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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

L'Antiburocratese


Ha scritto Honoré de Balzac: “La burocrazia è un meccanismo gigante mosso da pigmei”.
Quest’ottuso meccanismo – satireggiato in famose opere teatrali, letterarie, cinematografiche – ha la sua prima manifestazione sul piano linguistico, in una pluralità di documenti scritti in modo criptico tanto da sortire effetti intimidatori. La cosa diventa ancora più buffa quando quella stessa lingua oscura e polverosa passa dalla pagina al parlato sicché si ascoltano persone che parlano fra loro esprimendosi in maniera incomprensibile a noi umani.
Difetto italiano? Sì, ma anche negli altri paesi mica scherzano!
Da noi, però, come diceva Petrolini “C’è sempre un idiota che l’inventa e un cretino che la perfeziona”.
Apprendiamo, infatti, che solo pochi giorni fa, è accaduta una cosa bizzarra.
Scrive Michele Cortellazzo sul suo blog “Parole”: Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici conteneva una norma di estrema chiarezza: «Nella redazione dei testi scritti e in tutte le altre comunicazioni il dipendente adotta un linguaggio chiaro e comprensibile». Questa norma era contenuta nel Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni ("Rapporti con il pubblico"), della Presidenza del Consiglio, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 10 aprile 2001. A firmare il decreto era stato l'allora Ministro, Franco Bassanini.
Ora, questa norma di comportamento è stata abrogata.
Il 19 giugno 2013, infatti, è entrato in vigore il nuovo codice pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 4 giugno 2013.
Il nuovo codice non prende in considerazione la chiarezza e la comprensibilità delle comunicazioni dei pubblici dipendenti. Continua a occuparsi dei rapporti con il pubblico ma qui dice che il dipendente pubblico «nel rispondere alla corrispondenza, a chiamate telefoniche e ai messaggi di posta elettronica, opera nella maniera più completa e accurata possibile». Ma nessun riferimento alla chiarezza e alla comprensibilità. Si tratta di un vergognoso passo indietro
.

Uno strumento per orientarci in quel terroristico territorio linguistico lo offre la casa Editrice Zanichelli.
Contro i latinismi, i bizantinismi ridondanti e inutili della pubblica amministrazione, Dizionari Più - spazio di cultura linguistica delle Redazioni Lessicografiche Zanichelli - propone l’Antiburocratese Dizionario del parlar chiaro: la nuova rubrica dell’Osservatorio di Lingua Italiana Zanichelli, diretto dal linguista Massimo Arcangeli. Analizza esempi di italiano burocratico proponendone una riscrittura chiara, comprensibile, elegante.
Basta un CLIC e vi troverete sul sito web giusto.

Da “attenzionare” a “viciniore” sono elencate, spiegate e commentate le voci del linguaggio burocratico che Calvino definì “l’antitaliano”. Per ogni parola ecco il significato e i sinonimi più adatti e comprensibili e, inoltre, esempi di testi e atti pubblici dove compaiono le parole in burocratese.
Un dizionario online, dunque, settimanalmente aggiornato anche grazie alle segnalazioni dei lettori: attraverso un form a disposizione, ognuno può indicare al linguista Arcangeli la parola del burocratese di cui ha fatto amara conoscenza.
Istruzioni per l’uso indirizzate a tutti: ai cittadini, “vittime” del burocratese e di tutte le sue declinazioni (aziendalese, giuridichese, eccetera); ai funzionari pubblici, che attraverso il dizionario potranno magari aggiornare il loro lessico pedante.


Ustica: verità e storia


Il 27 giugno ricorre il XXXIII Anniversario della Strage di Ustica, data particolarmente importante quest’anno, dopo la recente sentenza della Cassazione che conferma la tesi dell’abbattimento del DC9 Itavia da parte di un missile e condanna i Ministeri della Difesa e dei Trasporti per non aver salvaguardato le vite dei passeggeri e aver ostacolato l’accertamento della verità.
Dopo trentatré anni da quel tragico volo che doveva congiungere Bologna con Palermo e che costò la vita di 81 persone, l’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica continua a chiedere che si faccia definitivamente chiarezza sui responsabili e prosegue nel suo impegno civile perché la verità sia inequivocabilmente consegnata alle pagine della Storia del nostro Paese.
L’Associazione vuole anche documentare e storicizzare i contributi che gli artisti, nel corso degli anni, hanno elaborato sulla tema della strage, con la convinzione che la trasmissione attiva della memoria si qualifichi attraverso la ricerca operata dai molteplici linguaggi dell’arte.

Dalla verità alla storia è il titolo del programma di iniziative che l’Associazione Parenti delle Vittime - presieduta da Daria Bonfietti - della Strage di Ustica promuove anche quest’anno, presso il Giardino della Memoria, nel Parco della Zucca, spazio antistante il Museo per la Memoria di Ustica, dove l'installazione permanente di Christian Boltanski incornicia i resti dell’aereo abbattuto.
La rassegna è parte di bolognaestate 2013, cartellone d’iniziative coordinato e sostenuto dal Comune di Bologna.
Luogo riconosciuto dell’estate bolognese, il Giardino della Memoria, giunto alla sua quinta stagione di attività, ospita una serie di appuntamenti di teatro, musica e poesia per ricordare la Strage di Ustica e far vivere questo luogo nel segno dell’arte e della partecipazione civile, grazie ad interpreti della scena italiana e internazionale.

Per il programma: CLIC!

Ufficio Stampa: leStaffette
Raffaella Ilari: raffaella.ilari@gmail.com; mob. +39.333.4301603
Marialuisa Giordano: retropalco@alice.it; mob. +39.338.3500177

Arte Memoria Viva
Bologna
Parco della Zucca – via di Saliceto 3/22
Ingresso gratuito
Dal 27 giugno al 10 agosto 2013


Stelle, pianeti e galassie

Può una sezione di questo sito chiamata Cosmotaxi trascurare un libro intitolato come questa nota? Certamente no. Ed ecco quanto ha da dirvi il vostro cronista.
In occasione dei vent’anni dalla sua fondazione, dovuta a Helene Stavro, l’Editoriale Scienza ha rilanciato la collana chiamata Quattro passi nella Scienza.
A firmare il primo libro di questa rinnovata articolazione editoriale è Margherita Hack con Massimo Ramella: titolo della pubblicazione: Stelle, pianeti e galassie Viaggio nella storia dell’astronomia dall’antichità ad oggi.

Margherita Hack è nata a Firenze nel 1922. Entrambi i genitori frequentano ambienti intellettuali critici rispetto alle religioni tradizionali e al fascismo trasmettendo alla figlia i valori fondamentali di libertà e giustizia, oltre che la scelta vegetariana: Margherita, infatti, mai ha mangiato carne. Comincia a insegnare all’università e nel 1954 e nel 1964, ottiene la cattedra di astronomia a Trieste e le chiavi dell’Osservatorio astronomico, che rimarrà sotto la sua direzione per quasi trent’anni.
Fonda riviste (L’Astronomia, Le Stelle), s’impegna in politica per difendere con passione le sue opinioni come quella a favore dell’eutanasia, che lei appoggia perché, dice, “la vita e la morte appartengono all'Uomo e non a Dio”.
Per l’Editoriale Scienza ha pubblicato Perché le stelle non ci cadono in testa? e l'Universo di Margherita.

Ho avuto il piacere di ospitare Margherita Hack su questo sito nella sezione Enterprise, per sapere che cosa ci siamo detti, cliccare QUI .

Massimo Ramella, nato nel 1956, laureato in fisica con Margherita Hack, è astronomo associato all'Inaf (Istituto Nazionale di Astrofisica) presso l’osservatorio di Trieste. Dopo anni di ricerca sulla struttura a grande scala dell’universo, dal 2005 si occupa di didattica e divulgazione dell’astronomia. Dal 2008 è responsabile europeo dello sviluppo del settore didattico del progetto internazionale Virtual Observatory.

È importante un libro divulgativo sull’astronomia non soltanto perché fa capire l’universo in cui abitiamo, ma anche per dissolvere l’equivoco sull’astrologia ritenuta, a torto, da non pochi, gemella dell’astronomia. Proprio Margherita Hack mi disse: “Sul Corriere della Sera del 22 marzo 2004 comparve un paginone dedicato alla scoperta del pianetino Sedna. Accanto a un articolo mio, fu pubblicato un articolo di un’astrologa pieno di stupidaggini, facendo credere ai lettori meno smaliziati che astronomia e astrologia sono ambedue egualmente attendibili”.
Meravigliarsene? Forse no.
Sui Tg, perfino della tv pubblica, accanto alle drammatiche notizie dei nostri giorni, appare, quotidianamente, un oroscopo quasi fosse una notizia di cronaca. Salvo, poi, a dare risultati errati di una schedina del Superenalotto, come accadde alla Rai, al Tg 1 di Minzolini.
Il volume, ricco d’illustrazioni e quadri sinottici, traccia le tappe fondamentali dell’esplorazione dell’Universo: dagli astronomi-sacerdoti babilonesi agli scienziati dei giorni nostri che vedono aumentare il numero di oggetti meravigliosi nello Spazio, ma – com’è detto in prefazione – ”l’aspetto più misterioso e affascinante è che ogni nuova osservazione potrebbe mettere in discussione tutto ciò che sappiamo”.

Segnalo particolarmente questo link perché vi troverete un video in cui Margherita Hack, in modo semplice e chiaro, presenta i vari capitoli del libro; non mancano riferimenti all’esistenza di extraterrestri e gustose esemplificazioni sulla velocità della luce.

Margherita Hack
Massimo Ramella
Stelle, pianeti e galassie
Pagine 112, Euro 12.90
Editoriale Scienza


In caso di spontaneità


Come sanno quei generosi che leggono queste mie cronache, da tempo non recensisco narrativa né poesia stampata, ma quella video sì. Chi volesse sapere perché basta che clicchi QUI.
Riservo solo un interesse per i racconti perché è arte difficile, scrivere sul corto è roba tozza, altro che scrivere romanzi o romanzoni.
Non è un caso che nelle riflessioni sulla letteratura il racconto occupi largo spazio. Da Claude Bremond a Julien Greimas, a Tzvetan Todorov ad altri ancora.
“Toccherà a Genette” - scrive Francesco Muzzioli (Le teorie della critica letteraria, 1994) – “con ‘Discorso sul racconto’ sistematizzare l’analisi degli aspetti e dei modi della narrazione breve uscendo dalla mera sequenza delle funzioni narratologiche […] Todorov, ad esempio, arriverà addirittura nella compilazione di una “grammatica” del Decameron, a tradurre l’intreccio in formule algebriche”.
Insomma i racconti m’interessano, ma mica tutti, solo in quelli in cui vi scorgo una scintilla d’immaginazione capace d’illuminare in poche (meglio se pochissime) pagine angoli di vissuti.

Le edizioni e/o hanno pubblicato una raccolta di racconti del giovane autore Mauro Zucconi intitolata In caso di spontaneità.
Nato a Piacenza, laureato in filosofia, ha già pubblicato Come diventare il mio cane (2006); Prima di lasciarmi passa almeno lo straccio(2010).
Ha collaborato con il quotidiano il Secolo XIX e con varie testate di stampa periodica.

È noto in Rete con il nome programmatico di Chinaski, conduce sul web un blog dove così presenta il volume: È uscito il mio nuovo libro, In caso di spontaneità, edito da E/O. Lo potete trovare in libreria e online. Online trovate anche la versione e-book, in libreria sarete più fortunati chiedendo quella cartacea, ma non sarò certo io a dirvi cosa dovete chiedere e a chi (sarebbe stato più preciso "non sarò certo io a dirvi in che formato dovete chiedere il cosa-dovete-chiedere, e a chi", ma ok), per esempio ieri Smarties me l'ha fatto trovare in versione poster, volantino, proiezione e torta.
Per il resto, niente, non credo di essere mai stato così emozionato per l'uscita di un mio libro, però questa volta è così, lo sono; sarà che lo amo in tutto e per tutto, dalla copertina con On the banks of broken worlds di Andy Kehoe, al titolo, passando per, ovviamente, quello che c'è dentro: i racconti
.
A proposito di racconti, se volete conoscere il suo stile di scrittura CLIC!

Dal quarto di copertina: “I personaggi di questi racconti sono dei completi fallimenti, inutile nasconderlo: soli, deboli, nevrotici e confusi, alla ricerca di un modo per interagire con i presunti simili, senza mai riuscirci. Se non altro non si arrendono. Bene, il messaggio di questo libro è "arrendetevi!". Eccoli non in ordine di apparizione: un'investigatrice scopre di essere il personaggio di un telefilm e decide di approfittare della cosa. Una ragazza dall'abbraccio taumaturgico abbraccia taumaturgicamente il ragazzo sbagliato. Un uomo senza amici vive come in un videogioco. Un impiegato senza opinioni decide di procurarsele. Una donna che non sa dare ordini assume una domestica che non sa riceverne. Un uomo senza determinazione non riesce a iscriversi a un corso per diventare determinati. E poi, se abbiamo fortuna, un orso”.

Ed è proprio “Cosa fare in caso di orso” il racconto che mi ha convinto di più, e, guarda caso, credo sia il più breve di tutti. Zucconi, infatti, a mio avviso, ha la capacità di scrivere sul breve – una grande qualità – ma non sempre sceglie quella misura dalla quale ha tutto da guadagnare. In tutti i sensi.

Mauro Zucconi
In caso di spontaneità
Pagine 192, Euro 16.00
edizioni e/o


La ballata di Lea


Drammatica fu la vita di Lea Garofalo, atroce la sua morte.
A quel caso ha dedicato un libro Paolo De Chiara: Il coraggio di dire no.

La cantante Raffaella Prestia (in foto) le ha dedicato il brano "La ballata di Lea".
Proprio con questa Ballata la cantastorie ha conseguito la Menzione Speciale nel contest nazionale "Musica contro le mafie 2012" promosso dalla MKRecords e la MEI-Meeting Etichette Indipendenti, con la seguente motivazione: La Cantastorie Francesca Prestia, canta dei soprusi e dei diritti e con i suoi cunti ha dato e dà voce a molte donne che con il loro coraggio aprono varchi alla libertà e alla giustizia.

L'ottimo webmagazine Noi Donne l'ha intervistata: CLIC per leggere.


Shelley: Mary e Percy


La pubblicazione di due piccoli gioielli la dobbiamo alla sapienza letteraria di Federico Sabatini e alla sensibilità editoriale della Casa Faligi Editore.
Faligi si pronuncia Falighi: è un termine esperanto che in traduzione in lingua italiana significa "Abbattere".
Il motto della Casa è "Faligi la linguajn barojin" - "Abbattere le barriere linguistiche": in Faligi Editore s’intendono abbattere anche altre barriere, quelle alzate da pregiudizi religiosi, etnici, culturali, d’identità sessuale.
I gioielli cui facevo riferimento in apertura sono L’uomo in lutto e altri racconti gotici d’amore della scrittrice inglese – famosa per il suo “Frankenstein” – Mary Shelley (1797 – 1851) e Monte Bianco Le voci del sublime, di suo marito Percy Bysshe Shelley al quale furono fatali le acque italiane.

Federico Sabatini, nato in Umbria nel 1973 (ho avuto il piacere di ospitarlo nella mia taverna spaziale sull’Enterprise dove durante un viaggio stellare abbiamo fatto quattro chiacchiere e se cliccate QUI troverete anche un suo autoritratto) è un raffinatissimo critico letterario, traduttore e scrittore.
A maggio di quest'anno è uscito il suo romanzo d’esordio Segmenti di coscienza.

L’importanza dei racconti di Mary Shelley è così spiegata da Sabatini nell’Introduzione: I suoi racconti rappresentano una sorta di laboratorio letterario, nel quale è possibile osservare la scrittura “in atto” di Mary Shelley, il suo farsi estemporaneo dettato da motivazioni esterne, e diverse rispetto a quelle, più autentiche, che spinsero la scrittrice a produrre le sue opere maggiori. Nei racconti troviamo tuttavia i temi più cari all’autrice, talvolta con variazioni o modifiche, ma sempre estremamente affini alla sua personalità, alla sua esperienza vissuta, e all’esperienza della sua scrittura più complessa. Comprendere dunque alcuni temi e motivi presenti ‘anche’ nei racconti, o nelle cosiddette “prose minori”, significa gettare una luce ulteriore e preziosissima sulle opere maggiori, laddove lo stesso tema può arricchirsi di sfumature e contenuti attraverso una lettura comparata.

Circa l’altro libro, “Monte Bianco” quello di Percy Bysshe Shelley così apre l’introduzione Federico Sabatini: È un componimento poetico di infinita ricchezza, nel quale il radicale e rivoluzionario poeta romantico Shelley descrive il suo incontro con il Monte Bianco e con il paesaggio che lo circonda. Con sapiente e sottile profondità, il poeta sviscera i temi della natura, del rapporto tra natura e poesia, il dialogo tra la mente razionale e l'immaginazione. E a questi intreccia il problema del linguaggio e del suo rivelarsi sempre instabile e fuggevole, sempre in bilico tra ricreazione e rappresentazione, sempre insufficiente nel cogliere certe sfumature di esperienze metafisiche, di quelle esperienze facenti parte di un disegno e di un discorso che vanno al di là della comprensione umana e dell'"umano immaginare".
In quest’ottica “Monte Bianco” (1816) è una sorta di manifesto della poetica di Shelley, anello di congiunzione tra i suoi primi componimenti e la maturità delle ultime opere (“Adonis” e “Prometeo Liberato”) e, insieme, esso rappresenta anche una vibrante descrizione paradigmatica della sua personale visione del “sublime”
.

Il libro, che riproduce anche il testo originale, è accompagnato da una Nota alla Traduzione.
Potete, cliccando QUI, ascoltare in inglese il componimento.

A cura di Federico Sabatini

Mary Shelley
L’uomo in lutto e altri racconti
Pagine 100, Euro 10

Percy Bisshe Shelley
Monte Bianco
Pagine 62, Euro 10

Faligi Editore


La memoria di Antonella


Nel 1994 l’editore Giunti pubblicò un libro straordinario: “Il gioco dei giorni narrati” firmato da Toni A. Brizi, pseudonimo dietro il quale si celava il nome di Antonella Sbrilli, (in foto), storica dell’arte, saggista, docente presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Sapienza, dove si occupa anche di Informatica per la storia dell’arte.
Donna di vastissima cultura e frizzante spirito come dimostrano varie sue imprese dottissime e birichine, ad esempio, la vertiginosa mostra tenuta a Roma dedicata ad Arte e Gioco dal ‘500 ai giorni nostri intitolata “Ah, che rebus!”.
Per non dire di certi suoi irresistibili giochi verbali; eccone uno dedicato a personaggi letterari che si presentano: Piacere! Andrea Sperelli.

“Il gioco dei giorni narrati”, per ogni giorno dell’anno (compreso il 29 febbraio quando càpita il temuto bisestile), espungeva da romanzi e racconti un brano in cui ricorreva un certo giorno.
“Sono 366 citazioni” come veniva precisato nell’Introduzione “tagliate intorno alla data, che risucchiano dalla pagina di un autore un frammento, e lo trasformano, a volte, in un aforisma non volontario, che segna con forza il carattere di quella giornata”.
Ora quell’universo di frasi in cui ricorrono nello stessa giornata plurali date letterarie, è disposto in un prezioso sito che v’invito a visitare cliccando QUI.

Esiste anche un libro pubblicato quest’anno da San Marino University Press – Guaraldi che riporta un raffinatissimo intervento della Sbrilli a un convegno dedicato ai giochi di memoria; il volume s’intitola Memoria per le date, date per la memoria Fra storia dell’arte e letteratura.
Dal quarto di copertina: “Alla scoperta di una raccolta di opere d’arte che rappresentano consapevolmente un giorno del calendario, rivelandolo nell’immagine con indizi visibili o impliciti; segnalandolo nel titolo come elemento strutturale dell’opera; giocando – talvolta – con il tempo reale. Il testo presenta alcuni esempi di questa galleria: dipinti, disegni, collage, installazioni, performance. E sconfina poi nella letteratura, analizzando i nessi fra percezione del tempo, rappresentazione artistica e memoria, e indagando come il tempo della finzione narrativa o figurativa, organizzato sullo schema del calendario, possa essere la base per una mnemotecnica quotidiana”.

Ma che cos’è una data? Ecco come la spiega l’autrice: Composta da numeri o da numeri e dalla parola che indica il mese, la data partecipa di una natura pubblica e privata, amministrativa e identitaria, predispone una cornice alla dispersività e alla compresenza dei fatti accaduti e del loro collocarsi nel ricordo. Fra le numerose definizioni del calendario, vera miniera di metafore, risalta la riflessione di Walter Ong, il quale ha argomentato che è un modo di addomesticare il tempo, trattandolo come uno spazio.

Antonella Sbrilli, accettando un mio invito, mi ha raggiunto, percorrendo sentieri spaziali solo a lei noti, sulla mia taverna che gestisco sull’Enterprise di Star Trek e con un CLIC potete ascoltare ciò che dice del suo lavoro.
Questa mia nota è pubblicata il 19 giugno, vediamo che cosa ci riserva “Il gioco dei giorni narrati” oggi. Lo sfoglio e trovo: “In quel momento, di quell’indimenticabile giorno di giugno, il 19 giugno 1913, ho superato il punto massimo del mio fortissimo senso della vita, e comincia così cosa naturale eppure tanto difficile da sopportare, il passaggio ai tempi della Morte. Mi ribello, combatto. Ma non ho detto già che quando ho domato Cyrus che il combattere lo rende indifeso? E’ mai possibile? Eppure è così”.
Ernst Weiss, L’aristocratico, 1928.

Antonella Sbrilli
Memoria per le date, date per la memoria
Pagine 52, Euro 8.00
Guaraldi


Nero come un buco nero

Qualcuno, non più giovane, ricorderà forse “The Black Hole - Il buco nero” (1979) film girato da Gary Nelson. L’avventura dell’astronave Cygnus, con il comandante che vuole attraversare un buco nero, termina con un viaggio che sembra passare attraverso l’inferno e il paradiso o, forse, ha viaggiato in un’altra dimensione.
Il film, dicono gli esperti, conteneva parecchi errori riguardanti lo Spazio e le sue leggi, ma, sembra, che peggio sia andata nel 2006 a un remake che non ho visto.
Più prudente la versione a fumetti del film che bypassa l'intera questione di ciò che accade all'interno del buco nero ed evita di cadere in incongruenze.
Di buchi neri si allude in molti film e, soprattutto, in molti romanzi di fantascienza, ne esistono tanti che è dissuasivo farne citazioni.
Sta di fatto che ancora oggi, pur sapendone più di un tempo, i buchi neri contengono molti aspetti non ancora svelati dalla scienza che li indaga con strumenti, sia teorici sia tecnologici, sempre più raffinati.

Le Edizioni Dedalo hanno pubblicato un volume, destinato alla lettura dei ragazzi, che si propone, riuscendovi, di spiegare tutto quanto sappiamo oggi su quella regione di Spazio.
Il libro è intitolato Nero come un buco nero.
Ne è autrice Elena Ioli, insegna fisica nella scuola di secondo grado ed è autrice di manuali di quella materia per la scuola.
Ha studiato i buchi neri all’Università di Bologna e all’École Normale Supérieure di Parigi.
Per Dedalo ha pubblicato Le parole di Einstein con la prefazione di Tullio De Mauro.

Attraverso un dialogo fra un professore di astronomia in pensione e quattro vispi ragazzi pieni di curiosità per lo Spazio, è illustrato in modo semplice la complessità affrontata.
Come nasce, che cos’è un buco nero e vive per sempre? Che cosa c’entra con la gravità? Come fanno gli scienziati ad osservare i buchi neri? Che cosa succede se si casca in un buco nero?
A quest’ultima domanda, vi anticipo la risposta: meglio non vi accada, non potreste più uscirne e finireste per diventare un quasi invisibile punticino precipitando verso il centro di quel buco che gli scienziati chiamano “singolarità”.
Il libro si apre con un divertente limerick di Arthur Koestler: L’intrepida talpa, il giovane Piero / scavò per creare un bel buco nero. / Ma in quella singolarità, / priva d’ogni carità, / sparì tutt’intero – il povero Piero.
E si chiude con un’opportuna citazione dall’Amleto di Shakespeare: Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia.
Alcuni box sapientemente distribuiti lungo le pagine illuminano su varie curiosità. Ne cito una soltanto e riguarda la velocità della luce che è di 300.000 chilometri il secondo.
Sappiate che con quella velocità potreste andare da Londra a New York e tornare indietro 25 volte in un solo secondo.

Ecco un video sui buchi neri con un'involontaria quanto sfortunata partecipazione di Homer Simpson.
Per una scheda sul libro: CLIC!

Elena Ioli
Nero come un buco nero
Illustrazioni di Franco Grazioli
Pagine 72, illustrato a colori, Euro 7.50
Edizioni Dedalo


La leggenda del Mago e del Paròn


A Milano, Palazzo Reale Sala delle Otto Colonne, è in corso la mostra Quelli che... Milan Inter ‘63 La leggenda del Mago e del Paròn curata dal giornalista sportivo Gigi Garanzini dedicata a due leggende dello sport italiano: Helenio Herrera e Nereo Rocco.

Per i più giovani che poco sanno di questi allenatori, propongo un’intervista di Gianni Brera al Paròn: QUI la prima parte e QUI la seconda.
Circa Herrera, per sentirne la voce e conoscere il modo in cui cominciò la sua carriera in Italia: CLIC

Nella presentazione dell’esposizione è detto: Mercoledì 22 maggio 1963 il Milan vince a Wembley contro il Benfica la prima coppa dei Campioni del calcio italiano. Quattro giorni più tardi, domenica 26, San Siro nerazzurro festeggia lo scudetto dell’Inter, il primo dell’era Moratti.
Nasce in quei giorni la leggenda del Mago e del Paròn, Helenio Herrera e Nereo Rocco, due straordinari personaggi che mutarono per sempre il costume calcistico italiano e mondiale. Prima di allora, infatti, le squadre che avevano fatto epoca, sia di club sia nazionali, erano sempre state connotate con i nomi dei grandi giocatori: il Real di Di Stefano, il Grande Torino di Valentino Mazzola, l’Ungheria di Puskas, il Brasile di Pelè. Di colpo, da quel maggio 1963, il Milan divenne di Rocco e l’Inter di Herrera. Non soltanto per le grandi qualità tecniche e tattiche di due allenatori storici, tra i migliori di tutti i tempi. Ma anche e sopratutto per le loro straripanti personalità, a cominciare da una innata vocazione – ante litteram – alla comunicazione
.

In un allestimento spettacolare splendide fotografie dei due grandi allenatori nel decennio in cui lanciarono il calcio milanese nell’empireo dello sport mondiale. Un percorso di grande interesse sulla loro carriera e la loro vita privata con inedite testimonianze video di giocatori, allenatori, compagni di strada, familiari e personaggi dello spettacolo.
Con una serie d’immagini che ricostruiscono la Milano degli anni Sessanta, in cui i suoi migliori talenti concorsero a fare della città una delle capitali europee di maggiore vivacità e creatività.

Skira coproduce la mostra col Comune di Milano e Palazzo Reale e pubblica un libro speciale con tutte le immagini in mostra.

QUI il sito web della mostra.

Ufficio Stampa Skira: Lucia Crespi
Via Francesco Brioschi 21, 20136 Milano
lucia@luciacrespi.it
Tel. 02 89415532- 02 89401645 fax 02 89410051; Cell. 338 8090545

La leggenda del Mago e del Paròn
Mostra a cura di Gigi Garanzini
Milano, Palazzo Reale
Fino all’8 settembre ‘13


Roma Fringe Festival


Dopo le 20.000 presenze dello scorso anno per assistere ad un grande festival italiano del Teatro Off, dal 15 giugno al 14 luglio 2013 arriva la seconda edizione del Roma Fringe Festival, con il Patrocinio della World Fringe Society, del Municipio Roma 2 e delle Biblioteche di Roma.
Cliccare QUI per conoscere storia e retroterra dei Fringe Festivals.

Torna così a Roma, a Villa Mercede nella zona di San Lorenzo, quartiere universitario, il Parco del Teatro: 3 aree palco, con 30 giorni di programmazione, 72 spettacoli – 9 al giorno, per oltre 230 repliche.
Performance, installazioni, commedie, drammi, stand up comedy, teatro canzone, teatro danza e improvvisazione, con tale pluralità di occasioni le 72 compagnie del Roma Fringe Festival portano in scena una parte di quel teatro fuori degli schemi tradizionali che merita e cerca visibilità, offrendo allo spettatore un’articolata varietà di proposte. Festa dell’arte e del teatro indipendente che chiama a raccolta dagli studenti alle famiglie, dai cultori ai critici, restituendo al pubblico una dimensione espressiva assente nei grandi circuiti.

“Le adesioni artistiche quest’anno sono state molte” ha dichiarato Davide Ambrogi, autore e direttore artistico del festival “Si va dai temi di genere alle mafie, ai temi di attualità (dal precariato alla Tav), passando attraverso una narrazione delle fobie e dei piccoli vizi del nostro paese. Il tutto per un cartellone più che mai vario che restituisce attraverso il sorriso e la riflessione un’Italia che Re-Esiste anche attraverso il Teatro”.

Non solo Italia e non solo Teatro. Grande novità 2013, che vede il Roma Fringe Festival membro ufficiale della World Fringe Society, saranno gli ospiti internazionali provenienti da Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna e ancora una volta gli incontri tematici tra presentazione di libri, e tante altre iniziative all’insegna della cultura, la sostenibilità, l’incontro fra culture.
Tutto per un cartellone ricco, godendo inoltre di una passeggiata tra artigianato, arti visive e prodotti a km zero nel mercatino.

Per consultare il programma: CLIC!

Ufficio Stampa: Marta Volterra, marta.volterra@gmail.com • 340 - 96 900 12

Roma Fringe Festival
Villa Mercede, Via Tiburtina 113 (Roma, quartiere San Lorenzo),
dal 15 giugno al 14 luglio 2013
tutti i giorni dalle 18.00
Ingresso gratuito alla Villa, Spettacoli 5 euro.


Padiglione Tibet


Ecco una mia nota che comincia in un modo che, forse, scontenterà parecchi: riguarda il Tibet.
Tutto il mondo sa delle lotte che si svolgono in quella terra sostenute da molti che si battono per le ragioni del Dalai Lama.
Io temo sia i perseguitati sia i persecutori.
Da una parte i monaci buddisti che in caso di successo riporterebbero quel paese nelle sciagurate condizioni di uno stato teocratico (e da ateo quale sono la cosa mi piace né punto né poco) così com’è stato fino al 1959, quando il Tibet era una teocrazia, essendo insieme alla Mongolia un sistema di tipo lamaista, in cui il Dalai Lama era sovrano assoluto e massima autorità religiosa.
Dall’altra il governo cinese che è riuscito nella mirabolante impresa di raccogliere e rappresentare il peggio del capitalismo e il peggio del comunismo miscelandoli in un mix di corruzione che ha pochi rivali al mondo.
Va detto, a onore della verità, che proprio questi ultimi hanno compiuto repressioni ferocissime a cominciare da quelle perpetrate durante la cruenta Rivoluzione Culturale maoista fino ai giorni nostri. Amnesty International, infatti, riporta dati preoccupanti sulle violazioni dei diritti civili ripetutamente praticate (e non solo contro i tibetani) dal governo cinese.

Ciò premesso, conoscendo il valore di Ruggero Maggi sia come artista sia come intellettuale segnalo Padiglione Tibet da lui ideato e realizzato.
Il Padiglione già a Venezia presso Cà Zanardi nel 2011 e a Torino nella Sala Nervi del Palazzo delle Esposizioni nei primi mesi del 2012 è stato apprezzato da critici e visitatori ed ora, di nuovo a Venezia -con il patrocinio del Comune della città lagunare e l'Assessorato alle Politiche Giovanili Centro Pace - ne è in corso una nuova edizione.
Lascio a Ruggero Maggi la parola.


Anche quest'anno Venezia, grazie a Padiglione Tibet sarà invasa pacificamente da immagini, colori, atmosfere e suoni che misceleranno, come un prezioso intreccio, la creatività e la sensibilità degli artisti contemporanei, che hanno voluto aderire e contribuire a creare questo particolare Padiglione, con l'arte della composizione dei Mandala dei monaci tibetani (Lama Thupten e Lama Tenzing) che completeranno, con la loro sapiente perizia durante un rituale-performance che ne evidenzierà ancor più l'intima spiritualità ed energia, un Archivio di “Strutture-Mandala” realizzate in sinergia con gli artisti che ne tracceranno le linee-guida e con la spiritualità tibetana intrinseca nelle “Ruote della Preghiera” chiamate anche della legge: strumenti di preghiera buddista, esclusivamente tibetani, per la crescita spirituale. Strutture cilindriche - realizzate nei laboratori di Albisola, luogo d'eccellenza della ceramica artistica - che saranno elaborate/progettate dagli artisti e realizzate in ceramica con un perno centrale che ne permetterà la rotazione e con cui i visitatori interagiranno attraverso un'esperienza sensoriale che si trasmetterà con un lieve tocco ed uno sfioramento sulla materia-segno. All'interno di ogni ruota sarà arrotolato un mantra (preghiera buddista) che verrà scritto direttamente dai monaci invitati all'evento con i caratteri tipici della loro lingua; i tibetani fanno ruotare le ruote della preghiera (come faranno anche i visitatori della mostra) per invocare un buon karma per tutti gli esseri senzienti rendendo questa pratica più di un semplice movimento rotatorio.
Quest’evento artistico è dedicato ai 100 martiri tibetani (numero ormai tragicamente superato) che si sono immolati per la libertà di altri, per la verità di tutti
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Per visitare il sito in Rete di Padiglione Tibet: CLIC!

Padiglione Tibet
ideato e curato da Ruggero Maggi
Santa Marta Congressi – SpazioPorto, Venezia
Fino al 7 settembre 2013


Musicisti e pubblico

La rivoluzione digitale, fra le tante questioni che propone, solleva il problema del rapporto fra musicista e pubblico.
A questo è dedicato un intervento di Sergio Messina, (in foto), che guida un impagabile blog qual è Fosforo che oltre a commentare fatti del giorno attraverso un’acuta – e, spesso, divertente – analisi politica e di costume, documenta in maniera critica quanto avviene nel mondo della comunicazione stampata, radiotelevisiva, in Rete.

Lo ricordo anche come autore di Real Sex. Il porno alternativo è il nuovo rock'n'roll e protagonista della recente mostra Subterrenean Modern.

Proprio dalle pagine web del suo sito ho appreso di un suo articolo apparso su Rumore che si può leggere QUI.
Lo segnalo perché il pezzo, oltre ad interessare quanti lavorano nell’area musicale, ha il merito d’illuminare un territorio spesso trascurato da quanti si occupano dei rapporti fra nuove tecnologie ed espressività: quello delle ricadute economiche del digitale.
L’intervento di Messina, infatti, pur occupandosi di musica è ricco di spunti che possono far riflettere anche quanti lavorano nelle arti visive, nel cinema indipendente, nella letteratura.


Doucet e il Piccolo Pinguino

Nonostante siano spesso ritenuti termini sinonimi, favola e fiaba non lo sono.
Una favola, infatti, contiene sempre un ammaestramento morale, la fiaba, invece ne è priva.
Ad una favola, da lui inventata, ricorre Denis Doucet in un libro pubblicato da Vallardi che indaga su tanti tormenti che fustigano il cuore della nostra società: La storia del Piccolo Pinguino che si adattava troppo Come (ri)cominciare a vivere in prima persona.
Doucet è uno psicologo clinico canadese che ha studiato in particolare gli effetti negativi dell’iperadattamento degli individui alla società contemporanea. Su questo argomento ha scritto alcuni libri divulgativi, tradotti in diverse lingue, in cui ha travasato i suoi studi e la sua lunga esperienza psicoterapeutica.

Nella favola in apertura del volume, è detto di un Piccolo Pinguino, buono e placido, che vive felice sulla sua banchisa fino a quando una Foca Furbacchiona, astuta e manipolatrice, non lo convince a trasferirsi nei caldissimi Tropici per ottenere denaro e successo. Si fa convincere… l’avesse mai fatto! Se la vede proprio brutta fino a quando non tornerà sulla banchisa da dove era incautamente partito.
Quest’avventura del Piccolo Pinguino serve a Doucet per introdurre un tema sul quale molto si discute in varie aree scientifiche e sociali. Vale a dire dell’infelicità che può derivare da una mancata vocazione all’adattamento.
Doucet la pensa in modo opposto, sostiene, infatti, che i nostri mali (mai come in questi recenti anni è stato tanto alto il consumo di antidepressivi) derivino, invece, da un superadattamento verso il quale tendiamo per uniformarci agli ambienti che frequentiamo per motivi di lavoro e perfino di svago.
Spessissimo, irretiti da Foche Furbacchione, si compiono sforzi disumani per diventare i lavoratori ideali sognati dai nostri capi, le mogli ideali sognate dai mariti, i figli ideali sognati dai genitori, i partner sessuali di cui parlano le riviste, gli studenti ideali che i professori si aspettano, gli amici perfetti che tutti vorrebbero avere […] la nostra epoca è passata dall’era dei bisogni a quella delle voglie […] lasciate perdere tutto ciò che non vi conduce da nessuna parte e serve solo a soddisfare i capricci altrui. Vedrete che recupererete immediatamente una fonte di energia positiva inaspettata.

Da tutti questi consigli si può dedurre perfino una conclusione di tipo economico perché fermare la corsa ad un adattamento forzato può diventare un vero e proprio investimento poiché in un campo diverso da quello in cui ci siamo affannosamente misurati, in un’area più vicina ai nostri desideri, è possibile che si riesca a ricavare non solo benessere ma anche un maggiore profitto finanziario.
Meditate gente, meditate!

Denis Doucet
La storia del Piccolo Pinguino che si adattava troppo
Traduzione di Ornella Ciarcià
Pagine 164, Euro 12.00
Vallardi


Recycled cinema (1)

C’è stata un’epoca in cui sono stato felice come spettatore di cinema. È accaduto alla fine degli anni ’60 quando mi sono trovato ad assistere all’avventura della Cooperativa Cinema Indipendente che, nata guardando alle esperienze del new cinema americano e alla Cooperativa di Jonas Mekas, raggruppò filmmakers nostrani e ne stimolò produzioni.
Conoscemmo in quegli anni le sequenze acidiste di Chappaqua girato da Conrad Rooks, le fissità di Warhol, le vertigini di Yoko Ono, Il cinema metrico di Peter Kubelka, l’allegria dissacratoria e la critica all’industria dello schermo de “La verifica incerta” di Alberto Grifi (in foto) e Gianfranco Baruchello.

Molte di quelle produzioni possono essere associate alla tecnica del “cut up” di Burroughs, spesso sullo schermo sfilano immagini che non hanno uno svolgimento narrativo ma emozionale alternando scene di repertorio ad altre girate ex novo; è lo spettatore secondo i suoi vissuti che vi ritrova nessi e nodi che possono essere diversissimi da persona a persona e non è da escludere che possano essere estranee perfino all’autore di quelle immagini.
Un cinema che ha trovato una felicissima esemplificazione recente (2011) in The Clock dello statunitense Christian Marclay.

Un cinema su cui ragiona un libro imperdibile: Recycled cinema Immagini perdute, visioni ritrovate di Marco Bertozzi.
L’autore insegna Cinema documentario e sperimentale all’Università IUAV di Venezia.
Ha pubblicato Storia del documentario italiano (2008, Premio Domenico Meccoli e Limina Awards 2009 quale miglior libro di cinema dell'anno). Tra gli altri suoi titoli: La veduta Lumière (Bologna 2001) e, a sua cura, L'idea documentaria. Altri sguardi dal cinema italiano (Torino 2003). Suoi saggi sono apparsi in «Iris», «Fotogenia», «Cinema & Cinema», «La valle dell'Eden», «Film History», «Cinémas», «Fata morgana», «AAM-TAC. Arts and Artifacts in Movie».
Suoi film recenti: Appunti romani (2004), Il senso degli altri (2007), Predappio in luce (2008), Profughi a Cinecittà (2012).

“Recycled Cinema” – corredato da un’ampia documentazione fotografica, e con bibliografia, filmografia e sitografia – non è soltanto una storia di questo particolare cinema (storia che arriva fino ai nostri giorni con, ad esempio, i lavori di Alina Marazzi e Canecapovolto), ma uno studio eccellente sui modelli percettivi che quelle produzioni stimolano, i temi che sollevano negli studi semantici, i problemi delle produzioni.

Segue ora un incontro con l’autore.


Recycled cinema (2)

A Marco Bertozzi ho rivolto alcune domande.
Che cosa ti ha soprattutto incoraggiato a scrivere questo libro?

La forza e il mistero delle immagini che pulsano, al di là dei “significati chiari”. L’eterna provvisorietà del senso, qualcosa di ludico e di infantile che incontrai lavorando in cineteca, vedendo e rivedendo alla moviola film più diversi. Un rovesciamento capace di minare l’interpretazione canonizzata, per fare esplodere nuovi potenziali della visione. Ancor più nelle immagini realistiche, per sovvertire la presunta corrispondenza che avrebbero con il mondo “naturale”.

Prendendo spunto dal sottotitolo del volume: quali visioni possono sorgere nello scorrere delle immagini perdute?

Quello del riuso d’archivio è un territorio esteso, segnato da stili e poetiche eterogenei, in grado di attivare visioni molteplici. A volte per decostruire il sistema dei media e dei suoi prodotti, combattendo l’aura istituzionale di molti testi audiovisivi; altre per operazioni d’artista, in cui le vecchie immagini vengono utilizzate come materiale plastico, intervenendo sul fotogramma, colorandolo, strappandolo, inserendo paesaggi sonori non referenziali o alterando il flusso di scorrimento filmico; altre ancora per operazioni autobiografiche, dove la rivisitazione audiovisiva significa riscoperta emozionale del passato. Sino a comporre veri e propri film saggio, dove la riflessione filosofica non si arresta ai temi e ai contenuti ma investe le forme stesse del dispositivo cinematografico.

In che cosa il “recycled cinema” si distacca dai tradizionali documentari montati con materiali di repertorio?

Perché giunge a sfidare la natura realista delle immagini riutilizzate. Si tratta di un’attitudine critica, fortemente in contrasto con l’uso rassicurante dei tradizionali “documentari a base d’archivio”. Lavori importanti, ma nei quali l’aspetto di rielaborazione del materiale resta debole, prevalendo l’aderenza all’immagine originaria e ai suoi aspetti referenziali. Il problema non è la quantità di materiali riutilizzati ma il loro processo di scardinamento, la qualità e l’intenzionalità dell’inserimento nel nuovo film. Ecco, importante evidenziare che le immagini sono prodotte da un dispositivo: il cosiddetto “found footage film” ci invita proprio ad allargare i territori estetici delle immagini primigenie e, attraverso, vari procedimenti tecnici, superare le ingenue boe testimoniali e i rassicuranti lidi della nostalgia. Una teoria-pratica che rinsalda la vicinanza dei due termini, vissuti spesso in maniera antinomica (soprattutto nella cultura italiana), in una riflessione estetica che giunge a dialogare con gli aspetti più fattuali della pratica cinematografica.

Proviamo a fare l’identikit dello spettatore ideale per il recycled cinema...

Oggi il riuso è al centro di pratiche discorsive molto interessanti, capaci di avviare originali percorsi di senso, in arti diverse. Esperienze che, oltre al cinema, coinvolgono il teatro e l’architettura, la moda e il design, sino ad estendersi alla forme comuni della vita quotidiana. E offrire una seconda vita agli oggetti diviene, per molti, una pratica necessaria. Si tratta di una consapevolezza ecologica, acuita dal momento di recessione economica, che investe vari tipi di utilizzatori e di spettatori (che, forse, definirei piuttosto “spett-attori”, seguendo una felice intuizione di Paolo Rosa e Andrea Balzola, in “L’arte fuori di se”). Proprio il passaggio al montaggio non sequenziale, fondamentale per esperienze erratiche nel riuso del “footage”, unito alla moltiplicazione di piattaforme di condivisione digitali nel web, definisce una fantastica varietà di utilizzatori: cinefili e archivisti, smanettatori e documentaristi, e poi critici, artisti, videomaker, insegnanti…
Opere composte pescando nell’universo discarica segnica, film che pongono questioni ancora irrisolte ai grandi proprietari-distributori di immagini. Mentre le leggi di controllo della proprietà intellettuale sono sempre più restrittive, la sfida del “found footage” sembra confermarci che le innovazioni si costruiscono partendo dal passato e una società garante dei diritti e delle libertà deve potere ammettere la rielaborazione creativa dei suoi testi. Anche il cinema è dentro questo passaggio irreversibile. E continua a rinnovarsi morendo e resuscitando dalle proprie ceneri. Non accettarlo significa rifugiarsi nell’idea romantica di una “settima arte” ancorata al Novecento. Aprirsi alle culture del riuso resta l’esaltante esperienza del nostro mondo in transizione
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Per una scheda sul libro: CLIC!

Marco Bertozzi
Recycled cinema
Pagine 160, Euro 18.00
Marsilio


Alfred Jarry (1)

“Non avremo distrutto nulla finché non avremo distrutto anche le rovine”.
Così scrisse un tempo il vertiginoso Alfred Jarry nato l’8 settembre 1873 a Laval (città dal nome a palindromo) e morto a Parigi, all’età di 34 anni, il 1° novembre 1907, non di alcolismo come si pensò, ma di una meningite tubercolare come accertò un’autopsia non autorizzata.
Amava correre in bici (immaginò, in uno dei suoi racconti ispirati alle due ruote, perfino Gesù in sella mentre s’arrampica lungo la tortuosa salita del Golgota), correva sulla sua cara Clément luxe 96 da lui acquistata e mai pagata. Il caso volle che quando nessuno più pagò per la tomba dello scrittore, al posto di Jarry venne sepolto un campione di ciclismo.
Jarry ha inventato la figura teatrale goffa e prepotente di Re Ubu, l’atleta sessuale del Supermaschio, il dottor Faustroll “un Faust che non ha bisogno di Mefistofele” (copyright Marco Vignolo Gargini) che pratica la scienza delle soluzioni immaginarie: la Patafisica.
Ha ideato, quindi, cardini sui quali gireranno tante delle avanguardie storiche, ma non solo quelle perché ancora oggi è possibile leggere segni (a volte espliciti, altre volte velati) della poetica di Jarry.

Ora, Johan & Levi ha pubblicato Alfred Jarry. Una vita patafisica di Alastair Brotchie.
L’autore è il fondatore della casa editrice londinese Atlas Press, Direttore della Società di Patafisica di Parigi e autore di libri sul Surrealismo e Dadaismo.
La traduzione è stata affidata alla lussuosa firma di Nanni Cagnone.
Il libro – ricchissimo di materiale fotografico e riproduzioni di quadri, disegni, lettere autografe – è una puntualissima biografia dell’artista francese attingendo a materiali nuovi, inediti, emersi in occasione del centenario della morte di Jarry nel 2007; si avvale, inoltre, di documenti ritrovati da Alastair Brotchie negli archivi inglesi e americani, mentre le ricerche precedenti erano state condotte prevalentemente in Francia. Sono offerte in lettura oltre trenta lettere inedite, inclusa l’ultima, scritta da Jarry sul letto di morte, scambi epistolari fra lui e il compagno di studi e amico Fargue, documenti che attestano le sue relazioni con Gauguin, Picasso, Beardsley.
Nominato Book of the Year nel 2011 dal Times Literary Supplement, recensito entusiasticamente dalla New York Review of Books, The Guardian, e numerose altre testate, il volume traccia il percorso di un uomo determinato a inventare ‒ e distruggere ‒ se stesso e il suo mondo, e ripercorre nel dettaglio la filosofia alla base di questo dualismo, offrendoci una straordinaria e appassionante narrazione di quanto produsse lo stesso Jarry: una vita patafisica.

Nella presentazione del volume è scritto: “Quando muore a Parigi a soli 34 anni, Alfred Jarry è un personaggio ormai leggendario, ma più per aver condotto una vita bohémienne e per l’originale personalità che per il suo lascito letterario. Sarebbe passato molto tempo prima che gli fosse riconosciuto il ruolo che gli spetta come iniziatore di un teatro radicalmente moderno. La sua influenza, immensa non solo in ambito drammaturgico e letterario ma anche nelle arti visive, si fa sentire ancora oggi e la vasta lista di artisti e intellettuali che lo considerano un maestro va da Guillaume Apollinaire a Antonin Artaud, da André Breton a Marcel Duchamp, da Tristan Tzara a Boris Vian”.

Johan & Levi si avvale del sensibile lavoro editoriale di Micaela Acquistapace che ora incontreremo nella seconda parte di questo servizio.


Alfred Jarry (2)


Al coordinatore editoriale di Johan & Levi, Micaela Acquistapace, ho rivolto alcune domande.
Da chi, come e quando è fondata la casa editrice Johan & Levi?

Johan & Levi nasce nel 2005 dalla grande passione per l’arte di Giovanna Forlanelli, manager d’azienda e collezionista, che da tempo accarezzava il progetto di aprire una casa editrice specializzata nelle arti visive. Inizialmente focalizzata sugli illustrati, Johan & Levi si è spostata quasi subito sulla saggistica e ora la produzione si articola su 6 collane, di cui 4 di saggi.

Qual è il suo traguardo espressivo e di mercato?

Johan & Levi si è fatta conoscere e apprezzare soprattutto grazie alla collana delle biografie d’artista, un’iniziativa quasi pionieristica in seno all’arte contemporanea. I libri raccontano le vite di grandi artisti internazionali (de Kooning, Rauschenberg, Hopper, Duchamp, O’Keeffe, Bacon, Beuys, Abramovic) e dal 2012 anche italiani (Schifano e, di prossima uscita, Manzoni per primi), di figure chiave del mondo dell’arte e della cultura. Accanto a queste si sono sviluppate pubblicazioni più snelle con un approccio sempre divulgativo e volumi più tecnici (saggi e volumi illustrati) che mirano a fornire strumenti di studio, consolidamento teorico, ricerca e approfondimento. Johan & Levi si rivolge quindi a un pubblico ampio affiancando letture d’intrattenimento e professionali.

L’editoria elettronica rientra nei vostri programmi futuri?

L’editoria elettronica è sicuramente un’opportunità, sebbene il mondo dell’arte ne benefici meno di altri settori che non necessitano di un uso estensivo delle immagini; l’offerta in ebook sarà graduale ma a breve consentiremo ai nostri lettori di seguirci anche senza ingombri e peso.

Una delle più recenti pubblicazioni, della quale ho già parlato nell’apertura di questa nota, è un libro su Jarry . Nello scenario delle avanguardie, quale specificità attribuisce a quell’artista?

Alfred Jarry è un personaggio fondamentale per le lettere e le arti e ha fortemente influenzato lo spirito artistico del Novecento. La sua attività in ambito letterario è stata ampia e il suo Père Ubu è ancora oggi un’opera fondamentale alla base del teatro moderno; inoltre, pur non essendo lui un artista visivo, la sua filosofia di vita, la cosiddetta "patafisica", ovvero la scienza delle soluzioni immaginarie, ha tracciato un solco in cui si sono poi sviluppati movimenti artistici come Futurismo e Surrealismo (Apollinaire, Marinetti e Picasso hanno conosciuto e frequentato Jarry negli ultimi anni della sua vita). La fitta rete di Collegi di Patafisica sparsi per il mondo e l’adesione al movimento di famosi intellettuali e artisti (per l’Italia possiamo citare Enrico Baj per l’arte e Italo Calvino e Umberto Eco per la letteratura) la dicono lunga sul valore ancora attuale del lascito di Alfred Jarry.

Alastair Brotchie
Alfred Jarry
Traduzione di Nanni Cagnone
Pagine 448, Euro 34.00
Johan & Levi


Luciano Bianciardi


Oggi parlo di uno degli scrittori italiani che mi è caro ed ebbi la fortuna di conoscere molti anni fa, alla sede milanese Rai di Corso Sempione: Luciano Bianciardi.
Nacque a Grosseto nel 1922, morì a Milano nel 1971; aveva allora 49 anni.
QUI il sito web dedicatogli dai figli Luciana ed Ettore.
QUI la scheda di Wikipedia.
L’opera che gli valse larga popolarità, nel 1962 fu “La vita agra” (ne fu tratto anche un film diretto da Lizzani e interpretato da Tognazzi); ecco l’autore che ne legge una pagina.
Tante le testimonianze su di lui (in foto), ne ho scelta una del figlio Ettore e dell’editore Marcello Baraghini.

L’occasione per dire di Bianciardi mi è offerta dal “tour imprudente” – come lo definiscono i suoi promotori – intitolato Non leggete i libri fateveli raccontare tratto dall’opera omonima adesso nell’interpretazione di Angelo Romagnoli e diretto da Francesco Pennacchia, una produzione Compagnia Pennacchia - Romagnoli/La Lut con il sostegno e la collaborazione di Regione Toscana, Comune di Siena, Fondazione Toscana Spettacolo, La Corte Ospitale di Rubiera.
Dalle note della Compagnia: Un manuale per diventare intellettuali in cui Bianciardi, con parole lucide e pungenti, racconta di un’Italia persistente: se durante la lettura affiorano accenni alla società di quegli anni, per il resto, il testo sembra scritto oggi. Concepito e pubblicato nel 1967 per il settimanale “ABC”, il manuale, scritto con criterio scientifico, è dedicato a quei giovani privi di talento o con ambizioni spropositate rispetto ai loro mezzi, ma anche ai "vecchi leoni” dell’impresa culturale, ai maturi operatori e agli intellettuali affermati che popolano la nostra Penisola, e ad uso degli sprovveduti “che nel mondo delle Muse non riescono a viverci, e non hanno ancora capito il motivo”.
Salvare i giovani mediocri da un’esistenza mediocre: questo lo scopo di Bianciardi nelle sue lezioni. Dispensare consigli a chi non è dotato di talenti particolari e che lasciato solo, o male consigliato, rischierebbe di diventare impiegato di banca, controllore delle ferrovie o geometra del catasto. E Bianciardi, che intellettuale di prim’ordine è stato, dispensa consigli con tono sarcastico, con una lingua letteraria così tagliente da ferire
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Sullo spettacolo ha scritto Claudio Facchinelli: La regia di Francesco Pennacchia e la capacità comunicativa di Angelo Romagnoli danno spessore e consistenza drammaturgica alla lingua intrinsecamente teatrale del testo, uscito a puntate nel '67 sul settimanale ABC: sei lezioni intrise dell'arguzia irriverente e beffarda del maremmano Bianciardi […] A distanza di quasi mezzo secolo, il ritratto di intellettuale che ne scaturisce si adatta in modo inquietante alla contemporaneità, e rivela quanto sia radicato nell'indole italica il primato dell'apparire sull'essere.

“Non leggete i libri, fateveli raccontare” accompagnerà alcune delle presentazioni dell’ebook “Com’è bella l’imprudenza”, pubblicato dal blog de “Il lavoro culturale” che, introdotto da un contributo del giurista Ugo Mattei, contiene le autobiografie brevi dei teatri e degli spazi della cultura occupati negli ultimi due anni in Italia. A distanza di pochi mesi dalla sua uscita, questo coro d’imprudenze, si è messo in viaggio per andare ad incontrare i protagonisti e le protagoniste delle storie raccolte: da Catania a Venezia.

Info: Progetto Bianciardi.

Ufficio Stampa: leStaffette,
Raffaella Ilari, Mob. +39.333.4301603 - raffaella.ilari@gmail.com
Marialuisa Giordano, +39.338.3500177 - retropalco@alice.it

Prossime tappe:
7 giugno
Pisa, Teatro Rossi Aperto

9 giugno
Bologna, Maison 22

11 giugno
Roma, Teatro Valle


Lettere di Cioran

Tra I grandi pensatori del XX secolo da me più amati c’è il rumeno Emil Cioran (1911 – 1995) con la sua nera scrittura attraversata da lampi sulfurei, la sua vita abissale, il suo sguardo che va oltre il disincanto e la disperazione: Colui che avendo frequentato gli uomini si fa ancora illusioni sul loro conto, dovrebbe essere condannato alla reincarnazione.
Sulla sua figura grava il peso dell’adesione giovanile alla Guardia di Ferro, errore che ancora molti anni dopo, nel 1973, in una lettera al fratello non si capacitava d’aver commesso: “L’epoca in cui ho scritto 'Trasfigurazione della Romania' è per me incredibilmente lontana. A volte mi domando se sia stato proprio io a scriverlo. In ogni caso, avrei fatto meglio ad andare a spasso nel parco di Sibiu… L’entusiasmo è una forma di delirio”.
Il rimorso per avere tanto sbagliato è una delle chiavi per capire Cioran come bene illustra Patrice Bollon (in “Cioran l’hérétique”, pubblicato da Gallimard nel ’97), quando indaga su quella breve ma imbarazzante produzione dello scrittore rumeno.
Altra protagonista, da non sottovalutare, della vita di Cioran, come lui stesso afferma, fu l’insonnia; e questo mi ricorda un altro grandissimo scrittore e grande insonne, Celine che scrisse “Il mio strazio, per me, è il sonno. Se avessi sempre dormito bene, non avrei mai scritto un rigo... “.
Di Cioran me ne parlò tempo fa il musicologo Mario Bortolotto che lo ha frequentato e per Adelphi ha tradotto “Confessioni e anatemi”: Cioran è stato uno straordinario moralista… non è facile trovare qualcuno che sappia scrivere in francese con quella perfezione né che abbia espresso sulla vita etica riflessioni tanto profonde.
Con Cioran… abitava in una soffitta a Parigi a due passi dal Teatro Odéon… ho passato moltissime ore a parlare di tante cose, ma non di musica. Aveva la casa piena di pile di dischi - allora erano ancora long-playing evidentemente - e scopersi che il suo autore preferito era Brahms: un dato, questo, che aumentò del cento per cento la simpatia che già provavo per lui
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Ora le Edizioni Mimesis hanno pubblicato Lettere al culmine della disperazione (1930 – 1934); dodici lettere all’amico Bucur Ţincu e dieci ad altri intellettuali rumeni.
Si legge nell’acuta Introduzione di Giovanni Rotiroti: “Le missive di Cioran, redatte al tempo della composizione e della pubblicazione del suo primo libro in Romania [vedi QUI] in un periodo della sua vita definito “eroico”, non hanno solamente una valenza storica e documentaria, non appartengono solo agli archivi, ma sono lettere appassionate, aggressive oppure tenere, in cui il discorso privato e lo scritto di circostanza si accompagnano a un percorso di elaborazione filosofica e retorica, oltre che una ricerca di stile poetico”.
E Antonio Di Gennaro nella brillante Postfazione: “Cioran dispera perché non è stato contraccambiato nell'amore che la sua immaginazione aveva immaginato”.

A me che non amo (con pochissime eccezioni) il romanzo dei nostri giorni, ancora una cosa a gloria di Cioran mi va di dirla: mai ha scritto un romanzo. A differenza del suo amico Mircea Eliade (lui sì compromesso pesantemente col fascismo, per conto di Antonescu consigliere culturale dell'ambasciata rumena, prima a Londra e poi, dal 1941 fino a settembre 1945, a Lisbona, e non esistono scritti circa un suo pentimento) che si macchiò della colpa di vari racconti e romanzi fra i quali il metafisico (e mediocre) “Un’altra giovinezza” da cui ha tratto un pessimo film il pur bravissimo Francis Ford Coppola.
Nel leggere Cioran che nella vita ha come costante condizione essere al culmine della disperazione, sorge una domanda: come mai quest’uomo non è finito suicida?
È lui stesso a fornire la risposta in un suo scritto: Perché non mi suicido? Perché la morte mi disgusta tanto quanto la vita. Sono un uomo da gettare tra le fiamme. Non capisco assolutamente che cosa io ci stia a fare quaggiù. [...] Sono una belva dal sorriso grottesco [...] attratta da niente e da tutto, esaltata tra la speranza del niente e la disperazione del tutto [...] In me si estingue ogni scintilla per rinascere tuono e lampo.

Per una scheda sul libro: CLIC!

Emil Cioran
Lettere al culmine della disperazione
A cura di Giovanni Rotiroti
Traduzione di Marisa Salzillo
Postfazione di Antonio Di Gennaro
Pagine 98, Euro 10.00
Mimesis


ProgettoArte Studio: ’92 – ‘12


La Casa dell'Architettura rende omaggio a Giovanna De Sanctis Ricciardone protagonista della scena artistica romana del secondo dopoguerra.
Giovedì 6 Giugno, alle ore 17.00, si terrà un incontro (e inaugura una mostra) sul tema del rapporto tra Arte e Progetto con interventi critici di Manuela Fraire, Massimo Locci, Alessandra Muntoni, Franco Purini, Benedetto Todaro e proiezioni sulle ricerche svolte in questo ventennio. Saranno così illustrati gli anni di lavoro dell’artista nel suo studio ProgettoArte. Esposte alcune opere di scultura, integrate da una serie di proiezioni analitico-interpretative dell’iter progettuale.


In foto: Sassi, Spezzoni di travertino e aste in ferro, 2007;
Roma: ex Cartiera Latina - Appia Antica
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Dopo gli anni della formazione architettonica, negli anni ’60, Giovanna De Sanctis Ricciardone dalla metà dei ‘70 si dedica totalmente all’attività artistica, aderendo all’Associazione Culturale Il Politecnico in via Tiepolo a Roma, nell’àmbito della quale agivano vari gruppi sperimentali romani tra arte, architettura, teatro, musica, cinema.
Nel ’92, fuori Roma in un piccolo paese dell’Umbria, inaugura il nuovo studio, denominato non a caso ProgettoArte. Il nome stesso rivela la speranza, in parte anche utopica, di un possibile ricongiungimento di due finalità perseguite con ostinazione da Giovanna De Sanctis Ricciardone: la libera espressività artistica e la dimensione politico progettuale capace di trasformare lo spazio pubblico.
L’artista ha scelto adesso di esporre alcune sculture che evidenziano dei fili conduttori meno conosciuti del suo lavoro che attualmente sta rielaborando. Proiezioni illustreranno sia la fase di ricerca (progetti, bozzetti, varianti), sia la fase delle opere realizzate dall’artista (momenti di lavorazione in fonderia e d’installazione, inserimento nel contesto urbano). Le elaborazioni multimediali, realizzate in collaborazione con gli studenti dell’Istituto Quasar di Roma coordinati da Emanuele Tarducci. Le proiezioni e i bozzetti presenti nella grande sala ovale della Casa dell’Architettura, rappresentano letture critico-interpretative del suo iter progettuale. Si crea così un circuito polisemantico tra processo ideativo/realizzativo dell’artista e le libere interpretazioni di altri giovani “creativi”. Si dispiegano e si amplificano le potenzialità espressive dell’opera stessa, che l’artista, forse, avrà modo di rielaborare. Partendo dallo sconfinato materiale digitale (presente oggi nello spazio ProgettoArte di Calvi, (che diventerà sede del futuro archivio in elaborazione) le idee e gli schizzi progettuali si fondono virtualmente con le immagini delle sculture realizzate. Attraverso un processo di dissolvenza emerge l’humus da cui sono nate le opere e si chiarificano sistemicamente le infinite elaborazioni successive che hanno poi consentito di vederle realizzate.

Per visitare il sito web dell’artista: CLIC!

Giovanna De Sanctis Ricciardone
Casa dell’Architettura
Piazza Manfredo Fanti 47, Roma
Info:info@casadellarchitettura.it; Tel. 06 - 97 60 45 98
Dal 6 al 13 giugno ‘13
Dal lunedì al venerdì ore 10 -18, sabato 9.30 - 12.30


Il Gruppo 70


Quest’anno ricorrono due anniversari di movimenti che hanno rappresentato una svolta nel linguaggio delle arti: il Gruppo ’63 e il Gruppo 70.
Ancora oggi molto dobbiamo alle proposte che furono agite allora.
La Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze da domani dedica un convegno di due giorni al Gruppo 70.

In foto: Lamberto Pignotti, “A questo punto la riconosce”, 2013.

A Lamberto Pignotti, uno dei fondatori di quel Gruppo, ho rivolto due domande.
Dove, quando e perché nacque il Gruppo 70?

Il Gruppo 70 nasce a Firenze nel 1963, ufficialmente con un convegno a Forte di Belvedere, sul tema "Arte e comunicazione" cui parteciparono, oltre ai promotori Eugenio Miccini, Antonio Bueno, Giuseppe Chiari e il sottoscritto: Gillo Dorfles, Umberto Eco, Luciano Anceschi, Renato Barilli, Roman Vlad, Cesare Vivaldi, Gianni Scalia e altri artisti e critici.
Gli atti di quel convegno sono stati stampati sulla rivista "Letteratura", n. 67- 68. 1964, nella rubrica "Dopotutto"
.

Quali furono le principali caratteristiche espressive di quel Gruppo?

Il Gruppo 70 con quel convegno fiorentino dà il via a una serie di ricerche artistiche e critiche volte all'interdisciplinarità, alla multimedialità, al rapporto fra le varie arti, a un genere di cultura intenta a recuperare ideologicamente ed esteticamente i linguaggi e i modelli tecnologici che i mass media usano per fini merceologici e alienanti. In tal senso si parlò di merce respinta al mittente, di guerriglia semiologica, di lingua neo-volgare, di una poesia in fuga dal libro, di una poesia visiva, di un genere di arte che sconfinasse tendenzialmente dal museo per approdare al Luna Park.
In base a questi connotati il cinquantenario del Gruppo 70 non si configura come una celebrazione nostalgica, ma come la ratificazione di un lavoro ancora attuale e in progress, un lavoro che sta forzando a tutt'oggi certi confini tuttora esistenti fra i vari media e i vari organi sensoriali: in seno al Gruppo 70 nessuno ha mai creduto all'arte a senso unico, ma all'arte in tutti i sensi
.

Al convegno è associata una mostra d’immagini e documenti.

Il Gruppo ‘70
Convegno di studi
Biblioteca Nazionale di Firenze
5 e 6 giugno
Mostra aperta da 5 al 20 giugno ‘13


alfa+più


La rivista Alfabeta fu pubblicata, con cadenza mensile, tra il 1979 e il 1988 (ne uscirono 114 numeri) per iniziativa di Nanni Balestrini e poi subito di una redazione di dieci membri che includeva la critica e italianista Maria Corti, il poeta Antonio Porta, i filosofi Umberto Eco e Pier Aldo Rovatti, gli scrittori Francesco Leonetti e Paolo Volponi, il grafico Gianni Sassi, e ancora Mario Spinella e Gino Di Maggio. Si aggiunsero dal decimo numero Omar Calabrese, Maurizio Ferraris e Carlo Formenti.
Romano Luperini la definì «l'ultima rivista del Novecento italiano, l'ultimo nucleo culturale che tiene acceso il dibattito letterario, politico e culturale fra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta».
Un'antologia della rivista, con gli indici completi in appendice, è uscita nei tascabili Bompiani.

In foto: prima pagina del numero di giugno di quest'anno.

L'8 luglio 2010 è stato pubblicato il primo numero di alfabeta2 diretto da Gino Di Maggio, già direttore responsabile della prima serie.
Della nuova redazione fanno parte Nanni Balestrini, Ilaria Bussoni, Maria Teresa Carbone, Andrea Cortellessa, Davide Di Maggio, Manuela Gandini, Andrea Inglese, Lucia Tozzi.
La nuova edizione è stata accolta da un successo superiore alle più ottimistiche previsioni incoraggiando ulteriori articolazioni della pubblicazione.

Ora, infatti, è nata alfa+più quotidiano online del mensile.
Ogni giorno articoli su società e libri, arti visive e musica, cinema e teatro, riflessioni sulle nuove tecnologie.
CLIC per iscriversi gratuitamente alla lettera quotidiana.


Da Aristotele a Krugman (1)

Sono d’accordo con quella massima di Nicolas de Chamfort: “Gli economisti sono dei chirurghi che posseggono un ottimo scalpello e un bisturi sbrecciato: lavorano a meraviglia sul morto e martirizzano il vivo”. Aforisma adatto anche a quanto hanno combinato in Italia, specialmente negli ultimi vent’anni, tanti politici illuminati dai loro economisti di fiducia che hanno ridotto sul lastrico in tanti a partire dai più poveri che più poveri ancora sono diventati. Si ringrazino i vari Berlusconi, Tremonti, Brunetta, Monti, Fornero, gli attuali, e quelli del centrosinistra che hanno sempre reso la vita facile ai signori prima nominati.

In foto: Andy Warhol, Segno del dollaro, 1981

Oggi presento un libro che ha un titolo di lunghezza settecentesca: Sono io a non capire l’economia, o è l’economia a non capire me?; si tratta di una ben ragionata intervista condotta da Filippo La Porta cui risponde Mauro Scarfone, analista finanziario che ha studiato economia in Italia e negli Usa; nel quarto di copertina è detto anche che “ha sempre desiderato fare il chitarrista di rock ‘n roll”.
Interessi musicali ha anche Filippo La Porta (suona le percussioni in gruppi jazz); nome di spicco dello scenario della critica letteraria; non deve sorprendere che lo troviamo alle prese con temi economici, se cliccate QUI in un video saprete il perché.

Il volume spazia dal pensiero economico di Aristotele a quello di Paul Krugman intercettando nel percorso plurali occasioni teoriche e pratiche.

Segue un incontro con gli autori di “Sono io a non capire l’economia, o è l’economia a non capire me?”.


Da Aristotele a Krugman (2)


Ecco che cosa ho chiesto a Mauro Scarfone.
Ad una domanda di Filippo che ti chiede a quale scuola di pensiero appartieni (marxista, keynesiano, sraffiano?) rispondi che hai un “approccio eclettico”.
E’ possibile attraversare tali aree di pensiero senza sceglierne una? E, se sì, come?

Il mio elogio dell’eclettismo non va preso in un senso troppo ampio. Certo, “non posso non dirmi keynesiano”, come “non posso non dirmi marxista”, e per fortuna le due cose non sono poi tanto in alternativa. Rubando le parole a Paul Krugman “Gli economisti che credono che il loro modello sia una descrizione letterale di come si comporta la gente dovrebbero cambiare mestiere” e ancora “l’economia non si limita a principi astratti. Si deve prestare attenzione a ciò che funziona in pratica”. Il funzionamento di una società è molto più complesso di qualsiasi modello – mentale, non necessariamente matematico – si voglia costruire su di essa. E la società italiana è forse ancora più complessa delle altre. “Econostar” della sinistra come Krugman, Stiglitz e Sen si sono formati nella tradizione neoclassica e hanno raggiunto risultati scientifici di rilievo, che smentiscono la pretesa equità ed efficienza del liberismo, usando metodologie assolutamente compatibili con quella tradizione. Quando affronta problemi reali lo studioso deve usare tutta la sua sapienza, esperienza e - parola antica - saggezza, senza preoccuparsi troppo di violare un paradigma.

Ad un’altra domanda circa la necessità delle misure adottate da Monti, rispondi “Penso proprio di sì” e nel corso della risposta spieghi i perché.
Ma Monti è lo stesso che ha affidato alla Fornero il Ministero del Lavoro e oggi ci troviamo con 6 milioni di disoccupati? E allora?

Scusa il mio vecchio vizio dei numeri: i disoccupati a marzo erano poco meno di 3 milioni, comunque troppi, e considera che in un anno si sono persi 250 mila posti di lavoro, la popolazione di una città come Venezia, e che gran parte dei cassintegrati tra breve diventeranno disoccupati a pieno titolo. Colpa della Fornero? La disoccupazione é un prodotto della spaventosa recessione in cui è precipitata l’economia italiana ed europea (oltre 26 milioni di disoccupati). Dopo l’imbelle e dilatoria politica del “faccio tutto mi” Berlusconi, Monti doveva stabilizzare la situazione finanziaria, e i provvedimenti dei primi 100 giorni hanno permesso a Draghi di “garantire” in qualche modo il debito nostro e degli altri paesi. Alla Fornero addebiterei lo scarso controllo sull’Inps (faccenda esodati) e la ricerca disperata di un nemico con la futile battaglia sull’articolo 18, a Monti la subalternità alla destra nell’ultimo periodo. Tuttavia, rimango convinto che a fine 2011 eravamo con l’acqua alla gola - anche se alcuni hanno opinioni contrarie – e senza il governo Monti saremmo andati a picco, ma nessun governo europeo, da solo, può combattere la recessione. La crescita, come il coraggio, nessuno “se la può dare”, soprattutto se tutti gli altri paesi tirano la cinghia.

Concludendo: tu, rispetto ai temi economici di oggi, ti ritieni un moderato o un radicale?

Se radicale vuol dire credere che la società sia conflittuale e che bisogna schierarsi dalla parte di quelli che stanno peggio, sono radicale. Se invece vuol dire non guardare in faccia la realtà e discettare su palingenesi da bar, beh, non faccio parte di quella brigata.
Penso che il nostro dovere di cittadini attivi sia di premere o, potendo, operare perché si sfrutti ogni margine dato dalla situazione presente per migliorare le condizioni della maggioranza della popolazione, e ancor più della minoranza che sta peggio
.

A Filippo La Porta ho chiesto: da “antipatizzante” (come ti definisci) dell’economia, perché tanto t’interessa questa disciplina?

Negli anni ’70 leggevo e studiavo il primo libro del “Capitale” di Marx perlopiù facendo finta di capirlo. Sentivo che di lì passava qualcosa di fondamentale, che insomma potevo estrarne la chiave per afferrare d’un colpo l’intera realtà. Poi ho scoperto che l’economia ha, dal punto di vista conoscitivo, un desolante effetto ‘polenta’: ti dà l’impressione di sentirti subito strapieno e dopo mezz’ora hai fame di nuovo! Però dentro di me ho conservato qualcosa di quella mitologia o superstizione giovanile. Effettivamente l’economia ti permette di capire come funziona non tanto la realtà ma almeno questo mondo qui, che sull’economia ahinoi è imperniato

Perché gli articoli su quotidiani, periodici e sul web quando trattano di economia usano un linguaggio criptico più di certi critici di arti visive?

Per nascondere il fatto che non è una “scienza”. Se lo fosse gli economisti sarebbero milionari e ad esempio il mio sodale Scarfone, pur moderatamente agiato, non lo è. E’ strapiena di matematica (a volte inevitabile a volte solo per intimidirci), e prevede le cose meno ancora della meteorologia. E allora cos’è? Una disciplina che rientra nelle scienze umane, non lontanissima dalla critica letteraria: non tanto dimostra quanto argomenta, ipotizza, tenta di persuadere. Comunque mi sembra che – e lo dico sfiorando il conflitto di interessi – il suddetto Scarfone riesca a chiarire anche le cose economiche più complicate. Nessuno, ad esempio, ha spiegato il sistema pensionistico meglio di lui nel nostro (molto più suo che mio) libretto verde (mi riferisco al colore).

Esiste, a tuo avviso, nella nostra letteratura un libro (o anche più di un titolo, se lo credi opportuno) che più di altri bisognerebbe leggere per capire l’economia attraverso l’arte del racconto?

Una letteratura che ci aiuti a capire l’economia? Suggerisco una bibliografia portatile, relativa alla modernità. Tutto Balzac (lo diceva anche Marx), Flaubert (“Dizionario delle idee comuni”, dove si parla della “scienza senza cuore”),Verga (“Mastro don Gesualdo” e l’ossessione della ‘roba’) e Dossi (celebre la definizione di economia come “matematica della morale che concilia l’interesse con le aspirazioni più sublimi del sentimento”), poi nel ‘900 qualcosa di Ezra Pound, ossessionato dall’usura, e per limitarci alla nostra narrativa almeno Gadda, Paolo Volponi (“Le mosche del capitale”: ultimo romanzo di un grande scrittore che era stato manager dell’industria), Sandro Veronesi (“Per dove parte questo treno allegro”: padre e figlio esportano clandestinamente in Svizzera una valigia di soldi), Marco Lodoli (“I fannulloni”, la meravigliosa scena delle banconote false), Simona Vinci (“Stanza 411” : ‘i baiocc. Gli sghei. I ghell. I danee. La grana…’), Gianluigi Ricuperati (“Il mio impero è nell’aria”: il protagonista si fa prestare soldi da tutti), Sebastiano Vassalli (la recente favola sulla finanza “Comprare il sole”).

Mauro Scarfone
Filippo La Porta
Sono io a non capire l’economia…
Pagine 156, Euro 16.00
Edizioni Portaparole


Il morso delle cose


È in corso a Ponte nelle Alpi negli spazi espositivi della Biblioteca Civica – che si avvale del sensibile lavoro culturale di Antonella Michielin – una mostra personale di Alfonso Lentini intitolata “Il morso delle cose”.
Perché questo titolo?
Così lo spiega Lentini: L’arte è cannibale, mangia se stessa e mangia anche il mondo. Lavoro spesso con oggetti sottratti alla quotidianità, materiali di recupero, pezzi di mondo su cui intervengo per provocare mutamenti di senso e di prospettiva. E siccome l’elemento distintivo di noi umani è la parola, provo a far interagire questi pezzi di mondo con pezzi di parole, sperimentando un uso materico della scrittura, un po’ come è adombrato nel celebre “Indovinello veronese” del XIII secolo, una delle più antiche testimonianze della lingua italiana, dove l’azione dello scrivere è paragonata al duro lavoro fisico di un contadino che ara i campi. La scrittura, in quelle che chiamo “poesie oggettuali”, diventa gesto, sedimento dell’esistenza, indica la volontà di incidere un solco, lasciare una traccia biologica di ciò che siamo, un graffio diverso. Tutto questo implica un atteggiamento “polemico” verso la realtà così com’è, vuol essere un invito alla trasformazione, a smascherare le mistificazioni percettive, dunque uno stimolo a sviluppare strumenti critici a tutto campo.

In foto: "Poesia oggettuale", 2013; opera in mostra.

Alfonso Lentini, nato in Sicilia nel 1951, vive a Belluno dalla fine degli anni Settanta.
Laureato in filosofia, ha insegnato letteratura italiana e storia. Si occupa di scrittura e di arti visive.
La sua prima personale risale al 1976. Nelle sue mostre e installazioni tenute in Italia e all’estero propone “poesie oggettuali”, libri-oggetto, libri d’artista e in generale opere basate sulla valorizzazione della parola nella sua dimensione materiale e gestuale. Nell’àmbito di progetti collettivi sulla poesia curati da Marco Nereo Rotelli e Caterina Davinio, ha partecipato due volte alla Biennale di Venezia. Sue opere figurano in musei, archivi, collezioni pubbliche e private.
Fra i suoi libri, due sono stati pubblicati dalle edizioni Stampa Alternativa (Piccolo inventario degli specchi e Un bellunese di Patagonia).
Con il romanzo “Cento madri” (Foschi, 2009) ha vinto il premio letterario Città di Forlì.
Il suo volume più recente è “Luminosa signora”, lettera veneziana d’amore e d’eresia (Pagliai, 2011).
A cura della rivista online “La recherche”, nel 2012 ha pubblicato - in e-book scaricabile gratuitamente - la raccolta poetica Il morso delle cose (opera finalista alla XXIII edizione del Premio Montano, dalla quale prende il titolo questa mostra).
Insieme con Aurelio Fort è autore del progetto artistico internazionale Resistere per Ri/esistere.

A proposito della mostra “Il morso delle cose”, così si è espresso Emilio Isgrò, figura storica delle neoavanguardie italiane del Secondo Novecento: Ogni artista è un mondo, e in quello di Alfonso Lentini io entro volentieri, affascinato da un linguaggio prensile e vivo che non conosce banalità. Sono certo che il suo impegno e la sua serietà d'artista saranno premiati anche questa volta dal pubblico che giustamente lo segue con l'interesse che merita la sua ricerca.

Il morso delle cose
Biblioteca Comunale
Via Mangiarotti 3, Ponte nelle Alpi
Info: biblioteca@pna.bl.it ; 0437 – 99 214
Fino al 14 giugno


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