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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Rompere le regole

L'unica differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazzo.

Sono parole di Salvador Dalì. Nome completo: Felipe Jacinto Dalí Domenech (1904 – 1989). Nacque nel piccolo villaggio agricolo di Figueres, in Spagna. Prese il nome di suo fratello maggiore Salvador. Questi morì poco prima della nascita dell’artista.
QUI una particolareggiata biografia che non trascura anche gli ambigui atteggiamenti che Dalì ebbe con il franchismo di cui in alcune occasioni si manifestò sostenitore. Ossequi illuminati pure da lividi lampi beffardi verso lo stesso fascismo spagnolo. Del resto, omaggiò anche capi comunisti, ad esempio Ceausescu. Parecchi affermano che tali comportamenti siano dovuti alla sua insaziabile fame di denaro tanto da meritarei da parte di André Breton l’anagramma del suo nome volto in Avida Dollars.
Nel corso della sua vita Dalì realizzò più di 1.500 dipinti, oltre a illustrazioni per libri, litografie, scenografie, incisioni, costumi teatrali, disegni, sculture e perfino dei video quando allora non si chiamavano ancora così.
Ha previsto perfino l’evoluzione postmoderna che avrebbero avuto i musei di oggi. Scrive Maria Teresa Feraboli in “Musei possibili”: “Anticipando il famoso detto di Andy Warhol, secondo cui tutti i musei sarebbero diventati grandi magazzini e tutti i grandi magazzini musei, nel 1936 Salvador Dalì contribuisce all’avvicinamento dei due mondi curando l’allestimento delle vetrine del Department Store Bonwit Teller a New York in concomitanza con la mostra del Moma intitolata ‘Fantastic Art, Dada, Surrealism’, crea un display che catalizza gli sguardi, quasi un invito a passare, senza soluzione di continuità, dall’ammirazione delle merci all’ammirazione dell’arte”.

Ebbe due grandi passioni che manifestò in suoi lavori: una lo vide legato alla moglie-musa Gala e l’altra con l’amante-musa Amanda Lear.
Genio del XX secolo, è una maiuscola presenza nella storia delle arti visive sia per il valore delle sue opere sia per i suoi comportamenti eccessivi ed estremi in privato e in pubblico spesso sbeffeggiati come accade in questa galleria di cinegiornali Luce. Proprio a molti redattori dell’informazione sfuggì che era Dalì a farsi beffe di loro usandoli per ingigantire la sua notorietà con conseguente crescita della valutazione in moneta del suo lavoro.

A lui la casa editrice il Saggiatore ha dedicato una pubblicazione intitolata Rompere le regole. In precedenza, aveva edito altri scritti di Dalì nel libro Perverso e Paranoico
“Rompere le righe” è un florilegio di pensieri di quel famoso poliartista spagnolo,
Sono raccolti in cinque capitoli: Dalì e l’Estasi, e l’Arte, e la Poesia, e lo Sguardo, e il Sogno.

In Appendice un diligente Indice riferisce sulle fonti di ogni citazione in modo da dare al lettore la possibilità di approfondire eventuali ricerche.

Dalla presentazione editoriale.

«Basta un paio di baffi per fare la rivoluzione. Per rompere le regole di tutto quello che è ordinario, di tutto quello che è venuto prima e di tutto quello che sarà.
Basta un paio di baffi al mondo per dire: «Sono Salvador Dalì e salverò l’arte».
Salvador Dalí, un artista poliedrico ed esuberante, che non ha avuto paura di esporsi e sperimentare pur di riuscire a esprimersi, pur di mostrare e liberare la parte più vera di sé.

Quando rompere le regole diventa un elemento imprescindibile della propria esistenza, tutti i commenti, i giudizi di chi non comprende passano in secondo piano, scalzati dall’urgenza di agire in nome di qualcosa di più grande.
In “Rompere le regole” i pensieri e le riflessioni di Dalì ci rivelano la sfrontatezza necessaria per andare oltre e lasciare un segno, perché solo spingendosi al limite, solo sperimentando l’inesplorato, si può raggiungere l’arte più viva, la vita più vera».

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Salvador Dalì
Rompere le regole
Traduzione di
Moreno Manghi - Laura Xella
88 pagine * 9.00 euro
Il Saggiatore


Lo sport è un gioco?

Si avvicinano le Olimpiadi che si terranno a Parigi (26 luglio - 11 agosto di quest'anno) mai come stavolta in un’atmosfera di tensione dovuto a vari terrorismi e poche volte come in questo 2024 in un clima di divisione fra i popoli, alcuni di essi impegnati addirittura in guerre prossime all’Europa sia in senso geografico oppure politico.
Nonostante ciò, non mancano scritti e discorsi sui media gonfi di retorica inneggianti a presunte fraternità delle genti che, invece, sembrano spesso più propensi a battere record di scannamenti più che di primati sportivi.
Più che mai suona legittimo chiedersi Lo sport è un gioco? come recita una pubblicazione della casa editrice Raffaello Cortina.
L’autore è Philippe Descola
Titolare della cattedra di Antropologia della natura presso il Collège de France dal 2000 al 2019 e direttore del Laboratorio di antropologia sociale (LAS), fondato da Claude Lévi-Strauss, dal 2001 al 2013. Nel 2012 ha ricevuto la medaglia d’oro del CNRS (Centre national de la recherche scientifique).
Nelle edizioni Raffaello Cortina: Oltre natura e cultura https://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/philippe-descola/oltre-natura-e-cultura-9788832852899-3434.html (2021).

Un ritratto delle origini e sviluppo del pensiero di Descola lo troviamo qui: “La tensione esistente fra etnografia e teoria (rilevante è il confronto con lo strutturalismo e il marxismo) confluisce nella volontà dell’autore di fare antropologia e di conseguenza sondare la possibilità di rintracciare generalizzazioni e alcune invarianti culturali relative ai sistemi di relazioni che coinvolgono umani e non umani in una prospettiva di superamento del dualismo fra natura e cultura. Questo percorso intellettuale porterà Descola a redigere e pubblicare il suo capolavoro, Par-delà nature et culture (2005) riproposto dall’editore Raffaello Cortina (Oltre natura e cultura). La prospettiva attraverso la quale l’antropologo francese riflette sullo sport è strettamente connessa a quanto contenuto nel volume del 2005, diventato ormai un classico dell’antropologia”.

Scrive Stefano Allovio nella sua lucidissima prefazione: “Lo sport indagato nella sua ampia accezione etnografica non può che ridefinire la propria essenza ed esistenza anche in relazione a ciò che nelle società tradizionali ricade all’interno della categoria di “gioco”. Qui, il confronto fra sport e gioco pare fornire un terreno di riflessione dove risulta complicato affermare con chiarezza cosa sia l’uno e l’altro. Descola non si sottrae a riflettere sul problema e come molti suoi colleghi sottolinea da un lato l’universalità delle pratiche ludiche e dall’altro la contrapposizione fra il gioco nelle società tradizionali, caratterizzato da maggiore cooperazione fra i partecipanti, e lo sport moderno, caratterizzato da maggiore competizione (…) Lo sport, dal canto suo, pur conservando molte caratteristiche del gioco (lo sport risulta un’attività di gioco particolare) ha regole codificate e prevede competizioni aventi uno specifico obiettivo; la modernità prodotta dall’Occidente sarebbe la matrice dalla quale scaturisce l’idea di sport, appunto, “moderno”. Esso sembra predisposto a ospitare una idea di gioco nel quale si prevede il trionfo di un partecipante sull’altro. Questa idea di gioco non è precisamente propria ed esclusiva al mondo moderno, ‘ma è stata, nel mondo moderno, completamente esacerbata rispetto a delle concezioni di gioco che privilegiano l’attività ludica al risultato’ ”.

Dalla presentazione editoriale.

«Prendiamo il calcio: per gli achuar dell’Amazzonia ecuadoriana, l’obiettivo non è che una squadra trionfi sull’altra. Come per molte altre società non moderne, ciò che è importante per loro è il gioco in sé, prendere il pallone e segnare facendo in modo che alla fine della partita non ci siano diseguaglianze. In questo testo Philippe Descola mette a confronto il nostro rapporto con lo sport e il gioco con quello delle società premoderne. L’Occidente ha imposto al resto del mondo il suo modello di sport competitivo, che porta con sé diseguaglianze, individualismo e sentimenti nazionali esacerbati. Descola rilegge il concetto a partire dalle sue riflessioni sul dualismo natura-cultura, arrivando a toccare la questione dell’ibridazione tra l’uomo e la macchina».

Per leggere un estratto: CLIC .

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Philippe Descola
Lo sport è un gioco?
Prefazione di Stefano Allovio
112 Pagine * 11.00 euro
E-book (Epub): 9.55 euro
Edizioni Raffaello Cortina


Lapidi


«In origine avevo intenzione di intitolare questo libro La strada per il paradiso, poi ho optato per Lapidi. La scelta del titolo riflette quattro mie volontà: la prima, erigere una lapide in onore di mio padre, morto di fame nel 1959; la seconda, erigere una lapide per i 36 milioni di cinesi morti di fame; la terza, erigere una lapide al sistema che ha generato la Grande Carestia. La quarta volontà emerse quando ero a metà della stesura del libro: mi trovavo all’ospedale Xuanwu, a Pechino, per accertamenti clinici e scoprii di avere “mutazioni patologiche”». Questo mi spinse ad accelerare il processo di scrittura dell’opera: ero determinato a completarla per erigere una lapide anche a me stesso. Fortunatamente, un esame successivo escluse la presenza di malattie, ma scrivere un libro di questo genere comporta considerevoli rischi politici, e se perciò dovesse accadermi qualcosa di irreparabile, quest’opera testimonierà che ho sacrificato la vita per far valere le mie idee, e sarà la mia lapide.
Naturalmente, le mie volontà principali sono le prime tre».

Così comincia Lapidi La Grande Carestia in Cina pubblicato dalla casa editrice Adelphi.
L’autore è Yang Jisheng nato nel 1940.
Giornalista e scrittore. I suoi lavori includono “Tombstone”, un resoconto completo della grande carestia cinese durante il cosiddetto grande balzo in avanti, e “The World Turned Upside Down”, una storia della Rivoluzione culturale.

Una stima della tragedia così è riferita nel libro.
«Come ci si rappresenta la morte per fame di 36 milioni di persone? È una cifra equivalente a 450 volte il numero delle persone uccise dalla bomba atomica sganciata su Nagasaki il 9 agosto 1945; è pari a 150 volte il numero delle vittime del terremoto di Tangshan del 28 luglio 1976; supera persino il numero dei morti della prima guerra mondiale… Niente urla strazianti e pianti disperati, nessun vestito a lutto, nessuna cerimonia, nessun petardo scoppiato o banconota rituale bruciata per accompagnare i morti alla sepoltura. Non c’erano empatia, dolore, lacrime, sbigottimento o terrore. Decine di milioni di persone scomparvero così, nel silenzio e nell’indifferenza».

In copertina: Manifesto di propaganda a sostegno della Campagna di eliminazione dei quattro flagelli (Cina, fine degli anni Cinquanta).

Questo libro mi ha riportato alla memoria un ricordo della fine degli anni ’60 – primi ‘70 quando fra i gruppi extraparlamentari di Sinistra riscosse un notevole successo l’Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti) più noto come “Servire il popolo” dal nome della rivista del gruppo: erano i maoisti italiani. Inventarono il ‘matrimonio comunista’, erano contro l’uso degli elettrodomestici, i loro figli seguivano corsi scolastici tenuti da “compagni”, il cui principale impegno era l’indottrinamento; le donne nell’organizzazione avevano ruoli pressoché ancillari. “Servire il Popolo” aveva anche un Grande Timoniere: Aldo Brandirali. Idolatrato dai suoi, sugli striscioni portati in piazza c’era scritto: “Marx – Lenin – Stalin – Mao – Brandirali”. Secondo la mesta imitazione della ritualità cinese, un giorno Brandirali ammetterà in un fluviale discorso di avere commesso 271 errori, un po’ troppi per un Grande Timoniere, più roba da Piccolo Mozzo. Fu, di fatto, la fine del gruppo. E Brandirali?
Passò poi alla Dc, in seguito a Forza Italia diventando consigliere comunale a Milano, sindaco Letizia Moratti Chissà, forse avrà pensato: in fondo, Mao e Moratti sempre per emme cominciano. Infine, eccolo assessore allo Sport nella giunta del leghista Albertini.

Sinossi< di “Lapidi”.

Alla fine di aprile del 1959 uno studente della contea cinese di Xishui viene avvisato delle condizioni disperate in cui versa il padre adottivo: lo raggiunge al più presto e lo trova a letto, «gli occhi incavati e spenti», la mano scheletrica che abbozza a stento un cenno di saluto. Ormai incapace di deglutire anche solo una zuppa di riso, morirà tre giorni dopo. In un primo momento Yang Jisheng non ha esitazioni: si tratta di una tremenda, inevitabile sventura. La cieca obbedienza che gli è stata inculcata non lascia spazio a dubbi o critiche, e non lo sfiora neppure l’idea che il governo e il Grande Balzo in avanti propagandato in quegli anni possano essere la causa della sua perdita. La fedeltà al partito si incrinerà con la Rivoluzione culturale, e nei primi anni Novanta, ormai consapevole dell’amnesia storica cui il potere condanna i cinesi, Yang Jisheng comincerà a indagare, a interrogare documenti, a raccogliere testimonianze. Scoprirà che la carestia di cui il padre è rimasto vittima ha ucciso in Cina, tra il 1958 e il 1962, 36 milioni di persone, ridotte a cibarsi di paglia di riso, guano di airone, topi ed erbe selvatiche – quando non di cadaveri. Un eccidio immane la cui responsabilità va attribuita non già a «tre anni di disastri naturali», bensì alla scelta deliberata di sacrificare ai ceti protagonisti dell’«industrializzazione» in corso la popolazione delle aree agricole, sequestrandone la produzione, le case, gli appezzamenti, il bestiame. Il libro che Yang Jisheng va scrivendo diventerà così qualcosa di ben diverso dalla pur accurata ricostruzione di una carneficina: la spietata, minuziosa, memorabile radiografia della criminale irresponsabilità di un sistema teocratico in cui Mao Zedong è l’incarnazione stessa della verità universale».

Per leggere alcune pagine: CLIC!

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Yang Jisheng
Bersagli
Traduzione di Natalia Francesca Riva
836 pagine * 38.00 euro
Adelphi


Lo sport è un gioco?

Si avvicinano le Olimpiadi che si terranno a Parigi (26 luglio - 11 agosto di quest'anno) mai come stavolta in un’atmosfera di tensione dovuto a vari terrorismi e poche volte come in questo 2024 in un clima di divisione fra i popoli, alcuni di essi impegnati addirittura in guerre prossime all’Europa sia in senso geografico oppure politico.
Nonostante ciò, non mancano scritti e discorsi sui media gonfi di retorica inneggianti a presunte fraternità delle genti che, invece, sembrano spesso più propensi a battere record di scannamenti più che di primati sportivi.
Più che mai suona legittimo chiedersi Lo sport è un gioco? come recita una pubblicazione della casa editrice Raffaello Cortina.
L’autore è Philippe Descola
Titolare della cattedra di Antropologia della natura presso il Collège de France dal 2000 al 2019 e direttore del Laboratorio di antropologia sociale (LAS), fondato da Claude Lévi-Strauss, dal 2001 al 2013. Nel 2012 ha ricevuto la medaglia d’oro del CNRS (Centre national de la recherche scientifique).
Nelle edizioni Raffaello Cortina: Oltre natura e cultura https://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/philippe-descola/oltre-natura-e-cultura-9788832852899-3434.html (2021).

Un ritratto delle origini e sviluppo del pensiero di Descola lo troviamo qui: “La tensione esistente fra etnografia e teoria (rilevante è il confronto con lo strutturalismo e il marxismo) confluisce nella volontà dell’autore di fare antropologia e di conseguenza sondare la possibilità di rintracciare generalizzazioni e alcune invarianti culturali relative ai sistemi di relazioni che coinvolgono umani e non umani in una prospettiva di superamento del dualismo fra natura e cultura. Questo percorso intellettuale porterà Descola a redigere e pubblicare il suo capolavoro, Par-delà nature et culture (2005) riproposto dall’editore Raffaello Cortina (Oltre natura e cultura). La prospettiva attraverso la quale l’antropologo francese riflette sullo sport è strettamente connessa a quanto contenuto nel volume del 2005, diventato ormai un classico dell’antropologia”.

Scrive Stefano Allovio nella sua lucidissima prefazione: “Lo sport indagato nella sua ampia accezione etnografica non può che ridefinire la propria essenza ed esistenza anche in relazione a ciò che nelle società tradizionali ricade all’interno della categoria di “gioco”. Qui, il confronto fra sport e gioco pare fornire un terreno di riflessione dove risulta complicato affermare con chiarezza cosa sia l’uno e l’altro. Descola non si sottrae a riflettere sul problema e come molti suoi colleghi sottolinea da un lato l’universalità delle pratiche ludiche e dall’altro la contrapposizione fra il gioco nelle società tradizionali, caratterizzato da maggiore cooperazione fra i partecipanti, e lo sport moderno, caratterizzato da maggiore competizione (…) Lo sport, dal canto suo, pur conservando molte caratteristiche del gioco (lo sport risulta un’attività di gioco particolare) ha regole codificate e prevede competizioni aventi uno specifico obiettivo; la modernità prodotta dall’Occidente sarebbe la matrice dalla quale scaturisce l’idea di sport, appunto, “moderno”. Esso sembra predisposto a ospitare una idea di gioco nel quale si prevede il trionfo di un partecipante sull’altro. Questa idea di gioco non è precisamente propria ed esclusiva al mondo moderno, ‘ma è stata, nel mondo moderno, completamente esacerbata rispetto a delle concezioni di gioco che privilegiano l’attività ludica al risultato’ ”.

Dalla presentazione editoriale.

«Prendiamo il calcio: per gli achuar dell’Amazzonia ecuadoriana, l’obiettivo non è che una squadra trionfi sull’altra. Come per molte altre società non moderne, ciò che è importante per loro è il gioco in sé, prendere il pallone e segnare facendo in modo che alla fine della partita non ci siano diseguaglianze. In questo testo Philippe Descola mette a confronto il nostro rapporto con lo sport e il gioco con quello delle società premoderne. L’Occidente ha imposto al resto del mondo il suo modello di sport competitivo, che porta con sé diseguaglianze, individualismo e sentimenti nazionali esacerbati. Descola rilegge il concetto a partire dalle sue riflessioni sul dualismo natura-cultura, arrivando a toccare la questione dell’ibridazione tra l’uomo e la macchina».

Per leggere un estratto: CLIC .

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Philippe Descola
Lo sport è un gioco?
Prefazione di Stefano Allovio
112 Pagine * 11.00 euro
E-book (Epub): 9.55 euro
Edizioni Raffaello Cortina


Scatti d'autore


A Torino lavora (ma lavora anche da viaggiatore instancabile per le terre del mondo) il fotografo Claudio Cravero.
Per conoscere il suo stile e il suo modo di accostarsi alla fotografia, tempo fa lo ospitai su questo sito nella sezione Nadir dove potete leggere sue dichiarazioni. E vedere alcune sue opere.
In anni più recenti si è dedicato specialmente al ritratto e nel suo Studio è possibile farsi ritrarre dal suo obiettivo.

A lui (in foto) ho rivolto alcune domande.

Il ritratto agito dalla fotografia per rispecchiare l’interiorità di un volto, quali vantaggi espressivi offre rispetto al ritratto in pittura, scultura, disegno?

Il ritratto fotografico lascia meno spazio alla libera interpretazione soggettiva dell’autore, rispetto alle altre forme di rappresentazione Il ritratto fotografico è più di altri energia in movimento.

La fotografia di un volto rivela. Ma sa anche mentire?

Può rivelare perfino le più segrete sfumature, le più profonde pieghe dell’intimo umano, ma può anche mentire molto bene.

Nel ritratto di un volto quanti scatti mediamente impieghi prima di ritenerti soddisfatto del risultato?

Non ho una media di scatti…
Ultimamente ho realizzato una trentina di ritratti in un pomeriggio per un progetto che documenta un paese e ho fatto da 3 a 6/7 scatti per soggetto perché avevo poco tempo a disposizione, ma in studio, con un paio d’ore di lavoro, posso farne anche 200.

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Claudio Cravero
Via Vanchiglia, 16 * Torino | mob. +39 348 310 49 91
contatti@claudiocravero.com | www.claudiocravero.com
www.instagram.com/claudio.cravero/?hl=it
www.facebook.com/claudio.cravero.71?_rdc=2&_rdr


Musei possibili


ll termine museo deriva dal greco antico mouseion «luogo sacro alle Muse», figlie di Zeus e protettrici delle arti e delle scienze.
Il termine viene usato per la prima volta per definire il Museo di Alessandria d'Egitto.
Da allora ad oggi il Museo ha attraversato un’infinità di epoche che di volta in volta ne hanno caratterizzato la funzione e l’espressione.
Ai nostri giorni l'International Council of Museums lo definisce «un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze».
Non c’è che dire, definizione corretta, ma dietro quelle indiscutibili parole si cela un universo di problemi che coinvolgono, scienza, arte, correnti estetiche, prospettive ideologiche, derive sociologiche, influenza dei mercati, . politiche di gestione.
Per dirne una soltanto ecco quanto scrive Maria Teresa Feraboli: “Anticipando il famoso detto di Andy Warhol, secondo cui tutti i musei sarebbero diventati grandi magazzini e tutti i grandi magazzini musei, nel 1936 Salvador Dalí contribuisce all’avvicinamento dei due mondi curando l’allestimento delle vetrine del Department Store Bonwit Teller a New York In concomitanza con la mostra del Moma (Museum of Modern Art), intitolata Fantastic Art, Dada, Surrealism, crea un display che catalizza gli sguardi, quasi un invito a passare, senza soluzione di continuità, dall’ammirazione delle merci all’ammirazione dell’arte. Pochi, infatti, sono gli oggetti in vendita (abito da sera, gioielli, borsetta, giacca, cucchiaini da tè e bicchieri) e la loro disposizione non privilegia l’esposizione dei prodotti, quanto la composizione d’insieme che prende spunto da alcuni lavori di Dalí, il quadro Three Surrealist Women (1936) e l’oggetto Lobster Thelephone (1936)”.

Il brano precedente l’ho tratto da Musei possibili Storie, sfide, sperimentazioni pubblicato dalla casa editrice Carocci recentemente uscito per l’eccellente cura di Fulvio Irace.
Irace è professore emerito di Storia dell’architettura e del design al Politecnico di Milano e insegna all’Università IULM di Milano. È tra i fondatori di AAA-Italia (Associazione nazionale archivi di architettura), di MuseoCity Milano (2016) e appartiene al comitato scientifico della Fondazione Museo di Brera. È curatore di mostre in Italia e all’estero. Tra i suoi lavori nel campo della critica, dell’architettura e del design contemporaneo: Codice Mendini (Electa, 2016); Gio Ponti. Amare l’architettura (MAXXI-Forma, 2019); Milano moderna. Architettura, arte e città (24 Ore Cultura, 2021).

“Musei possibili” rappresenta oggi quanto di più completo esista in fatto di storie, sfide, sperimentazioni – come recita il sottotitolo – che riguardino le istituzioni museali pubbliche e private. Dal museo deposito al museo interattivo offerto dalle nuove tecnologie viene investigato il mondo di segni e linguaggio, e la loro evoluzione, da quelle mura contenute e anche scavalcate dalle nuove ottiche tecnologiche.

Dalla presentazione editoriale.

«Anche se a molti appaiono ancora come depositi immobili di un passato da ammirare e conservare per le generazioni future, i musei in realtà non sono mai stati entità statiche: la loro storia, infatti, ci racconta di costanti trasformazioni, al punto che risulta difficile dire con esattezza che cos’è un museo oggi. Lo stesso International Council of Museums ha dovuto più volte aggiornarne la definizione, estendendola sino a includere i domini dell’immateriale e dell’intangibile e allargandone i compiti dalla sola conservazione alla comunicazione e addirittura al diletto e al piacere. Fra tante incertezze, emerge con chiarezza che i nuovi, possibili musei devono essere pensati e costruiti per generare condivisione e senso di comunità. Devono produrre nuovi contenuti e l’utilizzo delle più avanzate tecnologie digitali non deve essere considerato una minaccia ma un ausilio per renderli maggiormente inclusivi senza far perdere densità all’esperienza estetica e storica. Il volume raccoglie le riflessioni di curatori, ricercatori, architetti e storici dell’arte che si sono confrontati con l’attualità del museo e con le questioni poste dai visitatori che oggi aspirano al ruolo di attori».

Gli autori dei saggi presenti nel volume nell’ordine di apparizione nelle pagine sono: Maria Teresa Feraboli - Orietta Lanzarini - Ico Migliore - Anna Chiara Cimoli - Anna Casalino - Maria Elena Colombo - Susanne Franco - James Bradburne - Cristiana Collu -
Elisabetta Farioli - Christine Macel
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Musei possibili
A cura di Fulvio Irace
232 pagine * 24.00 euro
51 immagini in b/n
Carocci


Il teatro di Pessoa


“Il poeta è un fingitore
Finge così completamente
Che arriva a fingere che è dolore
Il dolore che davvero sente”.

Questi versi appartengono a Fernando Pessoa che il 30 novembre 1935 a Lisbona, dov’era nato, moriva all’età di 47 anni; fegato a pezzi dopo una vita trascorsa tra vini portoghesi e non.
Non immaginatevi, però, un tipo borderline; teneva per sé una particolare compostezza, conduceva una vita grigia nella quale batteva un cuore infernale.
Nella foto, 1939, l’obiettivo l’ha colto Em flagrante delitro, come scrisse sul retro dell’istantanea dedicando l’immagine alla fidanzata Ophélia Queiroz.
È uno dei geni del secolo scorso – reso noto in Italia dal suo infaticabile esegeta Antonio Tabucchi (in questo video racconta il suo incontro con il grande portoghese) – Pessoa: protagonista di una singolare avventura di scrittura moltiplicando se stesso in una serie di scrittori immaginari, eteronimi, creando così una mitopea colossale scritta da una sola infinita mano.
Quella mano una volta scrisse: “Che si sia ombra o luce, siamo sempre la stessa notte”.
Si riportano come sue ultime parole: "Datemi i miei occhiali".

La casa editrice Quodlibet ha pubblicato ora di lui Teatro statico.
Di Pessoa nel catalogo Quodlibet già figurano “Il ritorno degli dèi. Opere di António Mora” (2005); “Pagine di estetica. Il gioco delle facoltà critiche in arte e in letteratura (2006)”; “Teoria dell’eteronimia (2020)”, “Sul fascismo, la dittatura militare e Salazar” (2022).
A quest’ultimo titolo ho dedicato uno special teso a dissolvere una nuvola nerastra in cui malaccorti cronisti e superficiali critici avevano avvolto la figura di Pessoa quasi quale un filofascista. “Sul fascismo” dimostra ampiamente il contrario
Chi è interessato può leggere QUI.
Circa il “Teatro statico”, si riuniscono in questo volume le traduzioni italiane dei 14 drammi statici di Pessoa finora rinvenuti, composti tra il 1913 e il 1934, dei quali solo “Il marinaio” venne pubblicato in vita dall’autore (1915).

«Chiamo teatro statico quello in cui l’intreccio drammatico non costituisce azione – cioè, in cui le figure non soltanto non agiscono, poiché non si muovono né parlano di muoversi, ma non possiedono nemmeno i sensi necessari per produrre un’azione; in cui non c’è conflitto, né perfetto intreccio. Si dirà che questo non è teatro. Credo che lo sia, perché credo che il teatro trascenda il teatro puramente dinamico e che l’essenziale del teatro sia, non l’azione, né la progressione e la continuità dell’azione, ma, in un’accezione più ampia, la rivelazione delle anime attraverso le parole scambiate o la creazione di situazioni».

Dal saggio introduttivo di Andrea Ragusa al volume.

“L’opera drammatica di Pessoa dialoga, come spesso viene indicato, con il contenuto teorico di Villiers de L’Isle-Adam, con alcuni testi di Maurice Maeterlinck (in particolare, L’Intruse e Les Aveugles) e con il «teatro dell’anima» di Evreinov, cui dedica anche la pièce Os Estrangeiros (Gli stranieri). Nondimeno, le figure cui egli dà voce riflettono l’assenza, non soltanto dell’azione, ma delle stesse personæ drammatiche, declinate in ombre monologanti: le evanescenti vegliatrici, che si guardano non-esistere, o il marinaio stesso, che tenta di reinventare la patria dimenticata, sono inscritti in un processo in cui la finzione si identifica con il sogno in senso “attivo”, come accadeva all’Amleto perduto «a sognare sul suo dramma», nella riscrittura di Laforgue.
Con il dramma statico si intende esaltare su un piano statico (estático) la centralità dell’estatico (extático), e, di conseguenza, favorire la manifestazione del sogno e della pura parola, a discapito del teatro dinamico, che diviene del tutto dispensabile ai fini dell’esaltazione di una realtà soltanto sognata”

Dalla presentazione editoriale.

«Il meticoloso lavoro di scavo svolto nell’archivio di Pessoa, permettono a questi testi di restituire un altro e fondamentale versante della sua magmatica attività.
La natura di Pessoa fu intimamente drammaturgica, anche quando questo carattere si manifestò mediante la spersonalizzazione poetica che diede origine a più di un centinaio di «eteronimi», autori fittizi radicalmente diversi per personalità e visione del mondo. Il suo teatro sprovvisto di azione, in cui l’enigma della condizione umana si traduce in spettacolo dell’inconscio, si proietta già verso esiti che saranno sperimentati con maggiore continuità dalle avanguardie del XX secolo.
L’edizione è arricchita da un’appendice che raccoglie frammenti aggiuntivi riferibili alle pièce più organiche, oltre ad alcune lettere e agli appunti in cui Pessoa formula la sua idea di teatro ».

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Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web
Ufficio Stampa: Valentina Parlato, valentinaparlato@quodlibet.it

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Fernando Pessoa
Teatro statico
Edizione originale a cura di
Filipa de Freitas e Patricio Ferrari
Edizione italiana a cura di Andrea Ragusa
256 pagine * 20.00 euro
Quodlibet


Pessoa a Firenze

A Firenze, al Teatro della Pergola, in prima mondiale, da oggi fino a domenica 12 maggio è in scena Since I've been me spettacolo *da/ su/ per* Fernando Pessoa.
La regìa è del famoso Robert Wilson.

Dal sito del Teatro della Pergola

«Considerato che il 2024 è l’anno del Portogallo, che festeggia mezzo secolo dalla Rivoluzione dei Garofani che riportò la democrazia nel Paese dopo anni di dittatura, ecco che pensare a Fernando Pessoa diventa quasi naturale: l’enigmatico poeta dai molto eteronimi, sfuggente sagoma di quella magica temperie culturale che fu il periodo tra le due guerre.

Robert Wilson ha accolto con entusiasmo l’idea di uno spettacolo dedicato a Pessoa lanciata dal Teatro della Pergola di Firenze e dal Théâtre de la Ville di Parigi, e la Pergola ha già ospitato a gennaio la prima fase delle prove di Pessoa. Since I've been me, il primo momento di corale creazione dello spettacolo che debutterà in prima mondiale a Firenze. La frase “Since I've been me” si ispira a un frammento de Il libro dell’Inquietudine. Fa parte del titolo e verrà quindi mantenuta in inglese, ma per dare un senso della traduzione possiamo dire che si avvicina a “Da quando sono io”».

Nel nome del progetto sull’Attrice e l’Attore Europei lo spettacolo è in lingua inglese, portoghese, francese e italiana, idiomi rispecchiati anche dalle diverse provenienze del cast: è portoghese Maria de Medeiros, volto conosciutissimo di cinema e teatro; brasiliano è Rodrigo Ferreira, franco-brasiliana Janaína Suaudeau; francese di radici africane Aline Belibi; italiana (e proveniente dalla Scuola ‘Orazio Costa’ della Pergola) Sofia Menci, italiano di lunga residenza francese Gianfranco Poddighe, italo-albanese Klaus Martini.

………………………………….

Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web
Ufficio Stampa: Matteo Brighenti, stampa@teatrodellatoscana.it


Un magnifico ritratto

Aimez-vous Herzog?
Spericolato, sfrenato, eccessivo, estremo, sia nella vita professionale sia in quella privata, il regista tedesco segna un capitolo imprescindibile nella storia del cinema e non solo dei più recenti anni.
Si può leggere un intervento – splendido come al solito – di Maria Teresa Carbone sul webmagazine “Antinomie” cliccando QUI.


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