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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Cervello da Nobel


Il cervello non è uguale per tutti, da qui il mio invito alla prudenza consigliando di usare per alcuni la parola ”testa” invece di “cervello”, così andate sul sicuro.
E così correttamente diremo di quel tale o quella tale: “Che cosa mai avrà nella testa?” e non “Che cosa mai avrà nel cervello?”, e così via.
Due importanti dati fisici: 1) il cervello umano (fra quelli che ne dispongono), ha un peso medio di 1.330 grammi, è più voluminoso di quello di qualsiasi altro grande primate e più piccolo soltanto di quello degli elefanti, dei grandi delfini e delle balene; 2) Ha più di 100 miliardi di cellule; ciascuna connessa con almeno altre 20.000; probabilmente le combinazioni possibili sono più grandi del numero di molecole dell’universo conosciuto.

Ancora una cosa. In quest’epoca che viviamo dove è protagonista la specializzazione, ogni organo del corpo umano, sia femminile sia maschile, ha uno specialista e uno solo che se ne occupa. Ciò se da un lato presenta indiscutibili vantaggi, comporta pure la perdita di una visione olistica del nostro essere perché ciò che accade in un punto non è sempre scisso da quanto avviene in un altro.
Si dà colpa di questa visione frammentaria al progresso tecnologico, eppure sarà proprio da quel (da tanti) vituperato progresso che la medicina tornerà ad essere olistica, quando, cioè, basterà un solo chip impiantato in noi per ottenere una visione d’insieme e senza neppure recarci dal medico o, allora più probabilmente, da un genetista.
Ma siamo nel 2023, e sorprende che ci sia un solo organo che vede applicate su di esso ben quattro tipologie mediche! Qual è? È il cervello.
Intorno a lui indagano, disputano, accolgono pazienti, quattro specialisti, in ordine alfabetico: il neurologo, lo psicanalista, lo psichiatra, lo psicologo.
Le moderne neuroscienze, sono nate alla fine dell’Ottocento, ma a tutt’oggi, del cervello, pur noi adesso sapendone parecchio, perfino molto più di appena pochi anni fa, resta il distretto meno noto di tutto il corpo umano.

La casa editrice Hoepli ha pubblicato un libro che guida alla conoscenza del cervello in modo sintetico e chiaro.
Titolo: Titolo: Cervello da Nobel Un viaggio tra neuroni, codici, segnali, ricordi e sensazioni
Ne sono autori: Pietro Calissano - Nadia Canu - Sergio Nasi.
Pietro Calissano, genovese, si è trasferito a Roma su invito di Rita Levi Montalcini nel 1965. Con lei ha lavorato affiancandola fino alla sua scomparsa. Membro del Consiglio scientifico della Treccani, ha fondato l’European Brain Research Institute (EBRI). Attualmente prosegue la ricerca sul morbo di Alzheimer.
Nadia Canu è stata professoressa di Neurofisiologia all’Università di Tor Vergata, dove si è occupata dei processi di neurodegenerazione che conducono al morbo di Alzheimer.
Sergio Nasi, fisico e biologo molecolare, ha lavorato all’Università di Ginevra, all’Istituto Pasteur di Parigi, al CNR, ed è stato docente di Oncologia all’Università Tor Vergata e di Neurobiologia molecolare e di Biologia molecolare dei processi mentali alla Sapienza. Si occupa di controllo dell’espressione dei geni, trasmissione di segnali e genetica molecolare del cancro.

Questo libro è uno strumento prezioso per addentrarci non soltanto nella conoscenza del cerebello, ma uno stimolo ad approfondire l’essere come verbo e come sostantivo.

Dalla presentazione editoriale

«Come funziona il cervello? Con quali meccanismi i neuroni ricevono i 14 segnali dal mondo e li trasformano in sensazioni, ansie, emozioni, memorie, con un codice di comunicazione elettrochimico impiegato da tutte le specie viventi? E in che modo il cervello produce ormoni che regolano le principali funzioni dell’organismo?
La maggior parte dei Nobel per la medicina sono stati assegnati a ricerche sul cervello: la storia dei vincitori è la storia delle grandi conquiste della medicina e della neurobiologia negli ultimi cent'anni.
In questo volume gli autori raccontano la scoperta e la cura di numerose malattie nervose e mentali di fatto aprendo il vaso di Pandora dei meccanismi, prima di allora sconosciuti, che servono a pensare e a essere coscienti.
Grazie agli studi dei neuroscienziati insigniti del Nobel si sono poste le basi per la conoscenza del linguaggio che le cellule nervose impiegano per comunicare fra loro e con l’organismo»

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Pietro Calissano
Nadia Canu
Sergio Nasi
Cervello da Nobel
276 pagine * 22.90 euro
Hoepli


Squarzina e Pirandello

A Roma, al Teatro Argentina è in corso la mostra documentaria Il teatro di Squarzina e le commedie di Pirandello in occasione del centenario della nascita di Luigi Squarzina (1922-2022) in collaborazione con Fondazione Teatro di Roma, Fondazione Gramsci, Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Contemporaneo.
L’esposizione è a cura di Marina Marcellini ed Elio Testoni.
I documenti selezionati provengono dall'Archivio Luigi Squarzina conservato presso la Fondazione Gramsci.

QUI un testo che consiglio: riflette sul profilo registico di Squarzina sull’opera di Pirandello.


Dal comunicato stampa

«Le regie pirandelliane di Luigi Squarzina, presentate in questa mostra, possono considerarsi casi esemplari della sua attitudine ad integrare l’attività registica con quella di studio e di insegnamento. Esse sono rappresentative delle differenti fasi del percorso artistico di Squarzina: dal periodo free-lance (1957) a quello della collaborazione esterna con il Teatro Stabile di Genova (1961), dalla direzione di questo stesso teatro (anni ’60 e ’70) al ritorno alla libera professione (anni ’80 e ’90).

Tra i grandi registi del dopoguerra Squarzina è stato l’unico a mettere in scena così tante volte Pirandello, realizzando rilevanti innovazioni interpretative e riscuotendo sempre notevole successo di critica e di pubblico. Un’ultima parte della mostra è dedicata ai suoi spettacoli come Direttore del Teatro di Roma e alle sue iniziative finalizzate alla teatralizzazione dello spazio urbano e alla nascita, nel 1982, di quello che oggi è il Laboratorio Teatrale Integrato Piero Gabrielli, dove il teatro unisce i ragazzi con e senza disabilità, i cui spettacoli ricevettero il plauso anche del Papa e del Presidente della Repubblica».

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Per i redattori della carta stampata, radio.tv, web:
Ufficio Stampa: Amelia Realino
tel. 06. 684 000 308 – 345.44 65 117
e_mail: ufficiostampa@teatrodiroma.net
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Il teatro di Squarzina e le commedie di Pirandello
Teatro Argentina, Roma
Info: 06 - 68 40 00 314
Fino al 2 dicembre 2023
Ingresso libero


Maniac


La casa edtrice Adelphi ha pubblicato Maniac (niente a che fare con l’omonima serie tv di Netflix, è il nome dato nei primi anni ’50 all’antenato dei nostri computer) libro di un autore che sta riscuotendo un grande successo internazionale: Beniamin Labatut (Rotterdam 1980).
Adelphi ha il merito in Italia di essersi accorta per prima del valore di Labatut e, infatti, troviamo nel suo catalogo due suoi precedenti lavori: La pietra della follia e Quando abbiamo smesso di capire il mondo.

La scrittura di Labatut è associata alla “non-fiction” della quale, per i più distratti, faccio seguire una definizione: «L’etichetta, puramente negativa, di per sé potrebbe designare tutte le narrazioni che ricadono al di fuori della finzione, dal reportage al saggio specialistico fino, al limite, al manuale di sef-help, così come avviene, per esempio, nelle librerie anglosassoni dove la dicitura ingloba ogni sorta di testo non riconoscibile come romanzo o poesia. In realtà […] in questo contesto, non fiction si riferisce a tutte quelle scritture in prosa che rifiutano la “finzionalità” della letteratura d’invenzione pur servendosi di molte delle tecniche a essa riconducibili»
(Treccani, 20 settembre 2022, Lingua italiana).

Non- Fiction, stile - o genere - che viene fatto risalire al libro “A sangue freddo”, celebre tappa della letteratura nord-americana, di Truman Capote che narrò alla metà degli anni Sessanta un famoso quadruplice delitto realmente avvenuto con i moduli narrativi tipici del romanzo di finzione.

Labatut in “Maniac” racconta storia e percorsi di una delle più grandi menti del secolo scorso: John von Neumann (Budapest,1903 – Washington 1957) personaggio tanto scientificamente maestoso quanto controverso da meritarsi l’appellativo Genio del Male.

I suoi meriti, però, vantano anche le origini dell’Intelligenza Artificiale e dei missili Atlas che hanno portato l’uomo sulla Luna.
Labatut non si limita a cronache perché allarga la sua osservazione anche sulla cosiddetta “crisi della fisica” cioè il contrasto fra la fisica classica che riguarda il mondo macroscopico e la quantistica che concerne il mondo microscopico. Lo fa con una scrittura vertiginosa che mette chi legge di comprendere in modo semplice, ma non semplificato, cose complesse.
E poi ha una forza espressiva di notevole vigore. Eccone una dimostrazione in questo folgorante incipit del libro.
La mattina del 25 settembre 1933 il fisico austriaco Paul Ehrenfest entrò nell’istituto pedagogico per bambini infermi del professor Jan Waterink, ad Amsterdam, sparò in testa al figlio quindicenne Vasilij, poi rivolse la pistola contro se stesso.

Scrittori così? Avercene.

Dalla presentazione editoriale

«Quando alla fine della seconda guerra mondia­le John von Neumann concepisce il MANIAC – un calcolatore universale che doveva, nel­le intenzioni del suo creatore, «afferrare la scienza alla gola scatenando un potere di calcolo illimitato» –, sono in pochi a rendersi conto che il mondo sta per cambiare per sempre. Perché quel congegno rivoluzionario – parto di una mente ordinatrice a un tempo cinica e visionaria, infantile e «inesorabilmente logica» – non solo schiude dinanzi al genere umano le sterminate praterie dell’informatica e dell’Intelligenza Artificiale, ma lo conduce sull’orlo dell’estinzione, liberando i fantasmi della guerra termonucleare. Che «nell’anima della fisica» si fosse annidato un demone lo aveva del resto già intuito Paul Ehrenfest, sin dalla scoperta della realtà quantistica e delle nuove leggi che governavano l’atomo, prima di darsi tragicamente la morte. Sono sogni grandiosi e insieme incubi tremendi, quelli scaturiti dal genio di von Neu­mann, dentro i quali Labatut ci sprofonda, lasciando la parola a un coro di voci: delle grandi menti matematiche del tempo, ma anche di familiari e amici che furono testimoni della sua inarrestabile ascesa. Ci ritroveremo a Los Alamos, nel quartier generale di Oppenheimer, fra i «marziani ungheresi» che costruirono la prima bomba atomica; e ancora a Princeton, nelle stanze dove vennero gettate le basi delle tecnologie digitali che oggi plasmano la nostra vita. Infine, assisteremo ipnotizzati alla sconfitta del campione mondiale di Go, Lee Sedol, che soccombe di fronte allo strapotere della nuova divinità di Google, AlphaGo. Una divinità ancora ibrida e capricciosa, che sbaglia, delira, agisce per pura ispirazione – a cui altre seguiranno, sempre più potenti, sempre più terrificanti.
Con questo nuovo libro, che prosegue idealmente “Quando abbiamo smesso di capire il mondo”, Labatut si conferma uno straordinario tessitore di storie, capace di trascinare il lettore nei labirinti della scienza moderna, lasciandogli intravedere l’oscurità che la nutre».

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Benjamin Labatut
Maniac
Traduzione di Norman Gobetti
361 Pagine * 20.00 Euro
Adelphi.


L'entropia dell'insalata

La casa editrice Dedalo ha pubblicato uno stuzzicante volume intitolato L’entropia dell’insalata Scienza e tecnologia in 50 perché.
Il libro, infatti, in 50 capitoli divertenti e originali racconta la scienza che incontriamo nella vita quotidiana. Lo fa spaziando tra vari campi e soddisfacendo molte curiosità.
L’autore è Marco Galluccio.
Ingegnere da sempre interessato alla scienza ha collaborato con associazioni, università ed enti pubblici di ricerca come il Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Scrive per diverse riviste, tra cui «Focus» e «Rivista Marittima».
È appassionato di musica, cinema, fotografia e astronomia.

Prima di andare avanti, a beneficio di coloro che non hanno completato la scuola dell’obbligo, consultiamo la Treccani per capire il significato della parola “Entropia”: CLIC!

Cosa c’entra l’entropia con l’insalata? Perché l’acqua di mare è salata? Perché un’ora è divisa in sessanta minuti? Riusciremo a rendere le nostre case energeticamente indipendenti?
Le risposte a queste e molte altre domande le troviamo in un percorso multidisciplinare che spazia fra matematica, meteorologia, acustica, pittura, cinema, astronomia e scienza in cucina, solo per citarne alcune.
Un libro da salutare con gioia perché viviamo anni in cui la scienza e la tecnologia sono sotto attacco da parte di complottisti che tendono a negare i benefici che ricaviamo da esse: dai vaccini alle comunicazioni, dai trasporti alla chirurgia, dall’intrattenimento all’esplorazione spaziale.
Scrive su Micromega il noto neuroscienziato Giorgio Vallortigara: “La vita di ciascuno di noi è sempre più permeata dall’utilizzo di tecnologie avanzate, figlie delle straordinarie conoscenze che la scienza ci ha consentito di ottenere. Durante la pandemia da Covid-19 abbiamo anche assistito quasi in diretta al rapido sviluppo di vaccini che ci hanno permesso di superarla in tempi relativamente brevi. Eppure, mai come in questo periodo lo scetticismo nei confronti della scienza e degli scienziati galoppa. E quando la scienza non viene attaccata, si cerca di piegarla ai propri interessi politici e ideologici. Una delle cause di questo paradosso è una diffusa ignoranza sul metodo scientifico, ossia su quali siano le logiche e i criteri che la scienza impiega per indagare la realtà“.

Dalla presentazione editoriale.

«L’entropia dell’insalata: 50 capitoli ironici e insoliti affrontano le questioni più disparate in un dialogo fitto tra materie in apparenza lontanissime. Il risultato è una sorta di “inno” scientifico al sapere umano ma anche, allo stesso tempo, un compendio di spunti, volutamente informali, che ci portano ad approfondire fatti straordinari della nostra ordinaria quotidianità.
Unico requisito: un pizzico di curiosità».

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Marco Galluccio
L’entropia dell’insalata
184 pagine * 16 euro
Dedalo


Pensiero Video (1)

Quando nasce la videoarte?
La maggior parte degli storici dell'arte contemporanea la collocano nel 1963, con la famosa mostra a Wuppertal di Nam June Paik “Exposition of Music.Electronic Television”.
In Italia approda in sede istituzionale a Bologna con “Gennaio ‘70” mostra organizzata da Renato Barilli, Maurizio Calvesi e Tommaso Trini

Giorgio Manganelli in "Migrazioni oniriche": lascia intendere che ai quadri, riflesso della «mentita consistenza» del mondo, preferisce i disegni, appartenenti «al luogo discontinuo dei fantasmi».
A Lucca è in corso una mostra che gli sarebbe piaciuta perché ricca di quei fantasmi (parola amichevole a differenza del gelido “spettri”) da lui amati e qui fatti sia di cellulosa e sia di pixel. Titolo: Pensiero Video Disegno e arti elettroniche a cura di Andreina Di Brino. La mostra s’inserisce nella storia espositiva dell’istituzione presieduta da Alberto Fontana, che, sotto la direzione (2000 – 2007) di Vittorio Fagone (QUI una mia conversazione con lui di anni fa), diede una specifica attenzione alla videoarte e alle arti elettroniche.

Estratto dal comunicato stampa.

«La Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti - ETS presenta “Pensiero video, a cura di Andreina Di Brino, mostra collettiva – realizzata con il supporto della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e il sostegno di Banco BPM – che, partendo dalle riflessioni di Carlo Ludovico Ragghianti sull’importanza del disegno come medium sostanziale del processo creativo, offre un affresco storico sul potere dinamizzante del segno, fra disegni, documentazioni, videoinstallazioni, videoambienti e proiezioni video di artisti nazionali e internazionali dalla fine degli anni Quaranta del Novecento al digitale odierno.
La mostra –presenta opere di Lucio Fontana, Hans Namuth - Paul Falkenberg - Jackson Pollock, Mario Schifano, Wolf Vostell, Gianni Toti, Fabrizio Plessi, Studio Azzurro, Bill Viola, William Kentridge, Grazia Toderi, Giacomo Verde, Michele Sambin, Nalini Malani, Quayola e del “padre nobile” della sperimentazione video Nam June Paik, di cui è esposta la straordinaria Little Italy (1990).
Autori diversissimi fra di loro, distanti per tempi, aree geografiche e formazione, riuniti in un percorso di ricerca teso alla restituzione di uno spaccato storico e alla promozione di uno sguardo retrospettivo inedito, che mette in dialogo la sfera personale e quella pubblica, la formazione di ognuno di loro e l’evoluzione dei media, analogici o digitali, con cui hanno scelto di esprimersi e di arricchire la propria ricerca.
Pensiero video. Disegno e arti elettroniche sottolinea ancora una volta quanto per la Fondazione Ragghianti – il cui Comitato scientifico, presieduto da Sandra Lischi, è composto da Fabio Benzi, dal direttore Paolo Bolpagni, da Martina Corgnati e da Davide Turrini – ogni mostra costituisca un’occasione e uno strumento di conoscenza e approfondimento su tendenze e generi non indagati sufficientemente, o su aspetti meno noti dell’attività degli artisti».

Segue un incontro con Andreina Di Brino.


Pensiero Video (2)

La mostra “Pensiero Video” sarà accompagnata da un omonimo catalogo pubblicato dalle Edizioni Fondazione Ragghianti Studi sull’Arte a cura di Andreina Di Brino.
E proprio a lei (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come nasce questa mostra? Da quali urgenze espressive?

"Pensiero video” nasce da uno studio molto articolato su cui si è incentrata la mia ricerca dottorale. L’urgenza è legata sia ad aspetti personali - sono una disegnatrice e ho fatto anche studi di grafica prima del percorso universitario - sia a questioni oggettive. Si pensa spesso agli artisti che hanno realizzato o realizzano opere con i cosiddetti 'nuovi media’ come a figure concentrate esclusivamente sui dispositivi elettronici. In alcuni casi è così, ma in moltissimi altri, no. La sperimentazione elettronica è stata ed è portata avanti molto spesso da personalità che utilizzano anche media tradizionali, come il disegno. Quest’ultimo, però, quando ha fatto capolino nelle mostre di arte elettronica, è stato considerato un elemento di corredo. Qui, all’interno di un percorso espositivo che vede insieme più artisti del panorama sperimentale, accade, invece, il contrario perché è il protagonista. É la prima volta in assoluto a livello internazionale che viene preso in considerazione il potere dinamizzante del disegno nelle cifre stilistiche autoriali considerate e questo consente anche una rilettura più articolata e corretta del lavoro degli artisti che ne fanno uso.

In “Pensiero video” è possibile godere di una ricca pluralità di autori molto diversi fra loro per epoca e stili.
Quale il criterio cui ti sei ispirata nelle scelte dei nomi nella sezione video e in quella del disegno
?

Il criterio è stato di tipo storico: ho scelto artisti che nel tempo di sviluppo e affermazione delle tecnologie elettroniche - quindi dalla seconda metà degli anni Quaranta del Novecento a oggi, 2023 - sono stati e sono tra i pilastri nazionali e internazionali della ricerca elettronica.

Bonito Oliva in un convegno sulla videoarte sostenne che esiste un progresso delle tecniche non un progresso dell’arte.
Sei d’accordo con quell’affermazione
?

Sono molto d’accordo. Raffaello è stato un artista, non un pittoartista; e neanche Michelangelo lo abbiamo chiamato così; tantomeno scalpellartista. Le tecnologie evolvono. Gli artisti sono artisti, senza appellativi ulteriori che ne marchino la specificità. Anche questo volevo, sotto sotto, dimostrare con 'Pensiero video. Disegno e arti elettroniche’.
Detto questo, poiché sono gli artisti a prefigurare gli scenari futuri, a stravolgere l’uso di tecniche e tecnologie, o a deciderne l’impiego, penso che Bonito Oliva con quella affermazione volesse intendere che essendo l’arte, per eccellenza, un luogo evolutivo e visionario, passato e futuro si annullano al suo interno. L'arte è, in questo senso, sempre contemporanea e in linea con le tecnologie e le atmosfere del momento storico che le corrisponde (il Novecento ce lo ha insegnato anche introducendo il concetto di cultura visuale). In quest’ottica, quindi, la sedimentazione del 'già stato’, il superamento di quest’ultimo e gli avanzamenti ulteriori sono, fisiologicamente contemplati a prescindere.

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Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web:
Ufficio Stampa Fondazione Ragghianti: Elena Fiori
elena.fiori@fondazioneragghianti.it

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Fondazione Ragghianti
Pensiero video.
Disegno e arti elettroniche
a cura di Andreina Di Brino
Complesso monumentale di San Micheletto
Via San Micheletto, 3 – Lucca
Info mostra: Tel: 0583-467205 - Fax 0583-490325
info@fondazioneragghianti
Fino al 7 gennaio 2024


Metaverse Architect


"In questo libro, così ricco di sapere tecnologico, è l'umanesimo del dialogo, della condivisione di conoscenze, il filo rosso che ci guida alla scoperta della Complessità."
Roberto Bonzio, giornalista e fondatore di Italiani di Frontiera.

A quale volume si riferisce quella frase?
A una pubblicazione della casa editrice FrancoAngeli intitolata Metaverse Architect Skillset per costruire altri mondi.
Ne sono autori Aaron Brancotti e Alessio Mazzolotti.
Brancotti è sviluppatore VR, coder di giochi arcade e redattore tecnico per la rivista Virtual. Ha realizzato sistemi ludici e soluzioni orientate alla riabilitazione neurofisiologica e alla creazione di videogiochi 3D non-violenti
Mazzolotti. è scrittore e sceneggiatore, ha lavorato quale autore e regista televisivo ed è la firma di importanti campagne pubblicitarie.
Si occupa di UX e di contenuti digitali evoluti.
Entrambi lavorano insieme dal 2007 e sono soci di Fishbone Creek e del gruppo Bad Idea.

Dalla presentazione editoriale.

«Questo testo vuole offrire una lettura originale del fenomeno Metaverso, tratteggiando le competenze necessarie per esserne protagonisti. L'obiettivo è indurre i futuri professionisti del Metaverso a farsi le domande giuste, offrendo loro utili spunti in una prospettiva contech, nella quale gli elementi più squisitamente tecnici e tecnologici siano chiamati a un dialogo aperto e costante con la componente soft del contenuto e dell'usabilità. Lo skillset del metaverse architect comprenderà quindi non solo solide basi tecniche ma anche la capacità di pensare nell'ottica dello Human Centered Design. Perché per costruire un "mondo" accanto a un altro mondo occorre considerare una pluralità di ingegni. E perché, come affermano gli autori in apertura: "la nostra idea di Metaverso tiene sempre l'Utente al centro poiché riteniamo che sarà sempre l'uomo, e l'uomo soltanto, a decretare il successo o il fallimento di qualsiasi innovazione»

"In definitiva il designer non è un creatore di mondi, ma un esploratore delle realtà."
Alberto Corti, Head of Customer Experience & Digital Channels - Generali Italia.

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Aaron Brancotti
Alessio Mazzolotti
Metaverse Architect
208 pagine * 23 euro
PdF con Drm: 19.99
Epub con Drm: idem
FrancoAngeli


Non sono solo canzonette


Si può archiviare il futuro?
Pare di sì, perché esiste perfino un indirizzo dove su di una targa sta scritto Archivio Futuro.
In realtà si tratta di un collettivo musicale nato dall’incontro tra il producer e dj Lorenzo BITW, tra gli alfieri italiani del clubbing, il batterista e polistrumentista Danilo Menna (Gemitaiz, Venerus, Lydia Lunch) e Vittorio Gervasi, sassofonista di matrice jazz, che sperimenta la dualità tra l’acustico e l’elettronico.
La più recente produzione è intitolata Buio Universale per la boutique-label Stellare con il videoclip vincitore di LAZIOSound 2023 nella categoria God is a producer.
Il titolo è tratto da parole usate dal filosofo Umberto Galimberti nel suo libro Le cose dell'amore.

Estratto dal comunicato stampa

«Il videoclip girato da Mirko Ostuni mette in scena l’intero immaginario contenuto nel ‘singolo’, contrapponendo immagini della natura a quelle dell’urbanizzazione, nel tentativo di valorizzare l’intimo rapporto tra l’essere umano e ciò che lo circonda. L’obiettivo di Archivio Futuro con “Buio Universale” è quello di riappropriarsi degli spazi perduti dall’uomo, sia nella loro dimensione interna, di riflessione, sia in termini fisici e geografici. La chiave per riuscirci è l’amore, rappresentato dalla natura, l’unico sentimento che può salvarci. Da qui la scelta della mano come elemento fortemente simbolico, rappresentata sia sulla copertina del singolo, sia esaltata nel videoclip, ed è lo strumento di comunicazione per eccellenza tra corpo, realtà interna, e mondo esterno».

Dalla rivista Rumore: “… un’introduzione fatta di suoni cupi, che fanno da sfondo a uno speaking implacabile che sembra provenire dalle più remote regioni dell’esistenza; un richiamo che invoca un monito: Buio Universale”.

Per vedere e ascoltare: CLIC.

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“Buio Universale”
Scritto e prodotto da: Danilo Menna, Vittorio Gervasi e Lorenzo Calpini
Mix: Danilo Menna, Vittorio Gervasi e Lorenzo Calpini
Master: Carl Saff
Foto e Artwork: Mirko Ostuni - instagram.com/mirkojira
Durata: 3’43”
www.instagram.com/archiviofuturo
archiviofuturo.bandcamp.com

LAZIOSound
https://www.instagram.com/laziosound/
https://laziosound.regione.lazio.it/

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Ufficio Stampa LAZIOSound / Comunicazione GenerAzioni Giovani
Marta Volterra marta.volterra@hf4.it
Valentina Pettinelli press@hf4.it 347.449.91.74


Storia delle donne nel regime fascista

«Il fascismo è lirico, gerontofobo, xenofobo, teppista se occorre, stupido sempre, ma alacre, plagiatore, manierista. Non ha senso religioso, ma vede nella religione il baluardo per impedire agli altri l'ascesa al potere. Intimamente crede in Dio, ma come ente col quale ha stabilito un concordato, do ut des. È superstizioso, vuole essere libero di fare quel che gli pare, non ama la solitudine, né rispetta il vicino, il quale d'altronde non rispetta lui. Non ha senso dell'arte. Non ama l'amore, ma il possesso, è disposto a tutto purché gli si conceda che lui è l’uomo, è il padrone, il padre».

Queste felicissime parole sul fascismo sono di Ennio Flaiano.
Come vivevano, come hanno vissuto le donne in quella società tanto maschia?
Già, il maschio fascista. Per ben capire come se la passavano a quell’epoca le donne non bisogna trascurare qual era la figura maschile fascista.
Che faticaccia per quegli uomini duri!
Costretti a mai piangere neppure in caso di percussioni sulle loro parti intime, impermeabili come tute subacquee ai sentimenti ma non al sentimentalismo, pronti a ogni esercizio di prestigio muscolare anche quando avevano i reumatismi, manifestare al prossimo un minuto sì e l’altro pure la loro indefettibile eterosessualità approcciando chiassosa corte a tutte le donne. Le quali, avessero ceduto, forse ne avrebbero visto alquanti risalire in disordine e senza speranza le avances che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.
Ben vengano, quindi, la satira dei Village People in “Macho Man” o la dispettosa superiorità delle donne nei confronti degli uomini vantata da Beyoncé in “Run The World”. Canzoni, sì, Perché non sono solo canzonette.
Il Duce, del resto, una volta al Governo, subito, tramite interventi legislativi sul mondo del lavoro, favorì gli impieghi maschili restringendo le possibilità che avevano le donne. Insomma, di emancipazione femminile neanche a parlarne se non si voleva passare per sovversivi.

La casa editrice Marsilio ha ripubblicato un importante libro su questo tema: Storia delle donne nel regime fascista, un libro che non può mancare alla lettura non solo di chi è interessata/o alla storia delle donne in Italia, ma anche a quelle/i che vogliono conoscere le origini di tanti guasti nella nostra società. Ad esempio, l’origine del femminicidio (sempre esistito, mai però nelle proporzioni gigantesche come oggi) che risiede in una raffigurazione della donna non compagna del maschio ma a lui sottomessa. È negli anni del Regime che in Italia si definiscono i tratti salienti della donna italiana. Ma quale fu davvero l’impatto delle politiche fasciste sui rapporti di genere? In quale misura riflessi e condizionamenti di quell’epoca arrivano fino a noi oggi?

L’autrice del volume è Victoria de Grazia.
Professoressa emerita di Storia contemporanea alla Columbia University. Si è occupata in particolare di storia del fascismo, dei consumi e di genere in chiave comparata e internazionale. Tra le sue opere apparse in edizione italiana: Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista. L’organizzazione del dopolavoro (1981), Dizionario del fascismo (con Sergio Luzzatto, 2002), L’impero irresistibile (2006, 2020) e Il perfetto fascista (2022).

“Come poté” - si chiede de Grazia – “un movimento reazionario di nuovo stampo sfruttare le innumerevoli questioni legate alle vite delle donne, tra cui il sesso, la riproduzione, la famiglia, il lavoro, la religione, l’assistenza sociale, per costruire sistemi di governo
totalitario? Come poterono le donne convincersi a collaborare, in nome della razza, della patria, e di un apocalittico nuovo ordine mondiale, a politiche che agli occhi della nostra generazione apparivano così antifemministe e mortifere?”
Le pagine del libro danno plurali risposte.

Cristina Ricotti dell’Ufficio Stampa Marsilio così dice su “Storia delle donne nel regime fascista“: Questa nuova aggiornata edizione del libro di Victoria de Grazia, è un testo importante, pubblicato 30 anni fa. Completamente nuovi sono i capitoli 9, ‘L’impero chiama’, e 10, ‘Una sponda troppo lontana’, oltre a nuove considerazioni all’ultimo capitolo). Da un lato il libro vive di molte testimonianze dirette che de Grazia ebbe modo di raccogliere, quando ancora non c’era una letteratura sulle donne nel periodo fascista, dall’altro il libro si arricchisce della dimensione del colonialismo e dell’imperialismo, con gli studi degli anni successivi. Molto chiara è l’introduzione alla nuova edizione. Soprattutto i suoi nuovi studi sul colonialismo e l’imperialismo dimostrano una internazionalizzazione tra le due guerre che implica anche la necessità di politiche che mobilitino le donne. Da un lato il potere sul corpo delle donne e dall’altro la grande necessità di mobilitarle, per motivi diversi (non ultimo quello della razza, con il loro ruolo nelle colonie).

Dalla presentazione editoriale

«Mentre nel mondo si diffondevano nuovi modelli di emancipazione femminile, in Italia il ventennio fascista lasciava un’impronta profonda su tutto ciò che riguardava le donne, dalla cultura del corpo alle pratiche educative, dal lavoro alla scuola, dalla partecipazione politica alla definizione dei loro doveri e diritti davanti alla legge. Sprovvisto di alcun progetto preciso quando giunse al potere, se non quello di ristabilire l’ordine, al momento della caduta il fascismo aveva creato un modello di patriarcato onnicomprensivo, che si differenziava dai regimi liberali, ma anche dalla Germania nazista e dal Giappone imperiale. Per capire come ciò abbia influenzato la condizione delle donne nella società italiana e come le donne stesse abbiano registrato i mutamenti di quell’epoca, Victoria de Grazia si avvale di una vasta gamma di fonti – dagli archivi politici alle statistiche sull’aborto, dal romanzo rosa alle leggi sulla paternità – cogliendo l’operato di un sistema tanto più subdolo perché normalizzato. Forte di una prospettiva più ampia, alimentata dagli studi coloniali, post-coloniali e di genere, e sostenuta dal cambiamento della storiografia femminista, l’autrice estende oggi il campo di indagine a questioni rimaste inesplorate, tra cui il ruolo che il regime attribuì alle «colonizzatrici», impegnate a rafforzare l’immagine dell’Italia quale «nazione superiore». «Il risultato – scrive de Grazia – fu una società di frontiera che offriva alle donne bianche maggiori libertà che nella metropoli, ma al contempo le imprigionava nei concetti imperiali di prestigio razziale e status sociale».
Il libro non solo resta un punto di riferimento per chiunque voglia conoscere e approfondire quei decenni, ma si conferma un inesauribile scavo nella memoria collettiva del paese, con l’ambizione di collegare il passato al presente e colpire al cuore il sistema patriarcale di stampo fascista».

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Victoria de Grazia

Storia delle donne nel regime fascista
Traduzione dall’inglese:
Stefano Musso e Filippo Benfa
576 pagine * 24 euro
Marsilio


Papiroflessia

La casa editrice Graphe.it diretta da Roberto Russo ha compiuto 18 anni.
L’avvenimento, come si può leggere al link precedente, ha avuto vasta eco sulla stampa e sul web premiando anche l’eccellente lavoro svolto dall’Ufficio Stampa 1A Comunicazione, guidato da Anna Ardissone e Raffaella Soldani, che promuove le pubblicazioni dell’Editrice.
A proposito, consiglio uno sguardo al raffinato catalogo.

Graphe.it, diventata maggiorenne, festeggia il compleanno con un testo tanto originale quanto raffinato, una sorta di libro di sabbia, con frasi come granelli colorati di un mandala che scivolano fra le dita di chi legge.
Titolo: Papiroflessia Di libri e di lettura.
L’autore è Guillermo Busutil
Opinionista e critico letterario, Guillermo Busutil scrive per “La Vanguardia” in qualità di critico d’arte, per le riviste Litoral, El Maquinista de la Generación e Lacalma.
Ha diretto la rivista Mercurio facendola diventare una delle più diffuse pubblicazioni letterarie della Spagna. Presente in varie antologie, è autore di numerosi libri, come anche di cataloghi di mostre. Nel 2017, l’Associazione della stampa di Malaga gli ha conferito la Medaglia d’onore per il giornalismo alla carriera e l’Ateneo di Malaga la Medaglia d’oro per la cultura. Nel 2021 ha ricevuto il Premio nazionale di giornalismo culturale da parte del Ministero della cultura spagnolo. È membro della Real Academia de las Buenas Letras di Barcellona.

Che cos’è la papiroflessia?
Chi non ha completato la scuola dell’obbligo può trovare risposta a quella domanda (e anche una dichiarazione di Guillermo Busutil) con un CLIC .

Il volume si avvale delle postille di Antonio Castronuovo e Massimo Gatta.

Dalla postilla di Castronuovo.
«Impossibile scorrere queste pagine con la consueta strategia di lettura, quando ci ritagliamo un tempo di pace interiore, apriamo un libro con l’intento di leggere almeno dieci facciate e ci accovacciamo in poltrona; oppure ci incamminiamo con passo distratto, quello gravato – per intenderci – dal rischio d’inciampo in sporgente radice. Impossibile agire così, e per una semplice ragione: l’opera è formata da circa ottocento libri, quante sono le tarsie che compongono questo mosaico di prose brevi, anzi brevissime. Ogni tessera attira lo sguardo, ogni frammento si staglia sulla pagina a disdegno dei circostanti. Ognuno degli ottocento libri esercita il peso specifico di più pagine: reclama quiete, pretende una pigra sosta di raccoglimento».

Dalla postilla di Gatta.

«Amici lettori – o, forse, meglio “amici”, senza “lettori” – se avete deciso per qualche arcano motivo, per scelta o per vocazione, vendetta o altro, di non leggere più libri, di non leggere affatto o di non possedere alcun libro, allora tenetevi ben lontani da questa biblioraccolta di Guillermo Busutil. Perché? Beh, perché questo non è un libro, così come la pipa di Magritte non è una pipa. Ma come? direte. Come è possibile che questo libro di Busutil, fatto di carta, caratteri, copertina, aforismi (li ho contati, sono 737), inchiostro e prezzo di copertina non sia un libro? Come dovrebbe essere allora un libro? Avete ragione. Infatti questo libro di Guillermo Busutil è un libro e nello stesso tempo non lo è. Le cose si complicano perché, alla fine e forse da sempre, la lettura è difficile, così come la bellezza di cui parlava il poeta americano Ezra Pound».

Dalla presentazione editoriale.

«Nelle pagine di “Papiroflessia” abitano brevissime meditazioni tutte dedicate alla lettura e all’amore per la parola scritta; non veri e propri aforismi, non versi poetici, forse le due cose insieme. O forse, invece, più che di frasi si tratta in qualche modo di oggetti, che hanno una funzione in sé ma che flessi, ripiegati su loro stessi più e più volte, restituiscono all’occhio di chi legge una realtà concreta, sfaccettata, le cui tre (o più?) dimensioni stimolano l’intelletto a cercare nuove prospettive».

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Guillermo Busutil
Papiroflessia.
Traduzione di Roberto Russo
Postille di
Antonio Castronuovo e Massimo Gatta
88 pagine * 15.90 euro
Graphe.it


Corpi dipinti


Il primo tatuaggio risale a 5300 anni fa, se non se ne scoprano in futuro di più antichi.
Fu trovato in un ghiacciaio in Alto Adige su di un corpo diventato famoso, chiamato: Otzi.
Da Otzi a cantanti rock, da aborigeni australiani a nerd londinesi, da indiani Sioux a affiliati di camorra, da pirati salgariani a ragazze trap, decorare il proprio corpo può avere un duplice significato. Appartenenza a un gruppo o a una tendenza sociale oppure rivendicare la propria personalità e unicità.
Tanti gli stili, per uno sguardo sui principali: CLIC.
Per uno sguardo sul rapporto fra arti visive e tatuaggio alcuni articoli si trovano QUI.
Già, perché in questi ultimi anni ci sono state alquante mostre su questa pittura su corpo.
Ne ho visto più di una, ma quella che ricordo fra le più complete e accompagnata da plurali ragionamenti orali e scritti sull’uso del tatuaggio risale al 1985 intitolata “L’asino e la zebra” Ideata e realizzata da Simona Carlucci. L’esposizione si avvalseanche di un contributo del semiologo Paolo Fabbri che circa il tatuaggio contemporaneo così scrisse: «Il tatuaggio moderno esce dalla logica della società segreta gerarchizzata, che espone i suoi limiti, esce dalla lotta del marginale che urta frontalmente contro il potere, per entrare a fare parte di un circuito di comunicazione in cui i segni si accumulano in una specie di vertigine assoluta e di assoluta reversibilità. Per cui il tatuaggio riapparirà circolarmente e scomparirà con lo stesso ritmo con cui accorceranno o si allungheranno le gonne (…) L’altra differenza importante è che in passato si trattava quasi sempre di casi di autotatuaggio o di casi in cui tatuato e tatuatore appartenevano a uno stesso gruppo. Oggi ci si fa tatuare dal professionista nello spazio della boutique, spazio aperto, consumabile, mentre prima il tatuaggio veniva praticato in una zona segreta, di solito nell’istituzione totale – nave, prigione, manicomio. E proprio questo faceva sì che esso si prestasse ad un sistema di svelamento. Nel tatuaggio moderno non c’è nessuno svelamento, tutto è già in qualche modo dato. Quindi il discorso istoriato diviene discorso stereotipato, dal punto di vista del contenuto interno del tatuaggio».

La casa editrice il Saggiatore ha pubblicato un denso saggio su questo tema: Corpi dipinti L’umanità in 21 tatuaggi
L’autore è Matt Lodder
Nato a Londra nel 1980 è tra i più importanti esperti di storia dei tatuaggi.
Docente di Storia e Teoria dell’Arte presso l’Università dell’Essex, le sue ricerche riguardano principalmente la storia del tatuaggio occidentale dal XVII secolo a oggi.

Ventuno tatuaggi, recita il sottotitolo di questo libro. In realtà si tratta di ventuno capitoli ciascuno dei quali esplora un momento di questa pratica inquadrandola dal punto di vista storico e geografico.
Scrive Lodder: “Il tatuaggio è un mezzo, non un fenomeno. Per tutti quelli che non si sono mai tatuati, il semplice e doloroso atto di inserire nella pelle un ago imbevuto d’inchiostro
rappresenta l’elemento saliente di questa procedura. In un’ottica del genere un tatuaggio realizzato con un osso di tacchino nell’antica America del Nord e uno minuziosamente ornamentale sulla schiena di un ricco viaggiatore in visita in Giappone nel 1880 sono intesi, per amor di convenienza, come la stessa cosa, quantomeno a un livello di base. Le domande che le persone non tatuate troppo spesso rivolgono a quelle tatuate – «Ti ha fatto male?», «Come farai da vecchio?» – rivelano alcune ansie di fondo su una pratica che, in sostanza, è rimasta pressoché invariata nel corso della storia dell’umanità.”

Dalla presentazione editoriale.

«Che siano a colori, in bianco e nero, piccole iniziali sulle caviglie o arazzi che coprono tutto il corpo, che siano realizzati in una bettola del porto o con una lama e della fuliggine, i tatuaggi fanno parte da sempre della nostra storia. Osservando le tracce che gli esseri umani hanno impresso sulla loro pelle, possiamo comprendere persone, luoghi e momenti storici.
Siamo abituati a pensare alle opere d’arte nei musei come a dei portali di accesso al nostro passato, ma a volte sembriamo ignorare che un ago, nel forare la pelle, deposita nel derma non solo l’inchiostro ma anche la storia delle nostre civiltà. Il corpo è una tela bianca che abbiamo imparato a dipingere, incidere, colorare, fare portatrice di messaggi e testimone della nostra esistenza terrena. L’urgenza di comunicare attraverso dei segni è una caratteristica fondamentale dell’uomo, e poche forme d’arte hanno l’immediatezza e l’intimità di un tatuaggio.
Matt Lodder descrive i tatuaggi fatti per amore, per lealtà, per ribellione e spionaggio, offrendo un’interpretazione unica dell’evoluzione umana. Un giro del mondo in 21 creazioni indelebili raccontate attraverso gli individui che hanno lasciato segni permanenti non solo sulla propria pelle ma anche nel susseguirsi dei secoli».

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Matt Lodder
Corpi dipinti
Traduzione di Ludovica Marani
384 Pagine * 29.00 Euro
Il Saggiatore


l libro dei risvolti

Quest’anno ne avrebbe compiuto 100 Italo Calvino (Cuba, 15.10 1923 – Siena, 19. 9. 1985).
Cosmotaxi lo ricorda con il volume – a cura di Luca Baranelli e Chiara Ferrero – uscito in una nuova, ampliata edizione: Il libro dei risvolti che, come chiarisce il sottotitolo, raccoglie: Note introduttive, quarte di copertine e altre scritture editoriali.

Dall’Introduzione di Tommaso Munari. “Sin dal suo ingresso all’Einaudi nel 1947, Italo Calvino si distinse per la spiccata abilità nello scrivere risvolti, o meglio testi a essi equiparabili: schedine, quarte e fascette. Non a caso gli furono assegnate la responsabilità dei ‘servizi stampa’ e la direzione del ‘Bollettino di informazioni culturali’ (1947) un quindicinale ciclostilate con cui la casa editrice informava giornalisti e librai sugli ultimi titoli pubblicati. Un compito svolto con tale abnegazione da trasformarsi presto in un’ossessione”.

Dalla presentazione editoriale del “Libro dei risvolti”.

«Non mi raccontare di più. Fammelo leggere» intima Ludmilla al Lettore in Se una notte d'inverno un viaggiatore. Saper suscitare la voglia di leggere è una delle grandi doti di Italo Calvino, che sin dal suo ingresso all'Einaudi si distinse per le efficacissime "scritture editoriali": note introduttive, risvolti e, quarte di copertina, schede bibliografiche. Paratesti, insomma, la cui formula è: il minimo di parole, il massimo di significato. Fulminanti nella loro brevità, alcuni di questi testi possono essere considerati veri e propri microsaggi in grado di condensare in poche righe il senso di un romanzo, la personalità di un autore. Sintonizzati sulla "musica" e sul ritmo della scrittura di Calvino, profondi conoscitori della sua attività einaudiana, Chiara Ferrero e Luca Baranelli hanno saputo riconoscere i paratesti attribuibili allo scrittore e allinearli in questa ampia e preziosa silloge. In essa affiorano i nomi più vari, dagli amici einaudiani (Cesare Pavese, Natalia Ginzburg, Elio Vittorini) ai grandi narratori del dopoguerra, fino ai classici e agli scrittori internazionali, francesi, americani soprattutto, che spesso proprio Calvino fece conoscere al lettore italiano. Affiorano qua e là anche elementi della biografia di Calvino, le sue opinioni politiche e letterarie, le sue frequentazioni. Ma emerge soprattutto la sua figura di scrittore di professione, cui l'intensa attività di lettore imposta dal lavoro editoriale fornì un impareggiabile strumento di confronto con colleghi e maestri: la presentazione di un libro diventa così occasione per intervenire nel dibattito culturale del tempo. Le sue parole arrivano dunque a noi come preziosa testimonianza di una stagione letteraria irripetibile, ma anche come originali e acute riflessioni sulla letteratura e sul mondo».

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Italo Calvino
Il libro dei risvolti
A cura di
Luca Baranelli
Chiara Ferrero
Introduzione di Tommaso Munari
430 Pagine * 15.00 Euro
Mondadori


16 ottobre 1943

Tra gli avvenimenti crudeli che hanno colpito Roma nel secolo scorso, una dei più terribili si verificò il 16 ottobre '43.
Quel giorno, infatti, ci fu il più grande rastrellamento contro gli ebrei in Italia; i nazisti deportarono dalla capitale oltre mille ebrei, in maggioranza donne e bambini.
Furono portati ad Auschwitz, solamente in 16 tornarono dal campo di sterminio.
Tempo fa ebbi il piacere d’intervistare Anna Foa in occasione dell’uscita del suo libro Portico d'Ottavia 13 che porta il lettore, attraverso la microstoria di un solo edificio e dei suoi abitanti, nella macrostoria di una tragedia.
Da quell’incontro ne estraggo un momento.
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Oltre alle leggi razziali, il fascismo quali responsabilità dirette ha avuto nei nove mesi d’occupazione nazista di Roma?

Anna Foa: Il fascismo ha avuto responsabilità primarie negli arresti e deportazioni degli ebrei romani dopo il 16 ottobre 1943. Come nel resto d’Italia, a partire dal novembre-dicembre del 1943, dichiarando gli ebrei nemici dell’Italia, il regime di Salò si era assunto in prima persona il compito della caccia agli ebrei che i nazisti, che erano impegnati sul fronte militare, non erano in grado di condurre efficacemente. A Roma come altrove, perciò, la polizia italiana aderente alla Repubblica di Salò era impegnata nella cattura degli ebrei. Il questore Caruso, nominato a Roma all’inizio di febbraio 1944, aveva tuttavia scarsa fiducia nella rete dei commissariati di zona, e creò dei gruppi speciali di polizia addetti all’arresto degli ebrei. Oltre a questi, vi erano a Roma bande di delinquenti che agivano nella cattura degli ebrei sotto il nome di SS italiane, rispondendo direttamente a Kappler, quali la banda Cialli Mezzaroma e quella di Renato Ceccherelli. Queste bande agivano principalmente sulla base di delazioni. Un gran numero degli ebrei arrestati a Roma nel periodo successivo al 16 ottobre, in tutto più di mille, furono arrestati dagli italiani, e fra loro tutti gli abitanti della Casa al numero 13.

I nazisti durante il rastrellamento possedevano elenchi delle persone da deportare.
Chi aveva redatto quelle liste? I tedeschi? Poliziotti italiani?

Anna Foa: Le liste furono il frutto del lavoro congiunto dei nazisti di Dannecker e di poliziotti italiani di Salò, preposti ad aiutare i nazisti nell’organizzare le liste per quartiere e edificio e nel collazionare le diverse liste esistenti. Alla base delle liste era il Censimento degli ebrei italiani, fatto da Mussolini nel 1938, periodicamente aggiornato e presente nelle Questure, nelle Prefetture e in alcuni commissariati. Esse sono state probabilmente ulteriormente aggiornate e corrette con il ricorso alle liste dei contribuenti della Comunità, sequestrate dai nazisti il giorno successivo all’episodio della raccolta dell’oro e, secondo alcuni, con il confronto con le liste generali degli iscritti alla comunità. Su questo punto, la discussione è stata accesa fin dal dopoguerra e resta tuttora viva perché la comunità ha sempre negato che le liste degli iscritti siano state sequestrate dai nazisti.

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La politica antisemita è spesso confinata nella Germania hitleriana quasi non fossero esistite in Italia le leggi razziali determinando la perdita dei diritti civili per 58mila nostri connazionali.
Infamia che discendeva dal ‘Manifesto della Razza’, pubblicato il 14 luglio 1938, firmato da 10 scienziati italiani (i nomi: Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Dosaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari), sorretti da altre 329 firme; per sapere come agirono consiglio la lettura del volume di qualche anno fa "I dieci" scritto da Franco Cuomo che così conclude le pagine: “Volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. E ci riuscirono. In prima persona. Perché lo furono”.


Vita di un reporter

Pare che il maggiore numero di battutacce attraverso aforismi, poesie, film, commedie teatrali, spettacoli tv e di cabaret sia riservato a tre categorie professionali, avvocati, medici e giornalisti. Sorpresi di non trovarvi i politici? Nessuna sorpresa, molti di loro appartengono a quelle tre categorie e gli insulti si raddoppiano.
Tra tutti gli estensori di maldicenze sui reporter, Mark Twain lotta per avere il primato, sentite che cosa dice: “Reporter è colui che distingue il vero dal falso... e pubblica il falso”.
Oppure: “Divenni reporter. Ho odiato farlo ma non ero riuscito a trovare un lavoro onesto.”
Del giornalista è incisa nella nostra memoria soprattutto l’immagine del reporter degli schermi hollywoodiani che con il suo fare ardito svela il malaffare di grandi imprenditori oppure è coinvolto lui stesso in torbidi traffici. Ma, in fatto di fiction, la peggiore avventura, a mio avviso, la passa Jack Nicholson nel film di Antonioni “Professore reporter”, certo è sfortunato proprio, poveraccio, ricordate la trama?
Né va dimenticato Kent Brockman dei cartoni animati, definito dal New Music Express “il più grande reporter immaginario di tutti i tempi”. Famosa la brusca battuta con la quale conclude sempre i suoi servizi: "Questo è tutto, andate all'inferno!".

A un famoso nome appartenuto a quel mestiere è dedicata una recente pubblicazione della casa editrice Fefè Vita di un reporter tra papi, presidenti, ribelli, reietti e terroristi.
Si tratta delle memorie di una celebre firma, quella di Victor Simpson.
Giornalista di lungo corso, direttore di Associated Press Italia, membro del Consiglio direttivo della Stampa Estera nel nostro paese. Professionalmente debutta nell’AP del New Jersey negli anni ‘60, coprendo – come si usa dire in gergo – la rivolta che nel ’67 provoca 32 morti fra i neri; l’anno successivo è trasferito a NY e nel ’72 corona il suo sogno: essere a Roma.
Qui per mezzo secolo ha seguito presidenti e soprattutto papi per cui è riconosciuto esperto vaticanista.
Durante il suo lungo periodo italiano proverà anche il più grande dolore della sua vita.
Vede nel 1985 assassinata la figlia dodicenne nell'attentato di Fiumicino.

Scrive Leo Osslan in Prefazione: «Azzarderei a definirlo un uomo “di frontiera”: […] Nasce e cresce in una famiglia ebraica e borghese dell’Upper West Side di new York. Ma nessuno di loro è osservante, forse la madre più degli altri, ma comunque: “Mia madre era una professionista come mio padre, non la madre ebrea stereotipata”, ci dice Victor. Quanto a “frontiera” – sociale, culturale e economica – l’Upper West Side degli anni ’40/’50/’60 in cui cresce è un punto di convergenza multietnico, multireligioso e multiculturale – peraltro in progressivo degrado – e lì suo padre fa l’avvocato in cause legate ai diritti civili […] Quando Victor corona il suo sogno e diventa corrispondente estero di AP, nel 1972, oltrepassa e ingloba persino la frontiera tra due continenti e viene inviato, lui di origini ebraiche, a Roma, la capitale del Cattolicesimo. Qui sposa l’amata Daniela, cattolica, che vive, ironia della sorte, ai confini del ghetto ebraico. Ma soprattutto la sua permanenza a Roma lo renderà un esperto vaticanista, in rapporto con quattro Papi. Intensa è la relazione con Giovanni Paolo II, uomo di frontiera per eccellenza, che lo ha gratificato di una particolare forma di familiarità: “Più che influenzata dal mio rapporto con lui, penso che la mia vita ne sia stata estremamente arricchita”

Dalla presentazione editoriale

«Un grande giornalista della vecchia scuola della maggior agenzia del mondo racconta la propria vita professionale a contatto con grandi personalità laiche e non. Ma anche il suo privato nella sempre amata Italia dove trascorre quasi mezzo secolo e dove vede vittima l’adorata figlia dodicenne nell’attentato di Fiumicino del dicembre 1985. Un uomo “di frontiera”, un carattere nutrito dalla vita stessa con una sensibilità accentuata, una amabilità particolarmente empatica e una gentilezza al di là dei formalismi. Pubblico e privato, anche drammatico, si fondono nel racconto di Victor Simpson».

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Victor Simpson
Vita di un reporter
Prefazione di Leo Osslan
128 pagine con illustrazioni
Euro 13.00
Fefè Editore


Illustrazioni per libri inesistenti

È questo il titolo di una mostra e di un volume, pubblicato da Electa, che riproduce le opere di undici artisti (Gianfranco Baruchello, Giosetta Fioroni, Lucio Fontana, Fausto Melotti, Franco Nonnis, Gastone Novelli, Achille Perilli, Carol Rama, Giovanna Sandri, Toti Scialoja, Luigi Serafini) che furono in rapporti di amicizia e collaborazione con Giorgio Manganelli, o sui quali questi ebbe modo di scrivere i testi raccolti di recente nel volume “Emigrazioni oniriche”.
Verrà esposto fra l’altro, per la prima volta nel suo insieme a Roma, il ciclo di ventitré tavole realizzate da Gastone Novelli nel 1964 all’apparire dell’opera prima di Manganelli, “Hilarotragoedia”.
La pubblicazione di Electa esce in occasione della mostra omonima al Museo di Roma in Trastevere a cura di Andrea Cortellessa (catalogazione delle opere grazie al prezioso lavoro di Paola Bonani), che, a mio avviso, e non soltanto a mio avviso ma di molti, è tra le maiuscole firme del nostro scenario colto e non quello culturale (il distinguo è copyright Angelo Guglielmi), vale a dire storico e interprete delle idee.
Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università Roma Tre. Fra le sue ultime pubblicazioni Il libro è altrove. Ventisei piccole monografie su Manganelli (Sossella 2020), Filologia fantastica. Ipotizzare, Manganelli (Argolibri 2022) e la cura di Emigrazioni oniriche. Scritti sulle arti di Manganelli (Adelphi 2023); ma ha curato anche i suoi La favola pitagorica (ivi 2005), L’isola pianeta (ivi 2006) e, con Paolo Terni, Una profonda invidia per la musica (L’orma 2014) nonché, con Marco Belpoliti, i due numeri dedicatigli dalla rivista «Riga» nel 2006 e nel 2022.
È tra i fondatori di «Antinomie. Scritture e immagini» e collabora al Corriere della Sera

Un brano che estraggo dalla presentazione editoriale di “Illustrazioni per libri inesistenti”.
«Se nella sua traiettoria sinora negletta di osservatore eccentrico dell’arte Manganelli alternava uno sguardo divagante e desultorio (come nella rubrica Salons, raccolta nel 1987 nel volume omonimo) a una dissimulata competenza da connoisseur su repertori come la pittura del Sei e del Settecento, nello scrivere degli artisti del suo tempo (con alcuni dei quali la confidenza si rivela maggiore che coi letterati coevi), la distanza retorica si accorcia e la sua diventa una conversazione fra pari e diseguali, «esigui e iracondi» ai quali non fa mancare mai la sua solidarietà, il suo affetto, la sua – per una volta sincera – ammirazione. All’introduzione di Andrea Cortellessa, che ricostruisce questa rete di interscambi, seguono approfondimenti di altri studiosi su alcuni di questi rapporti così fecondi. Ne emerge un paesaggio mosso e sussultorio, nevrotico e feroce negli accostamenti e nella fame reciproca che accomunava, allora, gli artisti delle diverse discipline».

Ho avuto il piacere di conoscere Giorgio Manganelli, a Roma abitava un indirizzo che più manganelliano non si può: Via Chinotto 8, interno 8.
Equilibrista, su filo teso fra nuvole, Manganelli esercitò sulla narratività la sua vena ironico-umoristica specialmente in “Centuria” - ‘Cento piccoli romanzi fiume’, recita il sottotitolo di quel suo volume.
Attraversare i suoi testi significa viaggiare in una cartografia nella quale le coordinate geografiche servono a identificare con certezza luoghi smarriti; memorie di sensazioni e voci rivissute con una scrittura musicale che va dall’Improvviso al Capriccio.
In una delle sue radiofoniche “Interviste impossibili”, intervista Dio e gli fa dire quello che forse lui Manganelli pensa dell’umanità: “Non vi amo, ma odiarvi è troppo faticoso, diciamo che mi fate schifo!”.
Una delle sue folgori che preferisco è: “Ogni libro che sia un 'romanzo' nasconde qualcosa di losco".

Al Museo di Roma in Trastevere è in corso anche un ciclo di incontri che per chi a Roma abita o vi è di passaggio merita d’essere visitato nelle date indicate nel precedente link.



L'arte dell'invisibilità


Molti sociologi sostengono che la nostra epoca è quella nella quale noi umani abbiamo la visibilità come un traguardo sociale fra i più ambiti, ma al tempo stesso mai come in questi anni si è tenuto alla privacy fino a varare in più paesi leggi per proteggerla. Perché la velocità e la permeabilità delle comunicazioni che abbiamo raggiunte permettono sì di trasmettere la visibilità moltiplicandone gli effetti, ma permettono altresì anche molti sguardi indiscreti sul nostro privato.
Internet, prima fra tutte, favorisce questa volontà d’essere conosciuti in tutto il mondo. Ciò accade, però, anche aldilà della voglia d’essere noti, cioè anche se non lo vogliamo. Qualcuno, non ricordo chi, ha detto “Noi crediamo di guardare il computer ma è il computer che guarda noi”. Anche se non è montata una telecamera in cima al monitor.
In molti pensano che difendere i propri documenti sia cosa che riguardi sigle commerciali o industriali che hanno veri e propri segreti da schermare a prevedibili spioni, ma pur non avendo nulla di segretissimo da nascondere, è sommamente sgradevole che altri ficchino lo sguardo sulle nostre foto, mail, amministrazione, diari, e altro ancora. Del resto, accanto a quella voglia di visibilità corre parallela forse anche il contrario. Chissà, forse non è un caso che il progetto di un tessuto che rende invisibili più non appartiene solo alla fantasia di Wells con il suo Uomo Invisibile, ma è oggi realtà realizzata con Quantum Stealth? È l'ultimo brevetto della Hyperstealth Biotechnology: un tessuto che rende le persone e gli oggetti invisibili; al momento ha soprattutto scopi militari, ma chissà se un giorno non avremo un capo d’abbigliamento siffatto nel nostro armadio.
Ma perché occultare i corpi e non anche le relazioni che hanno? Che abbiamo?
Come difenderci se non da spie professioniste ma da tanti ficcanaso in giro?

La casa editrice Apogeo ha pubblicato un libro che istruisce su come fare:
Titolo: L’arte dell’invisibilità di Kevin D. Mitnik con Robert Vamosi.
Il sottotitolo è di lunghezza settecentesca che però ben spiega contenuti e obiettivi del volume: Il più famoso hacker del mondo insegna come sparire nell'era in cui social media e big data stanno uccidendo la privacy.

Mitnik è stato a lungo l'hacker più famoso e ricercato al mondo, appellativo che si è guadagnato per via di una serie di violazioni ai sistemi informatici del governo degli Stati Uniti e di una caccia all'uomo che ha appassionato pubblico e media. Arrestato nel 1995, è stato scarcerato nel 2000 ed è ora CEO dell'azienda di consulenza e sicurezza informatica Mitnick Security Consulting LLC. Tra i suoi clienti figurano numerose aziende Fortune 500 e diversi Stati. Autore best seller, vive a Las Vegas e viaggia in tutto il mondo come relatore di spicco sulla sicurezza informatica.
Vamosi, giornalista esperto di cybersecurity, è analista senior per Mocana, una startup che si occupa di sicurezza dei dispositivi mobili e dell'Internet delle cose.
È anche redattore di PCWorld, blogger di Forbes.com ed è stato redattore senior di CNET.

Che cosa insegna questo volume?
Quattro principali cose: proteggere i nostri dati con una buona gestione delle password; nascondere il vero indirizzo IP ai siti che visitiamo; evitare che il nostro computer sia tracciato; difendere l’anonimato.
Di solito non uso segnalare l’Indice dei libri che recensisco, ma in questo caso lo ritengo necessario oltre che utile per orientare chi sta leggendo queste righe.

Capitolo 1 - La tua password può essere craccata!
2 - Chi altro legge la tua posta elettronica?
3 - Intercettazione 101
4 - Niente crittografia, niente da fare
5 - Ora mi vedi, ora non mi vedi
6 - Every Mouse Click You Make, I’ll Be Watching You68
7 - Paga, o la pagherai!
8 - Crederci sempre, fidarsi mai
9 - Niente privacy? Fattene una ragione
10 - Puoi correre, ma non ti puoi nascondere
11 - Ehi KITT, non condividere la mia posizione
12 - La sorveglianza di Internet
13 - Cose che il tuo capo non ti vuole far sapere
14 - L’anonimato è una dura lotta
15 - L’FBI trova sempre il suo uomo
16 - Padroneggiare l’arte dell’invisibilità

Dalla presentazione editoriale.

«In Rete la privacy sembra essere un lusso per pochi: ogni passo viene tracciato, ogni azione osservata e registrata mentre grandi aziende e governi vogliono acquisire e sfruttare i dati degli utenti. In questo libro Kevin Mitnick svela ciò che accade dietro le quinte, all'insaputa degli utenti, e insegna trucchi, tecniche e strategie per aumentare la sicurezza e tutelare la privacy. Si va dal creare password inviolabili al riconoscere mail infette e phishing, dall'utilizzare in maniera consapevole Wi-Fi pubblici al fortificare i punti di accesso al proprio computer.
Una lettura pratica e formativa, ricca di sorprendenti esempi reali e soluzioni efficaci, perfetta per apprendere l'arte dell'invisibilità nell'epoca in cui Internet e i social media sono l'occhio del Grande Fratello, e la nostra vita cibo per i big data».

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L’arte dell’invisibilità
Kevin D. Mitnik
con Robert Vamosi
256 pagine * 23.75 euro
Formato kindle 8.49 euro
Apogeo


Artemide's / di Artemide

Artemide chi era costei?... no, non se lo chiese don Abbondio, lui restò perplesso di fronte al nome di Carneade. Proprio mentre fece quel brutto incontro con i Bravi (bravi, si fa per dire) di Don Rodrigo.
Artemide chi era costei me lo sono chiesto io. Un dizionario mi ha ricordato che Artemide era una divinità greca, dea della foresta, della caccia, degli animali selvatici, cui spettava un arduo còmpito: essere la protettrice della verginità e della pudicizia.
Foresta… bosco… alberi… ah, ecco perché si chiama Artemide’s / di Artemide + Lerosa Chronicles un libro pubblicato da Quodlibet che documenta il lavoro di Margherita Morgantin, Italo Zuffi ,T-yong Chung tre artisti che sono intervenuti sul paesaggio intorno a Cortina, mossi dall’intento di realizzare delle opere in grado di integrarsi con la Natura e spingere il visitatore a scoprire sentieri, fratte e boscaglie più misteriosi del territorio dolomitico.

Un comunicato stampa spiega iI contenuti della pubblicazione.

«Il progetto editoriale è suddiviso in due parti, che mantengono la propria unità tematica.
Il primo volume, Artemide’s / di Artemide, attraverso l’utilizzo di inedito materiale fotografico in bianco e nero, riflette gli interventi realizzati dai tre artisti lungo il sentiero di Pian de ra Spines. Le opere possono essere lette in una valenza estetica e funzionale, oppure acquisire valore di “offerte” alla natura, ma anche manifestarsi quali tangibili presenze del passaggio di Artemide. Oltre a un’ampia documentazione fotografica, l’opera è accompagnata da interviste e da testi critici che mettono a fuoco le motivazioni che hanno portato alla nascita del progetto artistico e alla stretta collaborazione tra gli artisti e gli artigiani delle Regole, istituzione post feudale che garantisce (e preserva), per conto delle famiglie cortinesi, la proprietà collettiva dei boschi e dei pascoli intorno a Cortina.

Il secondo volume, Lerosa Chronicles, è un diario artistico-scientifico, che contiene i disegni, i dati e i segni raccolti da Margherita Morgantin, dal 15 al 25 luglio 2022, per mezzo di uno spettroradiometro Li-180 durante un periodo di permanenza solitaria a baita Lerosa (2071 metri di altezza), finalizzato allo sviluppo del progetto dell’artista per I giardini di Artemide. Morgantin ha trasformato la piccola baita per pastori incastonata nel paesaggio dolomitico, nelle vicinanze di Forcella Lerosa, in un campo di osservazione meteorologica e astronomica, un luogo dedicato alla meditazione, al disegno e alla scrittura

Progetto editoriale: Associazione Controcorrente con il sostegno di Associazione CerchioStella; progetto grafico: studio òbelo (Milano); fotografie: Matteo Schiavoni.

“Artemide / di Artemide” in due volumi (pp 112+96, euro 26.60) è curato da Fulvio Chimenti e Carlotta Minarelli.
Presentazione a Roma martedì 17 ottobre alle 18.30, al MAXXI Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo.
Interverranno gli artisti e i curatori. Modera: Silvano Manganaro, professore di Storia dell'Arte presso l'Accademia di Belle Arti dell'Aquila».

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Ufficio stampa
Irene Guzman | irenegzm@gmail.com | Tel. + 39 349 12 50 956


Indagine sulla morte di un partigiano

Pochissime volte mi è capitato di leggere in ventitre anni che faccio recensioni su questo sito un libro tanto ricco di fitte documentazioni (date, relazioni, numeri d’archivio, lettere, cartine geografiche riprodotte in foto, minibio dei nomi citati) come mi è capitato di leggere in Indagine sulla morte di un partigiano La verità sul comandante Facio.

L’autore è Pino Ippolito Armino.
Ingegnere e giornalista. Cultore di storia del Risorgimento e della Resistenza, è membro dell’Istituto «Ugo Arcuri» per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. Collabora con il quotidiano «il manifesto» e con il settimanale «Left». Tra le sue più recenti pubblicazioni: “Brigantaggio politico nelle Due Sicilie” (2015), “Quando il Sud divenne arretrato” (2018), “Storia della Calabria partigiana” (2020), “Il fantastico regno delle Due Sicilie. Breve catalogo delle imposture neoborboniche” (2021).

Questo libro fa luce su uno dei tenebrosi episodi pur occorsi in quel luminoso periodo storico della Resistenza che contribuì in modo maiuscolo a liberarci dal nazifascismo.

Riguarda un partigiano: Facio.
Chi era? Lo spiega in sintesi Armino sul Manifesto.
A Facio verrà conferita nel ’62 da Gronchi la medaglia d’argento perché “scoperto dal nemico, si difendeva strenuamente; sopraffatto ed avendo rifiutato di arrendersi, veniva ucciso sul posto”
Quella dizione è falsa.
Facio venne fucilato “in nome del partito comunista” dopo un “processo farsa” come fu definito dal partigiano ‘Tullio’ (favorevole all’epoca alla condanna a morte) testimone oculare di quel giudizio che vide responsabile dell’estrema condanna Salvatore Gabrielli “uomo dal passato oscuro e ambiguo” come scrive Armino.
La cultura e i comportamenti anarchici di Facio non erano amati dai dirigenti comunisti della zona.
Si trattò, quindi, di un’esecuzione dovuta a ben altri motivi da quelli addotti in quel “processo farsa”.
Ancora una cosa. Già anticipata nel libro di Armino. Con la presentazione di questo terribile episodio si desidera non infoltire la vulgata che accredita ai comunisti il maggiore numero di esecuzioni di partigiani dal diverso orientamento politico. Ci sono stati anche casi che hanno visto comunisti assassinati ingiustamente da altri partigiani. Tanto per essere chiari.
E tutto questo è un ulteriore elemento che fa calare un velo di mestizia su quelle pur splendide pagine della Resistenza.

Dalla presentazione editoriale

«Il 22 luglio 1944, Dante Castellucci, nome di battaglia Facio, comandante partigiano del Battaglione Picelli – operante in Lunigiana, sull’Appennino tra La Spezia e Parma –, viene fucilato dai suoi compagni dopo un sommario processo.
Il 27 aprile 1962, per decreto del presidente Giovanni Gronchi, gli viene conferita la medaglia d’argento al valor militare alla memoria, in quanto «scoperto dal nemico, si difendeva strenuamente; sopraffatto ed avendo rifiutato di arrendersi, veniva ucciso sul posto».
In quella inscrizione, però, qualcosa non torna.
Dante Castellucci era calabrese, non un figlio del nord dunque, e questo spiega forse in parte la problematicità della sua memoria. Emigrato giovanissimo in Francia e arruolato nell’esercito italiano, diserta e si rende protagonista della primissima azione partigiana, ancor prima dell’8 settembre e dell’occupazione tedesca, persino prima della caduta del fascismo del 25 luglio 1943. Il 22 giugno assalta con i suoi compagni il poligono militare di Guastalla e si impossessa di armi e munizioni. Verrà arrestato assieme ai fratelli Cervi alla fine del ’43, ma riuscirà a fuggire, evitando di un soffio la fucilazione; accusato – incolpevole – di tradimento, si sposterà sull’Appennino, dove in breve tempo acquisterà fama leggendaria: i bollettini angloamericani riporteranno un’azione nella quale, assieme a soli otto compagni, riesce a tenere testa a 150 nazifascisti per un giorno intero.
Comandante amato, stratega riconosciuto, Facio muore poco più che ventenne consegnandosi docilmente al plotone d’esecuzione partigiano.
Dopo anni di ricerche,”Indagine sulla morte di un partigiano” ricostruisce la vicenda eccezionale di un combattente anomalo, coraggioso e appassionato, con tutti i chiaroscuri che la storiografia seria sa mettere in risalto. Pino Ippolito Arminoci consegna finalmente un resoconto accurato e solido sulla vita e gli ideali di un grande resistente e sui motivi che possono aver portato al tragico epilogo».

Per sfogliare le prime pagine CLIC

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Pino Ippolito Armino
Indagine sulla morte di un partigiano
Pagine 170 * Euro 15.00
Bollati Boringhieri


Rete Fotografia

“Rete Fotografia” è nata nel 2011 a Milano su iniziativa di un gruppo di enti e istituzioni, con la finalità di creare un sistema aperto di collegamenti e relazioni tra realtà pubbliche e private, di promuovere e valorizzare la fotografia attraverso una cultura critica sempre più ampia, aggiornata e qualificata. Costituitasi come Associazione non profit nel 2016, ha organizzato e continua a promuovere incontri, convegni, visite guidate al fine di offrire strumenti di conoscenza e aggiornamento a specialisti e nello stesso tempo diffondere, in modo gratuito, la cultura fotografica a un pubblico anche di non addetti ai lavori.

Ora presenta la IX edizione di Archivi Aperti dal titolo Gli archivi dei fotografi italiani un patrimonio da valorizzare.

Estratto dal comunicato stampa.

«”Archivi Aperti” per Rete Fotografia è un’occasione importante di dialogo con numerose realtà - anche non associate - collocate su tutto il territorio nazionale. Questo le ha permesso in questi anni di allargare notevolmente la ‘rete’, farsi conoscere e creare nuove sinergie. La nuova edizione coinvolge quindi 64 archivi - un terzo in più rispetto alla precedente, di cui 26 nuovi partecipanti - in 13 regioni italiane con una forte adesione a Milano e in Lombardia, dove la manifestazione è nata, ma anche in Piemonte, Centro e Sud Italia, in particolare in Puglia. Inoltre, quest’anno la manifestazione vede la collaborazione di MuseoCity, che promuove l’evento attraverso i suoi canali e la rete di musei e archivi d’artista, nella logica di un maggiore dialogo tra le due realtà.

La fotografia nel nostro Paese è un bene culturale tutelato, ma per gli archivi dei fotografi la realtà odierna si presenta sfaccettata e soprattutto incerta: pochi sono i progetti che ne favoriscono effettiva salvaguardia e valorizzazione, sporadiche le donazioni e le acquisizioni da parte di enti pubblici o privati, che li collochino all'interno del sistema dei beni culturali, e ne facilitano la loro conservazione e fruizione. In molti casi, inoltre, si assiste a scorpori e dispersioni che ne precludono definitivamente la conoscenza.
Dare valore agli archivi dei fotografi oggi significa investire nel lungo periodo sul loro valore culturale, predisponendo risorse economiche per favorirne l’accessibilità, lo studio, la catalogazione e la digitalizzazione, sensibilizzando gli stessi fotografi e garantendo che quel patrimonio possa essere sin d’ora trasmesso e conosciuto da tutti
Molti fotografi professionisti presenteranno i loro archivi e le attività di promozione con incontri negli studi, alcuni collegamenti online e proiezioni di filmati significativi, come i due video con Carla Cerati e Mario Dondero. Tra le nuove adesioni citiamo gli Archivi di Uliano Lucas, Fabrizio Garghetti, Erminio Annunzi e anche le Agenzie Fotogramma di Mimmo Carulli, Italfoto di Talenti e Terzani, Archivio Storico Riccardi Agr Press.
Il convegno di apertura si svolge venerdì 13 ottobre 2023 alle ore 15 al Castello Sforzesco.
L’appuntamento conclusivo – presso la sede milanese di Fondazione AEM, domenica 22 ottobre 2023 alle ore 17 – partirà dalle considerazioni emerse durante l’incontro di apertura per riflettere su tutta la manifestazione
“Archivi Aperti”: un’occasione di confronto tra enti e istituzioni che stanno lavorando per la tutela e la valorizzazione degli archivi dei fotografi italiani, per favorire la più ampia riflessione e delineare possibili risposte ai quesiti più frequenti in vista di concreti e condivisibili orizzonti progettuali. All’incontro partecipano anche alcuni fotografi presentando le diverse scelte operate per la valorizzazione del proprio archivio».
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Archivi aperti si svolge in sedi varie, per conoscerle: CLIC.

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Ufficio stampa | Alessandra Pozzi Tel. +39 338.5965789, press@alessandrapozzi.com

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Archivi Aperti
13 - 22 ottobre 2023
Sedi varie


Biennale del Mosaico Contemporaneo


Forse non tutti sanno che Ravenna fu tre volte capitale di tre imperi e vanta ben otto monumenti dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’Umanità, più noto, invece, è il fatto che la città possegga mosaici ritenuti fra i più belli al mondo.
Non sorprende, quindi che proprio a Ravenna si svolga una Biennale dedicata al mosaico giunta quest’anno alla sua VIII edizione.

Lunga, dalle antiche origini, è la storia del mosaico.
Gli esperti ne colgono le prime tracce alla fine del V secolo a. C. in Grecia,
Ad Atene, Olinto, Pella, sono state trovate composizioni figurative fatte con tasselli di pietra o vetro fissati con mastice a vari supporti.
L’arte del mosaico abbandonò poi i motivi prevalentemente floreali o geometrici per abbracciare soggetti narrativi più complessi con combinazioni di colore più elaborate. Da noi un esempio di quell’evoluzione si ha alla casa del Fauno a Pompei.
Mai si è smesso nei secoli ad esprimersi attraverso il mosaico tanto che arriviamo ai giorni nostri con quella tecnica praticata da grandi artisti quali Gaudì, Guttuso, Severini, Chagall, Cassinari, Sironi, Funi.

Estratto dal comunicato stampa.

«Torna a Ravenna la Biennale di Mosaico Contemporaneo, un appuntamento unico nel suo genere che, per tre intensi mesi, invita ad immergersi in una tecnica dalla storia secolare che non smette di affascinare, alla scoperta delle molteplici e diversificate forme che la rendono viva e pulsante. La mostra del MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna, dedicata ad uno dei più importanti artisti che l’Italia del secondo Novecento abbia espresso, Alberto Burri, apre un ricco cartellone di eventi tra grande arte, design, architettura, creatività e sperimentazione. Dal 14 ottobre 2023 al 14 gennaio 2024, diffusa in tutta la città di Ravenna, l’VIII Edizione della Biennale di Mosaico Contemporaneo a cura di Daniele Torcellini, propone uno sguardo al presente del mosaico sullo sfondo delle testimonianze di epoca paleocristiana e bizantina, annoverate nella Lista del Patrimonio Mondiale dall’UNESCO, ancora fonte inesauribile di stimoli. Monumenti, musei, chiostri, gallerie, laboratori di mosaico, spazi temporanei e simbolici diventano luoghi d’eccezione e occasioni di incontro in cui arte antica e contemporanea si rispecchiano l’una nell’altra, facendo dell’autunno ravennate un appuntamento da non perdere.
La Biennale si estende anche oltre il perimetro delle mura cittadine, con iniziative che toccano Bologna, Faenza, Riccione e le più vicine Fusignano e Sant’Alberto

Mosaico Contemporaneo è un’iniziativa promossa, organizzata e sostenuta dal Comune di Ravenna, Assessorato alla Cultura e al Mosaico e Assessorato al Turismo, coordinata dal MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna e realizzata grazie al sostegno del Progetto del Ministero del Turismo per la valorizzazione di Ravenna come città del Mosaico, della Regione Emilia-Romagna, della Fondazione Raul Gardini, della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e di Romagna Acque Società delle Fonti»

QUI il programma: località, date, orari, nomi.

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Per i redattori della stampa, radio-tv, web:
Ufficio stampa, Sara Zolla
346 8457982 – press@sarazolla.com

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Ravenna
VIII Biennale di Mosaico Contemporaneo
14 ottobre 2023 - 14 gennaio 2024
Informazioni: http://ravennamosaico.it/ita/Home



Marco Polo


Nelle indovinate collane della casa Editoriale Scienza spicca anche per l’originale impostazione grafica quella intitolata “I grandi viaggi”.
Propone una sorta di “Bignami visuali” che consentono d’apprendere la vita di celebri esploratori, condottieri, scienziati del passato, seguendo passo passo le loro imprese attorno al mondo su una mappa lunga 86 centimetri.
I volumi, infatti, sono editi nel formato leporello (si tratta di un formato composto da un'unica striscia di carta ripiegata su se stessa a fisarmonica le cui origini risalgono a molto tempo fa) che mostrano sia il profilo del personaggio (l’infanzia, gli studi, gli incontri, le esperienze, oltre ad approfondimenti e curiosità sull’epoca storica di riferimento) sia su di una grande cartina illustrata le tappe dell’itinerario compiuto dal protagonista.
Come, ad esempio, nella recente pubblicazione dedicata a Marco Polo di cui è autrice Francesca Ferretti De Blonay con illustrazioni di Oyemathias.

Marco Polo, nato nel 1254 e morto nel 1324, grande viaggiatore in un’epoca in cui non esisteva la Guida Lonely Planet né locomozione a motore terrestre o aereo, e si andava a piedi oppure a dorso di mulo o su navi a vela. Immaginate le fatiche per andare, come Marco Polo andò, da Venezia fino a Pechino raggiungendo la corte di Kublai Khan nipote del feroce Gengis Khan, Gengi per gli amici.
Marco Polo ebbe fortuna e si arricchì grazie ad incarichi diplomatici affidatogli, ma non tutto gli filò liscio nella vita. Nel 1294 nel corso di una battaglia contro i genovesi, pur giocando in casa a Curzola (località dalmata ma allora terra governata dai venezian) vide sconfitte le galee della Serenissima, fatto prigioniero e messo al gabbio. Lì in una cella pur sprovvista d’ogni conforto e possibilità di reclami alla conciergerie, dettò le sue memorie a Rustichello da Pisa. Meno male che ebbe la forza e l’ingegno per farlo! Altrimenti non disporremmo della sua opera “il Milione” che non è una guida per trader o un manuale per investitori in Borsa, ma una storia dei viaggi compiuti, delle tante cose che ebbe modo di conoscere: dalla botanica alla medicina, dalla zoologia alla gastronomia dagli usi ai costumi di tanti popoli dei quali aveva attraversato i territori.
Il Milione… già, ma perché si chiama così?
Da tempo si accapigliano, anche venendo alle mani, storici e filologi sull’origine di quel titolo. Secondo alcuni deriva dal soprannome di Marco Polo che, come scrisse il geografo del '500 Giovanni Battista Ramusio, "di quei paesi riferiva tutto a milioni" e infatti "lo cognominarono 'messer Marco Milioni'".
Secondo altri il titolo dell'opera deriva da “Emilione”, nome che l'autore e la sua famiglia usavano per distinguersi dalle diverse altre famiglie Polo che esistevano nel Duecento a Venezia.
Sia come sia, quel libro è un prezioso document d’epoca.

Dalla presentazione editoriale di “Marco Polo”

«Figlio di mercanti veneziani, Marco Polo fu uno dei più grandi viaggiatori del tardo Medioevo. Fu tra i primi europei a viaggiare in Estremo Oriente, attraverso la Via della Seta. Partito in missione con il padre Niccolò e lo zio Matteo, visitò l’Armenia e la Persia, scalò le montagne più alte dell’Afghanistan, sopportò il freddo e il caldo, affrontò guerrieri e ladri per unirsi a Kublai Khan, imperatore dei Mongoli, trascorrendo con lui 16 anni e servendolo in varie missioni diplomatiche in tutto il continente asiatico.
Dal suo lungo viaggio è nato un racconto, scritto in francese da Rustichello da Pisa. Il libro delle meraviglie, noto come Il Milione, descrive con grande realismo i Paesi attraversati, la fauna e la flora, i popoli incontrati, i loro usi e costumi, la loro religione. Grande osservatore delle culture umane, Marco Polo ha indubbiamente avvicinato Oriente e Occidente, dando una nuova rappresentazione del mondo.
Oltre alla grande mappa che mostra in modo preciso il percorso compiuto, il volume offre approfondimenti sulle tappe più importanti del viaggio, sulle vicende socio-politiche del tempo e sulle meraviglie incontrate lungo la Via della Seta».

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Francesca Ferretti De Blonay
Marco Polo
Illustrazioni di Oyemathias
Età: da 8 anni
12 pagine * 9.90 euro
Editoriale Scienza


Domenico Quaranta


Fra i giovani critici delle arti visive contemporanee molto stimo Domenico Quaranta.
Nel suo sito web, nella sezione Newsletter (testo sia in inglese sia in italiano) annuncia due mostre da lui curate allo Spazio Vitale di Verona e alla Biblioteca Geisser di Torino.
L’esposizione veronese è una personale di Theo Triantafyllidis.
Quella torinese è una collettiva di 30 artisti.
Il tutto ben vale il tempo della lettura.


Il linguaggio del video

La casa editrice Carocci ha pubblicato una nuova edizione di un libro imperdibile per chi lavora o studia il mondo elettronico delle immagini.
Titolo: Il linguaggio del video.
Ne è autrice Sandra Lischi, una delle grandi firme di quello scenario.
Già professoressa ordinaria di cinema, fotografia e televisione all’Università di Pisa, collabora tuttora con lo stesso Ateneo affiancando all’attività didattica e di ricerca la cura di convegni e rassegne video internazionali.

Così presenta la nuova edizione del suo volume.

«Il video è figlio della tecnologia televisiva. La parola assume oggi i più diversi significati, ma in questo volume con “video” si intende un medium che, nato dalla televisione, se ne è staccato, costituendo un variegato universo indipendente e creativo. L’esplorazione del linguaggio del video implica quindi una conoscenza del funzionamento della tv, ma anche una capacità di vedere le connessioni tra il video e gli altri media, soprattutto in ambito sperimentale e di ricerca, e di verificare l’uso artistico e poetico della nuova tecnologia, con cui autori e artisti costruiscono percorsi di senso nuovi, in sintonia con le esperienze d’avanguardia del Novecento. Il libro esplora quindi le caratteristiche del video in sessant’anni di produzione e di ricerca, dalle prime distorsioni dell’immagine elettronica alla produzione diffusa consentita dalle tecnologie digitali, dalle videoinstallazioni ai nuovi generi audiovisivi, dal dialogo con le reti tv alle esperienze più marcatamente poetiche e artistiche, accennando anche al dibattito teorico e critico. Il linguaggio del video è analizzato a partire dal confronto-scontro con il panorama mediatico e si caratterizza per l’uso degli effetti, il rapporto tra suono e immagine, le contaminazioni con altri linguaggi, l’invenzione di nuove modalità di costruzione dell’opera e della sua relazione con lo spettatore, fino alle più recenti innovazioni e sperimentazioni con il digitale.
Dall’anno della prima edizione di questo libro (2005) a oggi, il panorama mediatico è radicalmente mutato, e questa nuova edizione, con l’aggiunta di un capitolo finale e l’arricchimento della bibliografia, intende offrire elementi di informazione e di riflessione per un necessario aggiornamento»

Dalla presentazione editoriale

«Il video è un medium elettronico che fin dagli anni Sessanta del Novecento ha generato esperienze e produzioni indipendenti, creative, di controinformazione, dialogando con varie arti e contribuendo sia a una critica dei media che a un loro rinnovamento. Il libro – avvalendosi anche di cenni storici, tecnici e teorici – esplora lo sviluppo del video e i suoi intrecci con la televisione, il cinema, il teatro, la poesia, la pittura, la documentazione. Dalle prime installazioni alle odierne opere digitali, dalle pionieristiche mostre alle esperienze interattive, immersive e virtuali, dalle sperimentazioni giocose alle nuove forme di fruizione in rete e agli allestimenti dei musei multimediali: un panorama in continua mutazione che il volume ci aiuta a decifrare, seguendo anche le tracce di pensieri critici e lo sguardo anticipatore di artiste e artisti».

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Sandra Lischi
Il linguaggio del video
128 pagine * 13 euro
Carocci editore


Prima che la notte cada

È in corso alla Renata Fabbri Gallery una personale di Sophie Ko (Tbilisi, 1981) intitolata Prima che la notte cada.

Dal comunicato stampa.
«Realizzate con stratificazioni di pigmenti e ceneri contenute all’interno di grandi cornici geometriche, le “Geografie temporali” di Sophie Ko si presentano come disegni del tempo che si insediano in un luogo, immagini spaziali del rapporto dialettico che intratteniamo con il tempo. Fondamentale, in questa serie di lavori, è l’agire della forza di gravità che, attraverso impercettibili crolli e smottamenti della materia, muta incessantemente la composizione del quadro, segnando in superficie il trascorrere del tempo. Come una clessidra che svuotandosi lentamente accumula sabbia sul fondo dell'ampolla, così le “Geografie temporali” trasfigurano l’irreversibilità del tempo e, simultaneamente, il "prendere forma” dell’esistenza nel suo stesso scorrere.
Questo passaggio tratto dai Quaderni di Malte Laurids Brigge di Rainer Maria Rilke può essere inteso come il testo guida della mostra di Sophie Ko: Noi passiamo, così, e mi sembra che tutti siano distratti e occupati e non prestino la giusta attenzione al nostro passare. Come se cadesse una stella e nessuno la vedesse e nessuno formulasse per sé un desiderio».

La mostra è accompagnata da un saggio di Riccardo Venturi.
Eccone un estratto.
«Sophie conosce i rischi di chi vuole fare del tempo la sua sostanza, di chi vuole mapparlo con le cromie delle sue geografie. Disporre il pigmento colorato senza leganti, metterlo sotto vetro, incorniciarlo assieme ad ali di farfalla e immediatamente sospendere il gesto, non fissar nulla. E adesso? Lasciare che l’opera si apra al tempo generando le sue increspature, le sue scheggiature come quelle del corpo celeste ora in “Prima che la notte cada”. Lasciare che l’opera si apra all’astronomico, come se fosse un astro nascente o una stella esplosa nella galassia, ma anche al geologico come se fosse un corpo di frana. Lasciare che il tempo sia mostrato e non solo subìto dalle immagini. Lasciare che, al di là delle clessidre e del moto continuo, il tempo si apra al desiderio.
E “al desiderio non si deve rinunciare mai”, scrive Rilke in un passaggio de “I quaderni di Malte Laurids Brigge” che Sophie mi legge quando della mostra non ci sono ancora le opere. A seconda di come si intende il prefisso, de-siderare ha una doppia etimologia e indica il fissare attentamente le stelle o il distogliere lo sguardo dalle stelle. L’opposizione è solo apparente. La stella polare guida il nostro cammino attraverso la notte, la stella cadente sollecita i nostri desideri. Allo stesso modo Sophie fabbrica stelle ma confessa di essere attratta dal suolo e di camminare spesso a testa bassa, alla ricerca di foglie cadute e forse anche di tracce celesti».

Il testo integrale è stato pubblicato da “Antinomie”. Per leggerlo CLIC

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Ufficio stampa: Sara Zolla
346 8457982 – press@sarazolla.com

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Sophie Ko
Prima che la notte cada
Renata Fabbri Gallery
Via A. Stoppani 15/c , Milano
Tel: +39 02. 42 44 90 47
Mail: info@renatafabbri.it
Fino al 18 novembre 2023


Complottismo


Ha un’aria molto soddisfatta di sé, gli occhi accesi di luce biblica, le parole si rincorrono via via accelerandosi, il fervore spumeggia, la donna accanto a quel suo profetico compagno annuisce vivacemente. Chi è quel tale? Via, l’avete capito. È un complottista. Mi sta rivelando segreti di cui non sono degno d’esserne messo a parte visto che neanche un po’ m’emoziono.
L’11 settembre? Un inside job voluto dal governo degli Stati Uniti. Lo sbarco sulla Luna? Una finzione cinematografica. L’Aids? Un virus creato in laboratorio. Il riscaldamento globale? Una bufala. L’Olocausto ebraico? Un’esagerazione propagandistica. Il Covid? lo ha voluto Bill Gates alleato di Big Pharma. G5? Voluti, effetti devastanti sulla salute dell’uomo… Intelligenza Artificiale? Manco a parlarne!
Scrive Giorgio Vallortigara su Micromega: “La vita di ciascuno di noi è sempre più permeata dall’utilizzo di tecnologie avanzate, figlie delle straordinarie conoscenze che la scienza ci ha consentito di ottenere. Durante la pandemia da Covid-19 abbiamo anche assistito quasi in diretta al rapido sviluppo di vaccini che ci hanno permesso di superarla in tempi relativamente brevi. Eppure, mai come in questo periodo lo scetticismo nei confronti della scienza e degli scienziati galoppa. E quando la scienza non viene attaccata, si cerca di piegarla ai propri interessi politici e ideologici.
Una delle cause di questo paradosso è una diffusa ignoranza sul metodo scientifico, ossia su quali siano le logiche e i criteri che la scienza impiega per indagare la realtà”.

Quando incontro un complottista la voglia di strozzarlo è forte assai, ma c’è chi, invece saggiamente resta calmo e scrive: «Le storie cospirative incantano di nuovo il mondo, se non altro per popolarlo di demoni».
Si tratta di Pierre-André Taguieff.
Filosofo, sociologo e storico delle idee, è direttore di ricerca onorario del Centro nazionale francese per la ricerca scientifica (CNRS).
Le parole che ho citato prima le ho tratte dal suo libro Complottismo pubblicato dalla casa editrice il Mulino che ha in catalogo anche un altro suo titolo, pagine sul razzismo e l’antirazzismo: La forza del pregiudizio.

Ancora da Taguieff.
«Alcuni osservatori vedono nelle teorie cospirazioniste, in particolare nell’uso che ne ha fatto il presidente Trump, una sfida alla democrazia liberale. In effetti tutti i leader di regimi autoritari illiberali vi ricorrono – da Vladimir Putin e Viktor Orbán a Recep Tayyip Erdoğan.
La presenza massiccia delle teorie del complotto sui social network mostra che rispondono a una domanda sociale che attraversa le frontiere nazionali. Le narrazioni complottiste sono manichee: mettono in scena una lotta fra il Bene e il Male, il fronteggiarsi tra forze della luce e forze delle tenebre, ciò che le avvicina ai testi dell’occulto. Tuttavia, proprio queste caratteristiche delle narrazioni complottiste non le rendono repulsive come potrebbe sembrare, ma al contrario promuovono il loro successo. Spetta ai ricercatori, in particolare a sociologi, a politologi e psicologi sociali, formulare ipotesi esplicative sulle ragioni di questa mania internazionale, osservabile dagli anni Novanta».
È quello che fa Taguieff con questo libro. Riuscendo a individuare cinque regole che muovono il pensiero dei complottisti. Senza conoscerle si rischia di non sapere opporre una ragionata resistenza a quella distorsione della conoscenza scientifica, della verità storica. Anche per questo è utile la lettura del libro di Taguieff.
Grave risulta essere la responsabilità dei media su questo tema.
Lo abbiamo visto nell’epoca in cui infuriava il Covid. Nelle trasmissioni tv o interviste su carta stampata accanto a scienziati di chiara fama venivano invitati No Vax che non avevano alcuna competenza infettivologica. Ma il risultato della visione o della lettura era che si trattasse solo di due punti di vista opposti di uguale valore.

Dalla presentazione editoriale.

«Negli ultimi anni stiamo assistendo a eventi globali drammatici come la pandemia, la guerra, la crisi economica e con essi alla diffusione di una serie di teorie del complotto, ovvero un insieme di spiegazioni dubbie o false che si oppongono a tesi ufficiali. Il complottista raffigura uno o più gruppi che agiscono in segreto per realizzare un progetto di dominio o sfruttamento. Si suppone che i cospiratori fantasticati siano la radice di tutti i nostri mali. Il motore di questi ragionamenti? La difficoltà a dare significato agli eventi traumatici. In questo volume, l’autore mostra come la cospirazione risponda a un’esigenza di senso e coerenza: il nemico invisibile e diabolico spiega tutte le disgrazie degli uomini».

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Pierre-André Taguieff
Complottismo
Traduzione di Nicoletta Cavazza
Pagine 136 * Euro 14.00
Formato Kindle: Euro 9.99
Il Mulino


Nazismo esoterico

“Nazifascismo” è un termine giusto per definire un’intesa militare e poliziesca, lo è molto meno se usato per considerare le due dittature come un unicum ideologico.
Il nazismo è segnato fin dalle origini dalla questione razziale e particolarmente antisemita; il fascismo nasce su istanze prevalentemente, e strumentalmente, patriottiche e sociali.
C’è, inoltre, un dato che a mio avviso fa riflettere su parte delle differenze.
Il “Mein Kampf”, scritto da Hitler è pubblicato nel 1925, otto anni prima della presa del potere dai nazionalsocialisti che avverrà nel 1933.
“La dottrina del fascismo” è del 1932, nata sotto l’urgenza editoriale dell’Enciclopedia Italiana di pubblicare una voce sul Fascismo; scritta con l’importante intervento di Giovanni Gentile anche se firmata solo da Mussolini,
Cioè, i fascisti prima vanno al potere nel ‘22 e poi dicono chi sono. Dieci anni dopo.
Una gag.
Il nazismo, nel suo delirio, è un’ideologia, il fascismo una linea mentale.
Hitler instaura un regime totalitario, Mussolini uno autoritario, modelli diversi fra loro.
Sia chiaro: l’autoritarismo mai è bonario come alcuni vogliono immaginarlo, non lo è neppure quello chiesastico franchista o salazariano. Dietro incenso e croci spuntano le mani insanguinate di polizie segrete.
Nel caso italiano (ricco di omicidi politici, provocazioni, carcerazioni, l’instaurazione di tribunali speciali) si può notare una particolarità: quell’autoritarismo fu condizionato dalla Monarchia e dal Vaticano forze assenti in Germania.
Forse per queste plurali ragioni non deve sorprendere troppo perché ai nostri giorni alcune organizzazioni estremiste di Destra s’ispirino al nazismo. Perché è un ben organizzato complesso d’idee filosofiche e storiche antiborghesi che valicano anche i confini di storia e tradizioni di una singola nazione, adattandosi a una visione della vita dai caratteri universali.
Il nazismo è interpretato da fanatici estremisti capaci di ogni gesto estremo.
Il fascismo è indossato su corpi panciuti da borghesi nerovestiti intolleranti e prepotenti
Nascono da origini diverse finiscono in modo diverso assai.
Si assiste in una tragica atmosfera alla caduta dei capi nazi che si credono dei, mentre il duce, dopo tonitruanti discorsi, fugge, in Svizzera travestito da soldato tedesco (ve lo immaginate il suo compare Hitler finire così?) portando con sé un bottino di ricchezze sottratte al popolo italiano.
Mi sono soffermato sulla differenza tra fasci e nazi perché meglio, a mio avviso, s’intenda – come dirò fra poco – come sia stato possibile che ingenti energie organizzative e finanziarie siano state spese in Germania dal partito nazista, per imprese oggi favoleggiate al cinema da Indiana Jones. Il tutto per volere dello stesso Hitler, già in gioventù affascinato dal misticismo antiebraico del monaco austriaco Lanz von Liebenfels, fondatore nel 1907 della setta esoterica "Ordine del Nuovo Tempio"

Nel nazismo, infatti, si mosse anche una corrente di pensiero caratterizzata dal misticismo.
Anche qui niente da vedere con la “Mistica fascista” voluta da Nicolò Giani che tra i suoi punti riconosceva come «l'unica fonte della dottrina fascista fosse il pensiero del suo Capo».
Metafisica poca, insomma.
Nel vocabolario storico alla voce “misticismo nazista” invece leggiamo: “Il misticismo nazista è un termine generale per indicare le correnti semireligiose presenti nel nazismo, vere o presunte, che spesso confinano con l'occultismo, l'esoterismo, la criptostoria, il paranormale”.
Questo spiega anche perché tra i gruppi neonazisti ci fu anni fa, specie a Roma, una corrente in cui erano presenti aspetti occultistici e interpretazioni esoteriche del nazismo.
Gli appartenenti venivano chiamati, pure per celia da altri neonazi: “i maghetti”.

Su quelle correnti, poco sotterranee, del Partito nazista la casa editrice Arkadia ha pubblicato un intenso saggio intitolato Nazismo esoterico Il lato oscuro del III Reich. Dal Santo Graal all’Ultima Thule.
Una ben condotta esplorazione della storia, i protagonisti, i miti, gli aspetti esoterici, filosofici e gli enigmi che hanno caratterizzato parte del nazismo.
Ne è autore Mauro Tonino.
Friulano, animatore di circoli culturali. Da ricercatore ha curato, per un’emittente televisiva, un lungo ciclo di approfondimenti storici sulle vicende del confine orientale durante il secondo conflitto mondiale (1943-1945). È coautore de “Il prezzo del lavoro” (2014), e di “Storie spezzate. L’Italia al tempo del coronavirus” (2020).
È presente con vari racconti in diverse antologie.

Dalla presentazione editoriale

«Un saggio dirompente che porta il lettore nel lato più oscuro di un’ideologia che ha sconvolto il mondo. Personaggi, teorie, fatti, vicende, in un racconto avvincente e tumultuoso.
Fin dalle sue origini il Nazismo s’impregnò di misticismo ed esoterismo. I suoi esponenti di spicco, Adolf Hitler, Rudolf Hess, Heinrich Himmler e altri, erano fortemente suggestionati e attratti dall’occulto e dall’alone di mistero che avvolgeva questi argomenti. La tragica esperienza del III Reich non può essere letta solo attraverso gli accadimenti storici principali, ovviamente fondamentali, ma per comprendere che cosa realmente fu il Nazismo va anche tenuto conto di quell’insieme di fenomeni e attività che, per semplificare, possiamo ricomprendere nel termine Misticismo Nazista, che a sua volta racchiude molti elementi, sui quali peraltro si è anche fantasticato molto, come l’occultismo, l’esoterismo stesso, il paranormale, la pseudostoria, il culto della Dea Madre, il richiamo alle antiche mitologie nordiche, la criptoarcheologia, la Teosofia, l’Ariosofia. Questi ambiti, che furono parte integrante dell’esperienza nazista, per il fanatismo degli adepti e il livello dei gerarchi coinvolti, assunsero un carattere quasi religioso».

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Mauro Tonino
Nazismo esoterico
Pagine 144 * Euro 15.00
Arkadia


I carnefici del Duce (1)

Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili.
Una dimostrazione – magnifica per come è condotta, atroce per i suoi contenuti – l’ha pubblicata la casa editrice Laterza, è intitolata I carnefici del Duce.
Ne è autore Eric Gobetti, nome maiuscolo della storiografia contemporanea.
Grande studioso del fascismo, della Seconda guerra mondiale, della Resistenza e storia della Jugoslavia nel Novecento. Autore dei documentari Partizani e Sarajevo Rewind oltre a diverse monografie.
Per Laterza ha pubblicato “Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943)”, In occasione della pubblicazione del suo libro “E allora le foibe” (2021) ci fu un incontro con lui su questo sito.

Dalla presentazione editoriale
«Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni? In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?».

Segue un incontro con Eric Gobetti.


I carnefici del duce (2)

A Eric Gobetti (in foto) ho rivolto alcune domande

Quale la principale finalità di questo tuo nuovo libro?

Raccontare una pagina di storia ancora poco conosciuta in maniera chiara e accessibile per un pubblico generico di lettori. Inoltre, influire sull’opinione pubblica e possibilmente sulle istituzioni repubblicane affinché i crimini di guerra fascisti siano correttamente ricordati, commemorate le vittime e condannata l’ideologia che li ha prodotti. Infine, mostrare che il sistema di pensiero che ha condotto a quei crimini non è molto dissimile da quello che molti oggi condividono e praticano, che infatti comporta nuovi crimini e nuove vittime tra gli esseri umani più deboli e svantaggiati del nostro mondo, come ad esempio i migranti.

Perché succede che paciosi individui, perfino affettuosi genitori, una volta indossata una divisa possono trasformarsi – com’è accaduto – in persone spietate?

Si tratta di un meccanismo psicologico perverso che si ripete molte volte nella storia e di cui bisogna essere consapevoli. Per questo bisogna diffidare sempre delle divise, dell’uniformità, del conformismo e della guerra, che rende legittimi l’omicidio e la sopraffazione. Ovviamente, come mostro nel libro, c’è anche chi si è rifiutato o ha operato contro, ma la maggioranza si è adeguata, per vantaggi personali e di carriera o per conformismo. Anche perché il sistema di valori che dominava la società considerava tali crimini non solo legittimi ma giusti, doverosi per il bene della patria.

Esiste una storia della vergogna delle truppe italiane anche prima del fascismo?

Naturalmente crimini simili a quelli che racconto sono stati commessi da altri eserciti, italiani e stranieri, prima e dopo il fascismo. Anche su questo, in particolare sui crimini coloniali precedenti al fascismo, domina l’oblio. Il mito dei bravi italiani che portano la civiltà e la bontà ovunque vadano, anche in armi, è purtroppo ancora prevalente.

Ti rivolgo una domanda che tu poni nel libro: “C’è qualcosa di speciale, di unico, nelle violenze commesse dagli italiani negli anni del fascismo” ?

Il regime fascista è stato costantemente in guerra. Guerre di sopraffazione e di dominio condotte fuori dai confini nazionali, in una logica razzista e spietatamente brutale. Si tratta quindi di un’epoca di violenza continua, condotta da grandi quantità di individui (non solo soldati) e che ha contaminato la società intera. Per di più nel contesto di un sistema di pensiero per cui la violenza era un valore in sé, sinonimo di forza e potenza, e eseguire gli ordini, anche disumani, era considerato un dovere supremo.

Le cifre che riporti nel volume dimostrano quanto diverso sia stato quanto a severità il comportamento della Germania verso i compromessi col nazismo a differenza di quanto accaduto in Italia. Eppure, i tedeschi all’epoca della “guerra fredda” anticomunista come gli italiani erano schierati con l’Occidente in senso politico e militare.
Quali cause hanno determinato tanta diversità di condotta
?

A differenza dell’Italia, la Germania ha fatto i conti col nazismo? Un po’ di più, certo, ma per ragioni contingenti e in due specifiche fasi della sua storia recente. Innanzitutto, nell’immediato dopoguerra c’è una differenza sostanziale: la Germania (ma anche il Giappone) non è nemmeno uno stato: è un territorio diviso e amministrato direttamente dai vincitori, che quindi impongono la propria giustizia e portano avanti una denazificazione comunque niente affatto radicale. In Italia abbiamo avito l’8 settembre e la Resistenza, nel dopoguerra il nostro paese ha interesse a difendere i propri uomini più compromessi per non passare totalmente dalla parte degli sconfitti e non subire la condizione di minorità degli altri due paesi dell’Asse. La seconda fase la Germania la vive a distanza di molti anni, quando ha necessità di fugare le paure che si diffondono in tutta Europa durante e dopo la fase della riunificazione. È nel corso degli anni Novanta che la Germania “fa i conti” col nazismo, e che i cancellieri tedeschi cominciano a prendere parte alle commemorazioni in giro per l’Europa e a riconoscere ufficialmente i loro crimini, non solo attribuendoli al partito nazista e ai suoi uomini. Noi non abbiamo mai dovuto fare i conti con i nostri crimini all’estero, nessuno ce l’ha chiesto, e la brevissima fase di pacificazione storica con Slovenia e Croazia (dopo l’indipendenza di quei paesi) si è presto interrotta con l’abuso della storia delle foibe, per necessità di politica interna e in evidente spregio della verità storica e del rispetto per le vittime jugoslave.

I lager sembrano siano stati una criminale particolarità solo dei nazisti.
Tu dimostri nel libro che non è del tutto vero.
Perché i campi d’internamento fascisti sono stati trascurati da tanti storici
?

Ovviamente non si tratta di campi di sterminio e questo rende meno colossale quell’oblio. Tuttavia, gli storici se ne sono occupati abbastanza, ma è l’opinione pubblica che continua a ignorarne quasi del tutto l’esistenza. Si tratta di una scelta politica, ovvero di politiche della memoria, che sono sempre state incentrate sul “mito” degli italiani brava gente, e sulla negazione dei crimini fascisti. I campi di concentramento sono, nell’immaginario comune, uno dei peggiori crimini possibili e dunque la conoscenza di quegli eventi sarebbe in totale contrasto con il “mito” che appunto si vuole preservare.

Una delle scusanti a tante censure sui nostri delitti usate dai neofascisti dichiarati e da quelli occulti è che esporre i crimini commessi dai nostri padri e nonni rechi danno all’immagine del nostro Paese o (per loro) Nazione.
Come rispondi nelle tue pagine a quel bugiardo “amor di patria”
?

Uno Stato è una comunità di persone che si riconosce in determinati valori, che di solito sono scritti nella sua Costituzione. La nostra Costituzione parla chiaro, condanna ogni forma di violenza e sopraffazione e anzi ci chiede di operare per il bene comune, per i diritti di tutti e soprattutto in difesa dei deboli e degli oppressi. Esattamente il contrario del sistema di pensiero fascista. Amare la patria, non significa quindi difendere qualunque italiano, qualunque cosa faccia, anche quando commette un crimine, soprattutto contro individui di altra nazionalità (ve li ricordate i marò e tutta la propaganda politica su quella vicenda?). Amare la patria significa riconoscersi nei valori scritti nella Costituzione. Ed è esattamente quello che faccio io, come tanti altri cittadini, denunciando i crimini commessi in nome della patria, ma contro i suoi valori fondanti, 80 anni fa. E denunciando anche l’uso politico che fa ora di quel passato chi non ama affatto “questa” patria, la nostra Italia democratica e repubblicana, ma preferisce di gran lunga la dittatura che l’ha preceduta, combattendo contro la quale il nostro paese si è formato.

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Eric Gobetti
I carnefici del Duce
Pagine 192 * Euro 18.00
Versione Ee-book Euro 10.99È
Laterza


Influencer e social media (1)

Chi è l’influencer?
Secondo lo Zingarelli: “‘Personaggio che, grazie alla sua popolarità specialmente sui social network, è in grado di esercitare un influsso sulle scelte di settori dell’opinione pubblica”.
Per saperne di più su questo nuovo personaggio dei media la casa editrice FrancoAngeli.ha pubblicato un interessante, denso, saggio intitolato Influencer e social media.
L’autrice è un’eccellente firma di studiosa del mondo digitale: Maria Angela Polesana.
È Professore Associato di Sociologia dei Media.
Per FrancoAngeli ha pubblicato “La pubblicità intelligente. L'uso dell'ironia in pubblicità” (2005); “Pubblicità e valori. Nuovi consumi e nuovi messaggi per una società che cambia” (2016).
Ha curato i volumi “Teoria del medium” (di J. Meyrowitz, 2020); “Società, consumi e pubblicità. Il pensiero di Giampaolo Fabris” (2021) e “IULM - Rapporto 2022 sulla comunicazione d'impresa (con F. Massara, 2022).
Ricordo che tempo fa su questo sito segnalai il suo nome quale autrice di contributi in Dizionario dei media.

Dall'Introduzione di Maria Angela Polesana al suo volume.
.
«Per l'individuo che abita i social media, essi si configurano come "luoghi" dell'esperienza contemporanea, ambiti per la costruzione di percorsi di senso sia individuali che collettivi (...). Non sono però luoghi completamente liberi e democratici (...). Le piattaforme che li ospitano si caratterizzano per una serie di vincoli rispetto alle possibilità espressive degli individui e sono di fatto attori economici, espressione del capitalismo della sorveglianza (...). In questo libro si cercherà di ragionare criticamente sui social media come luoghi di produzione di contenuti, di relazioni, di identità, alla luce della ricca letteratura sul tema".
È possibile spiegare la relazione tra follower e Influencer alla luce di alcuni concetti quali comunità, celebrità, credibilità, influenza e autenticità. Il rapporto tra follower e Influencer avviene in particolare all'insegna di quella ludicità che è un tratto caratterizzante delle comunità postmoderne.
Oggi si fa un ampio utilizzo della parola "influencer" che, proprio per questo, è diventata un'etichetta vaga, a volte carica di pregiudizi, che identifica una tipologia di individui che influenzano altri individui attraverso la loro autorappresentazione e ne ricavano dei benefici economici. Si tratta d'altronde di una figura ibrida, emblematica della condizione onlife o multilife delle vite contemporanee, avvolte in un processo di digitalizzazione che rende sempre più porosi i confini tra mondo online e offline.
Per affrontare questo argomento occorre dunque adottare un approccio ecologico all'analisi dei social media (teatro dell'esposizione digitale degli influencer), che, nel loro essere di fatto, come avrebbe detto McLuhan, estensioni dell'individuo, dimostrano ancora una volta come tecnologia e cultura si contaminino reciprocamente.
È ciò che tenta di fare questo volume, analizzando in profondità le principali caratteristiche di un fenomeno che riveste oggi una notevole centralità sociale. E nel quale si palesa anche la capacità dei media di riarticolare, come già sosteneva Joshua Meyrowitz, gli spazi di vita della quotidianità, fondendo tra loro la dimensione pubblica e quella privata».

Segue un incontro con Maria Angela Poles Ana.


Influencer e social media (2)

A Maria Angela Polesana (in foto) ho rivolto alcune domande.

Quale esigenza di comunicazione è all’origine di questo libro?

Questo volume nasce dai miei interessi di ricerca ossia il mondo dei consumi, dei media e della comunicazione. In particolare, è evidente come oggi, in un’epoca in cui l’individuo vive in un costante stato di connessione, i social media (secondo una prospettiva ecologica) si pongano come ambienti, luoghi in cui gli individui fanno esperienza di sé, gestiscono le relazioni e i rapporti con gli altri, costruiscono la loro identità. Si tratta però di ambienti che non sono neutri, ma risentono delle logiche capitalistiche che muovono le piattaforme. Gli influencer, attraverso la loro comunicazione, dimostrano di saper usare in maniera efficace gli strumenti che queste ultime mettono loro a disposizione, strumenti (le cosiddette “affordances”) che impongono però loro anche dei vincoli e che estraggono dati (all’insegna del cosiddetto capitalismo della sorveglianza) da ogni loro azione. Attraverso questo libro mi propongo dunque di spingere il lettore ad avere un atteggiamento critico rispetto al web, a riflettere sulle contraddizioni che interessano tanto i social (solo apparentemente spazi democratici e liberi), quanto gli influencer (tutt’altro che liberi) costretti a mediare continuamente tra le attese di autenticità dei follower, quelle delle piattaforme e quelle degli inserzionisti pubblicitari.

Nello scrivere questo saggio qual è la cosa che ha deciso di fare assolutamente per prima e quale quella assolutamente per prima da evitare?

Sono stata mossa dalla volontà di aprire gli occhi al lettore fin da subito, dimostrandogli come l’influencer sia una figura che è il prodotto di una serie di dimensioni sociali, economiche, culturali, tecnologiche. È un soggetto che ha saputo inventarsi una professione all’interno di un ambiente, i social media, in cui produce contenuti di intrattenimento che richiedono creatività, originalità, empatia, ecc.
Ho voluto, come del resto ha fatto molta letteratura, liberare tale termine dai luoghi comuni, dalla sua condizione di termine di moda, sorta di buzzword, abusato al punto tale da coincidere con una serie di stereotipi negativi che finiscono col far perdere di vista che l’influencer è di fatto un content creator.

Social media. Lei scrive che le piattaforme che li ospitano “si caratterizzano per una serie di vincoli rispetto alle possibilità espressive degli individui e sono di fatto attori economici, espressione, come ha detto anche prima, del capitalismo della sorveglianza”
Le chiedo di spendere qualche parola su quel concetto
...

A partire dagli anni Novanta si afferma nella Silicon Valley (che, nell’immaginario collettivo, rappresenta l’epicentro dei cambiamenti generati dalla rivoluzione digitale) la cosiddetta ideologia californiana, ovvero una ideologia che crede e promuove il potere emancipativo delle tecnologie dell’informazione, considerate capaci di liberare dalle vecchie strutture sociali, politiche e legali per rimettere al centro la libertà individuale. Si tratta di una sorta di mitologia che il tempo denuncerà come tale. Vale a dire che il tempo dimostrerà come anche il web non si configuri affatto come uno spazio libero, quanto piuttosto sia pervaso dalle logiche capitalistiche incarnate, in maniera ormai evidente dalle piattaforme, intese sia come strutture tecnologiche che come ambienti che mediano tra chi produce contenuti e servizi e chi li vuole consumare. In particolare, le cosiddette Big Five: ovvero Google, Amazon, Microsoft, Apple agiscono da “gatekeeper” online, dal momento che raccolgono, processano, archiviano, filtrano e incanalano i dati circolanti in rete. Tali piattaforme estraggono infatti dati dai comportamenti degli utenti per fini commerciali.
Per quanto concerne le piattaforme di social networking, anche le relazioni, ovvero gli amici, i like, i trend, sono ‘datificati’, come avviene ad esempio, su Facebook; e dati vengono estratti anche dalle attività degli utenti, tra cui la navigazione, tramite i cookies, oppure i like, i retweet, gli aggiornamenti, ecc.

Per che cosa si caratterizzano le interfacce digitali in genere, e quelle social nello specifico?

Si caratterizzano per le cosiddette “affordance” ovvero per una serie di direzioni d’uso specifiche (facenti capo a determinate scelte di design) che indirizzano gli utenti verso certi comportamenti. Si tratta di inviti all’uso che spingono gli utenti ad agire nella direzione immaginata dal designer. C’è, ad esempio, una dimensione relazionale che viene veicolata dalle affordance e che spinge gli utenti a condividere contenuti e a verificare le reazioni altrui ai medesimi (love, abbraccio, wow, ecc. Emozioni da abbinare ai messaggi che, ricordiamolo, sono circoscritte, definite). Nei social media gli individui si offrono allo sguardo altrui come merce da consumare in funzione della propria audience. Le forme di rappresentazione del sé sono però vincolate anche da limiti (ad esempio, il numero di caratteri (280) consentito da Twitter, ora X, costringe a essere sintetici) oltre che dalle possibilità offerte dalle piattaforme. Ogni piattaforma propone modelli diversi di autorappresentazione, di vetrinizzazione del sé e dei propri gusti, ogni piattaforma mette a disposizione cioè una precisa strumentazione per raccontarsi, per la propria rappresentazione identitaria.

Sarà bene ricordare che le interfacce sono governate da algoritmi

Questi ultimi però sono “istruiti” da esseri umani, di conseguenza i dati elaborati non sono mai qualcosa di neutro e avalutativo: gli algoritmi cioè in realtà portano avanti gli obiettivi dei loro creatori e finanziatori. Un tema questo delicato, di rilevanza pubblica, poiché essi influenzano la vita politica, la libertà personale, i comportamenti di consumo, la formazione dell’immaginario, nonché dell’identità degli individui, la circolazione dell’informazione, l’economia dei media. Insomma, l’individuo si muove in uno spazio tutt’altro che libero, uno spazio in cui è soggetto a forme di sorveglianza sempre più pervasiva. Uno spazio che indipendentemente dall’essere a pagamento o meno è pensato per irretire l’attenzione degli individui, per indurli a perderci del tempo fornendo informazioni e sovente acquistando ciò che viene loro offerto. Shoshana Zuboff usa a tal proposito l’espressione “capitalismo della sorveglianza”: “I capitalisti della sorveglianza sanno tutto di noi, mentre per noi è impossibile sapere quello che fanno. Accumulano un’infinità di nuove conoscenze da noi ma non per noi” (2019, p. 21).

Esiste, oppure no, una differenza fra l’opinion leader di un tempo e l’influencer di oggi?
Se sì, oppure no, quali la principale somiglianza o la principale differenza
?

Quanto al “vecchio” opinion leader numerosi sono in punti di contatto con la figura dell’influencer, ma vi sono anche degli elementi, dovuti alle caratteristiche dei media stessi, che li differenziano. In particolare, secondo la teoria del flusso di comunicazione a due livelli (Katz e Lazarsfeld 1955) gli effetti dei media avvengono appunto in due step: vale a dire che le informazioni che arrivano dai media vengono “filtrate” da soggetti influenti e poi raggiungono le masse. Internet, rispetto alla radio e alla televisione, offre una quantità incredibile di informazioni e di fonti, consentendo agli utenti di personalizzare i propri canali di informazioni. L’influenza sembra dunque dipendere maggiormente dalla interazione tra le persone. Anche se è vero che gli algoritmi interferiscono, attraverso i feed e i suggerimenti, con i flussi personali di visualizzazione dei contenuti e di condivisione degli utenti.

Altri tratti del profilo dell’influencer?

L’influencer ha la capacità di gestire una forma di comunicazione reticolare, bidirezionale, in uno scambio comunicativo continuo favorito dalle affordance delle piattaforme.
L’influencer è un soggetto capace di crearsi un proprio seguito grazie alla condivisione di contenuti incentrati sulla narrazione testuale e visuale della propria vita quotidiana. L’influencer è un content creator ossia un soggetto che crea contenuti in grado di coinvolgere i propri followers, o meglio, la propria comunità. In effetti, grazie alla condivisione della propria vita quotidiana e del realismo che caratterizza i propri racconti, l’influencer costruisce quel senso di intimità, accessibilità e relazione che pone le basi per la creazione di un senso di prossimità con i propri follower e per lo sviluppo di una relazione sociale, comunitaria e affettiva. Abbiamo, cioè, a che fare con una influenza relazionale, basata, appunto, sulla comunità dei follower.
Oltre al medium specifico, l’influencer si caratterizza per una maggiore credibilità e autenticità, rispetto al testimonial tradizionale, dal momento che risulta essere una cosiddetta “do it yourself celebrity” ovvero, apparentemente, una celebrità fai da te. Un soggetto qualunque riuscito cioè a costruirsi la propria fama, il proprio successo da solo. E, come tale, questa figura viene percepita come più libera, meno soggetta alle logiche di marketing. E’ l’influencer a scegliere i brand con cui collaborare, in base a personali affinità, e non il contrario, come accade invece per brand ambassador e testimonial che sono scelti dal brand.

La progressiva diffusione dell’Intelligenza Artificiale cambierà il profilo dell’influencer e il suo lavoro?

Sicuramente l’AI rappresenta una sfida per gli inflluencer sotto vari aspetti. In primis gli strumenti messi a disposizione dall’AI consentono alle aziende di avere un controllo maggiore sulla coerenza, la conformità e la correttezza dei contenuti veicolati dagli influencer. È, cioè, possibile per le aziende monitorare le prestazioni tracciando il livello di engagement della campagna rispetto ai post e quindi calcolare l’efficacia della prestazione. Sono più facili da accertare le violazioni degli accordi di collaborazione.
A questo si aggiunga la sfida rappresentata dagli Influencer virtuali che sono sempre più popolari nei social media. Per le aziende presentano una serie di vantaggi…

Per esempio

Minori costi.
Non hanno limiti di energia (come succede agli esseri umani), sono lavoratori instancabili, nel senso che possono lavorare 24 ore al giorno e 7 giorni su 7);
Producono sempre contenuti in linea con i valori del brand poiché sono governabili (cosa che riduce il rischio di cadute di stile o di conflitti di interesse) .
E’ però anche vero che essi possono suscitare emozioni negative nei follower, quali insoddisfazione e insicurezza, poiché rappresentano dei modelli di perfezione irraggiungibile per gli esseri umani, come spiega la psicologia Elisabeth Daniels dell’università del Colorado. Gli individui tendono infatti a confrontare se stessi agli altri e ciò può produrre effetti negativi. Si pensi ad esempio, al corpo, e alla probabilità che si cerchi di imitare dei modelli irrealistici e che, conseguentemente, ingenerano rifiuto e frustrazione nei follower. E soprattutto questo aspetto, sostiene Daniels, è particolarmente preoccupante per gli adolescenti (13-17 anni) che hanno poca esperienza e non sono ancora in grado di riflettere in maniera critica sulla propria attività online.

Concludendo: che cosa sarà particolarmente richiesto dall’AI agli influencer?

L’AI richiederà agli Influencer di lavorare in maniera originale e creativa su quegli aspetti di “umanità” che li caratterizzano e distinguono rispetto ai competitor virtuali. Facendo dell’empatia, dell’ascolto della propria community, dell’autenticità, intesa anche come disponibilità a mostrarsi nelle proprie fragilità, il loro punto di forza. L’ironia e l’autoironia che facilita l’immedesimazione da parte dei follower consentiranno loro di conservare il proprio appeal.
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Maria Angela Polesana
Influencer e social media
144 Pagine * Euro 20.00
FrancoAngeli


Janis Joplin

ll 4 0ttobre 1970 il mondo perdeva una grandissima voce, quella di Janis Joplin.
Fu trovata morta nella stanza 105 del Landmark Hotel a Hollywood. Aveva 27 anni.
Overdose di eroina, questo il rapporto dell’autopsia.
Stava lavorando al suo nuovo album; il 5 ottobre avrebbe dovuto registrare le parti vocali di un brano dal titolo che, visto quanto accadde, appare decisamente inquietante: “Buried Alive In The Blues”.
L’oceano riceverà la dispersione delle sue ceneri.
Aveva debuttato nel 1967 nel gruppo “Big Brother & The Olding Company” con cui incise i suoi primi dischi e conobbe il successo.
«Sul palco faccio l'amore con venticinquemila persone, poi torno a casa da sola», così usava dire.

«Una voce» – scrive Claudio Fabretti - «appassionata e straziante, che era insieme ruggine e miele, furore e tenerezza, malinconia blues e fuoco psichedelico. Un canto unico e inimitabile in tutta la storia del rock. Uno stile che diventerà un riferimento preciso per intere generazioni di vocalist, da Patti Smith a PJ Harvey, da Annie Lennox degli Eurythmics a Skin degli Skunk Anansie».
E Riccardo Bertoncelli: «Era una musa inquietante, una strega capace di incantare il pubblico, la sacerdotessa di un rock estremo senza distinzione tra fantasia scenica e realtà».


Una buona trasmissione della Radio svizzera Italiana: https://www.rsi.ch/play/radio/voi-che-sapete---/audio/janis-joplin-50-anni-dopo?id=13498534

Stefano Marcucci ricorda: “Adorava Bessie Smith, la regina nera dalla voce etilica scomparsa prematuramente: Janis le comprò una lapide.
Quando toccò a lei, a 27 anni, dopo Brian Jones e Jimi Hendrix, Jim Morrison profetizzò: Io sarò il quarto”.
Ci prese. Morirà, infatti, a Parigi il 3 luglio 1971.

QUI Cosmotaxi ricorda Janis Joplin con uno dei suoi maggiori successi.


La ballata del piccolo rimorchiatore

La casa editrice Adelphi nella preziosa collana I cavoli a merenda dedicata ai ragazzi (il titolo della collana non a caso è tratto da un libro di Sergio Tofano, il famoso Sto) ha pubblicato un piccolo gioiello scritto dal Premio Nobel (1987) per la letteratura Josif Brodskij con le incantevoli illustrazioni di Igor Oleinikov e che si avvale della traduzione di Serena Vitale.
Titolo: La ballata del piccolo rimorchiatore.
A Brodskij Il regime sovietico rese la vita durissima facendogli attraversare arresti, internamenti in manicomio e, infine, dopo un ennesimo processo il definitivo esilio.

Compito di un rimorchiatore è portare le navi in porto giunte da lontano
E qui in Anteo – questo il nome del rimorchiatore, ma precisa l’autore nulla a che vedere con il figlio di Poseidone e di Gea – non è difficile scorgere lo stesso Brodskij che tante esperienze, tante idee, tante speranze ha condotto nel porto della cultura occidentale
“La ballata del piccolo rimorchiatore”, pur pubblicata in una collana per giovanissimi lettori, dona gioia anche a lettori adulti per la grazia, la leggerezza della metafora che diventa una festosa pagina stilistica che suscita plurali pensieri, talvolta anche meno festosi.

Dalla presentazione editoriale.
«Anteo è un piccolo rimorchiatore che vive a Pietroburgo, tra marinai, fumo di ciminiere e grandi navi da scortare. Nei pochi momenti di riposo sogna di salpare per il vasto oceano e visitare paesi meravigliosi, ma non vuole sottrarsi alla sua vita di lavoro, che accetta con gioia e coraggio – una vita che solo i delicatissimi versi di Iosif Brodskij potevano rendere tanto luminosa nella sua piccola eroicità quotidiana»

Concludendo v’invito a leggere QUI alcune riflessioni di Brodskij sul senso della letteratura raccolte da Anna Castagnoli.

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Iosif Broskij – Igor’ Olejnikov
La ballata del piccolo rimorchiatore
Traduzione di Serena Vitale
Pagine 32 * Euro 18.00
Adelphi


L'antisemitismo e le sue metamorfosi

“Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi. La peste si è spenta, ma l'infezione serpeggia.”
Questa frase purtroppo profetica appartiene al grande Primo Levi.
Oggi, infatti, a distanza di quasi ottant’anni dalla scoperta della Shoa, ha ripreso vigore un diffuso antisemitismo, un’infezione che abita il corpo di più paesi non esclusa l’Italia che, del resto, fu patria delle vergognose leggi razziali mussoliniane che provocarono migliaia di vittime fra quelli che, come ricorda Rita Levi Montalcini, il manifesto degli scienziati razzisti (sic!), dichiarava che “gli ebrei non appartengono alla razza italiana”.
Una caratteristica di quel velenoso serpeggiare consiste nel fatto che l’antisemitismo non alligna soltanto in gruppi dichiaratamente neofascisti o neonazisti, ma è diffuso anche presso chi ha l’ipocrisia di non dichiararlo apertamente, però ne è interiormente intriso.
Per dire, infine, di quanti si abbandonano con aria innocente da simpaticoni a battutacce. Ricordate Berlusconi che alla vigilia di una Giornata della Memoria raccontò barzellette sugli ebrei nei campi di sterminio?

Nonostante siano molte le opere cinematografiche, teatrali, musicali, letterarie che si sono occupate dell’antisemitismo, proprio la vastità del tema permette che nuovi lavori si aggiungano proficuamente allo scenario di quegli studi.
Per esempio, la casa editrice Giuntina ha pubblicato L’antisemitismo Distorsione della Shoah, odio online e complottismi.
Il libro è a cura di Milena Santerini.
Il volume, oltre a un intervento della curatrice, include testi di:Murilo Henrique Cambruzzi, Simonetta Della Seta, Stefano Gatti, Betti Guetta, Joël Kotek, Gadi Luzzatto Voghera, Stefano Pasta, Robert Rozett, Juliane Wetzel.

Scrive Santerini nell’Introduzione: “Ogni tempo ha il suo antisemitismo. Segnato dall'antigiudaismo cristiano in passato, cospiratorio nei momenti di crisi, efferato nella sua forma pseudo-scientifica nel periodo del nazionalsocialismo e del fascismo. Negli anni '20 del XXI secolo l'antisemitismo è ancora tra noi: divenuto ‘culturale’ più che biologico, raramente è argomentato in modo aperto, eppure è presente e – in alcuni periodi – in crescita. Durante la pandemia da Covid-19, gli studi sui social media hanno mostrato il forte collegamento tra l'odio antiebraico e la crisi, soprattutto dal punto di vista economico. Gli ebrei ‘ricchi’ e ‘dominatori’ fanno da capro espiatorio della paura e dell'ansia verso il futuro. Cresce il discorso d'odio nel web, ormai due terzi del totale degli atti segnalati. Protetti da un presunto anonimato e apparentemente liberi di esprimersi, gli hater creano fiammate di ostilità e attacchi, diffondono immagini grottesche, inventano cospirazioni. Di questo antisemitismo apparentemente light fa parte la distorsione della Shoah. Il negazionismo vero e proprio, con le sue affermazioni di principio («non è mai avvenuto», «le cifre sono diverse», ecc.), rimane infatti nascosto nelle pieghe della società; la minimizzazione e la banalizzazione, invece, sono molto diffuse.
I saggi raccolti in questo libro offrono una panoramica e un'analisi di queste nuove forme di odio antiebraico, e si configurano come un contributo efficace a un lavoro collettivo di contrasto all'antisemitismo, inserito nella più ampia lotta contro ogni tipo di intolleranza, pregiudizio e razzismo, che richiede la collaborazione di tutti”

Un capitolo del libro si sofferma sull’antisemitismo nel web: «L’antisemitismo online si rivela sempre più pericoloso: si esprime con forme iconografiche e lessicali estremamente aggressive e demonizzanti (…) In Italia gli ebrei sono bersaglio sia come singoli (Liliana Segre, David Parenzo, Gad Lerner, George Soros, ecc.) sia come collettività. La pandemia da Covid-19 ha fornito l’occasione su internet per la propagazione di contenuti antisemiti in chiave complottista Questo fenomeno non riguarda solo l’Italia, ma vari paesi e ha favorito la crescita del pensiero antisemita ed estremista. Il Covid, inoltre, è stato la spinta per la riattivazione di nuove forme della banalizzazione della Shoah, che si è intensificata con l’inizio delle manifestazioni contro il green pass. Ad agosto 2021, per esempio, un tweet della Comunità Ebraica di Roma che annunciava la necessità di presentazione del green pass per accedere al museo ebraico è stato inondato di commenti che paragonavano il green pass alla stella gialla imposta dai nazisti agli ebrei e alla “mancanza di memoria” da parte della Comunità».

……………………………………….....

L'antisemitismo e le sue metamorfosi
A cura di Milena Santerini
Pagine 218 con illustrazioni
Euro 24.00
Editore:Giuntina



Tecnosofia (1)


La casa editrice Laterza ha pubblicato un importante saggio: Tecnosofia Tecnologia e umanesimo per una scienza nuova
Ne sono autori: Maurizio Ferraris e Guido Saracco.

Dalla presentazione editoriale.

«Il farmaco più potente a disposizione della scimmia nuda è la tecnica, e la tecnica più potente è il capitale. L’alleanza tra tecnologia e umanesimo può potenziare questo capitale a beneficio di tutti, trasformandolo in un patrimonio dell’umanità.
Quanto più la tecnologia e l’umanesimo sapranno interagire, tanto più l’umanità solcherà positivamente la strada del progresso. È questa l’idea che ispira questo libro, frutto della collaborazione tra un filosofo e un tecnologo. Entrambi, infatti, promuovono un giudizio positivo sulla tecnologia perché se è vero – seguendo l’etimo greco – che è insieme un veleno e un rimedio, è innegabile che la capacità tecnologica appartiene all’umanità sin dalle sue origini. E risiede in essa la capacità di conservare e moltiplicare il valore dei suoi beni materiali e culturali a beneficio delle generazioni future».

Cliccare QUI per l’Indice

Per leggere un estratto: CLIC.

Segue un incontro con Maurizio Ferraris.


Tecnosofia (2)

La prima volta che incontrai su questo sito Maurizio Ferraris (in foto) era il 2007, seguiranno poi parecchie per me felicissime occasioni .
In quell’anno pubblicò “Babbo Natale, Gesù adulto. In che cosa crede chi crede”. A proposito di fedi gli chiesi – prendendo spunto da un’altra perla della sua bibliografia: “Ontologia del telefonino” – “Che cos’è o chi è il telefonino?”
La sua risposta: “Direi “cos’è”, perché resta uno strumento, che ci cambia la vita, ma uno strumento. A meno che qualcuno non decida che il telefonino è venuto sulla terra per redimere gli uomini dai loro peccati.”
Quella lontana risposta sul telefonino forse è una buona premessa a mie domande per questo suo nuovo libro scritto con Saracco.

Chi è o che cos’è l’Intelligenza Artificiale spesso citata nelle pagine di “Tecnosofia”?

È l’archiviazione e la rielaborazione dell’intelligenza naturale, e più estesamente dell’insieme delle forme di vita umana che vengono a comporre ciò che chiamiamo “intelligenza”, per creare altra intelligenza che produca del senso rispondendo a bisogni che, di nuovo, corrispondono alle forme di vita umana. Quanto dire che l’intelligenza artificiale non è qualcosa di alieno che giunge da chissà dove per soggiogare l’umano, bensì qualcosa che viene dall’umano e torna all’umano.

A quali domande intende rispondere “Tecnosofia” ?

Prima di tutto alla domanda circa la necessità del progresso. Noi non siamo schiavi della tecnica (se mai, siamo schiavi di altri umani che si avvalgono della tecnica per dominarci, ma questo è un altro discorso), né soprattutto siamo vittime del progresso. Indubbiamente il progresso ha causato danni enormi, come vediamo tutti i giorni, a partire dalla crisi climatica per arrivare alla crisi sociale. Ma non si risponde ai danni del progresso con una qualche decrescita, bensì con un progresso più ampio e vero, proprio come non si risponde ai danni della tecnica ritornando allo stato di natura, dove non sopravviveremmo un istante, ma creando una tecnica migliore e più consapevole. La soluzione è sempre davanti a noi, mai dietro alle nostre spalle. E credo che sia un preciso dovere della riflessione teorica quello di creare una narrazione che veda nel progresso una opportunità da governare e non semplicemente una minaccia da evitare. Perché tanto l’umanità continuerà a progredire, secondo la logica della tecnologia, ma facendosi sfuggire di mano il controllo di quello che sta facendo, e sarà proprio in quel momento che si creerà la catastrofe che si tratta a tutti costi di evitare. Limitarsi a dire che bisogna fermare tutto e fare marcia inidietro è dannoso due volte, primo perché è inutile (non si blocca un bel niente, tutto continua ad andare avanti, lo abbiamo visto ai tempi della pandemia), secondo perché si concentra su una nostalgia del passato che distrae dalla progettazione del futuro.

Perché nel testo non ho trovate parole quali “Transumanesino”, “Postumanesimo”?

Perché nascono dall’equivoco che consiste nel pensare che ci sia stato per millenni l’umano e poi a un certo punto sia apparso il transumano o il postumano. Non è così. L’animale umano è strutturalmente un organismo sistematicamente connesso con dei meccanismi, che si tratti di clave o di occhiali, di schegge di selce o di telefonini. L’animale umano, cioè, è un essere in continuo divenire, ossia è perennemente impegnato nell’andare al di là di se stesso, quanto dire che è strutturalmente transumano, ed è sempre il successore di se stesso, è sempre collocato in una posizione postuma rispetto agli stati precedenti della propria evoluzione, quanto dire che è strutturalmente postumano. Ed è per questo motivo che, essendo l’umano per definizione postumano o transumano, non è chiaro perché proprio adesso dovremmo essere peculiarmente postumani o transumani. È un po’ come quando definiamo la nostra epoca “età della tecnica” non considerando che la tecnica è vecchia quanto l’umano, nasce con lui, dunque ogni età dell’umano è una età della tecnica, del postumano e del transumano.

Diceva John Cage: “Molti hanno paura del nuovo. A me spaventa il vecchio”.
Perché in tanti avversano e arretrano spaventati di fronte alle nuove tecnologie?
Da quali origini viene quel panico
?

Dalla difficoltà oggettiva di riuscire a immaginare delle soluzioni ai problemi del nostro mondo, che sono giganteschi perché il mondo umano è cresciuto enormemente, non nel senso che il pianeta si sia ingrandito ma perché in duecento anni gli umani sono passati da uno a otto miliardi. Il che non è solo un salto quantitativo ma anche un cambiamento qualitativo, perché quegli otto miliardi sono reciprocamente molto più connessi dei loro antenati, e le forme di vita si incontrano, si mescolano, confliggono. Questa situazione è difficile non solo da governare, ma anche semplicemente da comprendere, ed è a questo punto che nascono, insieme, il panico nei confronti delle nuove tecnologie e la nostalgia di un passato che prende i colori dell’idillio mentre era peggiore del presente. Banalmente, chi vorrebbe tornare in un mondo che, come quello della mia infanzia, aveva la catena di montaggio come forma di lavoro fondamentale e in cui le maggiori piazze dei centri storici erano degli enormi parcheggi?

……………………………………..

Maurio Ferraris – Guido Saracco
Tecnosofia
Pagine 192 * Euro 20.00
Versione E-book 11.99
Laterza


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