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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

La cultura spagnola del Novecento (1)

Oggi Cosmotaxi ospita un celebre ispanista: Gabriele Morelli.
Già professore ordinario di Lingua e letteratura spagnola all’Università di Bergamo, ha pubblicato sia manuali di letteratura spagnola contemporanea sia monografie sui principali autori, in Italia e in Spagna.
Grande studioso della Generazione del ’27, eccola profilata, ad esempio, in quest’illuminante intervista.
Ora ha pubblicato per la casa editrice Carocci un imponente saggio intitolato La cultura spagnola del Novecento Storia, letteratura, arti, cinema.
Libro dai plurali meriti. Primo fra tutti quello di essere uno studio che non guarda ad una sola disciplina, ma in modo stereofonico registra le voci della letteratura, delle arti visive, della musica, del cinema, dell’architettura, e ne studia le interrelazioni.
Inoltre, quei materiali sono fatti scorrere sul cursore della storia: passando attraverso la dittatura di Primo de Rivera, la tragedia franchista, il dopo Franco

Dalla presentazione editoriale
«Il libro si apre con lo scrittore Miguel de Unamuno e si chiude con il cineasta Pedro Almodóvar, con l’intento – per la prima volta in Italia – di illustrare e far conoscere la cultura spagnola del Novecento tra varie discipline: storia, letteratura, arte, cinema e musica. A questo panorama si accompagna un essenziale profilo storico e, oltre che ai grandi autori della letteratura (fra cui Picasso scrittore), dell’arte, della musica e del cinema, uno spazio particolare è riservato ai movimenti d’avanguardia e alla presenza di importanti figure femminili. Il libro, ricco di immagini significative, mostra in tutta la sua complessità la vita culturale della Spagna contemporanea, un paese a noi vicino per lingua e tradizione, tornato a essere un grande vivaio di idee e cultura, dopo la tragica cesura della guerra civile e della dittatura di Franco, che isolarono la nazione dal mondo».

Segue ora un incontro con Gabriele Morelli.


La cultura spagnola del Novecenro (2)


A Gabriele Morelli (in foto) ho rivolto alcune domande.

Nel tracciare questa storia della cultura spagnola del Novecento qual è la cosa che lei ha deciso assolutamente di fare per prima e quale per prima quella assolutamente da evitare?

Durante la mia lunga attività di docente di letteratura spagnola – a cui ho dedicato vari manuali di studio e monografie in Italia come in Spagna – ho avvertito negli studenti, soprattutto in questi ultimi anni, una scarsa conoscenza, se non una totale ignoranza, dei grandi fatti storici che hanno caratterizzato la cultura spagnola del Novecento, a partire dalla tragedia della guerra civile e la lunga dittatura di Franco. A ciò, devo confessare, si aggiunge la mia ricorrente perplessità nel considerare la letteratura come materia elitaria, assoluta e autonoma, impermeabile a ogni stimolo esterno, quando io stesso nelle mie lezioni ero costretto, per meglio far comprendere la complessità e grandezza di uno scrittore, un poeta, a ricorrere all’influenza esercitata dal rapporto avuto dall’autore con altre discipline e soprattutto con i fatti della storia, così drammatici nella vita spagnola. Per cui ho evitato il criterio limitativo di presentare il quadro della letteratura del Novecento come un recinto chiuso in se stesso, avulso da ogni altra sollecitazione culturale, impermeabile a ogni altro stimolo esterno. Ugualmente ho cercato di evitare una scrittura ermetica e paludata, a cui a volte noi professori siamo abituati pensando più che ai nostri studenti ai colleghi che ci leggono. Ho pertanto cercato un linguaggio chiaro, preciso, coinvolgente per quanto possibile, pensando al giovane studente che per la prima volta si avvicinava alla Spagna, alla sua terribile storia moderna segnata dalla guerra civile, al grande legato culturale che ha lasciato. È il criterio che ho seguito nella preparazione del libro, dove come giustificazione ho ricordato l’esempio eloquente del sodalizio avvenuto tra García Lorca, poeta, musicista e pittore, Salvador Dalí, grande interprete del surrealismo nella pittura, e Luis Buñuel, noto cineasta, i quali fin dalla loro formazione giovanile avvenuta nella Residencia de Estudiantes di Madrid – una vera Oxford della cultura moderna che univa umanesimo e scienza – hanno continuato a dialogare nel tempo pur tra infinite polemiche personali.
Tale principio ha guidato la gestazione del libro, seguendo un approccio interdisciplinare per meglio conoscere la Spagna e la sua cultura, dove è stato impossibile non includere Picasso, così presente, oltre che nel suo straordinario legato artistico, anche come figura dominante della cultura spagnola del Novecento. Il quadro “Guernica” è una pagina esemplare che ricorda la tragedia della guerra, come pure traduce il realismo allucinato di tanti capitoli della letteratura spagnola a partire dal libro del Don Chisciotte.

Il libro si apre con il nome di Unamuno.
Perché fra vari nomi appartenenti a quei periodo ha scelto proprio quei nome
?

Il motivo è semplice: la morte di Unamuno apre cronologicamente l’inizio della guerra civile. Inoltre Unamuno è uno scrittore conosciuto e presente anche in Italia, in continuo contatto epistolare con molti autori e intellettuali italiani (tra cui Benedetto Croce), ai quali non a caso si rivolge quando viene esiliato nelle Canarie da Primo de Rivera. La lettera inedita a Ugo Ojetti, allora direttore della pagina culturale del “Corriere della sera”, che pubblico nel libro, è la prova evidente della partecipazione degli scrittori spagnoli alla loro storia nel precipitare degli eventi.

Il regime franchista trovò intellettuali che ne sostennero l’operato?

Sì, vi furono alcuni scrittori che giustificarono e scelsero il regime di Franco, sebbene la stragrande maggioranza aderirono a favore della Repubblica. Nel libro sono in gran parte presenti, a partire dalla figura di Ernesto Giménez Caballero, fondatore e direttore dell’importante rivista, aperta alle nuove estetiche d’avanguardia, “La Gaceta Literaria” di Madrid. Amico e ammiratore di Marinetti, grande esperto della letteratura italiana (tradusse in spagnolo “L’Italie contra l’Europe » di Curzio Malaparte). Della sua prodigiosa e vulcanica attività ho ricordato il libro “Carteles literarios”, un felice montaggio di registri testuali e visuali. Allo scoppio della guerra civile fugge in Italia dove conosce Mussolini, tornato poi in patria è nominato da Franco responsabile della stampa nazionalista. Altro importante poeta, militante della Falange, è Luis Rosales nella cui casa di Granada si rifugia García Lorca, dove sappiamo viene arrestato e poi fucilato a Víznar. Ancora ho voluto ricordare il poeta José María Hinojosa, primo surrealista spagnolo che, alla vigilia della guerra civile, passa nel bando nazionalista; catturato dai sostenitori della Repubblica viene trucidato insieme al padre e al fratello. La brutalità della guerra civile non distingue fra i seguaci dell’una o dell’altra coalizione.

Qual è il suo pensiero sull’atteggiamento di Dalí accusato, soprattutto dai surrealisti, di non aver condannato apertamente il fascismo?

Dalí continua a essere un artista contraddittorio e impossibile da catalogare come persona, comunque condiscendente nei confronti del regime di Franco, non sappiamo se per snobismo o per interesse personale, anche economico, questo instillato dalla sua musa nonché moglie, Gala, tanto da meritare l’anagramma “Avida Dollars”, inventato da Breton. Sta di fatto che fu bene accolto e protetto favorevolmente dallo stesso Franco che ricevette l’artista in una visita privata.

Alla fine del regime, dove, in Spagna, lei nota le energie più pronte a proporre una nuova visione della società: nella letteratura? nel cinema? nel teatro? nelle arti visive?

Non farei un distinguo particolare fra i vari generi indicati, anche perché, se in alcune discipline l’apertura verso l’Europa e la modernità è più immediata e visibile – parlo soprattutto del romanzo e dell’esperienza poetica dei “Novísimos” e “Postnovísimos” che inventano un nuovo linguaggio liberatorio, gratuito e autosufficiente – quello che maggiormente ha inciso, a parte ancora il teatro sperimentale di autori come Fernando Arrabal e Paco Nieva, credo che sia stato il nuovo cinema spagnolo, in parte erede dell’esperienza surreale del maestro Buñuel, da cui un nome per tutti, quello appunto di Pedro Almodóvar. Anche perché riceve una immediata accoglienza e una pronta risposta in ambito internazionale e ha indicato un nuovo modello di vita, quello della “movida” giovanile, ora non più solo spagnola.

Nel periodo 1975-1979, detto della Transizione, gli intellettuali e gli artisti spagnoli furono una presenza significativa oppure no?

Sì, possiamo dire che è stata la forza trainante espressa dall’impegno degli intellettuali e artisti spagnoli, soprattutto la generazione dei giovani che appartengono alla nuova cultura aperta all’Europa, desiderosa di chiudere la tragica e lunga stagione che ha separato la Spagna dal resto del mondo.

Oggi, dal XXI secolo, rivolgendo uno sguardo al ‘900, quale ritiene che sia stato il più importante contributo dato dalla Spagna alla cultura europea?

Io credo che sia stata la difesa della democrazia per cui in Spagna hanno lottato tanti intellettuali, poeti, scrittori, artisti e scienziati; uomini che hanno sacrificato la vita o sono stati costretti ad abbandonare il paese senza fare più ritorno.
Penso al giovane poeta Miguel Hernández, morto in un carcere a soli 32 anni; ricordo Luis Cernuda, Pedro Salinas, Jorge Guillén e anche Juan Ramón Jiménez o Manuel de Falla, che fuggono dalla Spagna; i primi non volendo accettare il regime fascista e gli ultimi perché non possono assistere alla ferocia della barbarie che si consuma nel paese. Penso ancora a García Lorca, prima vittima innocente della guerra civile e, nel chiudere questa risposta, ricordo il nome del grande poeta Antonio Machado, che muore nel 1939 a Collioure. Soprattutto non posso dimenticare il grande contributo dato dall’opera di Picasso. Il suo “Guernica”, oggi al Museo Reina Sofía di Madrid, resta un’icona della Spagna martoriata, una ferita rimasta a lungo aperta, ma ci auguriamo chiusa per sempre, ora che il paese ha rotto il suo lungo isolamento ed è tornato a essere un vivaio ricco di idee e opere importanti di molti autori contemporanei. Per limitarci a qualche nome, cito quelli di Javier Marías, Enrique Vila-Matas, Almudena Grandes, Javier Cercas, Antonio Muñoz Molina e Arturo Pérez-Reverte, fra i romanzieri; fra i poeti Francisco Brines, Premio Cervantes dell’anno 2020, e ancora, dell’ultima generazione, Luis García Montero, rappresentante significativo della corrente chiamata “Poesia dell’esperienza”. Per il cinema è poi d’obbligo ricordare i nomi di Carlos Saura e Pedro Almódovar, che segnano una linea di continuità e rinnovamento che ha aperto la sua platea agli spettatori di tutto il mondo.

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Gabriele Morelli
La cultura spagnola del Novecenro
Pagine 276, Euro 16.00
Carocci


Fantascienza italiana (1)


La casa editrice Mimesis vanta nel suo catalogo uno dei migliori saggi di cui disponiamo sulla letteratura italiana di fantascienza.
Titolo: Fantascienza italiana Riviste, autori, dibattiti dagli anni Cinquanta agli anni Settanta.
Ne è autrice Giulia Iannuzzi.
Laureata in lettere all'Università Statale di Milano e ha conseguito un dottorato di ricerca in scienze umanistiche all'Università di Trieste, dove è attualmente assegnista di ricerca e cultrice della materia in storia moderna. Sta svolgendo un dottorato di ricerca presso l'Università di Firenze sulla storia culturale del tempo nel diciottesimo secolo.
Sulla storia dei generi speculativi ha pubblicato articoli in riviste come “Cromohs”, “Between”, “La Torre di Babele”, “Quaderni di Cultura”, “SFRA Review”, “International Journal of Translation”, e “Perspectives: Studies in Translation Theory and Practice”.
Tra le sue monografie: “Fantascienza italiana. Riviste, autori, dibattiti, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta” (2014); “Distopie, viaggi spaziali, allucinazioni. Fantascienza italiana contemporanea” (2015); “Un laboratorio di fantastici libri. Riccardo Valla intellettuale, editore, traduttore. Con un’appendice di lettere inedite a cura di Luca G. Manenti” (2019).

“Fantascienza italiana” è uno dei (pochissimi) studi sicuri per comprendere quel fenomeno di scrittura che comparve nel secondo dopoguerra davanti ai lettori italiani. Non molti al principio, ma poi quel pubblico andò sempre più infoltendosi per motivazioni che Iannuzzi spiega nelle sue pagine.
Un libro prezioso che può interessare anche a coloro che per gusto personale non sono vicini alla fantascienza. Questo perché la bravissima autrice conduce un discorso che pur imperniato sulle caratteristiche di quel genere espressivo e la storia del suo sviluppo, coinvolge anche riflessioni sull’influenza che quella carta stampata ebbe sulla nascente produzione di fumetti e animazioni cinematografiche, sull’editoria italiana fra i Cinquanta e i Settanta del secolo scorso, l’atmosfera internazionale di quegli anni con la pace di nuovo in pericolo.

Ancora una cosa. Il dizionario segnala che il termine “Fantascienza” è un neologismo nato nel 1952 dalla penna di Giorgio Monicelli derivando dal termine Science-Fiction coniato da Hugo Gernsback nel 1926.

Dalla prefazione editoriale
«Una storia della fantascienza italiana attraverso le principali testate periodiche. "I Romanzi di Urania", "I Romanzi del Cosmo", "Oltre il Cielo", "Galaxy" e "Galassia", "Futuro" e "Robot" sono i laboratori che, tra gli anni Cinquanta e Settanta, hanno proposto la fantascienza come un genere riconoscibile e declinato in molti modi differenti. Sono queste le sedi in cui hanno trovato posto e si sono sviluppate le traduzioni della fantascienza angloamericana, i primi autori italiani, la critica e i dibattiti attorno al genere. Lo studio ripercorre la storia di queste pubblicazioni e dei protagonisti che ne hanno popolato le pagine, per ricostruire, tra avventure spaziali e raffinate distopie urbane, riuso e invenzione, l’alba di una fantascienza scritta in lingua italiana».

Segue ora un incontro con Giulia Iannuzzi.


Fantascienza italiana (2)


A Giulia Iannuzzi ho rivolto alcune domande.

Da dove nasce il tuo interesse per la fantascienza?

È ereditario. Mio padre era un grande lettore: a lui e alla sua libreria devo il mio imprinting fantascientifico negli anni dell’infanzia. A questo si è aggiunta, in anni successivi, la fascinazione per come la mente umana è capace di andare oltre la realtà ordinaria, oltre ciò che è noto tramite i sensi. Il futuro come laboratorio immaginario per testare idee, o per satireggiare il presente, e la proiezione utopica sono tra i frutti che trovo personalmente più appassionanti nella storia del pensiero, della letteratura, delle arti visive.

Nell’Introduzione al tuo saggio accenni a poter considerare anche lontane origini della storia letteraria della fantascienza. Puoi fare qualche esempio?

Nelle letterature europee si potrebbero ripercorrere le radici fantastiche del genere fino ad antenati nobili come poemi, satire, utopie, romanzi con ingredienti fantastici del mondo greco-romano. Le “storie lunghe” della fantascienza cominciano (almeno!) dai viaggi straordinari descritti nella “Storia vera” di Luciano di Samosata o dalle visioni cosmiche del “Somnium Scipionis” di Cicerone.
Si può seguire il filo rosso dell’invenzione fantastica attraverso i romanzi e viaggi meravigliosi medievali e le utopie cinque e seicentesche. In lingua italiana tra questi antenati ci sono “La commedia” dantesca, i viaggi del “Milione” di Marco Polo, gli elementi meravigliosi e il viaggio lunare nell’“Orlando furioso” di Ariosto fino alla “Città del Sole” di Tommaso Campanella.
Per poter aggiungere al fanta- anche la -scienza è necessario arrivare a quelle epoche e a quei processi in cui prende forma ciò che oggi consideriamo appunto “scienza” (in verità qualcosa di tutt’altro che facile da definire). Nel corso dell’età moderna gli Europei incontrano, esplorando il globo, culture completamente sconosciute fino a poco prima, in qualche caso con un passato antichissimo. La rivoluzione copernicana, l’avvento di nuovi modi di conoscere il mondo improntati alla ricerca empirica e razionale, tutto ciò costituisce il retroterra di ciò che oggi chiamiamo fantascienza. Una vera e propria “colonizzazione del futuro” – per dir così – avviene a partire dal Settecento, quando utopie e satire si spostano, dalle remote isole immaginare dove si trovavano nel Cinque e Seicento, nel tempo a venire.
In letterature non europee come quelle scritte in cinese e giapponese, il fantastico e il meraviglioso hanno storie altrettanto lunghe e articolate. Ma lascio questo ad intervistate/i più competenti di me.

A che cosa attribuisci il ritardo, rispetto ad altri paesi, con cui l’editoria italiana s’interessò alla SF del secolo scorso?

La fantascienza come etichetta e comparto editoriale in Italia arriva sostanzialmente come prodotto di importazione nel secondo dopoguerra. Da questo punto di vista la storia editoriale della fantascienza italiana presenta elementi di forte similarità a ciò che accade in altri paesi europei (ed è un peccato che esistano pochi studi comparativi di ampio respiro su questo). E sicuramente può essere vista in un più ampio quadro di rapporti culturali tra Italia, Europa e Stati Uniti negli anni del piano Marshall. Si tratta di anni in cui in Italia si affacciano alla lettura e al consumo culturale nuove fasce di pubblico, a cui si adattano bene formule già elaborate oltre oceano (nel quadro di un’egemonia nordamericana che nello stesso periodo va ben al di là certi fenomeni letterari).
Cercherei però di superare il paradigma interpretativo del “ritardo”. La massiccia stagione di traduzioni con cui l’editoria italiana fa conoscere nella penisola autori di oltre oceano e oltre manica non mi sembra un segno di ritardo, anzi: la circolazione di opere e autori a cavallo di confini linguistico-geografici è una dinamica feconda di aperture e di sviluppi. Può essere utile alla nostra comprensione dei fenomeni tenere presenti le specificità socio-economiche e linguistico-culturali di date aree, ma sempre come portato di vicende storiche, mai irrigidendole. La cultura, la letteratura sono fenomeni sempre inter- e trans-. Il “megatesto” fantascientifico – l’enciclopedia di invenzioni, riferimenti, idee che associamo oggi alla fantascienza – ha una storia e una natura pienamente transazionali ed è sempre più segnato da processi di globalizzazione.

Perché definisci la SF in Italia “un caso particolare” nello scenario dell’industria culturale?

La fantascienza ha una sua specificità nell’industria culturale italiana degli anni Cinquanta-Settanta, per molti motivi. Se tutto il comparto editoriale della narrativa contemporanea nel secondo novecento ha un saldo traduttivo negativo (ossia in Italia si traduce da altre lingue più di quanto venga tradotto dall’italiano ad altre lingue), per la fantascienza le percentuali sono particolarmente alte.
Sulla fantascienza scritta si riverberano fenomeni contigui e più ampi: la stagione d’oro della fantascienza americana sul grande schermo – che arriva in Italia con un’ondata dopo la caduta del protezionismo fascista – la corsa allo spazio, la nuova centralità della tecno-scienza negli impetuosi processi di industrializzazione e urbanizzazione che interessano la penisola.

L’atmosfera politica degli anni ’50 influenzò oppure no la nascita della SF italiana?

Direi di sì, se non altro perché l’estrapolazione logico-fantastica e/o utopica della fantascienza prende sempre le mosse dal presente, ed è letta nel presente, si pone con esso inevitabilmente in circolare dialogo. Negli anni Cinquanta alcune delle espressioni più interessanti della fantascienza scritta in lingua italiana prendono chiaramente le mosse da questioni di capitale portata politica, come la guerra fredda, la paura del nucleare, il pacifismo su cui ha scritto magnifici racconti Dino Buzzati, e che si ritrovano nei temi toccati dai primi autori italiani pubblicati in “Urania”, come Luigi Rapuzzi, Maria Teresa Maglione.

Perché hai dedicato la tua attenzione in modo prevalente alle riviste rispetto alle edizioni librarie?

Le riviste mi interessavano in quanto laboratori, osservatori privilegiati in cui prendono forma dibattiti e proposte, e dove, accanto alla narrativa di finzione, trovano spazio lettere e rubriche, articoli di commento, divulgazione, critica e recensione.
Per altro in molti casi la distinzione è valida fino a un certo punto: pubblicazioni come “Urania” o “Galassia” sono registrate come testate periodiche in tribunale e sono distribuite nelle edicole, ma assumono una fisionomia molto simile a quella di una collana, in cui accanto al romanzo o racconto lungo principale c’è una limitata appendice di rubriche.

Alcuni critici sottolineano che la SF italiana sia indirizzata prevalentemente sul piano umanistico e non tecnologico. Sei d’accordo? Se sì, oppure no, perché?

Vero è che il sistema educativo italiano – in particolare i programmi liceali che hanno formato i ceti dirigenti in epoca contemporanea – è stato caratterizzato da una centralità delle discipline umanistiche (ottime su questi temi le ricostruzioni di Pierpaolo Antonello ed Enrico Bellone). Vero è anche che nei percorsi educativi universitari quelli tecno-scientifici c’è, ancora oggi, una brutta sperequazione di genere (si vedano le statistiche che periodicamente vengono pubblicate dal Ministero dell’Università e della Ricerca sulle carriere femminili in ambito accademico). Si può quindi parlare di una certa fragilità del sistema educativo italiano nelle cosiddette STEM (“Science, Technology, Engineering and Mathematics”).
La questione della fantascienza italiana più o meno umanistica mi sembra però anche figlia di una divisione tra le “due culture” – umanistica e scientifica – tutta da storicizzare. Non ho grande simpatia per un’articolazione troppo netta e sclerotizzata – per dir così – tra ambiti disciplinari. Ci sono ovvie articolazioni teorico-metodologiche da tener presenti (sempre ottimo su questo il libro di Jerome Kagan “The Three Cultures”), ma mi sembra più interessante, anche qui, guardare a scambi, intersezioni, retroterra epistemologici comuni – precisamente ciò che mi pare proponga, a tutte le latitudini, la fantascienza più interessante.

Quali i motivi della scelta di fermati nel tuo libro agli anni Settanta? E possiamo sperare in un tuo nuovo volume che rifletta sui decenni successivi?

Fissare un termine “ad quem” in una ricostruzione storica è sempre un che di arbitrario: elementi di cambiamento e continuità sono sempre compresenti, e una fase o un momento che si possono individuare perché hanno qualche caratteristica particolare sono sempre anche parte di una storia più lunga. Detto ciò, “Fantascienza italiana” si fermava agli anni Settanta per concentrarsi su una prima fase nella storia delle riviste specializzate; “Distopie”, sia nel panorama introduttivo generale che nel seguire i percorsi di autori e autrici, si spingeva fino ad anni contemporanei a noi. Nel lavorare insieme a Luca G. Manenti sulla biografia intellettuale di Riccardo Valla – un grande traduttore e intellettuale fantascientista – siamo partiti dalla sua formazione negli anni Sessanta, per ricostruirne il percorso editoriale, traduttivo, autoriale e collezionistico, fino agli anni Duemila (la ricerca è sfociata nel volume “Un laboratorio di fantastici libri”, pubblicato da Solfanelli nel 2019).
Le mie ultime ricerche e i miei progetti in corso riguardano piuttosto periodi precedenti. Di recente ho lavorato ad esempio sulla storia delle guerre immaginarie, tra settecento e primo Novecento (c’è un articolo pubblicato in accesso aperto sulla rivista “Cromohs”: https://doi.org/10.13128/cromohs-11706.
Correntemente sto lavorando soprattutto su opere settecentesche, ricostruendo quei processi di secolarizzazione e colonizzazione del futuro che nel diciottesimo secolo si accompagnano a una profonda riconfigurazione epistemologica della storia e della conoscenza del passato.

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Giulia Iannuzzi
Fantascienza italiana
Pagine 362, Euro 30.00
Mimesis


E allora le foibe? (1)


La casa editrice Laterza ha pubblicato un importante saggio che illumina un capitolo storico della seconda guerra mondiale, accaduto ai nostri confini est, e precisamente quel capitolo ricordato con la dizione “eccidii delle foibe”.
Un dizionario geografico così spiega il termine “foiba”: Parola dell’orografia, parte della geografia fisica che studia e descrive le caratteristiche dei rilievi montuosi. 1. Depressione carsica a forma di grande conca chiusa, derivata dalla fusione di più doline, sul fondo della quale si apre una spaccatura che assorbe le acque; tipica caverna verticale diffusa nella regione giuliana. Se ne contano circa 1700 in Istria. 2. Luoghi rievocanti fosse comuni per l'occultamento dei cadaveri delle vittime di rappresaglie militari e di assassinii politici.
Molti italiani compromessi col fascismo e, spesso, autori di crudeli episodi anche sanguinosi ai danni della popolazione locale furono uccisi e precipitati in quelle cavità. Come succede nelle tempeste della Storia, la vendetta dei partigiani di Tito colpì pure degli innocenti che pagarono colpe non commesse durante l'italianizzazione forzata di quei territori. Avvenuta in modo brutale. Colpendo anche le radici della tradizione e la stessa lingua delle popolazioni locali. Ciò avvenne, ad esempio, con la Riforma di un ministro di Mussolini – il filosofo Giovanni Gentile – che dopo l'anno scolastico 1928/29 abolì l'insegnamento delle lingue slovena e croata nella Venezia Giulia e rese obbligatorio l’insegnamento dell’italiano nelle scuole slave.
Sulle foibe si è scatenata in Italia una campagna della Destra che ha voluto l’istituzione di un Giorno del Ricordo e ha tentato – e tenta – di creare un impossibile parallelo fra la persecuzione e lo sterminio degli ebrei fatto dai nazifascisti e quanto successo agli italiani in Istria.

Il libro di cui dicevo in apertura è intitolato E allora le foibe?.
Ne è autore un giovane storico: Eric Gobetti.
Studioso del fascismo, della seconda guerra mondiale, della Resistenza e della storia della Jugoslavia nel Novecento. Autore di due documentari (“Partizani” e “Sarajevo Rewind”), esperto in divulgazione storica e politiche della memoria, ha collaborato più volte con il canale televisivo Rai Storia.
Eccolo in questo video fare una breve presentazione di questo suo recente lavoro.

Due cose ancora
La prima: Gobetti è lontano da ogni negazionismo e condanna la violenza, la brutalità di cui si sono resi responsabili i partigiani titini (anche contro partigiani italiani) scendendo spesse volte al livello dei fascisti.
La seconda: Gobetti cita gli incoraggiamenti avuti a scrivere questo saggio da Carlo Greppi, altro giovane storico, di recente ospite di questo sito dove ha presentato il suo libro che v’invito a leggere dal titolo volutamente provocatorio L'antifascismo non serve più a niente.

Dalla presentazione editoriale di “E allora le foibe?”.

«”E allora le foibe?” è diventato il refrain tipico di chi sostiene il risorgente nazionalismo italico e vuole zittire l’avversario. Mi di cosa parliamo quando parliamo di foibe? Cosa è successo realmente?
‘Decine di migliaia’, poi ‘centinaia di migliaia’, fino a ‘oltre un milione’: a leggere gli articoli dei giornali e a sentire le dichiarazioni dei politici sul numero delle vittime delle foibe, è difficile comprendere le reali dimensioni del fenomeno. Anzi, negli anni, tutta la vicenda dell’esodo italiano dall’Istria e dalla Dalmazia è diventata oggetto di polemiche sempre più forti e violente. Questo libro è rivolto a chi non sa niente della storia delle foibe e dell’esodo o a chi pensa di sapere già tutto, pur non avendo mai avuto l’opportunità di studiare realmente questo tema. Questo “Fact Checking” non propone un’altra verità storica precostituita, non vuole negare o sminuire una tragedia. Vuole riportare la vicenda storica al suo dato di realtà, prova a fissare la dinamica degli eventi e le sue conseguenze. Con l’intento di evidenziare errori, mistificazioni e imbrogli retorici che rischiano di costituire una ‘versione ufficiale’ molto lontana dalla realtà dei fatti. È un invito al dubbio, al confronto con le fonti, nella speranza che questo serva a comprendere quanto accaduto in anni terribili».

Segue ora un incontro con Eric Gobetti.


E allora le foibe? (2)

A Eric Gobetti (in foto) ho rivolto alcune domande

Da quali urgenze nasce questo libro?

Due necessità, diverse ma complementari. Una professionale: ristabilire la verità storica su un tema che, a livello politico e mediatico, viene rappresentato in maniera distorta se non in alcuni casi addirittura rovesciato rispetto alla realtà. La seconda motivazione è una sorta di dovere civile: la necessità di fermare un meccanismo che non solo travisa la realtà dei fatti ma cerca, attraverso questa menzogna, di capovolgere gli stessi valori fondanti della nostra democrazia, presentando la Resistenza come criminale e i fascisti come eroi e vittime senza nessuna colpa.

All’inizio del saggio dici di una massima che hai in grande considerazione: “Per capire la storia è necessario conoscere la geografia”.
Anche in questo libro ti è giunto aiuto da quella massima
?

Per comprendere una vicenda è necessario innanzitutto capire dove avviene, chi ne sono i protagonisti, dove vivono, in cosa credono, quali sono i loro scopi. Ecco, il contesto geografico in questo caso è essenziale: perché quella storia non si è verificata nello stesso modo in provincia di Alessandria, di Macerata o in Albania, dove pure ci sono stati il fascismo, la guerra, la Resistenza, i crimini fascisti? Per capirlo bisogna conoscere a fondo quel territorio e la sua storia. Per capire, che non significa “giustificare”, come vorrebbe far intendere qualcuno.

C’è scarsa memoria in giro di quanto abbiamo combinato noi italiani “brava gente” durante l’italianizzazione forzata di quei territori. Puoi aiutare la memoria di tanti distratti?

Già a partire dagli anni Venti in questi territori hanno avuto applicazione una serie di leggi che nei fatti si sono dimostrate una sorta di “leggi razziali” ante litteram, nel senso che hanno escluso, marginalizzato, indebolito due intere comunità nazionali, gli sloveni e croati residenti nei territori annessi all'Italia nel 1918, con l'intento preciso di cancellare del tutto quelle identità, “italianizzando” gli abitanti. Al di là della conversione di nomi e cognomi, che è l'effetto più conosciuto, forse gli aspetti più gravi di questa politica si sono evidenziati nella scuola - con l'obbligo dell'uso esclusivo dell'italiano e la chiusura di tutti gli istituti nei quali si usava una lingua differente - e nelle chiese, dopo il Concordato del 1929 che prevedeva tra l'altro l'uso esclusivo della lingua italiana anche per comunità religiose non italofone.

In un’intervista esprimi perplessità che possa esistere una “memoria condivisa” su ricordi e trattati circa quanto avvenne in quegli anni in terra slava.
Quali le ragioni di questo tuo convincimento
?

Il concetto stesso memoria condivisa è scivoloso: la memoria è necessariamente personale, soggettiva, non può essere condivisa, ad esempio nel caso di violenza di questo tipo, dagli eredi delle vittime e dagli eredi dei responsabili di quelle violenze. Bisognerebbe lavorare a mio avviso per una memoria integrata, ovvero accogliendo le diverse memorie di questo confine travagliato, in un'ottica di vera riconciliazione europea. Per episodi storici così travagliati è importante dare spazio alla Storia, che studia, analizza, spiega, ma non è tenuta a dare giudizi di valore. Ecco, tutto questo l'Italia non lo sta facendo: la storia viene esclusa dalle commemorazioni, che sono del tutto schiacciate sul paradigma vittimista e quindi su un'unica memoria, che è quella degli esuli. Una memoria che è comprensibilmente “di parte”, perché viene da chi ha pagato due volte la sconfitta dell'Italia in guerra, un Italia, lo ricordiamo, che aveva contribuito a scatenare quella guerra e che stava dalla parte del nazismo. Ripeto, la memoria dolorosa degli esuli è legittima e va rispettata, ma non può diventare la “storia ufficiale” del nostro paese riguardo alle complesse vicende del confine orientale, perché esclude necessariamente tutte le altre: le violenze del fascismo, i crimini del nostro esercito, le scelte di chi ha deciso di rimanere, e tante altre.

Nell’edificazione di tanti falsi sulle foibe, nella debole (a volte addirittura mancata) indicazione dei crimini di guerra da noi commessi in Croazia e Slovenia, nella scarsa attenzione ad una ricostruzione dei fatti di allora da parte di tanti storici di ieri e di oggi, quali responsabilità ha la Sinistra?

Se ti riferisci ai partiti eredi del Pci, Pds e oggi Pd, credo che questi partiti abbiano ampiamente contribuito a questa costruzione memoriale e infatti la stanno difendendo strenuamente, anche di fronte ai suoi evidenti limiti storici. I crimini commessi dal nostro esercito nel Balcani ma anche in Africa non sono mai entrati nell'agenda delle politiche della memoria, né nell'immaginario collettivo per una scelta memoriale condivisa da tutti i partiti. L'immagine di un popolo di inetti-ma-buoni (gli italiani brava gente appunto) mandato al macello in una guerra sbagliata voluta da pochi fascisti (sempre meno, nell'immaginario collettivo, ormai sembra davvero Mussolini l'unico responsabile) è consolante e ha avuto un ruolo rilevante nella costruzione identitaria postbellica. Ora però credo sarebbe ora di ammettere, anche in un'ottica di riconciliazione europea, quei crimini, attraverso la realizzazione di film, documentari, opere di divulgazione e almeno una ufficiale in un lungo-simbolo: mi viene in mente il campo di concentramento di Arbe, sull'isola di Rab, in Croazia, dove morirono di fame 1500 civili, in gran parte donne e bambini sloveni.

Quando su questo sito ospito uno storico, l’incontro si conclude sempre con la stessa domanda.

- Piero Gobetti: "La storia è sempre più complessa dei programmi".
“La Rivoluzione liberale”, 1924.

- Alain: "La storia è un grande presente, e mai solamente un passato".
“Le avventure del cuore”, 1945

- Elias Canetti: "Imparare dalla storia che da essa non c'è niente da imparare".
“La tortura delle mosche”, 1992.

E per Eric Gobetti la Storia che cos'è
?

Sono vere tutte e tre, ovviamente. Aggiungerei che mi piacerebbe che la storia aiutasse a capire i meccanismi del nostro presente e a sapere da che parte stare, in questo mondo. Perché la storia è in qualche misura circolare ma non è mai uguale a se stessa. È come un cerchio distorto: mai perfettamente rotondo, ma conoscendo i fenomeni che si sono verificati in passato almeno si può provare a intuire la direzione in cui si sta andando. E provare a invertire la direzione, quando serve. È quello che vorrei fare con il mio minuscolo granello di sabbia gettato nell'ingranaggio di una propaganda sbagliata e pericolosa.

……….………….……

Eric Gobetti
E allora le foibe?
Pagine 136, Euro 13.00
Laterza


Aprimi cielo

Acrobata delle parole, funambolo della lingua, giocoliere dell’allitterazione… quante ne sono state dette per definire gli elettrici monologhi (… ecco un’altra definizione usata) di Alessandro Bergonzoni, scrittattore e attoscrittore nonché vocalautore bolognese nato nel 1958.
“Le parole sono le mie puttane” diceva Diderot e le rinchiudeva in un enciclopedico bordello, anche per Bergonzoni le parole fanno il più vecchio mestiere del mondo passeggiando lungo viali di cellulosa o nell’ombra di angoli inchiostrati, ma lui piomba fra loro a capo della Malcostume per liberarle dagli obblighi del commercio del carnale dizionario invogliando carta e parole a un carnevale di libertà e di balli, a un’orgia di epifanie e disvelamenti.

Da tempo Bergonzoni conduce su L’Espresso una godibile rubrica intitolata “Aprimi Cielo”, adesso quel nome titolo a un libro pubblicato dalla casa editrice Garzanti Aprimi Cielo Dieci anni di divertimento, articolato.
Tra il Bergonzoni da leggere e quello d’ascoltare c’è una differenza che qui indico come tema, e forse problema, a chi si occupa di neurestetica, e di psicolinguistica.
Qui, alla maniera dei direttori di sala nei locali dei grandi chef, consiglio come gustare i fastosi piatti di Bergonzoni: se l’ascoltate non interrompete per nessuna ragione quell’ascolto; se lo leggete, prendetevi, invece, qualche pausa fra pagina e pagina, oppure piccoli gruppi di pagine perché il rutilante procedere dello scrittore letto tutto di seguito potrebbe saziarvi troppo come un piatto troppo speziato e perdereste il piacere dei sapori che vi riservano i fogli successivi.

Dalla presentazione editoriale
«Questo volume porta alla luce oltre dieci anni di ricerca di Alessandro Bergonzoni dalle pagine del «Venerdì di Repubblica»: idee, domande, déjà-vu, babelici elenchi, reiterazioni che inglobano e travalicano l’attualità, e ci permettono di scoprire gli universi – comici, folli, intimi, politici e sociali – dell’autore: un raccolto istantaneo frutto però di un tempo scandito e seriale, di un ritmo continuativo che qui perde la sua identità e lascia fare a chi legge altri ordini e altre sequenze, altre visioni d’insieme e particolari, note e ignote, dando un ordine che può essere rispettato ma forse anche perduto. Con lo stile inconfondibile che non lascia né tregua né riposo al lettore, continuamente sfidato a scavare tra le infinite potenzialità della mente e della scrittura, Bergonzoni affronta dialetticamente quanto troppo spesso siamo invece portati a ignorare, a rimuovere e a non voler conoscere. Il risultato è una raccolta antologica capace di spaziare tra registri e tonalità diversi, per farci compiere un percorso tra le mille anime, spesso sconosciute, di questo poliedrico artista. Uno stile di «Damocle» che pende sulla testa di chi vuol ritrovare un Bergonzoni e ne scopre cento, trovandone uno e perdendone chissà quanti altri, probabilmente misteriosi anche all’autore stesso».

Fine di questa nota, ma godetevi l’inizio (fino alla fine) di questa splendida performance di Bergonzoni.

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Alessandro Bergonzoni
Aprimi Cielo
Pagine 224, Euro 16.00
Garzanti


Il mito di Beowulf

La casa editrice Aracne ha pubblicato un saggio su di un famoso classico, titolo:il mito di Beowulf.
Ne è autore Giuliano Marmora un grande studioso di quel poema epico anglosassone.
Marmora si forma presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, dove ottiene una laurea magistrale con una tesi che indaga il Beowulf dal punto di vista filologico, traduttologico e delle sue molteplici risonanze nel tempo. Si interessa della ricezione contemporanea del medioevo germanico. Ha pubblicato sulle traduzioni italiane del Beowulf (2019) e sulle sue riscritture, fra le quali Grendel’s Mother di Susan Signe Morrison (2020).

Dalla presentazione editoriale
«Il libro prende in esame il vasto panorama delle riscritture del Beowulf e analizza i legami intertestuali che esistono tra ipotesto e ipertesti. Nello specifico, dopo aver presentato brevemente il Beowulf allo scopo di evidenziarne la natura, a sua volta, di riscrittura, presenta una breve storia delle edizioni e traduzioni che pure sono ipertesti che richiedono un intervento critico e interpretativo. Prosegue poi con un’analisi delle riscritture letterarie, audio-visive e cinematografiche, con lo scopo di presentare degli interventi, anche comuni, sul testo di partenza nelle diverse riscritture e l’influenza determinante della critica filologico-testuale sulle stesse. Il capitolo finale è dedicato a The Hobbit di J.R.R. Tolkien e sostiene la tesi di una riscrittura consapevole del Beowulf».

Ecco la trama dell’opera.

A Giuliano Marmora ho rivolto alcune domande.

Che cosa l’ha tanto affascinato del Beowulf da dedicargli plurali studi?

Ho affrontato lo studio del “Beowulf” per la prima volta durante il corso magistrale di Filologia Germanica e mi ha subito conquistato. Mi colpirono la coesistenza contraddittoria di due mondi, pagano e cristiano, il modo in cui una singola parola poteva raccontarci diverse storie, nonché l’eloquenza dei silenzi di quelle vicende appena accennate, che ponevano il poema anglosassone al centro di una complessa rete di connessioni tra i testi e le leggende del medioevo germanico. Decisi che dovevo saperne di più.

Il titolo di parte d’un capitolo del suo libro si presta a diventare una domanda.
Quale ipotesi – a suo giudizio — è la più attendibile circa “luogo, data, autore, pubblico” sull’origine del poema
?

Bella domanda. Le risposte più certe sono, paradossalmente, quelle fatte di “se” e di “ma”. Tendenzialmente, diffido di risposte tanto precise quanto quelle di R. North, che individua non solo una data, 826-827 d.C., ma anche un luogo, un autore e persino un’occasione di composizione, ovvero la morte di re Beornwulf di Mercia, assassinato nell’826. Numerosi sono gli indizi linguistici, storici e narrativi che spingono verso diverse ipotesi e all’attuale stato degli studi non possiamo dire con certezza chi abbia ragione e chi torto. Forse, North ha ragione. Al momento, per ragioni con le quali non vorrei annoiare i suoi lettori, che coinvolgono nozioni tecniche di prosodia ed etimologia, trovo valida l’ipotesi di R.D. Fulk. Secondo lui, “Beowulf” è stato composto non oltre il 725, se scritto nella regione dell’antica Inghilterra nota come Mercia, e quindi nel dialetto di quella regione, o non oltre l’825, se scritto nella regione della Northumbria. Per la questione autoriale e del pubblico, e quindi dello scopo per cui il “Beowulf” è stato scritto, valgono le stesse incertezze, soprattutto per l’autore: buona parte della poesia inglese antica è purtroppo anonima. Abbiamo solo quattro nomi di autori associati a poesie che sopravvivono fino ai tempi nostri e che furono scritte in anglosassone, o inglese antico che dir si voglia: due non sappiamo neanche se siano realmente esistiti, mentre la filologia è oggi incerta nell’attribuire ai restanti due la paternità dei poemi che portano il loro nome. A nessuno di questi quattro, tra l’altro, è stato possibile attribuire il “Beowulf”.

Lei scrive che esiste un Beowulf prima di Beowulf. Dove ne rintraccia i segni?

I segni di un Beowulf prima del “Beowulf”, ossia le tracce di una narrativa diffusa che precedono la composizione del poema, possono ritrovarsi tanto nelle tradizioni letterarie e mitologiche di origine germanica quanto nei documenti legali del Medioevo, o addirittura nella toponomastica, lo studio scientifico dei nomi di luogo. Un indizio importante è proprio il nome dell’eroe protagonista. Nel poema sono menzionati diversi personaggi e spesso, se importanti, questi sono riconducibili ad altri nomi della storia e del mito dei popoli germanici. Di un Beowulf, invece, non c’è traccia. Beowulf, forse, è un prestanome che fa da collante a tre (o anche più) diverse storie che esistevano in precedenza e sono state aggregate in un unico poema. A un lettore attento non sfugge certo che tra il drago del “Beowulf” e quello della tradizione nibelungico-volsungica esistono alcuni parallelismi. Agli storici e ai filologi, invece, è spettato il compito di ritrovare il nome di Grendel, il primo dei mostri che l’eroe sconfigge, in documenti legali che si riferiscono a dei luoghi, come “la palude di Grendel” o “la caverna di Grendel”. I nomi sono fonti preziose di storie antiche e talvolta dimenticate. Quasi duecento anni fa, uno studioso, J. M. Kemble, attraverso due nomi di luogo ha ricostruito una vicenda mitologica che sta alla base della prima parte del “Beowulf”, ovvero dello scontro tra Beowulf e Grendel.

Esiste un significato simbolico (e, se sì, quale) nella lotta di Beowulf contro Grendel?

Mi spiace doverle dire che anche questa risposta è fatta di incertezze, in un certo senso. Le letture simboliche dello scontro tra Beowulf e Grendel sono molteplici. J.R.R. Tolkien, grande accademico prima ancora che padre del fantasy moderno, vi ha letto un singolo episodio cristiano dell’eterno scontro tra la luce e le tenebre. C’è anche chi, in maniera più precisa, ha rivisto in Beowulf un Cristo vittorioso contro Satana, contro il Male. Il Kemble a cui accennavo nella risposta precedente vi ha letto, meglio ancora ricostruito, la celebrazione mitica di una tappa storica per l’uomo: la scoperta dell’agricoltura e la successiva sedentarizzazione. Secondo Kemble, infatti, “Beowulf” sarebbe la riscrittura di un dio dell’agricoltura, Beowa, e Grendel un’incarnazione della palude, della terra che non produce vita per l’uomo, ma la soffoca. Interessanti sono, invece, le interpretazioni dello scontro che emergono nelle riscritture del “Beowulf”. L’autore contemporaneo, difatti, non ricerca il significato originale che l’autore del poema medievale ha attribuito a quello scontro, come fa il filologo o il medievalista, e può quindi filtrarne la lettura attraverso gli occhi dell’uomo moderno. John Gardner nel suo “Grendel”, e diversi dopo di lui, ci hanno visto la lotta di un vincitore, che ha potuto raccontare la sua versione dei fatti, e di un vinto, che invece non ha potuto — “vae victis”, come ci ricorda Livio. Gli autori moderni spesso ripropongono una narrativa che segue il punto di vista dello sconfitto e così Gardner ci racconta gli episodi del poema dalla prospettiva di un Grendel mostruoso nell’aspetto ma capace di grandi e complessi ragionamenti, mentre S.S. Morrison, in “Grendel’s Mother”, ci racconta la tragica vicenda di una regina umana, Brimhild, che assieme a suo figlio viene esiliata e demonizzata nei racconti del poeta di corte, e sarà poi semplicemente nota come la madre di Grendel.

Fumetto, teatro, cinema, videogames, tv; a suo parere quale linguaggio fra quei mezzi espressivi è riuscito fino ad oggi a meglio interpretare il Beowulf?

Personalmente, credo che la migliore interpretazione del “Beowulf” sia quella data dai filologi, che si occupano della corretta trasmissione del testo in termini di lingua e di contenuto. Come forse già sa, nel Medioevo, chi transcriveva un testo commetteva spesso degli errori oppure aggiungeva e toglieva dall’originale seguendo il suo gusto personale o quello del momento storico-culturale in cui viveva. I filologi si occupano quindi di eliminare, fin dove è possibile, questi errori e queste aggiunte, e di interpretare poi il testo, ovvero di capire e spiegare il suo vero significato. Il bello della riscrittura consiste, invece, nel tradimento, parziale o totale, dell’opera. Ho già accennato ai romanzi di Gardner e di Morrison. Il loro punto di forza non è il raccontare di nuovo “Beowulf”, ma il sovvertire la verità che questo racconta. Se “Beowulf” ci è piaciuto, rileggiamo “Beowulf”. Se vogliamo un “Beowulf” diverso, invece, leggiamo “Grendel” di Gardner, guardiamo “La Leggenda di Beowulf” di Robert Zemeckis o, ancora, godiamo delle meravigliose illustrazioni del romanzo grafico di Santiago Garcia e David Rubìn. Un “Beowulf” diverso è anche “Lo Hobbit” di J.R.R. Tolkien. Nel mio libro ne argomento la natura come di una riscrittura del poema anglosassone. Ognuna di queste, poi, ha il suo pubblico preferito. Da persona che si interessa allo studio del poema medievale, trovo nelle riscritture letterarie un piacere molto più grande in ragione dei riferimenti testuali, delle connessioni profonde che gli scrittori in alcuni casi instaurano con il “Beowulf”. Non per questo le riscritture filmiche o fumettistiche hanno minore valore nel campo degli studi, al contrario. È però vero che attraggono un tipo di pubblico differente e, pertanto, tradiscono il testo originale in maniera differente. Indubbiamente, i vari autori hanno intravisto nel poema qualcosa che può catturare l’interesse del pubblico ancora oggi e i diversi mezzi espressivi sono messi quindi in gioco per catturare una stessa narrativa attraverso diverse realtà. Evidentemente, c’è qualcosa che vale ancora la pena di raccontare in quella storia, le cui origini si sono ormai perse nel tempo, ma che non ha ancora smesso di affascinare.

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Giuliano Marmora
Il mito di Beowulf
Pagine:136, Euro 10.00
PdF, Euro 6.00
Aracne Editrice


Museo Tattile Omero


Nel 1985 due persone non vedenti, Aldo Grassini e sua moglie Daniela Bottegoni, viaggiatori, esperantisti ed amanti dell’arte hanno un’idea: creare un museo dove sia possibile toccare tutte le opere, stanchi del “Divieto di toccare” diffuso nei musei di tutto il mondo.
Dopo anni di richieste e riunioni il 29 maggio 1993 il Comune di Ancona, con il contributo della Regione Marche e su ispirazione dell’Unione Italiana Ciechi, istituisce il Museo Tattile Omero che nel 1999 sarà riconosciuto dal Parlamento italiano quale Museo Statale confermandogli una valenza unica a livello nazionale.
La finalità del Museo è quella di “promuovere la crescita e l’integrazione culturale dei minorati della vista e di diffondere tra essi la conoscenza della realtà”.
Fin dalla sua origine però il Museo non vuole essere un luogo riservato alle persone non vedenti, ma uno spazio culturale senza barriere piacevole e produttivo per tutti.
Nel 2012 il Museo si trasferisce alla Mole Vanvitelliana di Ancona, sua sede definitiva, occupando uno spazio di circa 3.000 metri quadri su quattro piani, rendendo fruibile una parte della collezione al primo piano, i laboratori didattici, gli uffici, la sala conferenze, il centro documentazione e altri spazi espositivi per mostre ed eventi.
Da settembre 2017 infine viene esposta l’intera collezione al secondo e terzo piano della Mole, dove oggi sono fruibili circa 150 opere tra copie in gesso e resina di capolavori classici, modellini architettonici e sculture contemporanee originali.


Dal 13 luglio 2017 il Presidente del Museo Omero, Aldo Grassini, è componente del Gruppo di lavoro, istituito dalla Direzione Musei del Mibact, per la formulazione di provvedimenti inerenti il superamento delle barriere culturali, cognitive e psicosensoriali nei luoghi della cultura di competenza del Ministero.

Una delle sue più recenti iniziative consiste in un ciclo di conferenze intitolato La voce specchio dell’anima.
Cliccare QUI per conoscere il programma e la modalità per collegarsi da remoto al Museo

Museo Omero
La voce specchio dell’anima
2021: dal 17 – 2 al 24 – 3


Una lettera per Mario Draghi


Ho ricevuto dalla vivacissima ApTI (Associazione per il Teatro Italiano) il testo di una lettera inviata a Mario Draghi.
Sul sito web ApTI leggo una lettera di Benedetta Buccellato dove apprendo che non è più presidente della Fondazione Piccolomini proprio subito dopo che l’aveva portata alla vittoria in una causa annosa sostenendo con il suo lavoro quello del legale nelle, immagino tante, udienze necessarie per giungere alla soddisfacente conclusione. Non sono iscritto all’ApTI (né ad alcuna altra organizzazione similare) ma lavorando da più decenni nello spettacolo faccio parte di quella platea interessata alle cose che accadono tra noi specie se toccano istituzioni com’è la Piccolomini che svolge un compito lodevolissimo per i nostri colleghi anziani meno fortunati. Avrei cioè gradito un comunicato che spiegasse quanto verificatosi che forse avrà mille ragioni per essere accaduto.

Torno alla lettera indirizzata a Draghi. Firmata da numerose associazioni di autori e artisti chiede che, a fianco di un’ampia politica progettuale per l’economia italiana, sia finalmente attuata una profonda riforma che tenga conto del valore centrale della Cultura e dello Spettacolo e dei diritti di chi in quei settori lavora.
Tutto giusto e ben esposto in quella lettera che troverete qui di seguito.
Due veloci riflessioni mi va, però, di farle.

1) Le tante sigle che si rivolgono al presidente dimostrano la grande frammentazione della nostra area e l’inevitabile debolezza che ne deriva. Probabilmente il primo lavoro da fare sarebbe tentare l’unificazione se non di tutte le associazioni, almeno di una consistente parte di esse.

2) Quella frammentazione è la conseguenza dell’incapacità dei tre sindacati tradizionali a rappresentare la nostra categoria che ha la particolarità di essere composta di specializzazioni diversificate con la complicazione ulteriore della divisione fra pubblico e privato. Eppure, è proprio dai sindacati che potrebbe essere convocato un tavolo per affrontare la questione sempre che – contrariamente a quanto successo fino ad oggi – i sindacati stessi unificassero fra loro la visione del problema.
Una vignetta di un vecchio giornale umoristico (Il Travaso?) raffigurava un vedovo che esprimeva un desiderio impossibile a realizzarsi e concludeva "E poi raccoglimi pure accanto a quell'anima benedetta".

Questa che segue è la lettera di cui prima dicevo.

Presidente Draghi,

gli autori e artisti italiani vogliono esprimere anticipatamente la loro fiducia nei confronti del governo che Lei guiderà. Inutile dirLe che i teatri, i cinema e tutti i luoghi della musica e della danza sono stati i primi a chiudere per la pandemia in corso e probabilmente saranno gli ultimi ad essere riaperti. Sappiamo che è Sua intenzione attuare una politica di espansione progettuale per l’economia del nostro Paese. Per questo Le chiediamo di non dimenticarci, il settore culturale ha bisogno di essere rilanciato attraverso novità e finanziamenti in media con quelli degli altri Paesi europei, che segnino una discontinuità netta nei confronti del passato.

L’Italia non è soltanto lo scrigno di tesori che tutto il mondo ama e ci invidia, non è soltanto un museo a cielo aperto, è anche la patria di tanti artisti che producono cultura per l’avvenire: una cultura dinamica, in divenire, che ha bisogno di essere considerata e messa in condizione di operare. Confidiamo che voglia mettere mano al nostro sistema che, come molti altri in Italia, spesso tende a creare situazioni di privilegio, a prescindere dall’effettiva valenza artistica.

C’è bisogno di investimenti su teatro, cinema e audiovisivo, danza e musica: non vogliamo solo ristori, vogliamo lavorare e produrre. C’è bisogno di riaprire in sicurezza i teatri, i cinema, le sale da concerto, ripensando alle loro modalità di sostegno, finanziamento e accesso al credito, così come è improrogabile l’applicazione, nei diversi settori, di regole certe che non penalizzino le realtà produttive artistiche italiane, in un panorama dove troppo spesso talenti e professionalità vengono ignorati a favore di discutibili rendite di posizione. È necessario che il FUS venga incrementato e riformato, cambiando le regole di assegnazione dei fondi e dando propulsione alle piccole e medie imprese, che sono tante e che sono quelle più colpite dalla pandemia. Altrettanto necessario è che venga finalmente applicata la regola esistente e mai attuata che i teatri stabili producano obbligatoriamente una quantità significativa di testi italiani. Ma soprattutto è necessaria una legge di Riforma Generale dello Spettacolo, che riconosca dignità professionale agli artisti, assicuri loro tutele e non permetta più che in caso di emergenza intere categorie vengano abbandonate alla benevolenza dei DPCM, che quasi inevitabilmente finiscono per tralasciare alcune figure, le più deboli.

Vorremmo che Lei tenesse in considerazione, inoltre, il fatto che siamo l’unico Paese europeo a non avere un Teatro dedicato alla propria Drammaturgia Nazionale Contemporanea e che solo attraverso la nostra storia attuale, i nostri temi e la nostra lingua possiamo dare dignità alla nostra cultura, valorizzandola come fa ogni altro Paese europeo. In questo senso sarà anche necessario verificare gli effetti prodotti dalla recente riforma cinematografica, che ha evidenziato diversi punti di criticità, apportando quelle indispensabili modifiche per meglio favorire la creatività, generare opportunità di lavoro e sostenere la piccola e media impresa e le produzioni indipendenti, storicamente le più attente ai contenuti.

Gli artisti e le maestranze sono strettamente connessi tra loro e il lavoro dei primi determina anche quello dei secondi. L’indotto dell’industria culturale è vastissimo, si tratta di famiglie intere che vivono grazie a questa esile ma indispensabile sinergia che genera bellezza e contenuti. In crescita costante negli anni 2010-2018, il settore culturale allargato, di cui lo spettacolo è parte significativa, ha prodotto il 6,1% di PIL e con l’indotto il 16,9%, ma potremmo fare molto di più, contribuendo a rendere la cultura un importante volano di ripresa della nostra Nazione. Confidiamo in un Suo ascolto attento e sensibile, lo stesso che ha mostrato per la questione ambientale, e Le inviamo i nostri sinceri auguri di buon lavoro.

Gli autori e gli artisti di
CENDIC - Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea
UNA – UNIONE NAZIONALE AUTORI ACEP –
Associazione Compositori Editori Produttori
ACMF – Associazione Compositori Musica per Film
AIDAC – Associazione Italiana Dialoghisti Adattatori Cinetelevisivi
ANAC – Assocazione Nazionale Autori Cinematografici
ANART – Associazione Nazionale Autori Radiotelevisivi e Teatrali
COMITATO dei MILLESOCI FEDERAZIONE AUTORI ITALSHOW
Associazione per i Professionisti dello Spettacolo
L’ASSOCIAZIONE – Autori Compositori Interpretri Esecutori
MAP – Movimento Autori Professionisti NOTE LEGALI
SNAC – Sindacato Nazionale Autori e Compositori
UNCLA – Unione Nazionale Compositori Librettisti e Autori
ApTI – Associazione per il Teatro Italiano
ASSTeatro – Associazione Sindacale Autori di Teatro
AUT – Autori Coordinamenti StaGe! e Indies
DRAMMA.it Fed.It.Art. – Federazione Italiana Artisti
Fondazione Teatro Italiano Carlo Terron
Rivista SIPARIO
S.I.A.D. – Società Italiana Autori Drammatici


Una petizione promossa da Nicla Vassallo


La filosofa della scienza Nicla Vassallo (in foto) da sempre impegnata a favore dei diritti umani e civili ha lanciato una petizione, indirizzata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al Senato della Repubblica, per la richiesta dell’approvazione definitiva della Legge Zan.
In Rete ha voluto associare alla notizia della petizione un intervento che illustra le ragioni dell’urgenza di quanto richiesto. Eccolo qui di seguito.

«Sto scrivendo un saggio filosofico sul lesbismo. Siamo tra i paesi più omofobi. Siamo fuori dell’Europa. La nostra attuale Presidente del Senato: Maria Elisabetta Alberti, coniugata Casellati, in Senato nel 2003: “L’Italia è piena di figli dell'eterologa perché frutto del rapporto di una donna col lattaio di turno”. È autrice di “Indissolubilità e unità dell'istituto naturale del matrimonio canonico” (Cedam 1984). Il matrimonio sarebbe un istituto naturale? Non scherziamo. È un contratto, a cui debbono aver accesso anche le persone omosessuali. (cfr. “Il matrimonio omosessuale è contro natura: Falso!”, Laterza 2015). Che fare se non mobilitare la cultura in ogni senso del termine, in un momento in cui l’Italia necessita di conoscenze e competenze? Il primo firmatario sarebbe stato il mio amico Stefano Rodotà. Altro primo firmatario, sempre grande amico, per sempre, Carlo Bernardini. Tra l’altro, ricordo bene cosa Carlo pensava e pensa della/sulla natura. Chi altri, se non i fisici, illuminati e impegnati, sulla natura e le sue leggi? Un’osservazione: nel farsi promotrice/promotore di una petizione seria si corrono rischi, con insulti e aggressioni, ormai desolatamente all’ordine del giorno. E, per di più, le cocenti delusioni non mancano: si fa innanzitutto partecipi dell’iniziativa amiche e amici, nonché delle proprie prese di posizione. C’è chi risponde: no grazie, non firmo petizioni, il che è comprensibile. C’è chi, invece, non solo non firma, ma non mi racconta neanche il perché. E troppo indaffarat*? Oppure è veniale, e giudica che metterci la “faccia” a favore di diritti umani e civili sia superfluo? Costoro commettono un peccato veniale, meglio mortale. Amiche e amici, i miei, altrove».

Alla petizione, per ora, hanno aderito, tra le altre e gli altri:

il filosofo Massimo Cacciari
la giornalista Anna Longo
l’attrice Lella Costa
l’attrice Carla Signoris
la giurista Eva Cantarella
il sociologo Marzio Barbagli
la politica Maria Antonietta Coscioni
lo psicologo Cristiano Castelfranchi
il filosofo Umberto Curi
la filosofa Michela Marzano
il fisico Alberto Diaspro
il filosofo Massimo Donà
il giurista Paolo Comanducci
l’imprenditrice Chicca Olivetti
il filosofo Marco Santambrogio
la filosofa Lia Formigari
l’accademico della Crusca Vittorio Coletti
il fisico e politico Giovanni Bachelet
la filosofa Nadia Urbinati
il biologo Carlo Alberto Redi
il filosofo Giacomo Marramao

Tra gli stranieri

Peter Bauman (Usa)
Stephanie Kapusta (Canada)
Facundo Bey (Argentina)
Thomas Mauntner (Australia)


Cuore, di Claudia Pancino



Cosmotaxi il sabato e la domenica non va on line.
Lo so: non è una notizia emozionante.
Ne scrivo perché il calendario vuole che quest’anno il giorno di S. Valentino, protettore degli innamorati, ricorre proprio di domenica data quanto mai adatta per presentare un libro di cui dirò fra poco. Come fare? Don’t panic, please! Rimedio trovato: ne scrivo oggi.
S. Valentino, protettore degli innamorati? Sì, ma protettore a sua insaputa. Perché mai nessuno gli comunicò quest’incarico oppure onorificenza, definitela voi come meglio vi garba. Gli fu invece comunicata una condanna a morte da parte dell’imperatore Aureliano per avere unito in nozze una cristiana con un pagano, unione che se i due non s’erano sbrigati prima a consumarla mai consumata fu, perché gli sposi, narra la leggenda, morirono insieme mentre Valentino li benediceva fondendo creativamente il sacramento del matrimonio con quello dell’estrema unzione. Anche a lui non andò meglio perché dopo essere stato flagellato fu decapitato a Roma il 14 febbraio 273 da un soldato che, a volere credere nel motto “nomen omen”, doveva patire disturbi della personalità, si chiamava infatti Furius Placidus.
Sia come sia, S. Valentino si ritrova ad essere protettore dei morosi (nel senso degli affetti non degli affitti) non solo in Europa, ma anche nelle Americhe e in alcuni paesi d’estremo oriente Prudentemente, però, si è assicurato anche la carica di protettore di Terni, le coppie, si sa, talvolta si separano, Terni no, Terni è e sarà sempre unita e fedele a se stessa.

Scrivevo in apertura che il 14-2 è giorno opportuno per presentare un libro che ben s'adatta alla data.
È intitolato Cuore storie, metafore, immagini e palpiti, nuovo e nono titolo della collana “Oggetti del Desiderio” curata per la casa editrice Fefè dal filosofo Lucio Saviani.
Ecco un regalo colto originale prezioso intelligente per la festa di San Valentino.
Autrice del volume Claudia Pancino.
Già docente di Storia Sociale all’Alma Mater Studiorum–Università di Bologna/Dipartimento di Storia Culture Civiltà. Ha dedicato numerose ricerche alla storia sanitaria e alla storia delle donne. Fra le sue pubblicazioni: con Franco Angeli (Il bambino e l’acqua sporca), Marsilio (Storia sociale; Corpi, ed.), Carocci (Formato nel segreto: nascituri e feti fra immagini e immaginario, con J. D’Yvoire; Sortilegi amorosi, ed. con U. Mazzone), CLUEB (Voglie materne; Politica e salute, ed.), Angelo Longo (Conselice di Romagna; Conselice nell’Ottocento), Bononia University Press (Anatome, ed. con G. Olmi; La natura dei bambini: cura del corpo, malattie e medicina della prima infanzia fra Cinquecento e Settecento).

“Cuore” esce nella collana ‘Superfluo Indispensabile’ un titolo che sarebbe molto piaciuto, manco a dirlo, a Oscar Wilde e pure tanto a Giorgio Manganelli; se non sbaglio, però, deriva da un aforisma di Salvemini che disse “La cultura è il superfluo indispensabile”.
Nella stessa collana, fra quelli che ho letto, ricordo con particolare piacere Piedi di Laura De Luca e Naso di Pasquale Panella. Giuro che non c’è malizia nell’accostamento dei due titoli.

Claudia Pancino fa un periplo colto e birichino intorno a quest’organo il cui nome più massicciamente ricorre nei titoli di narrativa, poesia, cinema, teatro, canzoni, scemeggiati tv (la ‘emme’ è voluta), pubblicità, graffiti; risuona in tanti discorsi politici, inaugurali, funebri, patriottici, encomiastici; in preghiere di quasi tutte le religioni (pastafariana esclusa).e, ça va sans dire, in molte dichiarazioni d’amore.
L’autrice non dimentica (… e come potrebbe?) il cuore nel corpo umano e nella medicina che lo studia, sicché il panorama più completo non potrebbe essere e suggerisce una verità semantica che tutto tiene: il cuore per essere presente in tanti campi, dallo scientifico all’artistico deve palpitare in un segno complessivo che sia prerazionale e antemitico, ma anche ultracardiaco e metaletterario.
Credo, e il libro in questo mi pare illuminante, che quel segno sia il Simbolo.
Segno dei segni che assumendo plurali aspetti materiali e immateriali secondo il linguista Luc Benoist “qualifica un’entità, un concetto, un oggetto, un organo, un racconto, rappresentante un’altra entità in virtù di un’analogia essenziale o di una convenzione arbitraria”.
A dirlo con tutto il cuore: gran bel libro questo di Claudia Pancino.

Dalla presentazione editoriale

«Una parola di uso comune, ricorrente nel linguaggio dei sentimenti, nell’uso metaforico nel discorso della vita quotidiana, nel linguaggio della medicina sia scientifica che popolare, nelle parole della religione e in forme di culto (il Sacro Cuore), nei riti e nei sacrifici, in poesia e letteratura. Dal “De motu cordis” di Harvey del 1628 fino ai trapianti cardiaci e agli emoji, questo libro mette in luce – con un ricco corredo di documenti nella seconda parte – gli intrecci di significati e di valori attribuiti alla parola, fra storia della scienza, storia antropologica, storia della mentalità e storia dell’arte».

Claudia Pancino
Cuore
Pagine 210, Euro 12.00
Editore Fefè


Polifonia al Macro


Se a Roma abitate o per la città passate, non perdetevi una visita al MACRO. Museo per l’Immaginazione Preventiva è il programma del nuovo direttore artistico Luca Lo Pinto: un singolo progetto espositivo concepito per svilupparsi in modo organico fino alla fine del 2022.
“Il titolo” – com’è scritto nel sito web – “è ispirato al progetto Ufficio per la Immaginazione Preventiva istituito nel 1973 da Carlo Maurizio Benveduti, Tullio Catalano e Franco Falasca con l’obbiettivo di produrre un’arte capace di rivoluzionare la società. Esso funge da manifesto per l’attitudine e l’identità che caratterizzano il museo (…) Il progetto è elaborato immaginando il museo come un magazine tridimensionale sviluppato in rubriche che accoglieranno contenuti eterogenei. Le varie rubriche (Solo/Multi; Polifonia; Aritmici; In-Design; Studio Bibliografico; Musica da camera; Palestra; Retrofuture. Appunti per una collezione; Agorà) sono ideate per dare vita a un’esperienza del museo insieme frammentata e totalizzante. Un centro culturale polifonico dove tradurre una struttura editoriale in una forma vivente. Ogni visitatore avrà la possibilità di navigare in modo fluido e al tempo stesso avrà il compito di trovare i nessi tra i diversi elementi, focalizzando l’attenzione sugli scarti tra le discipline”.


Cosmotaxi da oggi compie una ricognizione attraverso le varie rubriche del Macro.
Cominciamo con la sezione “Polifonia” che ospita una serie di focus monografici concepiti ispirandosi ai metodi dell’improvvisazione musicale.
L’opera di una singola figura è approfondita ed espansa attraverso la sua risonanza in altre pratiche — differenti per identità, generazione e provenienza.

La figura al centro di Polifonia ora in corso è quella di Simone Carella (in foto).
Nato a Carbonara di Bari il 27 novembre 1946, morto a Roma il 28 settembre 2016.
Per conoscerne la biografia: CLIC!

Lo ricordano opere di Rä di Martino, Anna Franceschini, Emiliano Maggi.
Interventi di Vega, Francesca Corona e Alessandra Vanzi, Andrea Cortellessa, Silvia Fanti e Giorgio Barberio Corsetti, Valerio Mattioli.
Contributi di Ulisse Benedetti, Pippo Di Marca, Paolo Grassini, Rossella Or, Mario Romano, Fabio Sargentini, Marco Solari.

QUI l’ultimo spettacolo da lui ideato e diretto: “Al suo poeta Peppe er tosto”.


MACRO
Museo di Arte Contemporanea
Via Nizza 138, Roma
Prenotazione obbligatoria: 06 – 67 10 70 400
Fino al 6 giugno 2021


Guido Zaccagnini al FAI

L’emergenza sanitaria ha determinato un maggiore ricorso alla comunicazione internettiana, rendendo alcune parole di più ampia circolazione. Una di queste è “webinar”. Neologismo nato dall’unione di due termini inglesi: “web” e “seminar”. Un seminario online cui è possibile accedere da remoto, da un qualsiasi dispositivo collegato alla Rete, per partecipare ad una sessione di presentazioni d’idee, o illustrazione di studi, oppure approfondimenti d’informazione.
Un webinar è stato organizzato dal FAI, Fondo Ambiente Italiano, che fra le sue iniziative va esplorando in maniera cronologica periodi del secolo scorso che abbiano rappresentato significativi momenti nella storia della cultura.
L’ottavo incontro del ciclo intitolato "Gli anni '30. Le arti tra le due guerre", è a cura di Valeria Grilli.
Il webinar – organizzato dalla sezione di Roma del FAI – giunto agli anni Trenta, mette ora a fuoco il momento musicale che vede protagonista il jazz.
Per esporne radici, sviluppi e influenze ha voluto che a parlarne fosse Guido Zaccagnini (in foto) già docente di Storia della Musica al Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma, voce storica di Radio Tre dai cui microfoni conduce trasmissioni da oltre trent’anni, da quando ideò programmi per i contenitori “Audiobox” e “Il Paginone”.
Curò nel 1979, al Teatro Argentina di Roma la prima esecuzione mondiale integrale delle composizioni di Friedrich Nietzsche, poi pubblicate dall'editrice Bären-Reiter. Ha curato e tradotto La generazione romantica di Charles. Rosen (Adelphi, 1997) e Su Beethoven di Maynard Solomon (Einaudi, 1998); è autore di una monografia su Berlioz: Hector en Italie (Pendragon 2002).
Ha composto musiche per sceneggiati radiofonici, documentari televisivi, film, video.

A lui ho rivolto la domanda che segue.
Che cos’è il jazz? Che cosa ha concorso alla nascita di questa musica?

«Che cos’è il jazz? Già tradurre la parola non è facile, essendovi diverse interpretazioni sulla sua etimologia. Secondo l’ipotesi più accreditata, veniva usata nel meridione degli Stati Uniti sul finire dell’Ottocento ed era connotata da riferimenti sessuali. Il jazz, così come si affermò nei primi decenni del Novecento, è il frutto di intersecazioni e commistioni di diversi generi ma soprattutto dei tre principali filoni lungo i quali si sviluppò la musica nelle comunità afroamericane: lo spiritual, il blues e il ragtime.
Lo spiritual, ereditato dalle comunità religiose dei bianchi (prima nel nord e poi negli stati della East Coast meridionale), nacque come unico strumento di comunicazione possibile tra gli schiavi: destinato ai compagni di lavoro, di sfruttamento e di ingiustizia. Non a caso, a evocare il bisogno e la speranza di una Terra promessa, nei testi intonati ricorrono i nomi del fiume Giordano, di profeti come Giosuè o Mosè, di città come Gerico.
La storia del blues si può dividere in quattro periodi: 1) le origini; 2) il blues classico; 3) quello della Grande Depressione e del New Deal; 4) il rhythm and blues. Il termine blues si trova per la prima volta nella pagina di un diario: quello di un’insegnante di colore, Charlotte Forten, la quale alla data 14 dicembre 1862 scriveva: “Quasi tutti sembravano allegri e felici, ma... I came home with the blues".
Al termine rag sono stati attribuiti diversi significati; ma le interpretazioni più condivise sono “tempo fatto a brandelli, stracciato”, e “sincope”: beninteso, musicale, non cerebrale. In ogni caso, la parola ha a che fare con l’andamento ritmico scattante e nervoso.
A New Orleans, nei primi due decenni del XX secolo, spiritual, blues e rag s’incontrarono: grazie ai pianisti che si guadagnavano da vivere nei locali malfamati della città, o ai musicisti che suonavano per le strade della città. E nacque il jazz».

Il webinar si terrà giovedì 11 febbraio alle 18.00
Per parteciparvi è necessario iscriversi – si consiglia un anticipo sulla data 11.2 – al link https://zoom.us/webinar/register/WN_xmK2JXmJSaefNO4JAE7hFA
Dopo l’iscrizione, si riceverà una mail di conferma con le informazioni necessarie per collegarsi.


Vite di nove ipocondriaci eccellenti

La casa editrice il Saggiatore ha pubblicato un saggio che interessa anche quanti si ritengono, sbagliando (ma loro non vogliono sentirselo dire), colpiti da quel tal male, da quell’altro e pure da quell'altro ancora. È, però, lettura godibilissima pure per chi, fortunatamente, non appartiene a quel tipo di malato satireggiato da Molière nel suo “Il malato immaginario”. A proposito, quanto a Molière tanto immaginario lui non lo doveva essere, un po’ maluccio doveva stare, infatti, stramazzò in scena proprio durante la quarta replica del “Malato immaginario”.
Che poi essere un malato immaginario non sia soltanto una fantasia morbosa è forse pur vero, ma si tratta di una patologia non del fegato o del cuore, ma che si annida in un altro organo: il cervello. Sia che siate cognitivisti oppure organicisti è il cervello ad ospitare quello gnomo malefico che fustiga per tutto il giorno il pensiero di chi pensa d’essere ammalato e forse prossimo a morire straziato.
Non è un caso, quindi, se la più recente edizione del DSM-5 (uno dei sistemi nosografici per i disturbi mentali più utilizzati in tutto il mondo), all'interno della categoria dei disturbi somatici, raccoglie i criteri per la diagnosi dei disturbi d'ansia per ipocondria.
Ai nostri giorni si è aggiunta un’altra affezione: la cosiddetta “Cybercondria”, un neologismo, derivato dall'unione delle parole ‘cyber’ e ‘ipocondria’, che si riferisce alle infondate preoccupazioni di un paziente, derivanti da costanti ricerche su internet verso sintomatologie comuni convincendosi d’essere vittima di un tall morbo e pure di un altro.

Il libro cui accennavo prima è intitolato Vite di nove ipocondriaci eccellenti
Ne è autore Brian Dillon (1969). Insegna Critical Writing al Royal College of Art di Londra ed è editor della rivista Cabinet. Scrive per The Guardian, London Review of Books, The Times Literary Supplement, Artforum e Frieze. Tra i suoi libri: In the Dark Room (2005), con cui ha vinto l’Irish Book Award, Ruins (2011), Sanctuary (2011), Objects in This Mirror (2014).
Nel suo volume con prosa piacevolmente rapida descrive efficacemente 9 vite assediate e vinte dall’ipocondria che condizionerà le loro esistenze spingendole a comportamenti eccessivi e a riti ossessivo compulsivi.

Ipocondria.
Sfogliamo quel libro sapiente che è il Dizionario e leggiamo: «“Ipocondrìa” s. f. [dal lat. tardo hypochondria,– 1. Nel linguaggio medico, preoccupazione ansiosa, organicamente infondata, relativa alla propria salute o alla condizione di particolari organi interni. 2. Per estens., nel linguaggio letter., forma acuta e grave di melanconia: “se noiosa ipocondria t’opprime” (Parini); Tu, gelosa ipocondria, che m’inchiodi a casa mia (Giusti)».
Opprime, indebolisce corpo e mente, può portare all’autoreclusione, ma è cosa di oggi o è sempre esistita? La seconda che hai scritto. Il termine, infatti, fu introdotto nell'antichità dal medico greco Galeno (Pergamo, 129 – Roma, 201 circa)
QUI trovate una storia ben descritta dell’ipocondria.

Dillon in "Vite di nove ipocondriaci eccellenti" si chiede se c’è un rapporto fra ipocondria e creatività e su questo lascio a lui la parola.
L’ipotesi più ambiziosa, per quanto rischiosa, è che in ogni caso esistesse un collegamento intimo e palese tra l’ansia da malattia e il lavoro intellettuale o creativo. È tanto facile da sostenere quanto difficile da dimostrare, e si corre il rischio di incorrere in un certo cliché del tipo artistico o inventivo. La concezione romantica dell’artista malinconico, nevrastenico o isterico può non essere dominante e pervasiva come un tempo, ma l’immagine resiste e con essa il pericolo di ridurre l’arte e l’innovazione a una questione di diversità, di patologia o persino di follia. Forse dovremmo piuttosto dire, con il filosofo Gilles Deleuze, che l’artista è colui o colei che possiede una percezione particolarmente acuta della prossimità fisica del pensiero, dell’immaginazione, del terrore e della catastrofe. Ciò non significa, sostiene Deleuze, «che i grandi autori, i grandi artisti, siano tutti malati. Non sono malati; al contrario, sono un tipo speciale di dottori».

I 9 ipocondriaci dei quali si parla nel libro sono: James Boswell, Charlotte Brontë, Charles Darwin, Florence Nightgale, Alice James, Daniel Paul Schreber, Marcel Proust, Glenn Gould, Andy Warhol.

Dalla presentazione editoriale
«Warhol era ossessionato dalle macchie rosse che gli erano comparse sul naso. Darwin teneva scrupolosi diari del suo stato fisico. Charlotte Brontë riversava i suoi presunti malesseri nei protagonisti dei suoi romanzi. Glenn Gould credeva che una pacca amichevole sulla schiena gli avesse fatto perdere il suo tocco al pianoforte. E tutti noi conosciamo qualcuno che, non appena pensa di avere un sintomo di qualcosa, apre un motore di ricerca e inizia a scorrere le pagine finché trova la conferma che aspettava: è afflitto da qualche orrendo malanno.
Vite di nove ipocondriaci eccellenti esplora, attraverso le biografie di alcuni personaggi celebri – tra cui anche Marcel Proust, Michael Jackson, Florence Nightingale –, la paura e la speranza, la malattia e l’immaginazione, la disperazione e la fantasia da cui tutti possiamo essere colti. Brian Dillon percorre e oltrepassa la maschera comica del malato immaginario trasportandoci sul piano della cruda realtà, mostrandoci le ansie terribili di queste grandi figure della letteratura, della musica, dell’arte e della scienza, e chiedendosi se non ci sia un legame tra l’ipocondria e la creatività: l’isolamento e la tendenza ad ascoltare ogni sussulto del proprio corpo giovano senz’altro alla ricerca – scientifica e artistica –, ma forse minano la psiche.
Quella di Brian Dillon è un’indagine profonda nelle esperienze di vita, che ci restituisce un racconto intimo, umano e coinvolgente di menti che lottano con corpi, di terrori e momentanei sollievi, dei più originali tentativi di porre rimedio a malanni percepiti o reali. Scritto con trasporto e passione, spirito e originalità, questo libro è un viaggio nel dolore delle nostre membra e tra i mostri che albergano nella nostra testa».

……….………………………….…………

Brian Dillon
Vite di nove ipocondriaci eccellenti
Traduzione di Alessandra Castellazzi
Pagine 336, Euro 24.00
E-Book Euro 11.99
il Saggiatore


L'intervista è impossibile

Uno dei programmi di maggiore successo della radio pubblica italiana nella seconda parte del secolo scorso aveva un titolo che suonerà familiare a molti: Le interviste impossibili.
Quando andò in onda la prima puntata (con Alberto Arbasino che incontra Nerone interpretato da Mario Missiroli) era il 7 agosto 1974 forse chissà, hai visto mai, c’era all'ascolto un ragazzo di 13 anni. Diventerà, è diventato oggi, uno dei più apprezzati osservatori dei processi culturali e comunicativi dei nostri giorni, si occupa, bene come pochi altri, di sociologia dell'opinione pubblica e anche di produzioni e consumi nelle culture giovanili.
Il suo nome è Stefano Cristante.
Nato nel 1961, insegna Sociologia della comunicazione all’Università del Salento, dove ha fondato l’Osservatorio di Comunicazione Politica.
Da anni sono un assiduo lettore delle sue pagine con le quali ho sempre trascorso felicissime ore.
Ha scritto, tra gli altri: L'arte del fuggiasco; Società Low Cost; Corto Maltese e la poetica dello straniero.
Altri titoli: Potere e Comunicazione (1999- 2004), Azzardo e conflitto (2001), Media Philosophy (2005), Comunicazione (è) politica (2009), Prima dei mass media (2011).
Dirige la rivista on line H-ermes. Journal of Communication.

Nei suoi scritti l’acutezza è mai appesantita da albagia accademica, la materia di volta in volta scelta è aggredita con prosa vivace che riflette evidentemente tante letture fatte in campi diversi, dal saggio filosofico al fumetto, o dall’ascolto di Freak Antoni insieme con quello di Patty Smith, dallo sguardo parimenti partecipato su di una tela del suo concittadino Tintoretto e a un graffito di Keith Haring.
Adesso si è cimentato felicemente in una nuova serie di interviste immaginarie pubblicate dalla casa editrice Musicaos.
Titolo: L’intervista è impossibile libro che ricalca, con nuovi personaggi, le orme di quel programma radiofonico di cui dicevo in apertura.
Un piccolo ricordo personale che mi fa testimone di come stavano per nascere in Rai anni prima della storica trasmissione "Le interviste impossibili" qualcosa che in qualche modo ad esse rassomigliavano. Vittorio Cravetto, dirigente della radiofonia, inventore di programmi di successo quale, ad esempio, "Hit Parade", propose un'idea, di cui se approvata sarei stato il regista, in cui un Sapiente Viandante (interpretato sempre dallo stesso attore), lungo uno strano viaggio incontrava personaggi dell’antichità (qui si sarebbero alternati vari interpreti). Quell'idea, però, non piacque a Giuseppe Antonelli direttore centrale della radio né al suo vice Cavallotti e non se ne fece nulla; era il 1970 o forse ’71.

In “L’intervista è impossibile”, Cristante incontra Don Chisciotte, Emma Bovary, Amleto, Lemuel Gulliver, Holden Caulfield, Mattia Pascal, Alice (Pleasance Liddell), Il Piccolo Principe, Zeno Cosini, La Monaca di Monza. E dialoga con John Lennon, Zygmunt Bauman, Emily Dickinson, John Reed, Joseph Conrad, Rina Durante, Robert Stevenson, Michel Foucault, Carmelo Bene, Ludwig Van Beethoven, Vittorio Bodini, Don Tonino Bello.
In un’intervista di questo suo recente lavoro ha detto: «L'intervista compare assai prima degli altri generi giornalistici. Cosa sono le opere di Platone se non interviste impossibili condotte da Socrate? È come se ci fosse la possibilità, sdoppiando chi scrive in due figure, di comporre un pensiero secondo un piano collaborativo».

Dalla presentazione editoriale.

«Personaggi nati dalla fantasia di scrittori, vite scaturite da fervide immaginazioni che diventano tangibili, come persone realmente vissute. Persone reali che sono stati capaci di entrare nel mito, al punto da trasfigurarsi oltre la propria esistenza, divenendo leggendari, quasi come personaggi usciti dalla penna di uno scrittore.
Si tratta di vere e proprie interviste con i personaggi nati sulle pagine di un libro, nelle storie, nei ricordi dei lettori, così vividi da divenire reali, e insieme a esse di dialoghi con chi ha oltrepassato la soglia del reale per divenire leggenda vivente, nel campo dell’arte, del pensiero, della musica, della scrittura, della religione. La letteratura universale incontra la musica, il pensiero si confronta con la poesia, i viaggi inventati e quelli reali si intrecciano in un percorso che dal Regno di Danimarca ci conduce fino al Sud del Sud dei Santi, passando dalle atmosfere fumose della Londra proto-industriale a quelle della solitudine inquieta in una casa di Amherst, da New York alla Normandia, dalla Mancia ad Alessano, da Parigi a Vienna».

Stefano Cristante
L’intervista è impossibile
Pagine 178, Euro 15.00
Musicaos Editore


Art&Crime

La casa editrice 24ORE Cultura ha pubblicato un saggio in elogiabile equilibrio fra cronaca criminale e storia delle arti visive: Art&Crime Furti, plagi e misfatti nella storia dell’arte
Ne sono curatori Stefan Koldehoff e Tobias Timm.
Due giornalisti tedeschi specializzati nella narrazione d’investigazioni su giri loschi che riguardano opere d’arte. Hanno condotto entrambi diverse inchieste anche tv in questo campo e scritto saggi sull’argomento.
Il nostro libro - scrivono – cerca di illuminare, sulla base di una selezione di casi e di figure esemplari, i problemi e i rapporti strutturali dell’arte con il crimine, e quindi di fornire anche un’analisi di ciò che oggi va per il verso sbagliato nel sistema del mercato e dell’ambiente dell’arte. Solo ammettendo la necessità di un’analisi come questa si può contribuire seriamente al fatto che si possa di nuovo avere una visione più libera e precisa dell’arte stessa.

La scrittura usata in questo volume è di uno scorrevole stile che volutamente possiede il ritmo del “giallo” rendendo gli episodi – tutti assolutamente non romanzati, legati a una robusta documentazione – appassionanti sia quando approdano a conclusioni giudiziarie, sia quando contengono ancora misteri sui provvisori epiloghi.
Al primo caso va ascritto, ad esempio, il famoso furto della Gioconda ad opera dell’imbianchino italiano Vincenzo Peruggia cui Ivan Graziani (lo ricordo ai più distratti, fra i quali i due autori tedeschi) ha dedicato la canzone Monna Lisa.
Nessuna traccia, invece a tutt’oggi dei Vermeer, Rembrandt, Degas e Manet, del valore di oltre 100 milioni di dollari, trafugati da un gruppo di malandrini travestiti da polizotti, dall’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston nel 1990.
Ricordo anche il furto, nel 2018, a Londra del WC d’oro (impianto igienico funzionante per i visitatori, tanto che il furto provocò danni anche allagando ambienti) opera di Maurizio Cattelan, valore: 6 milioni di dollari.

Il libro pone l’accento pure sul fatto che oggi si è intensificato il traffico d’opere non più trafugate, ma semplicemente (… semplicemente si fa per dire perché si tratta d’operazioni assai complesse a realizzarsi) vendute come autentiche ma in realtà raffinatissimi falsi, a loro volte grandi esempi di manufatti valorosi sia per tecnica d’esecuzione sia per materiali usati (tele, colori, inchiostri) che devono essere, o apparire, quali appartenenti all’epoca cui il quadro venduto si finge appartenga.
Questi reati sono ben studiati e portati a termine raramente da una persona sola, ma più spesso da piccole organizzazioni criminali internazionali tanto da far nascere in più paesi corpi di polizia specializzati nelle indagini per contrastarle.
L’Italia può in questo campo vantare un primato – riconosciuto dagli autori di “Art&Crime” – di essere stato il primo paese a intuire la necessità d’attrezzarsi con uomini specializzati per fronteggiare quel tipo di criminalità. Ed ecco i carabinieri del NAS che operano fin dal 1969 con successi di prima grandezza: riportando in Italia preziose opere trafugate dai nazisti, stroncando traffici illeciti, scoprendo vere centrali del falso. Leggendaria figura di quel settore fu per molti anni il Generale Roberto Conforti che ho avuto il piacere d’ospitare alcune volte in mie trasmissioni negli studi di RadioRai.
Di falsi non sono piene le stanze di Paperoni abilmente truffati, ma anche musei tanto da rendere sempre più attuale quel piccolo grande film di Orson Welles F for Fake.

Concludendo, “Art&Crime” è un libro che non solo illumina la storia di tanti misfatti di ieri e di oggi compiuti sul mercato delle arti visive, ma può essere anche un utilissimo strumento difensivo per coloro (non sono pochi, datemi retta) che credono sia facile realizzare affari in quell’ambiente purché si abbia un portafogli ben rifornito. No, è proprio quel rigonfiamento che attira tante volpi che non sempre finiscono la loro vita in pellicceria,

Dalla presentazione editoriale.

"ll saggio ripercorre la storia dei più celebri crimini perpetrati in ambito artistico.
Contraffazione, riciclaggio di denaro, frode fiscale, saccheggio di siti storici antichi: l’elenco dei reati commessi in relazione all’arte è lungo, inoltre con l’enorme aumento dei prezzi e la globalizzazione del mercato la criminalità si è ulteriormente specializzata: per esempio con l’artnapping, in cui un’opera d’arte viene presa in ostaggio e restituita dietro pagamento di un riscatto. I due autori si concentrano su tutti coloro, dai piccoli truffatori ai maestri falsari, che vogliono arricchirsi illegalmente con l’arte, e che a volte, quando vengono scoperti, riescono pure a mettersi in scena come ingannatori ingegnosi e affascinanti".

Stefan Koldehoff – Tobias Timm
Art&Crime
Pagine 320, Euro 14.90
Edizioni 24 ORE Cultura



Il non memorabile verdetto dell'ingratitudine


Le Edizioni Schibboleth nella collana ‘Margini’ diretta da Filippo La Porta ha pubblicato un nuovo lavoro di Luciano Curreri dal titolo: Il non memorabile verdetto dell'ingratitudine seguito da Sei pensieri grati e gratis.
Luciano Curreri (Torino, 1966) è professore ordinario di Lingua e letteratura italiana all’Università di Liegi.

Di Curreri ho letto alcune suoi saggi finissimi quali, ad esempio,Pinocchio in camicia nera, D'Annunzio come personaggio nell'immaginario, Pinocchio e Pinocchiate e anche quel suo saggio in forma di graphic novel (matite di Giuseppe Palumbo): .L'elmo di Scipio..

Dalla presentazione editoriale di “Il non memorabile verdetto dell'ingratitudine”.

«Distopia arrischiata e originale, Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine è libello schietto, colto e ruvido, comico e tragico insieme. L’anti-eroe, condannato per plagio da una gravosa e non identificata Azienda, ha l’unica colpa d’aver provato ad aiutare un paio di giovani impiegati della stessa. Nei limiti di una surreale e postuma condizione, un narratore improduttivo affida il racconto a una specie di manoscritto sopravvissuto come carne e carta scannerizzate da remoto e spiritico supporto. La bizzarra interilla che vi si incastona è trovata anti-narrativa dell’autore, tesa a ribadire una corporea fiducia nel collettivo d’un disperso e disseminato impegno umanistico, che i Sei pensieri grati e gratis si impegneranno a canzonare».

Una dichiarazione dell'autore sul libro QUI > https://youtu.be/rLlU11jbQ1c

Luciano Curreri
Il non memorabile verdetto dell'ingratitudine
Pagine 128, Euro 12.00
Edizioni Schibboleth


The Passenger - Roma

Se sul cursore del motore di ricerca Google s’inscrive la dizione “libri su Roma”, si ottengono, a oggi, 24.700.000 risultati. Roba da scoraggiare alquanti a navigare in quelle acque evidentemente ben esplorate in superficie, in media profondità e perfino negli abissi.
Ma ciò non ha fatto perdere d’animo la casa editrice Iperborea che ha pubblicato The Passenger – Roma.
La collana Passenger è “una raccolta di reportage letterari e saggi narrativi che raccontano la vita contemporanea di un paese e dei suoi abitanti. Tante storie e diverse voci per scoprire, capire, approfondire, lasciarsi ispirare”.
Insomma, dentro il viaggio sagace e fuori dal turismo frettoloso.
Questo volume su Roma ha trovato un'efficace chiave interpretativa di questa città ai nostri giorni.
Capitale mediterranea tra mappa e labirinto, fra lussi e stracci, fierezze e indegnità. Quartieri, monumenti, personaggi, leggende, abitano gli interventi dei tanti autori di questo volume collettaneo.
Il libro riesce a mettere insieme storia e cronaca, antropologia e fenomenologia di romani e inurbati, professionisti e commercianti, giovani estrosi e piccole realtà artistiche emergenti..
Città dove accanto a grande storia e monumenti convivono palazzinari abusivi con il Vaticano proprietario di un quarto del patrimonio immobiliare cittadino.
Città capace di assistere indifferente a terrificanti omicidi e sinceramente commuoversi dinanzi alla povertà prodigandosi in opere di carità, raramente di ricostruzione sociale.
Città fluviale che fluviale non è più perché il Tevere è come quel mare di Anna Maria Ortese che "non bagna Napoli”.

Questo The Passenger – Roma è un libro che non consiglio agli amministratori della città né a quelli che vogliono diventarlo, tanto non lo leggerebbero o non lo capirebbero, e poi, via, non facciamo loro perdere tempo hanno tante riunioni di partito da fare.
Lo consiglio, vivacemente, agli insegnanti che farebbero bene a illustrare nelle classi che cosa è oggi Roma.
A chi lavora nelle carceri perché potrebbero essere loro molto utile quelle pagine.
Lo raccomando a chi lavora nelle redazioni della carta stampata, radio-tv, web, e non solo per darne notizia.

Gli autori: Leonardo Bianchi, Floriana Bulfon, Marco D’Eramo, Nicola Lagioia, Daniele Manusia, Letizia Muratori, Matteo Nucci, Francesco Pacifico, Francesco Piccolo, Christian Raimo

Fotografie: Andrea Boccalini (Agenzia Prospekt)
Illustrazoni: Francesca Arena
Collaboratori: Giulia Cavaliere, Sarah Gainsforth, Keti Lelo, Salvatore Monni, Nadia Terranova, Federico Tomassi

Dalla presentazione editoriale.

«Stando al racconto contemporaneo su Roma – propugnato tanto dai media quanto dai residenti – la città è prossima al collasso. Ogni anno la si ritrova qualche gradino più in basso nelle classifiche di vivibilità. Ai problemi di tutte le grandi capitali – turismo mordi e fuggi, traffico, scarto tra centro radical-Airbnb e periferie degradate – negli ultimi anni Roma sembra voler aggiungere una lista di nefandezze tutta sua: una serie di amministrazioni fallimentari, corruzione capillare, rigurgiti fascisti non più minoritari, criminalità diffusa, mafia. Una situazione apparentemente irredimibile che ha trovato il simbolo perfetto nel record mondiale di autobus pubblici che prendono fuoco da soli. Ma questa narrazione dello sfacelo sembra contraddetta da altrettanti segnali in direzione opposta. La prima cosa che stupisce è l’assenza dell’emigrazione di massa che normalmente ci si aspetterebbe: la larghissima maggioranza dei romani non si sogna nemmeno per un istante di «tradirla», e i tanti nuovi arrivati che negli ultimi decenni l’hanno popolata sono spesso indistinguibili dagli autoctoni nelle attitudini e nell’amore profondo che li lega a questa «città vischiosa» che «ti si appiccica addosso con le sue abitudini e le sue mancanze». A ben guardare sono infinite le contraddizioni e gli opposti conciliati da Roma, una città «incredibilmente ingannevole: sembra ciò che non è ed è ciò che non appare». La si pensa grande e invece è immensa, la metropoli più estesa d’Europa. I suoi confini si spingono enormemente più in là dei capolinea della metro e ben oltre la cerchia della più grande autostrada urbana d’Italia, il Gra, che ne racchiude solo una frazione. Ma soprattutto, in contrasto con lo stereotipo più falso di sempre, per quanto fondata oltre 2770 anni fa, Roma è una città profondamente moderna, come il 92 per cento dei suoi palazzi, e tutt’altro che eterna, se la sua crescita dal dopoguerra a oggi ha «distrutto vestigia di migliaia di anni e sconvolto la geografia di mezza regione». E per capirla e guarirla – o quantomeno provarci – bisognerebbe considerarla una città normale «allo stesso titolo di Chicago o Manchester». Solo, dannatamente più bella».

AA. VV.
The Passenger – Roma
Pagine: 192, Euro 19.50
Iperborea


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