullo stile di lavoro che pratica e una nota della storica dell'arte Maria Campitelli.
In quell’occasione saltò la citazione di una delle sue imprese… don’t panic please!... qui la recuperiamo, si tratta di Infiniti Futuri (nella foto accanto un’immagine di quella mostra-performance).

A Elisa Zurlo ho rivolto alcune domande.

La realtà virtuale che cosa rende possibile agli artisti visivi che ieri non lo era?

La realtà virtuale è uno degli esempi dell’impiego delle nuove tecnologie che ha mutato la
rappresentazione prospettico/visiva nell’uomo.
Le VR consentono all’artista media art di approfondire i processi di percezione coinvolti durante l’immersione virtuale e verificare quali “provocazioni” il linguaggio audio-visivo sia capace di produrre sul nostro cervello durante il vissuto nelle VR.
Dare nuove forme all’immaginazione in cui condurre il fruitore, creare nuovi “mondi” esplorabili per sollecitare diversi interessi, attraverso mutate capacità percettive e modalità di realizzazione è importante per un’esperienza in cui l’osservatore si inserisce interattivamente nello spazio creato dal computer.
L’artista crea una situazione, un non luogo in cui i tempi di percezione si dilatano e la dimensione in cui abitiamo con tutti i sensi viene espansa perché l’esperienza non è più legata a uno spazio fisico.
La libertà dalla forma narrativa classica e la possibilità di scegliere da quale punto di vista guardare una determinata scena dà vita a potenzialità nuove: nella mente del fruitore si generano altre forme di immaginazione, uno spazio virtuale che va oltre i pensieri.
Il pubblico vive un’esperienza immersiva, non più osservatore passivo viene proiettato a sua volta in un mondo fatto di spazio, profondità, vita, e sogno.

Come pensi che s’inserisca il web nel quadro delle nuove possibilità di produzione artistica contemporanea?

Lo spazio virtuale del web ha dato nuove incredibili possibilità al concetto di arte.
L’opera non è più dell’artista ma l’idea è un’opera connessa in cui la virtualità combinatoria da parte del pubblico è impensabile, è capace di rendere più libero il processo artistico stesso. Fino alla creazione di una realtà alternativa frutto della sinergia tra mondo esterno e medium.

Quale il profilo espressivo di “Of the Totality of Space” (accanto una foto) che presenterai al Riff? Quale scenario vuole rappresentare?

“Of the Totality of Space” è un’opera in cui domina l’assenza di confine, uno spazio astratto che ha un carattere tattile non sintetico, in cui le persone fanno un viaggio, si trovano immerse in uno spazio blu in cui fluttuano cervelli e meduse
“Of the Totality of Space” è un viaggio artistico e percettivo nello spazio virtuale che va oltre i pensieri, sposta i nostri sensi nell’infinito, in continua mutazione, annulla la separazione tra osservatore e oggetto osservato.
Non esiste più un riferimento spaziale ma un fluttuare di elementi: la medusa ‘Turritopsis nutricula’ nota come medusa immortale si alterna e si sovrappone con il cervello-pensiero che esplode, si identifica con l’infinito.

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Festival Riff
Elisa Zurlo
“Of the Totality of Space”
Durata 5'00"
Propileo di Porta Portello
Dal 15 al 22 giugno ‘19
Padova


10 giugno


Data che ricorda terribili fatti.
Il 10 giugno del 1940, ad esempio, Mussolini annunciò l’entrata in guerra dell’Italia contro Francia e Gran Bretagna con le tragiche conseguenze che sappiamo.

Un altro avvenimento è riportato nelle cronache di quel giorno .
Nel 1924: l’assassinio di Giacomo Matteotti.
Avvenne a Roma, sul lungotevere Arnaldo da Brescia, ad opera di un gruppo di fascisti guidato da Amerigo Dumini.
Questo era un tale che si presentava dicendo: “Amerigo Dumini, nove omicidi”.

La banda assassina era composta da Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria, Amleto Poveromo. Durante la fase più concitata del sequestro, Giuseppe Viola con un pugnale colpì Matteotti sotto l'ascella ed al torace, provocandone la morte. In seguito, il gruppo girò per la campagna romana e arrivato alla macchia della Quartarella, a 25 km da Roma, seppellì sommariamente il cadavere che fu poi ritrovato il 16 agosto del 1924 dal cane di un guardiacaccia.
Sarebbe interessante sapere quanti quotidiani e notiziari radio e tv ricorderanno oggi quel sanguinoso attentato.
E ancora più interessante notare quante formazioni della Sinistra hanno organizzato un ricordo.
Ad esempio, consultato minuti fa il sito web del Pd non c’è traccia alcuna, neppure un rigo. Meravigliarsene? E perché mai?

Di sicuro, però, lo ricorda l’Associazione Nazionale del Libero Pensiero che alle 9.30, al Lungotevere Arnaldo da Brescia terrà una cerimonia di memoria.
In un comunicato web, l’Associazione scrive: «In tempi di rigurgiti neofascisti e di vanificazione di memoria storica, questo 95° anniversario assume ancor di più particolare importanza per chi non rinuncia a lottare per un mondo libero da dogmi e padroni».


Pop - App (1)

Una mostra incantevole, bilocata a Roma e Torino con date parallele, è intitolata Pop – App Scienza, arte e gioco nella storia dei libri animati dalla carta alle app.
Curatori: Gianfranco Crupi docente presso l’Università di Roma La Sapienza e Pompeo Vagliani Presidente Fondazione Tancredi di Barolo.
Ciascuna delle due mostre ha una sua specificità: quella di Roma, tesa, soprattutto, ad illustrare la storia del libro animato antico e delle sue applicazioni scientifiche; quella di Torino, più aperta alle implicazioni moderne e alla rappresentazione delle diverse espressioni dell’inventiva cartotecnica.
Le mostre dispongono in Rete di un sito web.

Il progetto espositivo è accompagnato dalla pubblicazione di un volume miscellaneo edito dalla Fondazione Tancredi di Barolo con il sostegno di Regione Piemonte, in cui specialisti di diverse discipline (storici del libro, della scienza, del cinema, delle arti visive, della letteratura per l’infanzia) indagano la storia dei “libri animati” dal Medioevo fino alle più moderne applicazioni digitali; intendendo con “libri animati” quei manufatti librari, creati con finalità di fruizione anche assai dissimili tra loro che includono dispositivi meccanici o paratestuali che richiedono e sollecitano l’interazione

Scrive Antonella Sbrilli su Alfabeta2: «Il titolo dell’esposizione unisce il termine “pop-up” (già in uso all’inizio del ‘900) con il moderno “app”, diminutivo di application, a suggerire che questi volumi erano in fondo le app del passato: libri usabili e interrogabili, che permettevano di costruire carte del cielo e calendari perenni, di simulare dissezioni di organi e di decrittare messaggi cifrati. Bisognava ritagliare e montare linguette, ruotare dischi, sollevare lembi di carta allestiti con perizia per avere uno strumento fai-da-te. L’interazione e la manualità del lettore erano condizioni di esistenza di questi libri, caratteristiche che sono rimaste in uso nell’editoria scientifica, e che si sono riversate - dall’Ottocento in poi - nella letteratura per l’infanzia e nelle invenzioni d’artista.
I libri animati sono anche, diremmo oggi, libri aumentati e - a valutarli dal presente - sono una tappa dell’evoluzione delle interfacce editoriali, suggerendo una esperienza della lettura che annette la manipolazione, l’intervento attivo, la trasformazione».

Segue ora un incontro con i curatori delle mostre.


Pop - App (2)

Ai due curatori delle mostre – Gianfranco Crupi e Pompeo Vagliani – ho rivolto alcune domande.
Li sentirete rispondere con una voce sola: prodigi della tecnologia di cui dispone a bordo Cosmotaxi.

In quale epoca nasce il libro animato e in quale campo, o campi, dei saperi?

Volvelle e flap sono i due dispositivi mobili più largamente presenti nei libri scientifici tra Cinque e Seicento ma, in verità, la loro è una storia che affonda le sue origini già nella cultura manoscritta. I flap, vale a dire alette o lembi di carta pieghevoli, progettati e impiegati per coprire e poi rivelare una o più immagini sottostanti, furono utilizzati a partire dal ‘400 soprattutto nei libri anatomici, mentre le volvelle trovarono largo impiego nell’astronomia, nell’astrologia, nella crittografia, eccetera. I libri animati destinati all’infanzia si svilupparono, invece, a partire dalla seconda metà del Settecento a mano a mano che si consolidava una visione del bambino come entità autonoma, ben distinta da quella dell’adulto. Il destinatario bambino qualifica e specializza le caratteristiche tecnico-costruttive e funzionali di questi manufatti, e ne orienta anche le finalità, che oscillano sul doppio versante parallelo dell’educazione e dell’intrattenimento. Presentano una gamma più ampia di dispositivi e di soluzioni cartotecniche che si sviluppano nell’interazione con il mondo dei libri illustrati e con quello dei giocattoli e dei giochi di carta, nonché con i materiali ludici provenienti dalla cultura del teatro e del precinema.

Un importante ruolo tecnico nel libro animato mi pare sia recitato dalle ‘volvelle’.
In che cosa consistono e a chi si può far risalire la loro invenzione
?

Le volvelle sono costituite da dischi rotanti, di pergamena o di carta, sagomati e sovrapposti, e fissati alla pagina sottostante con uno o più perni. Le più significative e antiche testimonianze si possono far risalire alle opere manoscritte del monaco benedettino inglese Matthew Paris (1200 ca. – 1259) e del filosofo maiorchino di lingua catalana Ramon Lull (1232/33 – 1315). Lull, infatti, concentrando nel dispositivo della volvella una considerevole mole di informazioni, elaborò un sofisticato meccanismo logico, basato sulla tecnica combinatoria e finalizzato al conseguimento della verità. Una volta trovato l’artificio, esso si poteva utilizzare, come di fatto avvenne, in una molteplicità di applicazioni e usi (dalla crittografia alla retorica, dalla medicina all’astrologia), e incontrarsi con la tradizione dei testi divinatori e con quella astronomica, che utilizzava rotulae o volvelle per misurare e stimare la latitudine di un punto sulla superficie terrestre e la posizione dei corpi celesti, o per calcolare, ad esempio, la ricorrenza di festività a cadenza variabile come la Pasqua, com’è ad esempio nel caso di Matthew Paris.

Nel visitare questa mostra, spesso in quelle teche mi è sembrato di vedere un antenato del computer…

Non è un caso che la mostra e il volume che l’accompagna s’intitolino “Pop-app. Scienza, arte e gioco nella storia dei libri animati dalla carta alle app”. La provocatoria sostituzione di -up con -app va ben oltre il gioco di parole, perché appare in tutta evidenza che i dispositivi mobili, presenti a partire dai libri manoscritti, sono un po’ come le moderne app. E il concetto di “enhanced book” che noi associamo alle più avanzate applicazioni negli ebook trovi piena evidenza storica già in questi straordinari oggetti ibridi, a mezzo tra il libro e lo strumento di osservazione e misurazione di fenomeni della natura. Insomma, sotto gli occhi e nelle mani del lettore, il libro potenziava le sue finalità d’uso divenendo uno spazio fisico di auto-apprendimento e di evasione, un medium di conoscenze e lo strumento di sperimentazione di quelle conoscenze. Fin dall’inizio della loro lunga storia, i congegni meccanici sono stati dunque dispositivi multimodali di comunicazione della conoscenza che, quando incorporati nella forma del libro, travalicavano i limiti della testualità in senso stretto e attivavano differenti codici di fruizione (lettura, visione, manipolazione, interazione). Va poi detto che l’analisi dell’evoluzione dei dispositivi di animazione dei libri per l’infanzia mette in evidenza le funzioni che essi hanno svolto nel facilitare un rapporto attivo del bambino con il libro e la lettura, il gioco e l’apprendimento, contribuendo a soddisfare le sue esigenze di creatività. Anche nella loro forma più semplice, oltre alla lettura e alla visione delle figure, richiedono una interazione multisensoriale con il supporto cartaceo, una manipolazione più o meno con l’oggetto libro. Un esempio molto precoce di interazione è costituito da “Le Livre Jouojou” (1831) di Pierre Brès, in cui il testo della fiaba diventa un vero e proprio racconto animato che il bambino è in grado di far vivere azionando i tiranti che fanno muovere le figure. Nel paratesto del libro, un asterisco posto sulla pagina indica quando attivare il meccanismo e la conseguente visione fisica della trasformazione.

Come mai accade che, anche in valorosi testi sulla storia del libro, il libro animato sia assente?

Probabilmente per il suo prevalente carattere di libro scientifico, ritenuto subalterno rispetto alla cultura umanistica, e quindi ascrivibile a una letteratura minoritaria. Per quanto riguarda i libri animati moderni, e in particolare quelli destinati all’infanzia, che per loro natura sono particolarmente soggetti a distruzione, la scarsa presenza di esemplari nelle biblioteche pubbliche italiane e la limitata accessibilità di quelli conservati nelle collezioni private, rende difficile oggi una conoscenza non casuale del patrimonio reale esistente. Sono poco presenti e studiati anche nei manuali di letteratura per l’infanzia proprio per la difficoltà ad essere collocati in un territorio tematico specifico, in un ambito disciplinare ben individuato, da qui l’esigenza di affrontare il loro studio in modo più sistematico e interdisciplinare.


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Pop - App
Via della Stamperia 6
Roma
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Palazzo Barolo
Via Corte d’Appello 20/C
Torino
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Info: info@fondazionetancredidibarolo.it
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Fino al 30 giugno ‘19


Museo del Somaro (1)


A Cosmotaxi piace visitare piccoli, particolari, musei.
Alcuni li ricordo QUI, ma ce ne sono altri ancora come, ad esempio, la mirabile e tenebrosa Collezione Gorini.

A quei nomi ne aggiungo un altro, sapiente e festoso: il Museo del Somaro.

Si trova in Umbria a Gualdo Tadino, città non distante da Perugia, ci vivono 15 000 corpi e altrettante anime per chi ci crede.
Il Museo è stato ideato e realizzato da un artista nato proprio lì: Nello Teodori.
Per conoscerne la biobibliografia basta un clic e vi troverete nel suo sito web.
Il Museo del Somaro si avvale della direzione scientifica di Francesco Galluzzi docente all'Accademia di Belle Arti di Carrara.
Del coordinamento delle attività e della comunicazione si occupa Maria Grazia Fiorucci, laureata in Lettere con esperienze didattiche.
Il Museo è un piccolo gioiello dove in pochi ambienti sono benissimo dislocate (Teodori è architetto, a Gualdo ha pure restaurato larga parte del Polo Museale) oltre cento opere provenienti dall’Italia e dall’estero. Vi ho letto con gioia le firme di tanti miei amici da Giovanni Fontana a I Santini del Prete, da Ruggero Maggi a Cesare Pietroiusti, da Luca Patella a Lamberto Pignotti.

Perché gli asini meritano un museo? Quali i motivi per amare quegli animali dagli occhi buonissimi? Scrive Goffredo Fofi in un testo destinato proprio al Museo di Gualdo: “Sono molti i motivi per amare gli asini, oltre quello, evidente, del ribaltamento di un insulto che ci siamo sentiti fare in tanti, alle scuole di un tempo, dove, come in quelle di oggi, spesso gli allievi erano più intelligenti dei maestri, per non parlare poi dei professori”.
L’asino gode di rappresentazioni in grandi opere: da Giotto a Duccio di Buoninsegna, da Caravaggio a Goya fino ai contemporanei Marina Abramovic, Paola Pivi, Maurizio Cattelan, Zhang-Huan; in letteratura lo troviamo, oltre che nella Bibbia, da Apuleio a Cervantes, da Cecov a Borges da Prevert a Malerba.
E la musica? Sto qui per servirvi. Zompando le tante filastrocche quasi tutte francamente non memorabili presentate allo Zecchino d’Oro, ricordo l’Orientibus Partibus della celtica Messa dell’Asino; l’indimenticabile interpretazione di Stallio e Ollio di Guardo gli asini che volano nel ciel; vicino ai nostri giorni Vinicio Capossela con Scorza di mulo; Michel Legrand con le indovinate musiche per il film “Pelle d’Asino” di Jacques Demy, e, con un balzo all’indietro, portiamoci al 1886 anno di composizione del “Carnevale degli animali” di Saint Sëns nella parte dedicata agli asini (Personaggi dalle Orecchie Lunghe).

Segue ora un incontro con Nello Teodori.


Museo del Somaro (2)

A Nello Teodori ho rivolto alcune domande.

(in foto una sua opera: “Apuleio”, 2007)

Quando e perché fai nascere il Museo del Somaro?

Negli anni Novanta, dopo aver partecipato a vari eventi espositivi con opere e performance incentrate sulla figura del somaro, ho pensato di dedicargli un museo. Ho invitato a partecipare a questo progetto artisti visivi, personaggi del mondo della scuola, della critica, della letteratura, della scienza, della politica, dello spettacolo che potessero intervenire con opere d’arte, segnalazioni, poesie, studi, ricerche.
Il Museo del Somaro, ospitato inizialmente nel mio studio di Perugia, è stato inaugurato per la prima volta nel 1999. Successivamente insieme a Maria Grazia Fiorucci siamo andati in giro per l’Europa in un caravan con all’esterno l’insegna “Museo del Somaro” e all’interno una documentazione che chiunque poteva consultare.
Dal 2018 il Museo ha una sede pubblica a Gualdo Tadino in un palazzetto medievale, di proprietà del Comune. L’allestimento museale appare come una grande metafora, un affresco a più mani, un luogo dove interrogarsi e riflettere sulle contraddizioni dell’esistenza umana, laddove valori e qualità reali spesso vengono sopraffatti e umiliati… come l’asino.
Il Museo del Somaro è un tributo a questo animale per alcuni personificazione dell’ignoranza, della ostinazione e di una testardaggine insuperabile, e per altri che credono nella “coincidentia oppositorium”, l’espressione di una ignoranza mascherata da semplicità, la cosiddetta dotta “ignorantia”.

Come tieni a ricordare, accade che la storia del Museo, alla fine degli anni ’80, s’interseca con la figura di Armandino Tomassoli, in arte Sampasquele.
Chi era Armandino
?

Intorno alla fine degli anni ’80, quando Maria Grazia aveva una galleria d’arte nel centro storico di Gubbio, un amico ci segnalò un giovane artista che “operava” in un casotto sopra la chiesa di Semonte. Andammo a cercarlo e conoscemmo così Armandino Tomassoli (Sampasquele), un ragazzo un po’ sui generis, purtroppo scomparso prematuramente alcuni anni fa. Il “casotto” era pieno di tutto, per muoversi da una parte all’altra era costretto a passare sotto un tavolo costruito con materiali raccattati ovunque, come del resto tutto quello che era addossato alle pareti o appeso al soffitto. Ci trovammo difronte a una veemente temperie espressionistica, specie nei volti grotteschi fino all’eccesso dei personaggi, sparsi dappertutto, e nel sangue che a fiotti sgorgava dai suoi quadri. Non solo opere pittoriche (le serie dei ‘Vichinghi’, dei ‘Brutti’, dei ‘Cionchi’, le ‘Fantasie’, i ‘Paesaggi’ e il trittico del ‘Tempio del Sole’), ma anche libri in dialetto eugubino (“Guerrino l’affumicatore”, “Il Maresciallo Gervazio”, “Olaf il Vichingo”, “I leccatori de la fregna perduta”, e altri ancora) e oggetti di rudimentale design (tra cui una specie di poltrona sul cui schienale era riportata la sua “massima” più famosa: “Ha itto Sampasquele la fica ‘n’è mai tutta uguèle”). C’erano immediatezza e schiettezza espressive, la capacità di trasferire il proprio immaginario e le tragedie della vita sulla tela o sulla carta in parole, forme, colori. In un angolo, un foglio scritto a macchina, mezzo bruciacchiato e incollato su un pezzo di compensato, attrasse la nostra attenzione: era una specie di filastrocca sul somaro, c’era tutta la sua vita in quella poesia in cui Armandino si arrabbiava con lui, lo compativa e ci si immedesimava. Decidemmo quella sera stessa di fargli una mostra in galleria, accompagnata da un testo di Ettore Sannipoli. Successivamente, nel 1995, ho chiesto ad Armandino se fosse d’accordo di interpretare questa filastrocca per un mio video che ho proiettato in alcune mostre tra cui “A… parole”, a Berchidda in Sardegna nel 2003, una rassegna sul video contemporaneo, nell’ambito dell’evento Del segno del suono della parola…

… e a proposito di parola, passiamola a Maria Grazia Fiorucci che in questo video illustra il profilo di Armandino Tommasoli quando lo presentò nella galleria che dirigeva a Gubbio

VIDEO

Nello, quali le caratteristiche che hanno permesso alla figura del Somaro (dicono alcuni antropologi alla pari soltanto di altri due animali di terra: il serpente e il leone), di essere rappresentato da tempi antichissimi fino ad oggi?

La figura dell’asino, il “cavallo del povero”, è altamente simbolica con interpretazioni totalmente discordanti a seconda dei luoghi e dei tempi: è sapiente e ignorante, sacro e malvagio, sgraziato e regale. Nell’antichità venivano riconosciuti grandi pregi all’asino e nelle culture africane e orientali è stato oggetto di culto. I Greci lo collegavano a Saturno; godeva di venerazione perché considerato coraggioso e lo attribuivano al dio Marte e Dioniso. Nel Vecchio e nel Nuovo Testamento è stato connotato per secoli da un tratto molto positivo. È espressione del mondo dei poveri: Francesco d’Assisi, abbandonando gli agi che gli garantiva la sua famiglia, elimina il cavallo segno di ricchezza e di distinzione e parte a dorso di un somaro.
Scrive Goffredo Fofi “L’asino è buono e testardo. Sono queste sue qualità ad affascinarci, quelle di cui abbiamo più bisogno oggi. Bontà vuol dire generosità e interesse per gli altri, affettuosa curiosità per chi essi sono e per cosa pensano; e testardaggine è saper dire no alle ingiustizie della società, alla criminale stupidità del potere. I detrattori di Gesù lo dipingevano per scherno con la testa d’asino” (vedi a Roma il graffito di Alessameno conservato presso l’Antiquarium del Palatino).
È un animale molto presente nella pittura e iconografia classica; è raffigurato nei presepi, mentre accompagna la Sacra Famiglia nel viaggio in Egitto, e a dorso d’asino Gesù Cristo fa il suo ingresso a Gerusalemme

Che cosa vi leggi di noi umani nel fatto che abbiamo prodotto tante locuzioni popolari ingiuriose o irridenti verso il Somaro?

Sono dei superficiali preconcetti dettati da una comune ignoranza. L’asino non è stupido, è generoso ma non servile. Angelo Tarabini, professore ordinario di psicologia generale presso l’Università di Parma, sostiene che siamo noi che proiettiamo la nostra stupidità su di lui; soprattutto quando l’animale domestico rivendica la sua autonomia. Per Francesco Domenico Guerrazzi “il popolo è come l’asino: utile, paziente e bastonato”.

La tua attività artistica, della quale ho già scritto in apertura, ti porta a riconoscerti in qualche corrente contemporanea. Se sì, in quale?

La corrente in cui mi riconosco è l’organizzazione stessa del mio lavoro, la sua prassi operativa, il senso e gli obiettivi che la sottendono e la sostengono.

Una famosa dizione recita stentorea e austera: “La legge è uguale per tutti”
Un tuo aforisma: “L’Arte non è uguale per tutti”. Perché
?

Mi fai una domanda che risponde a due codici che interessano due realtà molto distanti tra loro e portatrici di due storie diverse: il codice della salvaguardia della natura e della complessità delle relazioni umane e il codice della complessità dell’artificio e dell’arte, un aspetto che ha un rapporto molto diverso con le regole, le convenzioni e le invenzioni.

…………………….

Museo del Somaro
Via Calai, 37
Gualdo Tadino (PG)

Da maggio 2019 il Museo, per lavori di ampliamenti, è visitabile su appuntamento.

Per informazioni, prenotazioni e visite contattare
info@museodelsomaro.it
cell. 328 4511714 - Nello Teodori
cell. 338 1586951 - Maria Grazia Fiorucci


Pashi Lin in Italia

Organizzata da BIG Eyes International Vision domani il vernissage della mostra del taiwanese Pahsi Lin intitolata Monologo di doratura – infinito che si svolge, secondo un percorso ideato dal curatore Stefano Soddu, nelle sale della Villa Reale di Monza.
Esposte circa 40 opere, dipinti e sculture realizzate dal 1990 a oggi.

Taiwan, mondo lontano. Per orientarci in breve ecco un ritratto di quel paese.
Per quanto riguarda le arti visive mi sono rivolto a un’artista italiana fra le pochissime (o unica?) invitata a Taiwan: Marta Roberti. Per vedere alcuni suoi video: CLIC!.
A lei ho chiesto un flash sul mondo dell’arte a Taiwan. Così ha risposto.

«La grande energia che pervade l’ambiente artistico taiwanese è qualcosa che pervade tutte le artiste e gli artisti provenienti dall'Europa o dall'America oppure dall'Australia che sono capitati a Taiwan nel periodo in cui ho vissuto là: ho visto molti in lacrime al momento della partenza dopo una residenza di qualche mese e alcuni di loro sono riusciti a tornare. Questo sentimento di amore per Formosa lascia i Taiwanesi attoniti, loro che sentono di vivere in una piccola isola con scarsissimo riconoscimento internazionale a causa della guerra fredda con la Cina. Eppure non ho mai sentito tanta vitalità nel desiderio di stare insieme e negli scambi tra artisti, nel desiderio di conoscere le reciproche esperienze e nell’aver voglia di fare festa insieme. Sono molti i centri indipendenti gestiti da curatori ed artisti che attuano un costante scambio con altri luoghi simili in tutto il sud est asiatico. Questo ha fatto sì che io stessa potessi conoscere artisti dalle Filippine, dal Giappone, da Honk Kong, dall’Indonesia e dalla Tailandia che mi hanno invitato a partecipare a mostre e arricchito ancor di più la mia esperienza in Asia. Per quanto mi riguarda mi sono accadute più cose in termini di mostre, relazioni e contatti in due anni a Taiwan che in 10 a Roma. Le gallerie commerciali non mancano a Taipei ma lo stato supporta fortemente gli artisti contribuendo a studi e residenze in Europa e in America, e questi centri indipendenti non agendo per fini di lucro attivano una intensa ricerca oltre che una possibilità di scambio reale tra artisti di tipo non competitivo. Per questo sto per ritornare a Taiwan a luglio».

Torniamo a Pahsi Lin. Laureatosi al Central Academy of Arts and Design di Pechino, è famoso in China, Singapore e Taiwan. Membro dell’Associazione Artisti Cinesi e della Society of Promotion in Cultural Exchange of Relations Across the Straitsed.
È direttore artistico della Great Wall Society of China.
In Italia ha esposto per la prima volta nel 2018 alla Galleria Scoglio di Quarto. Lin è anche un profondo conoscitore e collezionista di calamai, stampe, sigilli di pietra e antiche carte.

Dal comunicato stampa.
«A un anno dalla retrospettiva HO KAN. Beyond Colors and Shapes, la Villa Reale di Monza ospita, dall’8 al 23 giugno 2018, la mostra “Monologo di doratura – infinito”, dedicata a un altro grande rappresentante dell’arte taiwanese, il maestro PAHSI LIN.
Organizzata sempre da Big Eyes International Vision con l’intento di far conoscere l'arte e la cultura di questo Paese al pubblico italiano, la rassegna si avvale dei prestigiosi patrocini della Regione Lombardia, del Comune di Monza e delll'Accademia di Belle Arti di Brera, ed è realizzata in collaborazione con la Casa Museo Alfredo Pizzo Greco e la Galleria Scoglio di Quarto.
Pahsi Lin è pittore e scultore di grande qualità la cui opera getta un ponte tra lo spirito orientale e occidentale. I suoi quadri presentano una conoscenza approfondita dell’astrattismo occidentale, appreso anche grazie ai lavori di maestri appartenenti a generazioni precedenti, come Ho Kan, e nello stesso tempo riconducono alla cultura di quel mondo a cui l’artista appartiene. La sua pittura astratta infatti è spesso arricchita da ricercate citazioni di manufatti tradizionali, come le preziose e famose porcellane.
Alla base della sua pittura vi è inoltre un sapiente e raffinato uso di inchiostro e oro, anch’essi testimoni di un’arte antica che riaffiora e non è mai dimenticata. L’oro è molto importante per Pahsi Lin e non è visto come simbolo di ricchezza o testimone e paese delle meraviglie per ciò che l’umano desidera, ma è solo ‘sé’.
Egli accosta l’uso sapiente di queste tecniche remote all’uso del colore occidentale, catturando lo sguardo di chi osserva e infondendo alla pittura tradizionale una nuova vita. Sebbene questo procedimento possa sembrare decorativo e mondano, unito alla capacità penetrativa dell’artista, crea inaspettate ‘reazioni alla bellezza’, come le definisce l’artista, rivelandone numerose e inaspettate varietà».

Ufficio Stampa: Alessandra Pozzi ǀ Tel. 338 – 59 65 789 ǀ skype: Alessandra.pozzi1
press@alessandrapozzi.com ; @alessandrapozzistudio, @AlessPozzi

Pashi Lin
“Monologo di doratura – Infinito”
A cura di Stefano Soddu
Villa Reale di Monza, Viale Brianza 1
Info: +39 0392240024 ǀ villarealemonza@bestunion.com
Contatti: Claudia Pozzi ǀ Mob +39.3477180355 ǀ claudiapozzi@bigeyesvision.com;
Zhao Xiang Wu ǀ Mob +39.338 – 60 88 058 ǀ zhaoxiangwu@gmail.com
Organizzazione Big Eyes international Vision
8 – 23 giugno 2019


Realismo neorealismo e altre storie (1)


Quei generosi che leggono queste pagine web sanno che Cosmotaxi presenta anche libri non proprio recentissimi purché presentino aspetti che li leghino all’attualità e, ovviamente, abbiano, a mio tirannico giudizio, anche qualità.
È il caso del volume che sto per per presentare. A mio avviso, di quegli aspetti di cui dicevo ne ha addirittura non due, ma tre. Già, perché accanto ai pregi di scrittura, affronta un tema abbondantemente trattato da altri autori (realismo e neorealismo), quindi ancora più difficile distinguersi fra tanti testi; invece ci riesce grazie a uno sguardo complessivo su quegli anni analizzati osservandone le plurali espressioni e interazioni: dalla letteratura alle arti visive, dal cinema alla politica, dalla filosofia alle teorie critiche Terzo aspetto, infine, che lo rende anche attuale è il rilancio in questi ultimi tempi del dibattito sul neorealismo suscitato da serie tv italiane.

Il libro, pubblicato dalla casa editrice Mimesis è intitolato Realismo neorealismo e altre storie. L’autrice è Emanuela Garrone.
Nata a Napoli, si è laureata in Lettere con indirizzo Storia dell’Arte all’Università di Roma La Sapienza; specializzata in Storia dell’Arte Moderna e Contemporanea all’Università di Siena, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’Arte Moderna e Contemporanea presso l’Università di Friburgo (Svizzera).
Vive e lavora a Roma. Attualmente è responsabile del Servizio per le Arti Performative alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.

Scrive Elio Franzini nella prefazione: “Questo libro fa venire in luce una “maturità” profonda dell’arte, e della critica, italiana, una sua destinazione classica, dal momento che il classico, come scriveva T. S. Eliot, ‘consiste nel mantenere un equilibrio cosciente fra la tradizione nel senso più ampio della parola – la personalità collettiva, per così dire, raggiunta nella letteratura del passato – e l’originalità della generazione vivente’ “.

Dalla presentazione editoriale

«Il volume ripercorre le vicende storiche, artistiche e culturali italiane del secondo dopoguerra. Gli anni dal 1945 al 1952/53 sono quelli della ricostruzione morale e civile, prima che economica, del paese. In questo periodo storico gli intellettuali e gli artisti svolgono un ruolo di primo piano nella società, diventandone la coscienza critica attraverso correnti quali il Realismo letterario e figurativo e il Neorealismo cinematografico.
Non sono fatti nuovi quelli che vengono analizzati, ma diverso è il punto di vista con cui si cerca di considerare opere, artisti e critici, focalizzando l’attenzione sul valore introspettivo dell’opera d’arte.
Nel secondo dopoguerra il dibattito ideologico informava le coscienze degli artisti e degli intellettuali in tutto il mondo: in Italia il peso della politica e della filosofia d’ispirazione marxista era molto forte, tanto quanto il desiderio di reinserirsi nell’alveo della cultura europea e mondiale dopo il periodo dell’autarchia fascista che aveva isolato moralmente e culturalmente il nostro paese per vent’anni. L’arte allora divenne testimonianza storica, consapevolezza della realtà, autentico desiderio di verità ma soprattutto bisogno di libertà e di apertura verso l’altro.
Il libro approfondisce il dibattito allora dominante tra astrattisti e realisti mettendo in evidenza relazioni e intrecci del pensiero filosofico e critico».

Segue ora un incontro con l’autrice.


Realismo Neorealismo e altre storie (2)


A Emanuela Garrone (in foto) ho rivolto alcune domande.

Quale il principale motivo che ti ha fatto scrivere questo saggio?

Ho iniziato a lavorare molto tempo fa su questi argomenti in occasione del mio dottorato di ricerca a Friburgo. In seguito sono tornata a riflettere sul tema dell’autonomia del linguaggio artistico in un momento storico decisivo per la storia del nostro paese: quello del secondo dopoguerra. Negli anni della ricostruzione post bellica sono state fatte scelte politiche, economiche e culturali che incidono ancora oggi nella vita di tutti noi.
Riflettere su quel periodo storico significa provare a guardare con occhi diversi la situazione attuale.

Ricordo a chi per verde età o altri interessi non sappia che Togliatti, nel 1948 (dopo aver gradito pochissimo la prima Biennale del dopoguerra con opere di Chagall, Braque, Magritte, una retrospettiva di Picasso) su Rinascita – con lo pseudonimo Roderigo di Castiglia – scrisse una feroce stroncatura di una mostra bolognese che si apriva a nuove tendenze. Definì quelle opere "cose mostruose... esposizione di orrori e di scemenze... scarabocchi”.
Come giudichi quell’intervento e quali conseguenze ebbe
?

Allora ebbe un impatto violentissimo nel mondo dell’arte e della cultura. Alcuni si allinearono, come Guttuso, altri, come Turcato o Vedova, con più indipendenza intellettuale proseguirono sulla strada dell’astrattismo e dell’informale.
Oggi quell’intervento sembra assurdo e ridicolo ma ebbe un peso significativo nel contesto politico e culturale.
Adesso diamo per scontato, almeno a parole, l’autonomia della cultura e l’indipendenza degli artisti dal potere politico ed economico, ma in realtà non è così. Negli anni di cui mi sono occupata l’ingerenza della classe politica era palese, giustificata anche dalla guerra fredda e dalla forte conflittualità sociale.
Oggi la situazione è più complicata, nessun esponente politico si permetterebbe le affermazioni di Togliatti ma i condizionamenti esistono comunque, anche se spesso non sono così evidenti

In quegli anni un ruolo protagonista lo ebbe il cinema con il neorealismo.
In questi giorni dinanzi al successo di alcune serie tv italiane si è tornado a parlare di neorealismo.
Questo pensiero di alcuni critici lo condividi oppure no
?

Penso che si torni a parlare di neorealismo perché, anche oggi come negli anni del dopoguerra, il cinema è l’espressione artistica che più si avvicina i temi del disagio sociale e che con più forza denuncia l’emarginazione e l’ingiustizia delle fasce sociali più deboli.
Guardo a tutto questo con molta fiducia perché penso che il cinema svolga un ruolo di coscienza critica nella società italiana che nessun’altra espressione artistica Ha attualmente.
Inoltre, il cinema italiano raggiunge vette di qualità che ci sono riconosciute in tutto il mondo e che sono un orgoglio del nostro paese. Allora come oggi.

Come ho scritto prima presentando il tuo saggio, grande merito del volume è la completezza dello studio che non solo di arti visive si occupa, ma di letteratura, filosofia, cinema. Come esce lo scenario culturale italiano di quel periodo rispetto ad altri scenari occidentali?

Gli anni del dopoguerra sono stati anni di straordinario fermento creativo, si usciva dalla catastrofe della guerra la voglia di vivere degli italiani si univa a nuove aperture internazionali. Roma era veramente un centro della cultura mondiale e questo è stato utile anche sotto il profilo economico.
Oggi viviamo invece in una situazione più difficile sotto molti profili, e ciò di cui si sente maggiormente la mancanza è lo slancio, l’entusiasmo, il desiderio autentico di partecipare alla vita collettiva, anche nei conflitti e nella dialettica serrata tra le varie componenti politiche e sociali del paese.
Penso che solo ripartendo da noi stessi, riflettendo sulla nostra storia recente sia possibile tornare a crescere.
Si sente continuamente parlare di rilancio economico e culturale ma, a mio avviso, ciò che manca è la capacità di riflessione a 360 gradi sulla nostra storia e noi stessi.
Certamente il contesto globale è totalmente diverso e questo non può essere ignorato, ma la forza di credere in se stessi e di tirare fuori le energie migliori non può che essere determinata che da noi.
Questa riflessione è stata il vero filo conduttore del libro e spero che possa essere condivisa dai lettori
………………………………………..

Emanuela Garrone
Realismo neorealismo e altre storie
Prefazione di Elio Franzini
16 ill. b/n e 2 a colori
Pagine 320, Euro 24.00
Mimesis


Emozioni mondiali

Torna su Cosmotaxi Francesca Lazzarini (in foto) della quale mi vanto di avere presentato anni fa la sua prima mostra da curatrice: “Are you a lucky artist? La fortuna secondo gli artisti “.
Laureata in Sociologia lavora nel mondo della fotografia dalla fine degli anni Novanta. Dal 2007 collabora alla nascita e allo sviluppo di Fondazione Fotografia Modena, progetto al quale si dedica a tempo pieno sino al 2012, occupandosi di formazione, editoria, residenze e curatela di progetti speciali. Dal 2013, come curatrice indipendente, lavora a mostre e progetti culturali in collaborazione con artisti, collettivi, associazioni e istituzioni pubbliche e private, italiane ed estere. Convinta del potenziale delle arti visive quali strumenti per attivare nuovi processi di significazione, concentra il proprio lavoro sul contributo che queste possono dare alla nuova percezione. Guidata da questo principio è impegnata in attività critiche, formative e di docenza dal 2011. Nel 2016 ha dato vita all’associazione Cultural Inventory e al programma di residenze d’artista Air Trieste.
Francesca ha messo su tante cose valorose, tanto per citarne soltanto una più recente il Progetto Poiuyt.
Le sue proposte agiscono prevalentemente sul piano intermediale: fotografie e installazioni, video, documenti d’invenzione e objets trouvés, come, ad esempio nella mostra “L’albero del latte” del 2017 presso la fondazione Zoli.
Non sorprende, quindi, che ora presenti a Trieste una mostra dal taglio assai originale.

Tutto parte da una domanda: Che cosa hanno in comune il gioco del calcio e il mondo dell’arte? Attorno a questa domanda, il duo The Cool Couple ha sviluppato il progetto Emozioni Mondiali, mostra in corso alla galleria MLZ Art Dep.
The Cool Couple è un duo di artisti fondato nel 2012 da Niccolò Benetton (1986) e Simone Santilli (1987).
La loro ricerca si concentra sugli attriti generati quotidianamente nella relazione tra persone e immagini. Si esprime nell’utilizzo di diverse forme espressive, che spaziano dalla fotografia a panni elettrostatici, stanze di meditazione e band musicali cinesi.

Dal comunicato stampa.
«Fulcro dell’installazione è una console che, attraverso una copia di ‘Pro Evolution Soccer’ 2018 personalizzata dagli artisti, permette di giocare a calcio sfidandosi in una gara particolare. Le venti squadre, tra cui è possibile scegliere, corrispondono infatti a periodi o movimenti della storia dell’arte, ma anche ad attuali importanti manifestazioni - dal Rinascimento a dOCUMENTA (13), passando per Impressionismo, Arte Povera e Post-Internet, solo per citarne alcuni -, mentre i calciatori rappresentano gli artisti che vi appartengono. Ed è così che si può decidere di scendere in campo nei panni di fuoriclasse come Caravaggio, Duchamp, Richter, o affidarsi alla prestanza di atleti più “giovani” come Wael Shawky, Jon Rafman, Zanele Muholi. O ancora brillare della luce di astri dello star system, come Cattelan e Warhol, o puntare sulla genialità di figure fuori dagli schemi, come Mladen Stilinović, Marcel Broodthaers e Santiago Sierra.

Le divise delle squadre, disegnate da The Cool Couple, seguendo i rigidi schemi tecnici imposti dal sistema di editing di PES, sono esposte come quadri astratti. Così come il sistema del calcio delocalizza la confezione delle divise in Estremo Oriente, per risparmiare grazie alla manodopera a basso costo, il duo ha commissionato la produzione delle tele a un sito web cinese che ha fatto riprodurre a mano, a dei pittori locali, le immagini PNG delle magliette ricevute dai clienti.
A completare la mostra, alcuni screenshot raffiguranti momenti salienti di tornei giocati in precedenza, e la struttura stessa che ospita console e giocatori: spalti di legno in cui sono incastonati dei “bordocampo”, i tipici schermi a led per la pubblicità negli stadi.
Nei display di “Emozioni Mondiali” appaiono citazioni di artisti, come “La creatività richiede coraggio” di Henri Matisse, mescolate a slogan pubblicitari di brand sportivi, tra cui il famosissimo “Just Do It” di Nike. Allo stesso modo dei meccanismi di produzione delle divise e della costruzione iconica delle figure dei giocatori / artisti, anche l’interscambiabilità e l’indistinguibilità dei linguaggi, sportivo e artistico, rafforzano il parallelismo tra i due mondi.
Con "Emozioni Mondiali" la partecipazione attiva ad un gioco estremamente popolare porta i visitatori a interfacciarsi sia con l’arte sia con il calcio: due sistemi in linea teorica estremamente lontani, ma che negli ingranaggi del neoliberismo finiscono per assomigliarsi incredibilmente».

Ufficio Stampa: Tamara Lorenzi, The Nack Studio
tamara@theknackstudio.com; (+39) 347- 07 12 934

The Cool Couple
Emozioni Mondiali
A cura di Francesca Lazzarini
MLZ Art Dep
Via Galatti 14, Trieste
Info: 040 – 26 06 091; marco@mlzartdep.com
Fino al 21 settembre 2019


risvolti di copertina (1)

La casa editrice Laterza ha pubblicato un reportage sull’editoria libraria italiana che, pagina dopo pagina, si fa saggio perché nel descrivere i luoghi dove nascono i libri, nell’avvicinare editori e redattori, traccia non solo lo scenario in cui si muove il libro in Italia oggi, ma anche le costanti (piuttosto incostanti, in verità) dal sociale al commerciale che talvolta condizionano e talaltra stimolano la vita delle editrici.
Il volume scorre su binari che attraversano, infatti, sia il terreno delle ideazioni contenutistiche e grafiche e della ricerca di nuovi autori, sia quello della pratica editoriale che è fatta di individuazione di lettori cui rivolgersi, di fatturato, di rapporti con i media.
Titolo del libro risvolti di copertina viaggio in 14 case editrici italiane (la ‘erre’ minuscola del titolo è voluta nella presente edizione).
L’autrice è Cristina Taglietti.
Nata a Brescia vive a Milano. Si è laureata in filosofia a Pavia con una tesi su Michel Foucault. Giornalista al Corriere della Sera, scrive di libri ed editoria.

Sellerio, e/o, L’orma, Giunti, il Mulino, Zanichelli, Einaudi, Bao, Il Castoro, NN, La nave di Teseo, Feltrinelli, GeMS, Mondadori, queste le case editrici italiane visitate da Taglietti, per scoprire come e chi progetta i libri, ne cura i testi e le immagini, ne disegna le copertine, li promuove presso i lettori. L’autrice riferisce in modo puntuale e puntiglioso gli ambienti di quelle case perché, come scrive in “I luoghi del pensiero” Paolo Pagani, certi pensieri possono essere concepiti solo lì dove sono nati e non in altri posti. Perché c’è un’aura in ogni luogo.

Dalla presentazione editoriale.

«Le case editrici sono, prima di tutto, case. I tavoli per le riunioni sostituiscono i tavoli da pranzo, gli sgabuzzini diventano piccole cucine, le cantine archivi, biblioteche o studi di registrazione per gli audiolibri. Piccoli marchi in appartamenti di poche stanze, holding che occupano interi palazzi o che occupano sedi pensate su misura. Questo libro parte da qui: accompagna il lettore dietro quei portoni, mostra chi abita quelle stanze, in quali spazi si pensano e si realizzano i libri che leggiamo, come arrivano i grandi bestseller internazionali sui tavoli degli editor o qual è la strada che percorre un dattiloscritto per arrivare nelle librerie. Da Palermo a Milano, da Roma a Bologna e Torino, un viaggio per raccontare dall’interno marchi storici o sigle appena nate, piccole imprese artigianali e grandi gruppi editoriali».

Segue ora un incontro con Cristina Taglietti.


risvolti di copertina (2)


A Cristina Taglietti (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro, dettato da quali motivazioni?

Questo libro nasce dal desiderio di mostrare, soprattutto a chi ama i libri, che cosa c’è dietro le porte di indirizzi storici dell’editoria italiana, a volte così famosi da essere usati al posto del nome dell’editore. Quando si dice via Biancamano a Torino, per esempio, si sa che ci si riferisce alla casa editrice Einaudi, così come, a Milano, via Andegari è stata per molti anni sinonimo di Feltrinelli, casa editrice che da due anni si è trasferita in una nuova sede, molto moderna, in una zona in forte sviluppo. È uno stimolo nato dall’editore, Giuseppe Laterza , con cui ho condiviso l’intento di mostrare come si lavora nelle case editrici, qual è il processo che porta alla pubblicazione di un libro, come funziona l’officina editoriale.

Incontri 14 case editrici. Che cosa ti ha portato a scegliere proprio quelle e non altre?

Ho scelto case editrici che fossero rappresentative di modi diversi di fare questo lavoro. Ci sono i grandi gruppi come Mondadori, Gems e, per certi versi, Feltrinelli e Giunti. Ci sono piccoli marchi che fanno molta ricerca come NN; editori indipendenti che ormai hanno una lunga storia e sono stati capaci di intercettare i gusti del pubblico, come Sellerio con Camilleri, e/o con Elena Ferrante. C’è la casa editrice scolastica di lunga tradizione (Zanichelli), quella per bambini (Il Castoro), la società editrice dove la struttura è diversa da tutte le altre (Il Mulino), e anche Bao, che ha portato un genere, il fumetto, nelle librerie, dove prima non arrivava.

In apertura del libro scrivi che “l’editoria italiana è profondamente cambiata negli anni Duemila”. Quali le caratteristiche di quel cambiamento?

Il cambiamento più importante è che, soprattutto negli ultimi 5 anni, si è andati verso una concentrazione editoriale, soprattutto dopo l’acquisizione di Rcs Libri da parte di Mondadori. Operazione che ha portato a una nuova ripartizione del mercato. Mondadori, su sollecitazione dell’Antitrust, ha dovuto cedere Bompiani, che è stata acquistata dal gruppo Giunti, e Marsilio, tornata nelle mani della famiglia De Michelis. Bisogna poi tenere presente che nel mercato italiano sono entrati due gruppi internazionali, Planeta, che si è fusa con De Agostini, e Harper Collins. In tutto questo, hanno continuato a nascere piccoli editori capaci di trovare la loro nicchia, a volte neppure troppo piccola, di mercato.

Il peggior difetto e la migliore virtù dell’editoria italiana

Credo che non si possa generalizzare, ogni editore ha difetti e virtù. Il problema è più generale e riguarda l’indice di lettura che in Italia è tra i più bassi d’Europa. Riuscire ad allargare la platea dei lettori è la vera sfida e richiederebbe uno sforzo da parte di tutti: istituzioni, librerie, editori, biblioteche.

Rispetto agli altri paesi europei il management editoriale in Italia è competitivo oppure no?

In generale credo che lo sia, ma il fatto è che, a livello internazionale, si va verso le grandi concentrazioni editoriali. Non è escluso che, anche in Italia, possa arrivare un grande gruppo straniero.

Best seller. Giuliano Vigini dice che In Italia i successi di vendita nascono per caso.
Mario Spagnol era del parere che il best seller oggi va programmato.
Giovanni Peresson afferma che “Gli autori italiani vogliono vendere milioni di copie ma anche entrare nella storia della letteratura; le due cose, assai spesso, non sono compatibili”.
Un tuo parere sul libro di successo… è possibile prefabbricarlo? Oppure no
?

Credo che sia molto difficile prefabbricarlo a tavolino, almeno i grandissimi successi. Naturalmente ci sono casi in cui si possono costruire buoni successi sulla base di quelli che sono i gusti del pubblico del momento. Ricordiamo che ci sono bestseller che prima di diventare tali sono stati rifiutati da molti editori. Basti pensare a Harry Potter che, anche in Italia, era stato respinto da Mondadori. Quanto al fatto di pubblicare grandi successi che possano anche entrare nella storia di letteratura, è vero che capita di rado. Non sono molti gli Umberto Eco capaci di scrivere Il nome della Rosa…

…………………………...

Cristina Taglietti
risvolti di copertina
Pagine 158, Euro 15.00
Laterza


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