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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Mimmo Paladino a Modena


Alla Galleria Civica di Modena espone Mimmo Paladino.
Nel febbraio 2006 in una delle mie note web viaggianti in Cosmotaxi scrivevo: “Angela Vettese, donna di grande fascino intellettuale, e non solo intellettuale, dirige la Galleria dal luglio scorso e ha impresso alla stessa un nuovo avviamento espressivo e organizzativo che, dai programmi che conosco, la renderà uno dei poli espositivi italiani più interessanti, ci scommetto una bottiglia di Richeburg Romanée-Conti 1970… a proposito, Vettese, non deludermi, visti i costi di quella bottiglia mi manderesti in rovina!”.
Ci ho preso. E non sono andato in rovina perché quella Galleria continua a produrre un palinsesto di grande qualità.
La mostra di Paladino s’è aperta con una performance di Ginestra Paladino, figlia di Mimmo, dal titolo Stazioni di Passaggio. Brani d'epica umana che vedeval ’attrice – già interprete in scena e sullo schermo con Enzo Moscato, Isa Danieli, Pappi Corsicato, Paolo Sorrentino, Giovanni Veronesi, e con lo stesso padre Mimmo (in Quijote) – impegnata in testi di Cervantes, Marìas, Valéry, Rilke, Pessoa, e altri ancora.
Senza titolo, 2007Mimmo Paladino, ha concepito quest’esposizione come un omaggio al sapere epico, presentando un insieme di opere inedite - fra sculture, installazioni, disegni e dipinti - realizzate appositamente per questa occasione. Sviluppando la sua poetica nella bidimensione del quadro, nella tridimensione della scultura e dell'allestimento ambientale, l'artista mostra una volta di più la sua duttilità nell'associare diverse tecniche e diverse interpretazioni dell'opera.

Ad Angela Vettese, curatrice della mostra, ho chiesto: quali, in sintesi, i segni che prevalentemente t’interessano nell'opera di Paladino?

Paladino ha sviluppato nel tempo una poetica legata alla sua terra, che non è la Campania felice di Napoli e i suoi dintorni, ma una terra non bagnata dal mare dove i misteri sembrano gorgogliare con le terre calde e liquide delle solfatare. Streghe, antichi guerrieri, invasioni barbariche, guerre fratricide e la gente che continua nel suo lavoro... insomma un'epica fatta di alto e basso, di vittorie perdute, direi, di un tempo che è stato Magna Grecia e che ora è soprattutto silenzio. Nel suo lavoro pittura e scultura tornano a essere lingue vive, senza ammantarsi mai dell'eroismo che le ha accompagnate. Niente celebrazione, niente passato che fonda il presente, solo un presente che poggia sulle rovine del passato. E una speranza nel futuro attraverso la volontà di cultura che si annida a livello popolare, quasi appartenesse al codice genetico di civiltà tanto antiche.

Per i redattori della carta stampata, delle radiotv, del web: l’Ufficio Stampa della Galleria è guidato (benissimo) da Cristiana Minelli: galcivmo@comune.modena.it; 059 – 203 28 83

Mimmo Paladino per Modena
A cura di Angela Vettese
Palazzo Santa Margherita, corso Canalgrande 103, Modena
Organizzazione e Produzione:
Gall. Civica e Fondazione Cassa di Risparmio di Modena
Informazioni: + 39 059 – 20 32 911; fax + 39 059 – 20 32 932
Fino al 6 gennaio 2008


Generatore Nomade


Apparso nel 1950, “La folla solitaria” di David Riesman contiene una profezia rivelatasi esatta. In quel libro, infatti, l’autore sostiene che verso la fine del XX secolo e via via sempre più marcatamente, il nomadismo culturale sarà un protagonista della vita sociale del nostro pianeta, precisando che il fenomeno investirà dapprima l’Occidente.
Così è avvenuto.
La contaminazione delle culture è un tema che contrassegna molte esperienze dei nostri giorni e lo ritroviamo non a caso anche come leit motiv di molti festival e rassegne.
E se Riesman scriveva del grande nomadismo, in epoca più vicina, Walter Munich si sofferma sul micronomadismo, cioè sul fatto che anche in piccoli territori, caduta la diffidenza tribale, avviene oggi che “nel villaggio globale i villaggi locali frequentino i confinanti tra continue sorprese”.
A queste cose mi ha fatto pensare asSaggi - Generatore Nomade 2007 che a Tivoli si propone una ricognizione delle risorse espressive del territorio pur concedendosi puntate in altre regioni italiane.
Viene rilanciato quanto l’Associazione culturale Vento di tramontana già dall’anno scorso prospetta, e cioè l’esplorazione di quei progetti e di quelle realizzazioni che nell’area tiburtina tendono alla ibridazioni delle arti e dei loro linguaggi.
Quest’anno asSaggi presenta, accanto a professionisti già affermati, gruppi emergenti della provincia romana selezionati attraverso un concorso lanciato mesi fa.
La direzione artistica è di Elvira Frosini che opera a Roma con il Teatro Kataklisma.
A lei ho chiesto d’illustrare in sintesi gli intenti della rassegna.

asSsaggi - Generatore Nomade 2007, come dicevi poco fa, vuole avviare un discorso sulle nuove forme della ricerca teatrale e performativa sorte a Tivoli e dintorni. L'intento della rassegna è dunque aprire un dialogo, far lavorare fianco a fianco singoli artisti e compagnie esponenti della nuova ricerca, della sperimentazione.
La rassegna, fortemente voluta dall'Assessore alle politiche sociali del Comune di Tivoli Jacopo Eugenio Tognazzi, proietta un piano di lavoro che coinvolgerà anche nel prossimo anno i ragazzi del territorio, un progetto che è nelle nostre intenzioni concretizzare in un permanente percorso laboratoriale e creativo
.

Per il programma, cliccare QUI.

Generatore Nomade
Nuovi linguaggi della scena contemporanea
Scuderie Estensi, Tivoli
Dall’1 al 7 ottobre 2007
Ingresso libero


Cinema e Archeologia


Poco tempo fa, in queste pagine, mi sono occupato di Ebe Giovannini una filmmaker e antropologa che si è segnatamente occupata di un cinema che porta alla luce patrimoni culturali e ferite storiche di popoli lontani, come, ad esempio nel suo recente lavoro La corona di Montezuma. La sua partecipazione ad una vicina rassegna mi dà lo spunto per scrivere di un Festival di grande rilevanza internazionale – si svolge presso il Museo Civico di Rovereto – quest’anno particolarmente dedicato all'Archeologia delle Americhe con una sezione speciale centrata sulle civiltà alternatesi sui territori dell'antico Iran.
Dario Di Blasi dirige questa Rassegna Internazionale dedicata a Cinema e Archeologia giunta alla 18a edizione.

Davide Domenici, Direttore Progetto Archeologico Rio La Venta nel Chiapas:
In Italia, l’archeologia dell’America precolombiana è forse la meno conosciuta tra le tante archeologie delle diverse regioni del mondo. Questa diffusa ignoranza, con la grande curiosità che il grande pubblico mostra verso il passato dei popoli indigeni americani. Questa situazione ha fatto sì che la divulgazione dei temi di archeologia americana sia stata spesso “terra di conquista” per comunicatori televisivi di infimo livello culturale, pronti a far appello a presunti “misteri” o “enigmi” la cui trattazione sfocia sovente nel campo dell’esoterico e del paranormale.
In tale quadro, la produzione e la divulgazione di documentari di archeologia americana che riescano a coniugare il rigore scientifico con l’uso di linguaggi accessibili ad un pubblico ampio è quindi non solo auspicabile ma urgente e necessaria
.

Pierfrancesco Callieri, Direttore Missione di scavo dell'Università di Bologna in Iran:
Paese ricchissimo di testimonianze archeologiche, l’Iran vive oggi in una sorta di isolamento che lo allontana tra l’altro dai flussi del turismo mondiale, ma che non gli impedisce la condivisione piena di quelle grande tematiche che anche in Occidente animano il dibattito sui beni culturali.
La scelta del Festival di Rovereto di dedicare anche all’Iran l’edizione del 2007 costituisce pertanto una coraggiosa decisione di grande attualità, che mostra la forza della cultura nel superamento di barriere politiche e ideologiche e nell’avvicinamento delle genti mediante la conoscenza. Per molti, la visione dei documentari rappresenterà una vera scoperta
.

Per leggere il programma del Festival, cliccare QUI.

L’ Ufficio stampa è guidato da Claudia Beretta: museo@museocivico.rovereto.it

“Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico”
Museo Civico, Borgo Santa Caterina 43
Tel: 0464 – 43 90 55; Fax: 0464 – 43 94 87
Rovereto dall'1 al 6 ottobre 2007


Lavori in corso d'opera


Seconda edizione di Lavori in corso d’opera: installazioni site specific - street art - performaces - video – audioset, il tutto a Massa Lombarda; la manifestazione si propone di diventare il biennale Festival delle Arti di quella località.
Luigi StaraceNell’immagine accanto un lavoro fotografico di Luigi Starace ospite della rassegna.

Dice il direttore artistico Lamberto Caravita: Il titolo riassume lo spirito e l’idea di base che anima l’intero progetto espositivo, ovvero quella dell’ opera d’arte che nasce per lo specifico contesto. Infatti le installazioni saranno appositamente realizzate a seconda della propria collocazione all’interno della ex chiesa del Carmine, oggi divenuta Sala Polivalente, sede di esposizioni e spettacoli culturali. Alcune opere saranno realizzate direttamente durante le prime giornate di apertura, altre ancora prenderanno vita dopo la messa in scena di performance nelle giornate del 30/09 e del 21/10. E’ l’idea, quindi, di un cantiere dell’arte, di una mostra-laboratorio permanente, di uno spazio che muta e si evolve nel corso del tempo. Anche il catalogo della mostra verrà costruito “in corso d’opera” e presentato in chiusura, poiché conterrà le foto tratte dai video, delle performance e delle installazioni così come sono state realizzate sul posto; testo critico di Sabina Ghinassi. Il festival ancora una volta, vuole portare il pubblico e le istituzioni cittadine a fruire gli spazi della quotidianità in modo originale attraverso una serie di eventi dalla forte contaminazione di linguaggi e proposte artistiche tra le più innovative in campo nazionale, con artisti capaci di far interagire il loro lavoro con il contesto architettonico della chiesa del Carmine e gli spazi ad esso circostanti.

Per i nomi degli invitati: QUI.

“Lavori in corso d’opera”
Ex Chiesa del Carmine
Massa Lombarda
Info: tel. 0545 – 98 58 31
Fino al 21 ottobre


Quelli che conobbero Kafka


Impossibile stabilire quanti libri al mondo siano stati scritti su Franz Kafka.
Fiumi di teorie e interpretazioni che Michael Löwy, uno specialista in studi su Kafka, suddivide in 6 categorie:

- le interpretazioni strettamente letterarie puntate sul testo e non sul contesto;
- le letture biografiche, psicologiche e psicoanalitiche;
- le letture teologiche, metafisiche e religiose;
- le letture dalla prospettiva dell’identità ebraica;
- le letture postmoderne che riflettono sull’inspiegabilità degli scritti kafkiani;
- le letture socio-politiche.

Sembrerebbe impossibile, quindi, scrivere un libro sul grande praghese senza rientrare in una delle categorie citate prima, eppure c’è chi ci è riuscito. Perché – grazie all’Editrice nottetempo – è stato tradotto in italiano un volume che un occhio distratto potrebbe scambiare per un libro biografico, ma lo è in un modo del tutto originale tanto da non poter essere ascritto strettamente fra le biografie.
Si tratta di Quando Kafka mi venne incontro…. N’é autore Hans-Gerd Koch, nato nel 1954, docente di letteratura tedesca a Berlino; da vent’anni si occupa di Kafka e ne ha curato le edizioni delle opere maggiori.
Perché il suo libro è originale? Perché a parlare del grande scrittore, come in un documentario su schermo, vengono in primo piano con i loro racconti persone che hanno conosciuto Kafka, talvolta in modo rapido e occasionale, talaltra in modo amicale e approfondito. Non manca fra questi Gustav Januch (1903 – 1968) di cui molti conoscono il famoso “Colloqui con Kafka”, ma, come conferma Koch, il suo resoconto è poco attendibile perché in gran parte frutto di fantasia.
I ben 45 testimoni (per ognuno di loro è redatta una scheda biografica) che sfilano nelle pagine di Koch, però, non sono tutti come forse lo è stato Januch e riferiscono episodi confermati da date, altre testimonianze, cronache del tempo. La somma di queste voci (registrate senza che una sapesse dell’altra), il loro diverso esprimersi secondo il grado di cultura, estrazione sociale, intimità con lo scrittore, convengono tutte, proprio tutte, nel tracciare un unico ritratto e questo conferisce al libro carattere di verità e di preziosa storicizzazione perché mai più sarà possibile ascoltare quei testimoni.
C’è dell’altro. E’ impressionante notare come donne e uomini parlino del tempo e dell’ambiente in cui Kafka visse. Ci forniscono una chiave di prim’ordine per capire le origini della scrittura kafkiana. Vengono fuori descrizioni di un austero preside che sembra librarsi irraggiungibile, cupi uffici dai lunghi corridoi, alte riunioni ministeriali da cui usciranno coinvolti bassi destini d’ignari impiegati, giornate grigie e interminabili trascorse da copisti chini su fogli dalle oscure dizioni.

Hans-Gerd Koch
“Quando Kafka mi venne incontro…”
Traduzione di Franco Stelzer
19 foto fuori testo
Pagine 361; Euro 18:00
Edizioni nottetempo


Dalla pagina dell'Enciclopedia


Gugliemo Achille Cavellini (1914-1990), è uno degli artisti più originali della seconda metà del secolo scorso. Intorno a GAC, è calato un silenzio colpevole da parte dei critici italiani mentre all’estero su di lui fanno tesi di laurea, scrivono saggi, organizzano mostre.
Se non sbaglio, in questi più recenti tempi, anche da noi, però, qualcosa si sta muovendo e noto, con gioia, che la sua figura compare in alcune mostre.
Gugliemo Achille Cavellini scommise di campare cent’anni. Non vi riuscì, purtroppo. Ma lanciò un’opera di autostoricizzazione che arriva fino al centenario (2014) .
Lo testimonia la mostra in corso al Museo Ken Damy.
Dalla pagina all'EnciclopediaEcco come il critico d’arte Piero Cavellini, figlio dell’artista commenta l’esposizione.

La caparbietà di Ken Damy aggiunta a quella di Guglielmo Achille Cavellini formano una miscela esplosiva. La detonazione che nel 1991 ha dato origine a questo count down verso il 2014 non si arresta di fronte a nulla. Sembra di rivivere la stessa frenesia messa in campo durante la sua vita d’artista dall’autore del centenario. Ci tocca chiamarlo così visto che con geniale previsione post mortem ci costringe piacevolmente all’attesa di un lavoro che continua inesorabilmente anche dopo la sua esistenza terrena.
La diciassettesima tappa mette proprio in campo la collaborazione tra il fotografo e Gac, che a partire dal 1974 è stata intensa e produttrice delle immagini più esplicite della funambolica autostoricizzazione con trasformazioni e travestimenti che ora ci paiono come stupefacenti anticipazioni di una cultura che si sarebbe poi diffusa a partire dagli anni ’90.
L’artista progetta ed il fotografo scatta. Quanta partecipazione ci sia da parte dell’esecutore diventa forse ora questione secondaria, ma le reciproche storie personali fanno pensare che probabilmente la miccia fosse accesa fin da allora.
Nel 1973 GAC forma la propria auto-storia come pagina dell’enciclopedia e questa paginetta che ha radici nella realtà ed un finale trasformista si traduce in un fiume di scrittura che dilaga anch’esso oltre il reale. L’oggetto di questo avanzamento verso il centenario considera gli aspetti dinamici di questa azione-reazione, entra nei particolari ripresi da Ken Damy in scena e fuori scena.
Un’esposizione fotografica dunque dei vintage più espliciti stampati per GAC che ruota attorno ad un elemento scultoreo che dell’autostoricizzazione è l’attrezzo emblematico: i due manichini scritti, ricoperti della propria storia
.

Gugliemo Achille Cavellini
“Dalla pagina dell’Enciclopedia”
Museo Ken Damy
Loggia delle mercanzie
Corsetto Sant’Agata 22, Brescia
Fino all’11 ottobre


L'avventura della vita


Seneca diceva “Meglio non essere mai nati”. Sono d’accordo. Ma visto ch’è andata così, cerchiamo di capire che cosa e perché ci è successo.
L’Editrice Dedalo ce ne offre l’occasione con L’avventura della vita pubblicato nella Piccola Biblioteca di Scienza diretta da Elena Ioli, collana destinata ai ragazzi, ma che – specie in questo caso – può essere utile anche a chi proprio ragazzo non lo è.
L’autrice di questo denso volumetto – illustrato a colori da Andrea Minetto e Lavinia Casaletto – è Clara Frontali. Laureata in Fisica all’Università La Sapienza di Roma, ha svolto la sua carriera di ricerca in biofisica e biologia molecolare presso l’Istituto Superiore di Sanità. Parallelamente ad una intensa attività sperimentale nel campo della genetica molecolare (in particolare sul Plasmodio della malaria) ha svolto attività istituzionale soprattutto riguardo alla normativa nel campo delle biotecnologie ed ha rappresentato l’Italia in diverse sedi internazionali (Oms, Ue, Ocse).
L’avventura della vita, come dicevo poco fa, può risultare di utile lettura anche per genitori e insegnanti perché li pone in grado di illustrare temi complessi, o rispondere a domande, in modo semplice e chiaro.
A Clara Frontali ho chiesto: qual è l’immagine della scienza che hai voluto comunicare con questo libro?

Il mio scopo è stato quello di mostrare come la costruzione scientifica non sia un cumulo di fatti - così come un cumulo di mattoni non è una casa - ma prenda forma attraverso modelli interpretativi che (ieri come oggi) possono essere modificati o sostituiti alla luce di nuove osservazioni. Anziché presentare un quadro delle conoscenze attuali già pronto e confezionato, l’intento è dunque quello di ripercorrere una ‘storia delle idee’ (incluse quelle che sono state abbandonate), in forma di racconto accessibile ai ragazzi. Penso che sia importante fornire loro un’immagine della scienza diversa da quella -abbastanza terrorizzante - di un sapere monolitico, fatto di certezze, e presentare piuttosto il formarsi del sapere scientifico (come realmente è) come uno sforzo collettivo e imperfetto, che proprio in quanto tale è fonte di dubbio sistematico, di continua revisione critica, di confronto. Viviamo in un’epoca in cui si moltiplicano le posizioni antiscientifiche: rivolgersi ai ragazzi significa speranza nella possibilità di preparare una generazione che viva con la scienza un rapporto meno angoscioso.

Perché il libro è intitolato “L’avventura della vita”?

Il termine ‘avventura’ dà il senso di qualcosa che è iniziato ma che non ha uno svolgimento predeterminato. Nel rispondere alla domanda ‘Che cosa è vivo?’ ho cercato di ripercorrere la storia delle idee sul vivente, mettendo in evidenza i punti di svolta che hanno portato all’abbandono di modelli non più validi. Il racconto parte da Cartesio, passa per le controversie sulla generazione spontanea, sulla costituzione atomica della materia, e - dopo aver introdotto il concetto di molecola - descrive la progressiva identificazione delle molecole essenziali per la vita. Emergono così inevitabilmente le due visioni che per secoli si sono contrapposte: quella di chi fa ricorso ad una ‘forza vitale’ per spiegare i fenomeni del vivente, e quella di chi cerca di ricondurre questi stessi fenomeni nel quadro delle leggi naturali. Si viene poi a parlare dell’origine della vita sulla Terra, dei meccanismi dell’evoluzione, e della possibile presenza di vita su altri pianeti. L’insolita prospettiva di guardarci ‘dal di fuori’ aiuta a combattere le pervicaci tendenze antropocentriche che vedono l’uomo come il punto di arrivo di un cammino evolutivo che segue un ‘disegno intelligente’.

Già, quando ogni disegno si autodefinisce presuntuosamente “intelligente” finisce con l’assomigliare a quelle vacanze un po’ cretine.

Per una scheda sul libro: QUI.

Clara Frontali
“L’avventura della vita”
Pagine 120, illustrato a colori; Euro 10:00
Edizioni Dedalo


L'etica del desiderio


Anni fa, a Roma, la figlia prediletta, e allieva, di Jacques Lacan, Judith, disse che l’attualità del pensiero di suo padre consisteva principalmente nell’avere intuito … il disagio della nostra civiltà derivante dalla promessa costante della felicità. Si tratta, invece, di dare a ciascuno i mezzi per esplorare la causa del proprio desiderio e sapere che quanto resta d’irriducibile si può solo accerchiare, simbolizzare. La cancellazione del sintomo ha, infatti, conseguenze drammatiche sulla vita quotidiana. L’esempio estremo è quello dei bambini americani che allorché disturbano i genitori, vengono imbottiti di neurolettici.
Jacques LacanNon sono uno specialista della materia, ma posso solo dire che la figlia si fa capire meglio del padre. A Lacan, infatti, è stata sempre imputata una impenetrabilità delle sue pagine che rendono (a differenza di Freud, ad esempio), dissuasiva la lettura e ostica la comprensione.
Confesso di mai essere riuscito a superare le due pagine di uno scritto di Lacan, poi passavo rapido a Dylan Dog. Devo vergognarmene? Forse sì, ma, a mia scusante, so che tale cosa è capitata non solo a uno zuccone come me, ma anche a eletti ingegni – Heidegger, per citarne uno – che, però, non poteva confortarsi con gli albi di Tiziano Sclavi perché non erano ancora stati pubblicati.
Si sono, invece, brillantemente misurati in quell’epica impresa Bruno Moroncini e Rosanna Petrillo che nel recente loro saggio L’etica del desiderio, pubblicato da Cronopio, hanno commentato passo passo il seminario tenuto da Lacan negli anni 1959-60 dedicato all’etica della psicoanalisi.
Bruno Moroncini è docente di Antropologia filosofica presso l’Università di Salerno; Rosanna Petrillo insegna storia e filosofia nei licei.
Il volume offre la possibilità di trascorrere non soltanto attraverso il territorio psicoanalitico, ma anche per il retroterra letterario, scientifico, filosofico su cui si basa il pensiero di Lacan. Nel libro è affrontato pure il rapporto – fonte di non poche polemiche – fra il pensiero freudiano e quello lacaniano. Forse una frase pronunciata da Lacan un anno prima di morire può gettare luce sul problema: “Io sono freudiano, sta a voi essere lacaniani”.
Ho già detto dell’oscurità di cui viene accusato lo psicoanalista francese, eppure ha scritto un aforisma chiarissimo che anni fa quando nacque questo sito volli mettere come epigrafe ad una delle sue sezioni: L’amore è dare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole.

Bruno Moroncini – Rosanna Petrillo
“L’etica del desiderio”
Pagine 258, Euro 22:00
Cronopio


La ragazza del lago


Giorni fa, recensendo L'ora di punta, mi soffermavo sul cattivo momento che sta attraversando il cinema italiano.
Un’ulteriore prova l’ho avuta da "La ragazza del lago" diretto da Andrea Molaioli, film tratto dal romanzo 'Lo sguardo di uno sconosciuto' della norvegese Karin Fossum.
La storia trasposta dai fiordi nei laghi della Carnia soffre di più d’un balbettìo narrativo, si perde in avventurose esplorazioni psicologiche, incerta fra il giallo e il noir confonde in modo daltonico i due generi e si risolve attraverso faticosi dialoghi con la solita lentezza di tanto cinema nostrano. Poteva essere l’episodio di una serie intitolata “Il commissario Sanzio” (nome del protagonista) tanto possiede caratteristiche tv forzatamente gonfiate in dimensioni cinematografiche.
Toni Servillo fa sforzi disperati per tenere il film in piedi e se non si esce prima della fine dalla sala lo si deve a lui; anche se la sua interpretazione non è indimenticabile come nelle maiuscole prove fornite con Paolo Sorrentino, uno dei pochissimi registi italiani che stimo e che meglio ha valorizzato il grande attore napoletano.
Sacrificato in un ruolo sfocato è anche l’ottimo Marco Baliani che deve ancora trovare al cinema un regista che ne evidenzi il grande talento; per volume di ruolo ebbe una chance in “Domani” della Archibugi, ma se quella pellicola fu un flop non fu certo colpa sua perché anzi in quello scervellato film se la cavò benissimo.
La frase conclusiva del trailer fa dire a Servillo riferendosi al cadavere della ragazza assassinata: "Chiunque l’ha messa in quella posizione le voleva bene".
Commissario, lo giuro, non sono stato io: il regista me l’ha fatta amare pochissimo.

“La ragazza del lago”
Regìa di Andrea Molaioli
Distribuzione: Medusa
Durata: 1h e 49'
Nelle sale dal 14 – 09 – ‘07


Festival a Terni


Si legge nel ‘Trattato di funambulismo’ di Philippe Petit: Chi è fiero della propria paura osa tendere cavi sui precipizi.
Questa frase è stata presa a simbolo dell’attraversamento delle arti da Es.Terni, Festival internazionale della creazione contemporanea giunto quest’anno alla seconda edizione e che vedrà per undici giorni da oggi, Terni diventare un cantiere creativo presentando teatro, danza, arti visive, performance, installazioni, video.
LogoViene così a rafforzarsi il percorso di sperimentazione del distretto culturale cittadino attraverso il coinvolgimento del polo culturale ex-Siri, del Centro Multimediale, del Centro di Palmetta, e della Bct Biblioteca Comunale di Terni.
Ecco come Grazia Morace presenta il Festival in un magnetico spot.

Quest’edizione di es.terni punta l'attenzione su una nuova generazione di artisti emergenti e dopo una selezione fra le oltre 250 domande pervenute, sono stati individuati alcuni soggetti ritenuti di particolare interesse: le prime cinque formazioni partecipano all'edizione 2007 di es.terni mentre gli altri li vedremo nel 2008.
Tra gli artisti coinvolti al festival particolare spazio è riservato al gruppo Kinkaleri che assicura una trasversalità di segni, la rappresentazione di plurali linguaggi; la coreografia italiana è di scena attraverso l'intervento di Raffaella Giordano con lo spettacolo per otto interpreti “Cuocere il mondo”, ispirato all' Ultima cena di Leonardo da Vinci; Alfonso Santagata presenta “Il sole del brigante”, mentre il Teatro Valdoca offre un suo “Misterioso Concerto”.
Le citazioni qui le ho crudelmente condotte escludendo coloro che non hanno propri siti web, è inconcepibile, infatti, che una compagnia (o un singolo performer), nell’anno 2007, non sia presente con una propria home in Rete mentre si misura con nuovi linguaggi.
Accanto agli italiani, artisti inglesi, olandesi, francesi, canadesi, svizzeri, tedeschi, belgi, americani, giapponesi che disegnano una geografia multidimensionale della scena contemporanea.

Per tutti i nomi e il programma del Festival, cliccate QUI.

Ufficio Stampa:
Luca Dentini: +39 328-9039552
Francesca Nichelini: +39 338-7464637
Sara Nobili: +39 349-6463206
Mail: stampa@exsiriterni.it

Festival Internazionale Es.Terni
2ª edizione
Da oggi al 30 settembre


Hans Ruesch


La notizia non è stata riportata dai media con l'eco che meritava: alla fine d’agosto, è morto Hans Ruesch, l’uomo che ha condotto le più aspre lotte contro la vivisezione.
La ricerca biomedica, com’è noto, è largamente basata sull’utilizzo di animali, con risultati che i media presentano come preliminari a grandi progressi medici. Sono invece fin troppo reali le conseguenze dannose, e spesso disastrose, prodotte sulla salute collettiva dal porre su fragili e ambigue analogie animale-uomo l’iter di sviluppo dei farmaci e la valutazione di rischio di sostanze potenzialmente tossiche. La salute dei cittadini ne soffre, non così è per i profitti stratosferici dell’industria chimico-farmaceutica.
Inoltre, gli animali vengono straziati non solo per la ricerca medica, ma anche per la sperimentazione di nuovi cosmetici.
In Italia larga informazione e attività sul tema è svolto dalla Lega AntiVivisezione.
Hans RueschRuesch nacque a Napoli nel maggio 1913 da genitori svizzeri lì stabilitisi.
Nell'ottobre del '38 emigrò negli Stati Uniti, per proseguire una carriera letteraria già iniziata con un romanzo che fu portato sullo schermo da Darryl Zanuck interpretato da Kirk Douglas nel ruolo del protagonista; il titolo italiano del film fu “Destino sull'asfalto”.
Il 1950 fu l'anno del suo primo vero best-seller, ”Paese dalle ombre lunghe”, dal quale fu tratto, da Nicholas Ray nel 1960, “Ombre Bianche” con Anthony Quinn nel ruolo dell'eschimese.
Scoprì poi la passione per la medicina, che studiò per alcuni anni. Fu allora che si accorse del tema vivisezione e si dedicò ad approfondire l'argomento diventando il maggiore esponente del movimento antivivisezionista italiano.
Le sue idee, esposte in Imperatrice nuda (1976), il primo libro che Hans Ruesch ha scritto fin dall'inizio direttamente in italiano, suscitarono scandalo e segnarono anche la fine della sua carriera letteraria. Ebbero inizio, infatti, persecuzioni giudiziarie e ostruzionismo dei media.
Altro suo notevole titolo: I Falsari della Scienza, edito da Civis, e nel 2005, La medicina smascherata (Editori Riuniti, Pagine 272; Euro 14,00). In questo testo-intervista, è possibile rintracciare il pensiero di Ruesch in modo sintetico attraverso le sue risposte sui principali spunti delle sue lotte.
Dice il curatore Marco Mamone Capria: Ruesh tocca numerose problematiche, ma soprattutto entra nei meccanismi politici, giornalistici ed editoriali utilizzati per emarginare certe opinioni (e i loro sostenitori) dal dibattito politico. Descrive la dinamica del movimento antivivisezionista internazionale, insidiato sia da debolezze interne sia da tentativi di infiltrazione.


Le sagrestie di Cosa Nostra

Si presenta come un reportage, ma è molto di più Le sagrestie di Cosa Nostra inchiesta su preti e mafiosi pubblicato da Newton Compton.
E’, infatti, un’ampia riflessione sociologica quella condotta da Vincenzo Ceruso, nato a Palermo, dove vive e lavora.
Laureato in filosofia, negli ultimi anni si è occupato particolarmente delle connessioni tra mafia e religione.
Il libro percorrendo le vie delle sagrestie, illustra come quelle strade s’intersechino con quelle dell’eroina e la religione diventi uno strumento funzionale al predominio criminale.
Il tema trattato dal volume, mi dà l’occasione per ricordare che la Chiesa – oltre a quanto sanguinosamente già avvenuto nei secoli passati – troppo spesso la si trovi a fianco di tenebrosi momenti e movimenti contemporanei. Certamente non mancano esempi luminosi dovuti a singole personalità di alto profilo morale da Don Milani a Primo Mazzolari, al vescovo Romero, a Don Puglisi (cui giustamente Ceruso dedica largo spazio). E ancora: i non pochi religiosi trucidati dai nazifascisti. Ma come non ricordare, solo per restare in Italia e nel secolo appena trascorso, la benedizione dei gagliardetti delle camicie nere in partenza per la guerra di rapina in Africa; il contributo della propaganda vaticana nel trasmettere la visione di Franco e del franchismo come male minore se non addirittura modello ideale per combattere l’ateismo; Padre Agostino Gemelli tra i 360 firmatari del “Manifesto della razza”; i molti sacerdoti volontari repubblichini “soldati di Dio e della Patria”, come li definì Mons. Della Vedova; il vescovo Alois Hudal che favorì la fuga da Roma di parecchi criminali di guerra nazisti; Padre Weber che dal Vaticano fornì un passaporto col falso nome di Ricardo Klement ad Adolf Eichmann meritandosene i ringraziamenti (vedi filmati del processo): “fu così che, grato, decisi di onorare la fede cattolica divenendone membro onorario”, Woityla che vola in Cile a stringere la mano a Pinochet dopo il golpe…
Vincenzo Ceruso, con una scrittura scattante, quasi da sapiente giallista, scrive non solo delle collusioni accertate tra sacerdoti e capi mafiosi, ma anche di “quell’odore di mafia” di cui “anche preti che non sono stati chiamati a rispondere di alcun crimine, che vivono a contatto con Cosa nostra, quell’odore – non c’è nulla da fare – non riescono proprio a percepirlo”.
Tempo fa lanciai la proposta ai miei lettori di segnalare - con attendibili prove, s'intende - un mafioso ateo. Non ebbi alcuna segnalazione. Ho chiesto a Vincenzo Ceruso: il tuo libro ben fa capire perché a quella mia provocatoria richiesta non fosse possibile dare risposte.
Perché un mafioso non può essere ateo?"

Un mafioso non può essere ateo.
La mafia è differente da qualunque forma di criminalità organizzata per le profonde e continue relazioni che intesse con il sistema sociale, economico e politico in cui opera. La mafia è conficcata nella società. Un uomo d'onore non è (semplicemente) un deviante né, tantomeno, un emarginato nell'ambiente in cui vive. I mafiosi fanno gli imprenditori, gli impiegati, gli operai, i medici, i politici. E, dato che sono nati in Sicilia, sono cattolici. Almeno nei tratti esteriori. Questo non significa che siano tutti devoti praticanti. Tommaso Buscetta, detto il boss dei due mondi, non andava mai a messa. Bernardo Provenzano, l'ultimo capo dei capi di Cosa nostra, aveva cinque bibbie e un confessore personale, seppure rimasto sconosciuto (ma qualche ipotesi si potrebbe fare...). Detto questo, si può anche sostenere il contrario.
I mafiosi sono atei in un senso profondo.
Sosteneva Giovanni Falcone che entrare nella mafia è come convertirsi ad una religione.
La religione di un mafioso è Cosa Nostra. Il suo dio è il capofamiglia
.

Per una scheda sul libro: QUI.
Vincenzo Ceruso
“Le sagrestie di Cosa Nostra”
Pagine 304, Euro 9:90
Newton Compton


Derek Jarman


Le edizioni Alet hanno pubblicato Ciò che resta dell’Inghilterra di Derek Jarman, per una sua biografia: QUI.
La traduzione è della scrittrice Nicoletta Vallorani; in sua compagnia, tempo fa, ho fatto un vertiginoso viaggio spaziale. A lei ho rivolto due domande.

Nicoletta, di Jarman si conosce la sua poliedricità espressiva che spazia dal videoclip musicale alla land art, dalla pittura al cinema. Meno, mi pare, si sa della sua produzione letteraria. Oltre al libro che hai tradotto c’è dell’altro?

In realtà, la produzione che tu definisci letteraria è per Jarman un effetto collaterale del vivere e del produrre arte. Molti dei testi Jarmaniani che hanno questa valenza non sono stati scritti per esser pubblicati, ma sono nati come riflessioni sulla pratica artistica, spesso editati da altri, e, da The Last of England in avanti, sono meditazioni sulla malattia e sulla morte, e su come questo possa riepilogare il senso di una vita intera. I diari di Jarman (Modern Nature e Smiling in Slow Motion) sono oggi difficilissimi da trovare anche in inglese e sono testi struggenti e compositi, del tutto anomali nella capacità di combinare autobiografia dolorosa (di fatto i diari accompagnano Jarman dalla diagnosi di sieropositività alla morte), riflessioni sulle pratiche artistiche, impegno sociale e civile, straordinari frammenti poetici nei quali il lirismo si combina con l'umor nero e con una lucida valutazione di certi scandalosi eventi legati all'Aids e alla criminalizzazione dell'omosessualità. Più pubblico, e deliberatamente orientato verso il sociale è At your own risk: dire che è un pamphlet politico, come qualcuno ha fatto, è riduttivo. Di nuovo si tratta della storia di come una pratica artistica diventi di necessità politica - ovvero pertinente all'economia relazionale della polis - in una condizione di disagio specifico, e di emarginazione profonda. Chroma raccoglie testi sui colori, e tra essi lo script dell'ultimo, splendido e struggente non-film di Jarman (Blue, un film di sole parole, su uno schermo blu klein, dall'inizio alla fine). Insomma, il discorso è complesso. E sarebbe di certo interessante che un editore italiano - Alet, perchè no? - ricostruisse il tracciato di questa produzione Jarmaniana.

Qual è l’importanza del libro “Ciò che resta dell’Inghilterra” e che cosa dà a chi lo lègge?

Si tratta di un testo fondamentale da molti punti di vista. La lettura è ad almeno due livelli: da una parte, ci sono le note di regia e di realizzazione del film, alla cui visione il testo va senz'altro affiancato; dall'altra, l'idea di raccogliere queste note nasce dal fatto che The Last of England accompagna la diagnosi di sieropositività e contiene dunque la prima elaborazione di una morte imminente. Jarman ricostruisce il suo passato, e come accade nel film, combina l'individuale - i frammenti di home movies contenuti nel film - e il collettivo - il senso simbolico di un vivere civile inglese che sta andando in pezzi, subito dopo le Falkland. A proposito di The Last of England, si è spesso detto che si tratta di uno dei film più politici di Jarman. Non so se sono d'accordo, almeno non nel senso che viene di solito dato a questo termine. Jarman ha un'empatia profonda rispetto a un paese che dichiara di amare ma che rappresenta in modo impietoso, con l'occhio acuto di molti artisti. Si fa comunque fatica, io credo, a usare per Jarman il termine "politico": Jarman è sostanzialmente, a mio parere, un impolitico che si trova a vivere nel centro esatto di tempi difficili e civilmente prende posizione, utilizzando i suoi talenti per sollevare un discorso quanto mai necessario, che in pochissimi hanno saputo fare, prima e dopo.

Derek Jarman
“Ciò che resta dell’Inghiltera”
Traduzione di Nicoletta Vallorani
Pagine 264; Euro 21:50
Libro + Dvd
Edizioni Alet


L'ora di punta


Giorni fa, segnalando il Premio Uaar al Festival cinematografico di Venezia, facevo qualche amara considerazione su come stia messo male il cinema italiano di oggi.
Ho avuto una nuova prova di quel cattivo stato con L’ora di punta di Vincenzo Marra che pare abbia però fatto un buon film documentario (purtroppo non l’ho visto) con L'udienza è aperta.
Di sicuro, L'ora di punta non entrerà a far parte delle migliori prove di questo regista.
Film lento, dalla storia prevedibile, che condotto attraverso episodi assolutamente poco credibili (per dirne una, compromettenti incontri e mazzette pagate en plein air dov’è più facile essere riconosciuti, fotografati, intercettati) racconta la disonesta ascesa sociale d’un militare della Guardia di Finanza.
Francamente non vale la pena di trattenersi oltre su questo film – nel cast una bravissima Fanny Ardant e un molto promettente attore protagonista: Michele Lastella –, ma è l’occasione per una riflessione.
Il guaio del nostro cinema sta proprio nei registi e in larga parte degli sceneggiatori che scrivono storie da sceneggiati a puntate con ritmi da tv del tutto inadatti al grande schermo. Però del tutto diversa è la situazione per quanto riguarda i direttori di fotografia – in “L’ora di punta” è del tutto sprecato un grande com’è Luca Bigazzi –, attrici e attori giovani che mostrano ottime potenzialità, bravi montatori, buoni musicisti, caratteristi di eccellente livello, maestranze che nulla hanno da invidiare a quelle dei set più celebrati.
Tutto questo patrimonio è, assai spesso, dissolto da un cinema fatto da autori intenti in predicozzi, litanie giornalistiche; gente che si prende terribilmente sul serio: lo capisci da come muovono la macchina, come montano le scene, una solennità di chi si sente già tramandato alla storia.
E così passano sullo schermo storie le quali, aldilà dei difetti narrativi che pur presentano, sono o troppo intellettualistiche oppure incolte senza essere selvagge.
Come dare torto a Quentin Tarantino il quale – con dolore perché ama il nostro cinema – ce ne dice di tutti i colori?

L’ora di punta
Regìa di Vincenzo Marra
Durata: 96'
Distribuzione: 01 Distribution
Nella sale dal 07 Settembre 2007


Le Arti in Città


A Perugia, domani si apre una rassegna di comunicazione e arti contemporanee intitolata Le Arti in Città.
LogoIl fitto programma che avrà la durata di un mese è coordinato da Piercarlo Pettirossi.
La manifestazione – sostenuta dal Comune – si propone di comporre un mosaico di ricerca estetica e sociale sul territorio urbano e non a caso punta sull’idea d’attraversamento, d’itinerario, prendendo a propria ispirazione parole dello scrittore cileno Luis Sepulveda: Il viaggio è una dichiarazione d’amore per la diversità.
Tre le direttrici lungo le quali si muove questo percorso di sperimentazioni e realizzazioni:
FlussiGerminazioniUmane energie.

Si avranno workshops incentrati sull’interazione fra arti visive e sonore, installazioni, performances audio-video, laboratori, seminari, creazione di ambienti intermediali e immersivi.

Per conoscere motivazioni e profilo del progetto: CLIC.

Per il programma, cliccare QUI.

“Le Arti in Città”
Perugia
Info: tel. 075 – 577 28 14
e-mail: info.cultura@comune.perugia.it
Dal 15 settembre al 14 ottobre ‘07


L'ultimo lettore


La collana Bookever degli Editori Riuniti, diretta da Paolo Valentini continua a viziarci mandando in libreria volumi di grande qualità.
Bookever – partita nell’agosto 2006 – è dedicata alla letteratura latino-americana e ispanica; accanto a noti autori (cito uno per tutti: l’uruguayano Mario Benedetti) ha già fatto conoscere in questo suo primo anno di vita anche scrittori finora mai tradotti in italiano, come, ad esempio, Mario Bellatin (ha riscosso un grande successo alla Fiera del Libro mesi fa), José Luis Correa, e un gruppo di novellieri cubani raccolti nell’antologia Nero e Avana.
Novità per l’Italia è anche questo bravissimo David Toscana nato nel 1961 a Monterrey, in Messico. Ha cominciato a scrivere a 29 anni debuttando nel 1992 con “Las Bicicletas”. I suoi libri sono stati tradotti in molte lingue.
Se conoscete lo spagnolo potete leggere una sua intervista QUI.

L’ultimo lettore – questo il titolo recentemente pubblicato dagli Editori Riuniti – è un libro straordinario che ha già vinto tre premi letterari, tra cui quello di narrativa “Antonin Artaud”.
La nera trama, con macabre scene, è esile, quasi uno spunto, perché è il linguaggio e la struttura a dominare le pagine, ecco perché è straordinario.
In un villaggio viene trovato il cadavere di una bambina e il bibliotecario Lucio ne decide l’occultamento. Seguono vicende nelle quali sono i libri della biblioteca con le loro storie ad entrare nella vita di Lucio e del villaggio, risolvendo o complicando gli angoli di una piccola vicenda di uno sperduto villaggio messicano: Icamole.
Chissà se David Toscana sa che in italiano l’anagramma di Icamole è celiamo; per una storia d’occultamenti, non poteva darsi nome migliore.
A proposito… credo che il nome più azzeccato per un bibliotecario sia stato trovato per un personaggio di Star Trek: il bibliotecario Atoz , vale a dire A to Z.
I personaggi di L’ultimo lettore sono mossi dall’autore sulla scacchiera della narrazione come agiti dai polverosi volumi che riposano su scaffali che solo Lucio frequenta perché a Icamole i lettori mancano. Eppure è la letteratura a muoverli. A prevederne, quasi a provocarne i destini. Fino ad essere il libro stesso ad essere preconizzato e deciso da un futuro autore diventando oroscopo ed epifania della morte.

La collana Bookever s’avvale di un proprio blog in Rete: El Charco.

David Toscana
“L’ultimo lettore”
Traduzione di Maria Nicola
Pagine 219, Euro 15:00
Bookever – Editori Riuniti


Compleanno in casa Imaie


Festeggiano trent’anni d’attività all’Imaie.
Nata, dall’impegno delle organizzazioni sindacali dello spettacolo Cgil - Cisl - Uil, per proteggere la prestazione professionale degli interpreti esecutori, oggi gestisce i compensi di oltre 60.000 artisti italiani e stranieri, e può vantarsi di essere la società di collecting in Europa con il più basso costo di gestione.

A Mimmo Del Prete, Vice-Presidente dell’Istituto, ho rivolto un paio di domande.
Qual è la differenza tra i compiti dell’Imaie e quelli della Siae?

Gli istituti hanno le stesse finalità e funzioni, la differenza sta nel fatto che la Siae tutela i creativi-autori, ovvero chi compone una musica, una poesia, un testo teatrale, un’opera lirica, una canzone. L’Imaie, invece, salvaguarda i diritti degli interpreti e degli esecutori: attori, musicisti, cantanti, direttori d’orchestra.
La Siae tutela gli autori nei due comparti primari dello spettacolo dal vivo e nella protezione delle opere fissate su supporti diversi (cd, disco, films, dvd, eccetera)
L’Imaie tutela i compensi degli esecutori nella riutilizzazione delle opere registrate nel settore radiotelevisivo, nei locali pubblici, nella commercializzazione dei dvd con esclusione dello spettacolo dal vivo perché in quel caso la prestazione dell’interprete è compensata dal produttore dello spettacolo.
Questi diritti, sono talvolta visti (specie da chi evade dagli obblighi di legge) come freni alla divulgazione della cultura. La cosa è completamente priva di fondamento. Si pensi che, nonostante la maggiore, benvenuta, diffusione della cultura, il numero degli artisti, particolarmente nel campo dello spettacolo, diminuisce sempre di più e cresce il numero di quelli che vivono in condizioni di indigenza.
Anche l’Imaie, inoltre, è impegnata contro la pirateria, che oggi vede l’Italia, purtroppo, al primo posto in questa attività illegale che, guidata da organizzazioni mafiose italiane e straniere, realizza enormi profitti sfruttando i più deboli: ad esempio, immigrati, disoccupati, ragazzi.
In trent’anni di attività, l’Istituto ha dovuto impegnarsi nello svolgere un ruolo di accreditamento, in quanto come soggetto ultimo arrivato (quarto incomodo dopo editori - autori - produttori) nel campo degli aventi diritto, c’era nei suoi confronti molta diffidenza e supponenza, quindi, il nostro lavoro è stato faticosissimo
.

Quali le date più significative dell’Imaie e che cosa rappresenta oggi in cifre per lo spettacolo in Italia?

L’Imaie nasce il 16 Settembre 1977. La legislazione che le dà accreditamento parte da una Convenzione di Roma del 1961 e viene accolta nella legislazione italiana nel 1975.
Il riconoscimento dell’Imaie avviene con Legge del 1992 ed il primo diritto è stato concesso il 2 Febbraio del 1997.
Da qui si capisce come i tempi su questa materia siano lunghi.
Oggi eroga diritti agli artisti dei settori musica e audiovisivo per circa 25 milioni di euro l’anno.
Interveniamo, inoltre, per sostenere la produzione professionale di opere musicali ed audiovisive realizzate in autonomia dagli stessi artisti per circa 10 milioni per l’anno 2007. Nei prossimi giorni si terrà la seconda edizione del Premio "Opera Imaie"; manifestazione interamente dedicata all’ascolto e alla visione di estratti da opere realizzate con il sostegno accordato nel 2006
.

Tale rassegna si svolgerà a Roma, alla Casa del Cinema sabato 15 e domenica 23 settembre.
Per maggiori informazioni: tel. 06 – 46 29 84 31; e-mail comunicazione@imaie.it

Imaie
Via Piave 66, Roma
Tel: 06 – 46 20 84 31
Sito web: www.imaie.it


La posa infinita


Il Midoc è la principale rassegna internazionale della produzione di docufilm a tema culturale e di cinematografia d’impresa.
Si svolge a Milano presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia.
Il programma di quest’edizione prevede anche mostre che saranno aperte durante tutto il periodo del Festival.
Tra queste, segnalo quella di Antonello Matarazzo già ospite della Sez. Nadir di questo webmagazine.
Titolo: La posa infinita.
Si tratta di una videoinstallazione che ha per protagonisti popolani del sud Italia in tre vecchi ritratti fotografici che si animano impercettibilmente, facendo avvertire nella dinamica a loup la dilatazione del tempo che precede lo scatto fotografico.
Antonello MatarazzoCosì scrive Bruno Di Marino:

”La posa infinita” mette ancora una volta in scena lo scarto tra mobile/immobile che emerge dall’interfaccia cinema/fotografia, sotto le sembianze di un antico ‘portrait’ di gruppo nel quale le figure immortalate riacquistano vita artificialmente mediante movimenti minimi e un suono ambientale che restituiscono all’immagine cristallizzata nel tempo la sensazione di uno svolgimento “in diretta”. [...] E' quasi come se la foto non si fosse ancora materializzata, come se l'artista - pur mettendo in scena un'immagine, una rappresentazione - ci mostrasse qualcosa che viene prima di qualsiasi immagine e di qualsiasi rappresentazione possibile. In questo senso il "tempo morto" della posa rende ancora più realistico lo stile dell'installazione, poiché lo avvicina alla vita reale. Il realismo della fotografia ripensato e rielaborato rende “La posa infinita” qualcosa di totalmente onirico, una visione carica di tempo e di memoria, in cui la presunta allegria di un momento particolare, di festa, il mettersi in posa con il vestito buono, si rovescia nella disperata attesa di qualcos'altro. Probabilmente della propria morte.

Antonello Matarazzo dispone di un sito in Rete: cliccare qui.

Antonello Matarazzo
“La posa infinita”
Museo Naz. Scienza e Tecnologia
Via S. Vittore 21 - Milano
Info: 02 – 48 55 51; info@midoc.it
Tutti i giorni 18 – 24; ingresso libero
Dal 12 al 30 Settembre 2007


Il premio Uaar a Venezia


Il cinema italiano è uscito malissimo dal Festival veneziano.
Nonostante le affannate difese da parte dei dirigenti di alcuni carrozzon... pardon!... enti governativi e di alcuni autori beneficati.
Quentin Tarantino – uno che ammira la storia, anche di alcuni anni al quanto vicini, del nostro cinema – ha ragione nel giudicare l’attuale come un pessimo momento attraversato dai cineasti italiani.
La cosa, mi pare, non riguarda soltanto il cosiddetto cinema d’autore, ma anche quello di largo consumo; si pensi alla media qualitativa che passa tra i titoli prodotti un tempo nel filone della commedia all’italiana e i cinepanettoni di oggi.
Sabina GuzzantiIl solo film che ha beccato un patriottico premio è stato Le ragioni dell'aragosta che ha ottenuto il “Brian”, assegnato ogni anno dall'Uaar, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti.
Perché il Premio si chiama Brian?
“Abbiamo scelto di chiamarlo così dopo un sondaggio sul nostro sito internet” - spiega Giorgio Villella, segretario nazionale dell’Uaar – “Il riferimento e’ al film ‘Brian’ dei Monty Python del 1979, ma a noi piace pensare anche all’anagramma di Brain, cervello”.

La giuria composta da Paolo Ghiretti, Chiara Levorato, Maria Turchetto ha premiato il film di Sabina Guzzanti con la seguente motivazione:
Apprezziamo la puntuale critica alla dottrina cattolica in tema di "giustificazioni morali della guerra". Soprattutto condividiamo il messaggio civile di fondo: l'invito a continuare a desiderare un mondo e un futuro migliori anche quando viene meno la fiducia nella politica "ufficiale", l'invito a non scoraggiarsi e a provarci comunque, inventando nuove forme di aggregazione e di espressione, ci sembra particolarmente importante nell'attuale congiuntura italiana. In quest'epoca in cui cresce l'intolleranza a ogni critica e a ogni irriverenza ci sembra inoltre significativo premiare la satira, che difendiamo come irrinunciabile manifestazione di libertà.

Le ragioni dell’aragosta
Sceneggiatura e regìa: Sabina Guzzanti
Distribuzione: Istituto Luce
Durata: 90' 00”
Nelle sale dal 7 settembre 2007


Stellare e Birichino


Se per Torino passate, o da quelle parti vivete, e appartenete all’eletta schiera dei ghiottoni, non perdetevi una puntata al ristorante 'L Birichin, guidato dallo stellare chef e patron Nicola Batavia. Mi ringrazierete.
Nicola BataviaIn quel locale, arredato con sobria eleganza, incontrerete piatti e vini straordinari con un ammirevole equilibro fra prezzi e qualità. Non sto qui a dire quanto lì ho consumato, descrivere le pietanze la trovo un’operazione improbabile che fatalmente finisce in quel logoro gergo dei critici di gastronomia, me ne tengo lontano. Posso dire soltanto che Batavia ha creato un’impareggiabile armonia fra tradizione territoriale e innovazione, le sue creazioni sono esercizi di stile che producono emozioni sensoriali rare a trovarsi.
E poiché sono uno dei fans della sua sapienza enogastronomica, l’ho invitato quest’anno per la stagione 2007-2008 (partirà l’1 ottobre) a suggerire i vini che berrò con i miei ospiti nelle interviste che conduco nella taverna spaziale dell’Enterprise. Perché Nicola oltre ad essere un Maestro dell’alta cucina (… a proposito, ai redattori di guide che eventualmente non lo abbiano ancora inserito nelle loro pubblicazioni: fatelo di corsa se non volete finire nelle borgesiane cronache dell’infamia), è uomo spiritoso dalla battuta pronta di vispa intelligenza.
Gli ho chiesto un flash su quanto ha in programma alla riapertura del locale avvenuta giorni fa dopo la pausa estiva.

Le mie più recenti news? Beh, posso dire che ho ottenuto un altro tipo di stella.
Ho preso in mano tutto il catering per la Nike-vip-house durante le Olimpiadi di Pechino nel 2008. Cavoli ragazzi, megastimolo e prova! Non vedo l'ora…
Si rinnova quest’anno – siamo alla quarta edizione – un evento che misi su nel 2004: “Il gusto del territorio”, stavolta con cinque chef lombardi stellati miei ospiti.
Uno ogni settimana
.

Piccola riflessione conclusiva. Conosco tanti chef che serrano le porte della propria cucina ai colleghi. Pigrizia? Gelosia? Timore della bravura altrui? Non lo so. Ma so che Nicola Batavia, come abbiamo appreso, le porte, invece, le apre.
E questo la dice lunga su tante cose, che ve ne pare?

‘L Birichin
Via Monti 16/a, Torino
tel./fax: 011 – 65 74 57
Chiuso la domenica


Mirada


Mirada in spagnolo significa sguardo. Parola adatta a dare nome ad una Galleria d’Arte e, infatti, a Ravenna ce n’è una che così proprio si chiama: Mirada.
Quest’anno festeggia i suoi primi dieci anni d’attività, sempre più affinando il proprio ben articolato progetto proponendo oggi giovani artisti che agiscono prevalentemente nell’area del disegno e del fumetto.
Tra i tanti accolti, noto anche un nome, Gianluca Costantini, presentato nel 2004 da questo webmagazine nella sezione Nadir.
Dopo la pausa estiva, Mirada riapre con una mostra di Chiara Dattola nata nel 1978 a Varese, dove vive e lavora. Conseguito il diploma in Illustrazione all'Istituto Europeo di Design, collabora con importanti case editrici (De Vecchi, Bruno Mondadori, Zanichelli), riviste nazionali e straniere (Sole 24 Ore, Il Corriere della Sera, Internazionale, Giudizio Universale), studi di design e agenzie di comunicazione.
Nel 2006 e 2007 ottiene due Award dall'Associazione Illustratori italiani.
La mostra s’intitola: Un amore.
Lavoro di Chiara DattolaNon è un caso che sia omonima di un’opera di Dino Buzzati pubblicata nel 1963.
La mostra a Ravenna, infatti, ospiterà tavole originali appartenenti al progetto dedicato al giornalista e scrittore Dino Buzzati che, a partire dal 2006, nel centenario della nascita, è stato celebrato in un ciclo di numerosi eventi espositivi e di dibattiti nei quali Chiara Dattola è stata coinvolta in prima persona. È “Un amore” a catalizzare la sua riflessione, che la fa disegnare una ‘Laide’ (l'equivoca protagonista femminile del racconto) dalle linee asciutte e allo stesso tempo addolcite.
Scrive Ferruccio Giromini nel testo critico di presentazione che la Dattola ha una: … duplice e bifronte capacità: da un lato l'immediata felicità comunicativa che rende qualsiasi disegno infantile una piccola magia estetica, e dall'altro una studiata sapienza espressiva che dopo un lungo gioco di togli e aggiungi sforna un prodotto visivo conchiuso e coerente.

Chiara Dattola
“Un amore”
Galleria Mirada
Via Mazzini 83 - 48100 Ravenna
Tel: 0544 – 21 73 59; info@mirada.it
Dal 7 settembre al 7 ottobre


Il libro nero delle sette


Voltaire definiva “sette” tutte le religioni. E vagli a dare torto, aggiungo io.
In concorrenza con quelle più note (talvolta, però, anche dentro quelle), agiscono gruppi, più o meno consistenti, che, spessissimo, puntano a depredare i propri adepti determinando tragici destini psicologici e fisici degli affiliati.
Si deve alla Newton Compton l’uscita di un ottimo reportage che fa luce con cifre e documenti sul fenomeno; il volume è corredato, inoltre, da un vasto apparato di note, un’accurata bibliografia, un’aggiornata sitografia, e un utilissimo elenco di Associazioni e Centri di ricerca che indagano sulle sette e forniscono istruzioni per difendersene.
Titolo: Il libro nero delle sette in Italia; n’è autrice la trentenne giornalista Caterina Boschetti che agisce in Rete anche un suo sito web.
Il libro s’avvale di una prefazione del criminologo Francesco Bruno e di un’intervista a Umberto Eco che sottolinea come “… la fede nell’occulto annulla la storia, è un segnare il passo nel solco di una presunta Tradizione Eterna”.
Insomma, un libro necessario, scritto con molto rigore, attento a rilevare fonti finora inedite, che illumina bene territori che delle tenebre fanno il loro primo strumento di potere.
Tenebre, che è bene ricordare, si servono anche le religioni non definite "sette"; Schopenauer diceva: "Le religioni sono come le lucciole, hanno bisogno del buio per brillare".

A Caterina Boschetti, ho chiesto: che cosa s'aspetta chi, pur possedendo lucidità psichica e perfino in certi casi discreta levatura culturale, aderisce a una setta?

In primo luogo, è bene sottolineare che non sempre chi entra in un movimento pseudo religioso conosce a fondo il culto o l’ideologia che ne è alla base. A volte realtà deviate, quelle che io chiamo “schegge impazzite” di alcune fedi anche riconosciute, si mascherano dietro a un tradizionale gruppo di preghiera cattolico, a una finta associazione di volontariato, a corsi e seminari per accrescere l’autostima o perfino a finti pellegrinaggi. Nella maggior parte dei casi, comunque, chi entra in contatto con questi gruppi attraversa un momento complesso o addirittura molto difficile della propria vita: un lutto, la perdita di lavoro, la fine di un amore o una malattia (anche di un familiare o un amico); in altri casi si cerca una nuova dimensione di spiritualità là dove la religione tradizionale non ha saputo offrire all’individuo le risposte che sperava. In altre parole, si “insegue” una dimensione di benessere, di accettazione di sé da parte degli altri. Si desidera essere amati e ci si augura di trovare un senso più profondo, superiore alla mera quotidianità. E certi gruppi ne approfittano, circondando il neo adepto di eccessivo affetto e attenzione (il “love bombing”), lo convincono di essere un “eletto”, la persona che stavano aspettando per portare avanti l’opera di salvezza dell’intera umanità.

Da poche settimane in libreria, il volume ha già provocato rabbiose reazioni negli ambienti occulti legati alle sette, che si sono trasformate in minacce all’autrice
Caterina Boschetti, che sta realizzando per la Newton Compton un’inchiesta sui bambini scomparsi in Italia dagli anni Sessanta ad oggi, presenterà Il libro nero delle sette in Italia presso la Camera dei Deputati, venerdì 21 settembre alle ore 12.00.

Per una scheda sul libro: QUI.

Caterina Boschetti
“Il libro nero delle sette in Italia”
Pagine 480; Euro 12:90
Newton Compton


Fìdeg


Ha vinto il Campiello nella sezione ‘opera prima’ e sempre con il primo figlio di carta anche il Viareggio. Lo so, presentare in questo modo un libro significa dissuaderne dalla lettura, ma stavolta, credetemi, non è così. Immagino che i giurati assai affaccendati non l’abbiano letto altrimenti Paolo Colagrande nel suo bell’esordio con Fìdeg i premi non li avrebbe beccati.
Per esempio, al Viareggio, impegnati com’erano a litigare come legulei, il tempo dove lo trovavano? Hanno deciso di premiare tutta la terna finalista della sezione opera prima (con la farisaica formula "menzione speciale"), che è come premiare nessuno dei tre. In molti si sono scandalizzati delle furiose liti viareggine, ma penso che il vero scandalo non ha trovato lo spazio che meritava. Mi riferisco all’esclusione de “La casta” dal concorso perché non è stato giudicato un saggio. Poco saggia decisione, è uno dei migliori saggi che si possano leggere per capire la per niente saggia Italia di oggi.
Torniamo a Colagrande, è meglio và.
Ha scritto un libro acuto, divertente, veloce, con un linguaggio parlato che è uno dei più difficili da praticare sulla pagina perché se non tieni il ritmo giusto, la tensione linguistica adeguata, la scelta lessicale coesa, si sbraca dopo 1000 parole se pure ci arrivi.
Fossi in Colagrande manderei gli avvocati a chi definisce Fìdeg un romanzo come mi pare sia stato ripetutamente detto. E’ qualcosa di diverso e di meglio. Se fosse un romanzo mica starei qui a parlarne bene, chi conosce questa rubrica sa che io i romanzi li amo né punto né poco. E' un felicissimo comte philosophique raccontato come una parlata al bar rivolta ad amici che sono persone e non personaggi pur spiccando in 3D nel loro inchiostro, un discorso su letteratura e vita, politica e sentimenti, fatta con l’aria svagata di chi – ed è da ammirare l’eleganza – non dà troppo peso a ciò che dice.
In quarta di copertina scrive bene Paolo Nori: "L'incanto di questo libro è nelle divagazioni, e nel fatto che alla fine il protagonista non sembra molto cambiato, un po' ammaccato, forse, viene da dire, ma se lo aspettava".
In un momento in cui la scena letteraria italiana è seviziata dai cuoricini di Moccia, dall’incenso della Tamaro, da cento colpi di spazzola sugli occhi e altri siti anatomici dei lettori, mi ha dato gran gioia leggere Fìdeg … che cosa significa fìdeg?... eh no, mica ve lo dico, comprate il libro e lo saprete. Non vi pentirete dell’acquisto.
Concludendo, gran lode merita la giovane casa editrice padovana Alet che ha creduto con ottimo intuito in questo lavoro.

Per leggere un estratto dal libro: QUI.

Paolo Colagrande
“Fìdeg”
Pagine 208; Euro 12:00
Alet Edizioni


Archivio delle ferite


Giorni fa, ho parlato delle nuove cose in concorso al DigiFestival e fra le mail pervenutemi a commento delle visioni proposte, ce n’è una che lamenta lo smarrimento del link di un video che segnalai l’anno scorso.
Ho verificato: proprio così. Il link è cambiato.

Il lavoro che con molta convinzione proposi allora (e non ho cambiato parere) appartiene ad Albert Hofer il quale agisce in territori paralleli a quelli della Body Art con escursioni chirurgiche sul corpo, esplorazioni di pelli lacerate, corpi sexy, liete gite tra bambole horror e azioni splatter; solo immagini tra endoscopia e fumetto accompagnate da musica ipnotica; niente parole, meno male!
Insomma a me è molto piaciuto. Spero piaccia anche a quanti tra voi vorranno vederlo per la prima volta o rivederlo come mi è stato richiesto..

Come fare? Semplice, CLICCATE QUI.


Four Green Fields


E’ recentemente scomparso all’età di 75 anni il grande folksinger irlandese Tommy Makem.
Anni fa un gruppo di giovani birraioli ha dedicato il nome del loro locale a una sua famosa composizione del 1967: Four Green Fields.
Logo del localeE’ un delizioso pub che sorge a Roma, nel quartiere Prati, e se a Roma abitate o vi trovate di passaggio, vi consiglio di visitarlo.
Merita citazione anche il fatto – alquanto raro – che nel loro sito web in occasione della riapertura, dopo la pausa estiva, segnalino il ritocco dei prezzi che erano valorosamente fermi dal 2002; di solito, i gestori non sono tanto trasparenti nella loro presenza in Rete.
Sono prezzi, comunque, che per i livelli romani (alquanto feroci) dei pub, praticano ricarichi comprensibili come si può leggere dal listino esposto sul web.
L’accoglienza è molto cordiale, il servizio puntualissimo.
La gastronomia è lontana dai sapori da tavola calda che spesso sgradevolmente s’incontrano al pub, la scelta non è vastissima, ma quello che è offerto in lista è di buona cucina.
Clientela giovanile, vivace ma non chiassosa fino al punto d’assordarti impedendo di scambiare quattro chiacchiere al tavolo o al banco.
Dedicheranno nei loro programmi musicali una serata a Tommy Makem?
Spero di sì. Visto come si chiamano, mi pare d’obbligo.

Four Green Fields
Via Costantino Morin 38 – 42
06 – 37 25 091
Roma


Fotocataloghi


“Non è la fotografia che mi interessa, quello che voglio è catturare quel minuto parte della realtà”, così diceva il grande Henri Cartier-Bresson.
Freschi di stampa due volumi della fotografa Maria Andreozzi.
I titoli rispecchiano i paesaggi urbani ritratti: Ostia e Aversa (in questo caso largo spazio viene dato ai locali dell’ex manicomio) e sono pubblicati con il sostegno delle amministrazioni pubbliche dei due territori.
Andreozzi: Festa del mare, 2006Entrambi i cataloghi s’avvalgono di presentazioni firmate da Sergio Zuccaro che in uno dei passaggi così scrive sul lavoro della Andreozzi: Con la sua Nikon D70 non vuole assolutamente fermare il tempo (faccia quello che deve fare) né rappresentarlo ma comprenderlo. Scattare è per lei excaptare: afferrare, ed è proprio quello che fa con il suo otturatore, per poi rilasciare al proprio destino il soggetto, senza la pretesa di un giudizio o la promessa di una redenzione. Afferrare per lei ha un’implicazione psicologica, nel senso di capire, per rendersi conto che il lato oscuro della vita è addirittura frequentabile se l’occhio è dotato di pietas.

Maria Andreozzi dispone di un sito in Rete: cliccare QUI.


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