Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
venerdì, 28 febbraio 2020
Addio (1)
Dal Vocabolario: “Addio” = Si usa come saluto nel prendere commiato o nel separarsi da una persona o cosa cara, spec. quando il distacco previsto è definitivo. Anagramma di Addio = da Dio. Settimana Enigmistica, quiz dalle parole crociate = l’inglese dice farewell. La parola “addio” col suo significato struggente ha ispirato tante composizioni, si pensi, ad esempio, all’opera lirica. Dai ben due nella Traviata (“Amami Alfredo”, “Addio del passato”) alla Wally di Alfredo Catalani che canta “Ebben ne andrò lontana” prima che la tempesta provochi la valanga combinando quel disastro nel finale. A proposito di cattivo tempo, uno degli addii che mi ha sempre lasciato perplesso avviene nella Bohème quando Rodolfo e Mimì pare condizionino il loro addio al meteo. Perché decidono di lasciarsi, ma è inverno, fa freddo, e rimandano alla primavera la dolorosa separazione dicendosi: “Ci lasceremo alla stagion dei fiori”. Certo che la gente è strana! Nella musica cosiddetta leggera gli addii non si contano, è tutto un lasciarsi da “Abitudine” dei Subsonica a "Babe I’m Gonna Leave You" dei Led Zeppelin, da “Insieme a te non ci sto più” di Caterina Caselli, a "Cry" di Kelly Clarkson, da “Io vivrò senza te” di Lucio Battisti a “Siamo soli” di Vasco Rossi… vado avanti? No, può bastare. In teatro è sterminato, dai classici a oggi, il numero degli addii in più scenate mentre al cinema prima del sonoro abbiamo assistito ad addii silenziosi ma drammatici con tendaggi strappati, schermi allagati di lacrime. Quando il cinema acquista la parola, su tutte le battute d’addio la più celebre è quella di Clark Gable a Olivia de Havilland in Via col vento: “Francamente me ne infischio” che, inoltre, occupa la prima posizione nella classifica delle 100 migliori citazioni cinematografiche redatta dall'American Film Institute. Nella poesia nemmeno a parlarne, lacrime d’inchiostro rigano molte pagine, da Catullo a Properzio, da Saffo a Callimaco, da Pascoli a Neruda, da Hikmet a Szymborska, l’elenco è tanto lungo da renderne dissuasiva ogni stesura. Come nei romanzi. Mi limito qui solo a due che fanno pensare al tempo che possono prendere certi addii. Il grande Chandler fa vivere a Marlowe un lungo addio mentre l’ungherese Körmendi la mette sul veloce: “Incontrarsi e dirsi addio”. Roba da cronometrista. Record imbattibile. L’addio che preferisco su pagina, però, lo riservo alla canadese Leanne Shipton, L’autrice ricostruisce una storia d’amore finita ipotizzando che un’immaginaria casa d’aste metta in vendita gli oggetti appartenuti alla coppia seguendo lo schema dei cataloghi dei battitori, cioè suddividendo per lotti numerati gli oggetti; proprio attraverso questi oggetti scorre la storia di un addio fatto di biglietti di tram e del cinema, caffettiere, scarpe, agendine, cd, cravatte, lampade, copertine di libri, cartoline, tappeti, bigliettini scritti a mano, tutto è gelificato in una visione di ciò che fu. .Nelle arti visive per conoscere gli addi fra quadri e sculture ne dobbiamo attraversare di Gallerie! Però ho da mostrarvi un addio che vale per tutti. Lo dobbiamo all’artista francese Sophie Calle e alla sua opera “Prenez soin de vous” ("Prenditi cura di te"). Si compone di fotografie, testi, video con la presenza di molte donne invitate a leggere il messaggio di addio che un gran fetente con parole false, per la fine di un amore, ha inviato proprio a Sophie Calle. Tra quelle donne, Jeanne Moreau, Miranda Richardson, Emanuelle Laborit, la pornostar Ovidie e anche un’italiana: Luciana Littizzetto. Luciana piange leggendo, ma alla fine del filmato ci accorgiamo che mentre legge sta affettando cipolle. Ci sono, però, anche riflessioni sull’addio. Una maiuscola l’ha pubblicata la casa editrice Marietti 1820. È intitolata: Addio Piccola grammatica dei congedi amorosi L’autrice è Carola Barbero. Docente di Filosofia del linguaggio e Filosofia della Letteratura all’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni recenti: “Filosofia della letteratura” (Carocci 2013); “L’arte di nuotare” (Il Nuovo Melangolo 2016); “Attesa” (Mursia 2016); “Significato. Dalla filosofia analitica alle scienze cognitive” (con Stefano Caputo, Carocci 2018) ; “La porta della fantasia” (Il Mulino, 2019). Per Marietti 1820, ha scritto la nota di lettura a “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald edito nel 2019. “Addio” è un libro straordinario che attraverso 49 riflessioni (sia detto en passant: gli studiosi di numerologia ricordano che 49 è il numero delle volte in cui nel Nuovo Testamento è usato il verbo “crocifiggere”) esplora il corpo dell’addio con attenzione autoptica osservandone plurali aspetti con strumenti tratti da campi rigorosamente infetti. In quest’operazione si giova di apparecchi provenienti dalla letteratura, dal cinema, dalla filosofia, dalle canzonette, così troviamo citati Carver e Tati, Locke e Peppino di Capri, perché, altro merito di Barbero, è dimostrare che non esiste nell’interpretare i fenomeni l’alto e il basso perché sono gemelli eterozigoti venuti alla vita nascendo dallo stesso parto (sia detto en passant, Celine ha scritto “È il nascere che non ci voleva”). “Addio” è un libro bellissimo, leggetelo, mi ringrazierete. Dalla presentazione editoriale «Non è forse vero che soffriamo per amore, che le nostre storie finiscono, che i legami si logorano e che più spesso di quanto vorremmo ammettere ci ritroviamo con il cuore in frantumi e gli occhi pieni di lacrime? E non capita con una certa frequenza di dovere o volere interrompere una relazione amorosa che ci rende tristi e insoddisfatti senza tuttavia riuscire a farlo? Perché non si può semplicemente accettare il cambiamento, l’inevitabile fine, e provare a dire «addio»? Questo libro cerca di rispondere analizzando i congedi amorosi attraverso quarantanove frammenti tratti dalla letteratura, dalla filosofia, dal cinema e dalla storia, percorrendo contro mano la strada già magistralmente esplorata da Roland Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso. È un tentativo per guardare dentro le scatole nere di quegli aerei che sembravano progettati per portarci in paradiso e invece si sono schiantati contro un muro qualsiasi, ai piedi del quale osserviamo i resti di ciò che eravamo quando credevamo di essere tutt’uno con un’altra persona». Segue ora un incontro con Carola Barbero.
Addio (2)
A Carola Barbero (in foto) ho rivolto alcune domande.
Com’è nato questo libro? In principio volevo scrivere un libro sull’amore romantico, quello che toglie il sonno, la fame, fa brillare gli occhi e rende bellissimo chiunque lo provi. Così ho ripreso in mano dopo molto tempo i “Frammenti di un discorso amoroso” (1977) di Roland Barthes. Ma rileggendo quel testo, voracemente, quasi febbrilmente, una pagina dopo l’altra, si è imposta in me l’esigenza di provare a percorrere quella stessa strada contromano, al fine di delineare il percorso (emotivo, cognitivo ed esperienziale) di un congedo amoroso. Per capire che cos’è un addio e che ne è stato di quell’amore che una volta ci definiva e che adesso non c’è più. Qual è la cosa che hai deciso fosse da considerare per prima nella citazione dei testi che parlano di addio? L’elemento che ho riconosciuto come il più interessante è quello che riguarda la messa in opera dell’addio, la costruzione del congedo. Perché “addio”, più che essere qualcosa che si dice, è qualcosa che si fa. Nei testi letterari che ho esaminato ho cercato la lentezza e i pensieri, ingredienti fondamentali per un addio che sia meditato e definitivo. Sì, perché se per definizione l’amore non può essere “per sempre”, l’addio sarebbe auspicabile che lo fosse: una volta che saremo saliti su quel trampolino altissimo (che già solo a guardarlo da sotto faceva venire le vertigini) e avremo trovato il coraggio di tuffarci, avremo un’unica certezza, ossia che non potremo mai tornare indietro per la stessa strada. Dovremo inventarci qualcos’altro. Scrive Marcel Proust che “Spesso, per riuscire a scoprire che siamo innamorati, forse anche per diventarlo, bisogna che arrivi il giorno dell’addio”. La consideri un’estremizzazione dolorosa o una verità ingannatrice?
Penso sia un’estremizzazione, vera nel suo essere dolorosa. L’amore, quello che si promette e si condivide, non è mai per sempre, come ben ricorda F. Nietzsche in “Umano, troppo umano” (1878): non si può promettere amore eterno perché non ha senso promettere ciò che non è in nostro potere. Possiamo promettere di prenderci cura dell’altro, di aiutarlo in caso di bisogno o di prendere decisioni al posto suo (se lui non fosse nelle condizioni di prenderle). Ma non possiamo promettergli seriamente di amarlo tutta la vita, questo no. Nonostante il “Canto alla durata” (1986) di P. Handke, che «Parla di un amore al primo sguardo | seguito da numerosi altri primi sguardi. | E questo amore | ha la sua durata non in qualche atto, | ma piuttosto in un prima e in un dopo, | dove per il diverso senso del tempo di quando si ama, | il prima era anche un dopo | e il dopo anche un prima». Nonostante tutto quello che abbiamo detto, sperato, sognato. Nonostante quello che avremmo voluto o potuto fare. Quello che succederà sarà che ameremo fino a che ne saremo capaci e ne avremo voglia, fino a che non arriverà qualcuno/qualcosa a distrarci, a portarci lontano, a rovinare tutto per sempre. Ecco perché per amare davvero bisogna contemplare l’addio, perché dobbiamo essere consapevoli della nostra condizione: siamo come quegli equilibristi di cui racconta R. Musil, procediamo incerti su una corda sospesa nel vuoto, tremanti e timorosi, correndo sempre il rischio di cadere nel vuoto (e nella vita, a differenza che al circo, non ci sono le reti di sicurezza sotto). E se non vogliamo cadere dobbiamo stare molto attenti, non perdere mai la concentrazione, la passione, la voglia di arrivare fino in fondo insieme alla certezza di poterci riuscire. Poi, certo, per non cadere dovremo anche essere molto fortunati. Ma questa è un’altra storia. Dirsi addio in un ambiente di secoli fa oppure oggi via mail cambia qualcosa? Indubbiamente sono cambiate molte cose. Nei secoli passati ci si lasciava anche per lettera, spesso per rompere gli impegni presi ed essere liberi di prenderne di nuovi. Ma certo in passato i rapporti sentimentali tra gli individui erano molto diversi e più socialmente filtrati. Oggi la comunicazione via mail, con i messaggi e sui social è diventata molto rapida, quasi frenetica, il che fa spesso sì che anche per dirsi “addio” si tenda magari a scegliere modalità più immediate e che non richiedono la presenza e non comportano l’imbarazzo di quei momenti. Perché dire “addio” a chi abbiamo amato e a chi abbiamo affidato la nostra vita guardandolo dritto negli occhi è difficilissimo. Ma è anche rispettoso. Credo negli addii fatti di persona, magari anche con gli occhi lucidi e la voce che trema. Così se si sta commettendo un errore lo si capisce subito, e se ci si vuole abbracciare per un’ultima volta lo si può fare. Ci sono cose che vanno fatte avendo l’altro davanti. L’addio è una di queste. Perché tieni a sottolineare nell’Introduzione che la voce di apertura è “Addio” e quella di chiusura “Verità”. Va inteso come un percorso? Se sì, da dove a dove? Ritengo importante vedere l’addio come un punto di partenza, come ben emerge dall’immagine del tuffo del racconto “Per sempre lassù” di D.F. Wallace (1992). Credo nell’addio come un regalo importante e imprescindibile che ci si fa, al fine di darsi una possibilità di essere felici. Lungi quindi dall’essere una distruzione o una fine, l’addio così inteso è fondamentalmente un inizio. Ed è indissolubilmente legato al concetto di verità, perché dobbiamo, grazie a quel tuffo e nonostante tutto, essere capaci di guardare ciò che abbiamo davanti agli occhi. L’essenziale è visibile agli occhi, ciò che è nascosto non ci interessa. La verità poi spesso è talmente forte da accecare, da fare male, e allora, seguendo il suggerimento di Emily Dickinson, la diremo «obliqua – | il successo è nel cerchio | sarebbe troppa luce per la nostra debole gioia | la superba sorpresa del vero | Come il lampo è accettato dal bambino se con dolci parole lo si attenua | così la verità può gradualmente illuminare | altrimenti ci accieca» (n. 1129). L’amore muore di morte naturale o perché – come sostiene Anais Nin – afflitto da qualche patologia dei sentimenti? L’amore muore perché non siamo capaci di trattenere e proteggere la fortuna che abbiamo tra le mani, quando l’abbiamo, perché siamo stupidi e cattivi, perché dimentichiamo di continuo chi siamo e che cosa è importante per noi. Perché siamo testardi, incoerenti, frettolosi, limitati. Perché barattiamo la bellezza e la purezza di una emozione con la prima cosa che ci capita sotto mano, e non ci rendiamo nemmeno conto che così perdiamo l’unica cosa davvero bella e importante che abbiamo mai avuto. L’amore muore perché non ce ne prendiamo cura. Quindi no, non muore di morte naturale. Muore per colpa nostra. Sempre. Stando alle statistiche recenti, si può affermare con certezza che l'uomo non tolleri l’addio molto più di quanto non accada a una donna, arrivando perfino all’omicidio. Perché questa differenza di risposta a una separazione? Può essere che gli uomini sentano maggiormente una spinta verso il possesso della persona che hanno accanto. Forse ha a che fare con l’illusione che l’altro possa essere qualcosa di cui si dispone, come un oggetto o una proprietà. Ma l’altro, proprio perché è ciò che è, cioè una persona, non potrà mai essere posseduto da nessuno. E precisamente nell’incapacità di accettare questa evidenza risiedono questi gesti folli che possono arrivare a strangolare anche gli amori più puri, nutrendosi di contraddizioni, soprusi, cattiveria e violenza. Così accade che un sospetto, un addio mai accettato, una parola lasciata a metà o un messaggio arrivato nelle mani sbagliate risvegli quei mostri depositati in fondo al cuore. Come dice Otello? «Eppure devi morire, per non tradire altri uomini. Devo spegnere questa tua luce. Sii così, quando sarai morta, e io ti ucciderò e poi ti amerò. Questo dolore è divino, perché colpisce dove più ama» (William Shakespeare, Otello 1603). «Eppur devi morire», come se fosse inevitabile, come se non ci fossero altre possibilità. Ma ci sono sempre altre possibilità. E infatti, dopo avere ucciso Desdemona nel letto nuziale, Otello si toglie la vita, preso dal rimorso per quello che ha fatto e forte della certezza che ora nulla potrà più avere senso per lui. Come dice Nietzsche in “Al di là del bene e del male” (1886), «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». Dobbiamo imparare a conoscere le nostre fragilità, accettare che gli altri ci deludano, tradiscano le promesse fatte e infrangano i nostri sogni. Dobbiamo riuscirci senza diventare mostri, perché ne va di noi. Non ci sono garanzie al per sempre dell’amore o al sentimento che l’altro prova per noi: chi abbiamo accanto domani forse ci vedrà come un inutile fardello o, peggio, si innamorerà di qualcun altro. È terribile, ma è così. Ma anziché intrattenerci inutilmente con questi pensieri, fermiamoci e proviamo a capire quale sia la differenza tra amare una persona e credere di possederla. …………………………. Carola Barbero Addio Pagine 224, Euro 16.00 Marietti 1820
Archivio Desaparecido
Il termine desaparecido come ben sintetizza Wikipedia “è divenuto una parola mantello d'uso comune. Tale fenomeno è stato riconosciuto come crimine contro l'umanità dall'articolo 7 dello Statuto di Roma del 17 luglio 1998 per la costituzione del Tribunale penale internazionale e dalla risoluzione delle Nazioni Unite numero 47/133 del 18 dicembre 1992. Quando nell’America latina sono saliti al governo militari tradendo la Costituzione dei loro paesi, è stata diffusamente praticata la sparizione forzata degli oppositori. E' accaduto in Argentina · Bolivia · Brasile · Cile · Paraguay · Perù · Uruguay.
Si sa che in quei paesi vivevano molti nostri connazionali. La repressione poliziesca ha colpito anche loro. Ora un collettivo di giovani giornalisti condotto da Alfredo Sprovieri, Elena Basso e Marco Mastrandrea, vuole, attraverso un lavoro d’inchiesta creare un archivio digitale e multimediale fatto di documenti e testimonianze, per mantenere la memoria su una delle pagine più drammatiche della storia del secolo scorso. Così scrivono: Con l' Archivio Desaparecido intendiamo ricostruire per la prima volta decine di biografie e testimonianze in una lunga inchiesta giornalistica che ripercorra le storie dei cittadini italiani scomparsi durante le dittature sudamericane. Storie di giovani ribelli e delle loro famiglie che, nonostante il dolore, non hanno mai rinunciato alla richiesta di verità e giustizia. Il nostro obiettivo è presentare Archivio Desaparecido il prossimo 24 marzo, durante il 43simo anniversario dal golpe argentino . CLIC per aiutare questo progetto a crescere.
mercoledì, 26 febbraio 2020
L'invasione immaginaria (1)
La casa editrice Laterza ha pubblicato un libro che nei giorni politicamente bui che viviamo risulta di grande interesse e di grande necessità. Titolo: L’invasione immaginaria L’immigrazione oltre i luoghi comuni L’autore è Maurizio Ambrosini docente di Sociologia delle migrazioni nell’Università degli Studi di Milano. Insegna anche nell’Università di Nizza e nella sede italiana della Stanford University. È responsabile scientifico del Centro Studi Medì di Genova, dove dirige la rivista “Mondi migranti” e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni, e consulente dell’ISPI. Collabora con “Avvenire” e con “lavoce.info”. Dal luglio 2017 fa parte del CNEL, dove è responsabile dell’organismo di coordinamento delle politiche per l’integrazione. È autore, tra l’altro, di Sociologia delle migrazioni e Sociologia (con Loredana Sciolla), manuali adottati in molte università italiane. Nel volume è spiegato benissimo come sul fenomeno immigrazione su disinformazioni assai spesso volute oppure con perniciosa superficialità diffuse da chi non ha verificato fonti e cifre si formi l’immagine di un nemico immaginario. Il sovranismo trova fertile terreno nell’alimentare paure facendo leva su di un’articolazione psicosociale che c’è in molti: il pregiudizio. Ricordo che recensii anni fa un altro libro Laterza (“Il pregiudizio universale”, saggi di 80 autori) dove accanto ai pregiudizi più diffusi come ‘L’abito non fa il Monaco’ - ‘I politici sono tutti ladri’, si trovavano anche pregiudizi che affliggono ogni passo della nostra vita, tra questi il pregiudizio etnico che sfocia nel razzismo. In definitiva, il sovranismo punta sul pregiudizio etnico e ha dalla sua la velenosa capacità di amplificarlo principalmente per il suo potere di sintesi, si esprime, difatti, in modo laconico, semplifica in modo assoluto ciò che è relativo rendendo di facile soluzione tutto quello che proprio non lo è, si presenta con l’aria di una vissuta saggezza. “L’invasione immaginaria”: dalla presentazione editoriale. «Il sovranismo ha vinto nelle menti prima ancora di vincere nelle urne: ha cavalcato le preoccupazioni delle persone nei confronti del fenomeno immigrazione costruendo un nemico immaginario. Ma la realtà è molto diversa da quella che ci viene raccontata. Non è vero che negli ultimi anni ci sia stata un’invasione. Non è vero che gli immigrati siano prevalentemente maschi, africani e musulmani. Non è vero che l’immigrazione sia conseguenza diretta della povertà o che i rifugiati abbiano come principale destinazione l’Europa. Il fenomeno delle migrazioni in realtà è molto differenziato e richiede risposte politiche articolate. Per uscire dal clima sociale avvelenato in cui viviamo, è necessario ricordare numeri e fatti e proporre soluzioni concrete». Segue ora un incontro con Maurizio Ambrosini.
L'invasione immaginaria (2)
A Maurizio Ambrosini (in foto) ho rivolto alcune domande. Come nasce questo libro?
Il libro è nato da un invito personale di Giuseppe Laterza, che vorrei pubblicamente ringraziare, e dalla sua volontà di fornire all’opinione pubblica una lettura più appropriata dei fenomeni migratori. Ha poi preso forma grazie alla collaborazione del suo eccellente staff, e in particolare di Lia Di Trapani. Il titolo del suo saggio è “L’invasione immaginaria”. Perché “immaginaria”? L’immigrazione reale, quella almeno che possiamo conoscere in base alle fonti statistiche, è molto diversa dall’immigrazione raccontata. L’immigrazione in Italia è sostanzialmente stazionaria da 5-6 anni a questa parte, intorno ai 5,3 milioni di persone, a cui vanno aggiunti gli immigrati irregolari, stimati da alcune fonti in circa 600.000. Rifugiati e richiedenti asilo sono in tutto circa 300.000, dunque il 5% del totale. Inoltre, gli immigrati che vivono in Italia sono prevalentemente donne, prevalentemente europei, prevalentemente cristiani, almeno in termini di provenienza culturale. Gli africani sono circa il 20%, ma vengono soprattutto dal Nord-Africa. L’immigrazione reale è molto diversa da quella rappresentata. Non è neppure vero che sussista un legame diretto tra immigrazione e povertà: gli immigrati arrivano soprattutto da paesi di livello intermedio, non dai più poveri. Per l’Italia i primi sono Romania, Albania, Marocco, Cina. Non sono paesi dove si muore di fame, per emigrare occorrono risorse. Quanto ai rifugiati internazionali, l’84% è accolto in paesi in via di sviluppo. L’Unione Europea ne accoglie circa il 13%. L’unico paese dell’UE che figura tra i primi dieci per numero di rifugiati accolti è la Germania. In Italia abbiamo circa 5 rifugiati ogni 1.000 abitanti, in Libano 156, senza contare i palestinesi. Quando si è accinto a questo lavoro quale cosa ha deciso di fare assolutamente per prima e quale quella da evitare assolutamente per prima? La prima cosa da fare, e di cui sono fermamente convinto, era appunto la necessità di far parlare i dati, sfatando i luoghi comuni e contrastando le narrazioni tossiche sul tema. I dati tuttavia non vanno semplicemente presentati in modo descrittivo e magari pedante: devono servire a spiegare i fenomeni sociali sottostanti, a interpretare la realtà. La cosa da evitare, anche prendendo le distanze da un certo modo di difendere la causa dell’accoglienza, è cedere al “miserabilismo” e al senso di colpa: ossia l’idea che l’immigrazione sarebbe composta da povera gente che arriva qui (dall’Africa, ovviamente), poiché noi abbiamo colonizzato, sfruttato e impoverito le loro terre. Questa posizione curiosamente collima con quella sovranista: l’immigrazione sarebbe una conseguenza della povertà, arriverebbe per bisogno e per chiedere assistenza, non avrebbe una funzione utile, né al fondo una capacità di scelta. Uno degli slogan più ricorrente è “Aiutiamoli a casa loro”. Come lei scrive, quelle parole rivelano “inaccuratezza dell’analisi e la soggiacente motivazione politica”. Ci sintetizza il motivo della sua critica? Come ho già detto, gli immigrati arrivano in grande maggioranza dai paesi intermedi, non da quelli più poveri. Sono anche meno poveri di chi non emigra: in buona parte, classe media. Chi è più istruito emigra più di chi non lo è. Tutto questo scompagina una visione dell’immigrazione come reazione alla povertà e conseguentemente anche l’idea che l’aiuto in loco (ai paesi poveri dell’Africa, alle zone rurali) possa frenare le partenze internazionali sulle lunghe distanze. I poverissimi in realtà fanno poca strada, al massimo raggiungono le megalopoli del loro paese. Inoltre il discorso dell’aiuto a casa loro trascura il bisogno che noi abbiamo del lavoro degli immigrati. Come faremmo senza le persone immigrate che assistono i nostri anziani? Ricordo infine un aspetto più tecnico: gli studi di economia dello sviluppo mostrano che per una prima non breve fase lo sviluppo economico di un territorio favorisce un aumento dell’emigrazione, e non una diminuzione. Con lo sviluppo, più gente riesce ad avere le risorse per partire, aumenta l’istruzione, sorgono nuove aspirazioni e desideri. Solo dopo parecchi anni di sviluppo sostenuto l’emigrazione comincia a diminuire. ‘Prima gli italiani’ è un altro slogan che fa battere i cuori. Perché lei lo definisce “un inganno a danno dei cittadini-elettori” ? Prima di tutto, 1,5 milioni di immigrati sono cittadini dell’UE: per le norme comunitarie, hanno accesso a più o meno tutti i diritti sociali su un piano di parità con i cittadini nazionali, al pari degli italiani all’estero. Quanto ai lungo-residenti (due terzi circa dei cittadini non comunitari) le norme dell’UE hanno pure pressoché equiparato i loro diritti a quelli dei cittadini nativi. Per i lavoratori immigrati che ancora non hanno un permesso di lunga residenza, l’orientamento è simile. Quindi il discorso molto popolare della distinzione tra cittadini e stranieri fa acqua sotto il profilo giuridico, è stato già cassato varie volte dalle sentenze, per esempio sul bonus bebè. I diritti di un immigrato dell’UE o anche di un lungo-residente sono più simili a quelli dei cittadini che a quelli degli immigrati in condizione irregolare. Infatti i legislatori ostili agli immigrati devono ricorrere a degli artifici, come l’anzianità di residenza, per imporre delle discriminazioni, come è avvenuto con il reddito di cittadinanza. Ma la Corte costituzionale ha già detto che non si può imporre un’anzianità di residenza pari al tempo necessario per accedere alla cittadinanza: è una condizione eccessivamente gravosa e ingiustificata. Oggi, con la globalizzazione economica imperante, la velocissima trasmissione dell’informazione e dei saperi, la grande rapidità con cui raggiungiamo e attraversiamo paesi lontani, com’è stato possibile un ritorno alla retorica dei confini che sembrava sulla via del tramonto? A me sembra che la retorica dei confini sia una conseguenza di una globalizzazione neo-liberista pressoché deregolata: una reazione che prende di mira il bersaglio sbagliato, non i poteri finanziari e i maggiori attori economici, ma persone in condizione di debolezza politica che arrivano per chiedere asilo. I rifugiati sono il classico capro espiatorio delle paure derivanti dalla globalizzazione. Non dimentichiamo che la difesa dei confini è uno dei simboli residui di una sovranità nazionale sempre più erosa. Basta ascoltare i discorsi di Trump o dei suoi emuli nostrani. Un’ultima domanda: molti sostengono che l’Italia non è un paese razzista. Ma è proprio così? Non abbiamo certo la segregazione razziale del Sud degli Stati Uniti o l’apartheid sudafricano, ma dalle sedi istituzionali ai social networks si sentono dei discorsi che in altri paesi condurrebbero a processi penali. Basti pensare alle leggende sui cinesi che “non muoiono mai” (l’ho sentito ripetere da un parlamentare, poi anche sottosegretario), o al complottismo della “sostituzione etnica” della popolazione italiana con popolazioni africane o mediorientali. Anche lo slogan già ricordato, “prima gli italiani”, rivela un’impostazione che può essere definita razzista. Il problema è che un certo discorso politico ha sdoganato discorsi e pratiche di razzismo quotidiano e diffuso. ………………………….. Maurizio Ambrosini L’invasione immaginaria Pagine 172, Euro14.00 Editori Laterza
martedì, 25 febbraio 2020
Wikibolario (1)
Sigmund Freud: “Le parole erano originariamente incantesimi. Le parole sono il mezzo generale con cui gli uomini si influenzano reciprocamente”. Anche con l’umorismo. Del resto, lo stesso Freud ha scritto “Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio” (1905), analizzando quest’importante momento linguistico indicando della battuta le 6 tecniche fondamentali: la condensazione (o metafora), lo spostamento (o metonimia), il doppio senso, l’equivalenza degli opposti, la freddura o il gioco di parole, la rappresentazione antinomica. Raymond Queneau, tra i fondatori dell’Oulipo, protagonista della ludolinguistica, afferma che se “… il gioco è praticato sulle parole, cioè sullo strumento primo di comunicazione fra gli umani, ecco che assume la dimensione di una vertigine fra disvelamenti ed epifanie, memoria e premonizioni”. Queste leggi le troviamo riflesse in un libro intitolato Wikibolario del nuovo italiano Vaccabolario illustrato. Pubblicato da Flaccovio. Autori Zap&Ida, sigla de plume dei loro nomi: Vincenzo Zapparoli e Ida Cassetta. “La satira” - dicono – “è salutista. Ridere è una valvola di sfogo che fa bene al corpo e alla mente. Quelli che non ridono prima o poi ruberanno, trufferanno e uccideranno. Alcuni di loro entreranno addirittura in politica”. Zap & Ida vivono a Bologna. Umoristi e intrattenitori, alla fine degli anni Novanta decidono di lanciare lo Zapparelli, un Vaccabolario umoristico chiaramente ispirato per assonanza allo Zingarelli. Idealmente parafrasandolo e proponendo a migliaia di termini le proprie interpretazioni arricchite da immagini esilaranti.
Il linguista Giuseppe Pittano nella Prefazione scrive: “Ecco un'antologia dell'umorismo intelligente che ha tutti i numeri per diventare un classico della risata. È un’allegra passeggiata lessicale, un libro che si degusta ‘a sorsi‘ sia per il divertente discorso che per gli spiritosi disegni che lo illustrano, una festa di non sensi, metafore, giochi di parole, trasgressioni linguistiche, comicità, assurdità. Il tutto agitato in un cocktail stimolante e tonico”. Ecco un estratto da una nota introduttiva al Wikibolario di Mariano Diotto, docente di semiotica. "Il termine ‘wiki’ deriva dalla lingua hawaiiana e significa ‘rapido’. Questo libro è un gioco rapido. Zap e Ida sono dei creativi allo stato puro che hanno costruito nell’umorismo la cifra della loro genialità. Di fronte a certi significati mi sono domandato: ma come hanno fatto a pensarlo? Eppure, quel significato era logico, era collegato, era corretto. Gabriel García Márquez diceva che «Le parole non vengono create dagli accademici nelle accademie bensì dalla gente per strada. Gli autori dei dizionari le catturano quasi sempre troppo tardi e le imbalsamano in ordine alfabetico, in molti casi quando non significano più ciò che intendevano gli autori». Le parole quando si uniscono in modo bizzarro diventano proverbi. Sono proprietà dei saggi, ma allo stesso tempo della gente comune. I proverbi sono brevi, spesso con particolari forme metriche, rime, assonanze, allitterazioni e altre simmetrie strutturali. Questo è il dono che i proverbi danno al mondo: il loro carattere d’incisività. Zap & Ida li stravolgono, li deridono, li fanno suonare diversamente”. Incoraggiante per alcuni, terrorizzante per altri è quanto afferma Isabel Allende: “Per le donne il miglior afrodisiaco sono le parole. Il punto G è nelle loro orecchie. Chi lo cerca più in basso sta sprecando il suo tempo”. Non perdetevi questo libro di Zap&Ida che crea ricreando e scrive riscrivendo. Ve lo consiglia questo sito on line da 20 anni con il motto: “Ricreazioni e Riscritture”. Parola adesso a Zap&Ida.
Wikibolario (2)
A Za&Ida (in foto) ho rivolto alcune domande. Li sentirete rispondere con una voce sola: miracoli della tecnologia di cui dispone a bordo Cosmotaxi. Come e quando nasce questo libro? Il nostro 'Vaccabolario' vede la luce , in uno dei tanti nostri momenti di follia , nei primi anni '90 con il titolo 'Nuovissimo Zapparelli. Vaccabolario illustrato della lingua italiana’, stampato dalla Sonzogno. Contava 1.500 'vaccaboli' e 20 tavole illustrate. Grande successo, ma ancora maggiore, come numero di copie vendute, la seconda uscita con Comix pubblicata dall’editore Panini nei primi anni Duemila, contava 3.400 'voci' e 40 tavole illustrate. Oggi il nostro Wikibolaro, con “Zapparelli” come sottotitolo, edito da Flaccovio, è fatto di 5.000 'voci' , 60 tavole illustrate, moltissimi termini inglesi 'rivisitati ' e l'aggiunta di circa 400 veri santi con nuovi protetti più in linea logica con loro nome. Un esempio per tutti: S.Liberato - Protettore degli stitici.
Le parole sono per voi una mappa o un labirinto? Le parole sono una mappa nel labirinto dell'ignoranza. È la parola in forma fonica o scritta che vi permette più deviazioni di senso? I “vaccaboli” nascono grazie ad un mix di forme foniche, scritte e spesso anche illustrate. Il trucco è semplice, indurre il lettore a scoprirne il significato facendo ricorso ad un minimo di cultura ma soprattutto alla sua capacità di mettere in moto i neuroni. I nostri libri, soprattutto questo, fanno sorridere, ridere e sghignazzare solo chi se lo merita. Sono un distinguo fra zombies ed esseri pensanti. Si dice che le parole sono impiegate per uccidere o salvare. Quelle che non fanno l’una o l’altra cosa a che cosa servono? Le parole possono uccidere e salvare, ma quelle umoristiche servono per guarire e alleviare i mali della vita. Denis Diderot: "Le parole sono le mie puttane". Pablo Neruda: "La parola è un'ala del silenzio". In quale delle due precedenti dizioni più vi riconoscete e perché? Pablo Neruda definisce la parola un'ala del silenzio, bello. Riteniamo che per prendere il volo di ali ne servano due! Una vostra definizione di “umorismo”… L'umorismo è quella valvola di sfogo che fa tornare l'uomo bambino e lo rende incapace, come tale, di commettere le enormi cazzate degli adulti 'seri '. L'umorismo ti fa perdere le difese preconcette contro i mali del mondo, spesso frutto dell'autodifesa e del pessimismo... e la tua vita corre più lieve. ………………………….. Zap&Ida Wikibolario Pagine 240. Euro 19.90 Con illustrazioni Dario Flaccovio Editore
Che cosa sono gli algoritmi
Algoritmo è una parola che sempre più spesso troviamo sui quotidiani, sul web, sentiamo pronunciare alla radio e in tv. Ma che cos’è, che cosa significa? Mettiamo mano al vocabolario e leggiamo: È un procedimento che risolve un determinato problema attraverso un numero finito di passi elementari, chiari e non ambigui. Il termine deriva dalla trascrizione latina del nome del matematico persiano al-Khwarizmi, vissuto nel IX secolo d.C., considerato uno dei primi autori ad aver fatto riferimento a quel concetto scrivendo il libro "Regole di ripristino e riduzione".
Nel tempo il procedimento si è sempre più raffinato e viene usato oggi in plurali campi: dalla persuasione politica o commerciale, dall’andamento della borsa valori, dalla medicina, dal meteo, e perfino in àmbito artistico. Tutti felici dell’esistenza degli algoritmi? Sì e pure no. Alcuni, infatti, si chiedono che cosa accadrebbe se fosse possibile prevedere con largo anticipo non solo fenomeni come quelli meteorologici, ma tutta la nostra vita? Il Gps sullo smartphone registra tutti i nostri spostamenti, l’algoritmo di Facebook impara i nostri gusti in fatto di cinema, musica, moda e cibo, fino a sapere che cosa abbiamo intenzione di votare alle prossime elezioni. Insomma, l’algoritmo non racconta come tutto potrà accadere un giorno; racconta come, senza che ce ne accorgiamo, stia già accadendo adesso . Può inverarsi, per riassumere pareri espressi da alquanti sociologi, un fenomeno che generi una standardizzazione dei ricordi e delle emozioni, in un contesto in cui il format conta di più dei contenuti. Vecchia storia che accompagna ogni momento del progresso delle tecnologie, ma l’elettricità non serve soltanto a fare esistere la sedia elettrica. Un esempio che riguarda proprio in questi giorni anche l’Italia, è dato dall’episodio che nel 2014 vide protagonista lo scienziato Alessandro Vespignani. Fu chiamato dalla Guinea dove infuriava l’Ebola. Lui, con il suo gruppo di ricerca, si collegò a un supercomputer e, grazie ad algoritmi e simulazioni, riuscì a prevedere la futura diffusione del virus con mesi di anticipo, cosa questa che permise di bloccarne l’estensione. Un libro che ci aiuta a capire che cos’è un algoritmo e la sua utilità è stato pubblicato dalla casa editrice Salani. È intitolato Che cosa sono gli algoritmi. Ne è autore Ennio Peres. Nato a Milano nel 1945, è considerato tra i più autorevoli divulgatori di matematica in Italia. Ex professore di informatica e di Matematica, si è autodefinito un ‘giocologo’, professione che svolge dagli anni Settanta, inventando giochi creativi, anche per programmi radiofonici e televisivi. Ha collaborato e continua a collaborare con vari giornali e riviste, e su Linus cura dal 1995 la rubrica ‘Scherzi da Peresʼ. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti. Per Salani ha già pubblicato “Matematicaterapia” e “L’elmo della mente”, con cui ha vinto il premio Ludo Award. Dalla presentazione editoriale. Dagli acquisti su Amazon fino alla possibilità di trovare un partner in rete, gran parte del progresso tecnologico del nostro tempo è dovuto all'applicazione di alcuni sofisticati e geniali strumenti: gli algoritmi. Gestiscono tutto ‒ musica, finanza, editoria ‒ e presto controlleranno anche ospedali e politica. Insomma, il futuro sarà fatto di algoritmi sempre più potenti e presenti nella nostra vita quotidiana. Ma che cosa sono? Gli algoritmi hanno origini antiche e non sono altro che procedimenti studiati per risolvere un determinato problema, ma non basta questa sintetica definizione per comprendere l’importanza e l’impatto che hanno nell’era di Internet. Ennio Peres, tra i più autorevoli divulgatori matematici in Italia, ci spiega, ci racconta in modo semplice e chiaro i tanti aspetti pratici – e ludici – di questo affascinante argomento in un saggio divertente e ricco di esempi e curiosità Cliccare QUI per leggere le prime pagine del libro. Ennio Peres Che cosa sono gli algoritmi Pagine 288, Euro 14.90 Salani
lunedì, 24 febbraio 2020
Cesare Colombo. fotografie (1952-2012)
È in corso – presentata dal Comune di Milano e dal Civico Archivio Fotografico – la mostra Cesare Colombo. Fotografie (1952-2012) curata da Silvia Paoli con Sabina e Silvia Colombo, responsabili dell’Archivio Colombo. Allestimento e grafica di Italo Lupi.
Cesare Colombo è stato uno dei principali fotografi e studiosi della fotografia del Novecento; sin dal Dopoguerra ha contribuito a far crescere in modo significativo la cultura fotografica in Italia. Nasce a Milano nel 1935. Figlio di pittori, a metà degli anni 50, sceglie la professione della fotografia, cui resterà legato per tutta la vita affiancandovi una maiuscola attività nella comunicazione visiva e nelle ricerche storiche. Dagli anni ’60 ha prodotto servizi fotografici per grandi riviste di architettura come “Abitare”, “Domus" e per importanti aziende pubbliche e private quali Iri, Ibm, 3M, Bayer, Ciba, Kraft, Enimont. Ha diretto l'ordinamento della Fototeca 3M Italia (ex-Ferrania) e ha contribuito da consulente all'ordinamento e alla valorizzazione degli Archivi Alinari, Touring Club Italiano e “Archivio dello spazio” della Provincia di Milano. Nelle sue fotografie il motore è l’uomo, “protagonista dinamico dell’inquadratura” – come è stato scritto – “ma anche simbolo della condizione sociale odierna”. Nel 2014, due anni prima di morire, pubblica la sua autobiografia intitolata "La camera del tempo". Dal comunicato stampa. «La mostra comprende oltre 100 fotografie dedicate alla città di Milano, descritta nei suoi molteplici aspetti culturali, politici e sociali e offre un vivido racconto biografico della metropoli lombarda lungo sessant’anni (1952-2012) di sviluppo urbano, trasformazioni del lavoro e mutamenti del tessuto sociale, contrapposizioni e contrasti. Il mondo delle fabbriche e le manifestazioni sindacali, le rivolte studentesche e le periferie, ma anche uno sguardo attento su una città in continuo cambiamento, che produce e crea: le fiere e i negozi, la moda e il design, l’arte e lo spettacolo. Punti di vista di una città ‘abitata’ di uno dei suoi più attivi interpreti. Tutti questi aspetti saranno evidenziati nell’allestimento e nella grafica di Italo Lupi, anche con una ricca sezione biografica, con riproduzioni di documenti e immagini, che aiuteranno il visitatore a ricostruire la figura di Cesare Colombo nella sua complessità». Silvana Editoriale pubblica il catalogo. Ufficio Stampa: Alessandra Pozzi ǀ press@alessandrapozzi.com ǀ Tel +39 3385965789 Cesare Colombo. fotografie (1952-2012) A cura di Silvia Paoli Con Sabina e Silvia Colombo Allestimento di Italo lupi Castello Sforzesco, Milano Sala Viscontea Fino al 14 giugno 2020
Voci dalla Shoah
A venticinque, anni dalla prima edizione e da tempo introvabile, è stato ripubblicato dall’editore Gaspari Voci dalla Shoah che si giova dei testi di Goti Bauer, Ytzhak Katzenelson, Nedo Fiano, Oliver Lustig, e la prima testimonianza scritta della senatrice a vita Liliana Segre. Curatore di questo importante testo è Claudio Facchinelli (in foto) già uomo di scuola e di teatro, è giornalista, saggista, critico teatrale. Il più recente suo libro è Dasvidania Nina! (Sedizioni, 2017). Impegnato da anni nella diffusione della memoria della Shoah, ha curato la prima edizione di Voci dalla Shoah (La Nuova Italia, 1996) e Un ragazzo ebreo nelle retrovie (Giuntina, 1999).Ricordo quanto su questo sito mi disse anni fa: “Con l’istituzione del Giorno della Memoria, la scuola fa qualcosa, ma l’obiettivo da porsi è che quel coinvolgimento non si esaurisca in una reazione emotiva, ma diventi patrimonio comportamentale, contribuisca a far sì che mai più, in nessuna parte del mondo, quelle cose abbiano ad accadere di nuovo (e invece continuano a ripetersi). Ma, ancora di più, è importante far riflettere che, ogni volta che blateriamo luoghi comuni sugli albanesi, gli zingari, gli arabi, o che parliamo senza carità degli sbarchi di clandestini a Lampedusa, ci incamminiamo sulla strada del razzismo, al fondo della quale ci sono i forni crematori di Auschwitz. Anche se ho una contiguità familiare con l’ebraismo, la tragedia della Shoah mi interessa fondamentalmente per il suo valore paradigmatico ed universale di violenza dell’uomo sull’uomo”. Dalla prefazione a “Voci dalla Shoah” di Alessandro Galante Garrone. «Auschwitz e Hiroshima indicheranno per sempre, nella storia multimillenaria del nostro piccolo pianeta, una svolta decisiva, di cui gli storici futuri misureranno tutte le conseguenze oggi incalcolabili. Due nomi, quelli ora fatti, del 1945, che possono essere assunti a simbolo della nostra epoca. Il primo, rivelatosi al mondo con estrema difficoltà, tra molti travestimenti, ipocrisia, indifferenza, viltà, di individui, governi, popoli, istituzioni profane e sacre, e apparsi in tutta la loro tragica luce solo col crollo della potenza nazista in Europa; il secondo, percepito nel bagliore infernale di un attimo, nei cieli del Giappone. Ma visti nel profondo dei tempi, essi sono accomunati dalla ferocia o dalla follia autodistruttiva dell’umanità. Eppure, dobbiamo constatare che, nonostante tutto questo, gli uomini continuano a ridere, piangere, trastullarsi, uccidersi, come prima, come sempre. (dalla Prefazione). QUI un video di presentazione del volume. Voci dalla Shoah A cura di Claudio Facchinelli Pagine 144, Euro 14.50 Gaspari Editore
venerdì, 21 febbraio 2020
Amarcord Fellini
Cent’anni fa nasceva a Rimini Federico Fellini e molte sono le iniziative che ricordano l’avvenimento a cominciare dalla grande mostra che è in corso nella sua città natale. Anche libri, ovviamente, sono stati pubblicati per ricordare il famoso regista, tra quelli finora usciti scelgo di presentarne uno edito dalla casa editrice il Mulino intitolato Amarcord Fellini L’alfabeto di Federico. Ne è autore Oscar Iarussi. Saggista, critico cinematografico e letterario, è giornalista della «Gazzetta del Mezzogiorno». Fa parte del Comitato esperti della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Già presidente della Apulia Film Commission, ha ideato le rassegne «Frontiere. La prima volta» (catalogo Laterza, 2011) e «Tu non conosci il Sud». Tra i suoi libri: «L’infanzia e il sogno. Il cinema di Fellini» (Ente dello Spettacolo, 2009) e «Visioni americane. Il cinema “on the road” da John Ford a Spike Lee» (Adda, 2012). Con il Mulino ha pubblicato C'era una volta il futuro. L'Italia della Dolce Vita(2011) e Andare per i luoghi del cinema(2017). Perché mi è piaciuto questo libro su Fellini? Perché strutturato com’è secondo le lettere dell’alfabeto dalla A alla Z, legando ad ognuna di esse un personaggio, un luogo, un’età, l’autore ha trovato la più felice forma per raccontare Fellini: la rapsodia. Un componimento di reminiscenze di più musiche provenienti da ricordi lontani e quale strumento è più efficace di un catalogo che parta da semplici voci (qui le lettere dell’alfabeto) per far risuonare la memoria ora di melodie infantili e ora di ritmi del varietà? E, inoltre, Fellini in tutti i suoi film è un rapsodo, cantore di episodi ora di buffa epica ora di leggendaria piccolezza. Altro merito di questo volume consiste nell’inserire in ogni voce un racconto ricchissimo di rimandi a episodi curiosi, a parentele meno note nell’ambiente dello spettacolo, aneddoti divertenti. Insomma, una massa di ghiotte informazioni mai pettegole e sempre storicamente illuminanti su persone e tranche de vie. Credo che alla lettera M Iarussi abbia avuto più di una perplessità su quale voce innestarvi. Ha scelto “Marcello”, cioè Mastroianni che poi avendo la stessa iniziale sia al nome sia al cognome lasciava poche possibilità di scelta, oltre all’impossibilità di trascurarlo. Ha fatto bene l’autore così come ha fatto. Eppure, quella lettera evoca una nera parola che nello scenario psichico di Fellini occupa un grande spazio al quale, sia chiaro, Iarussi pure allude in più di una pagina. Ora io trascriverò un brano in cui è Fellini a scrivere e proprio su quel tema e proprio in un film che mai conobbe il set: “Il viaggio di G. Mastorna”. La sceneggiatura fu pubblicata in forma di racconto da Quodlibet nel 2008. «A che cosa assomiglia essere morti? La morte assomiglia moltissimo a certi momenti vuoti in cui ci sentiamo improvvisamente tuffati durante la vita. Ed M. si diverte a ricordarli: a) alla remota, vasta, scintillante toilette di un aeroporto straniero. b) a certi negozietti di provincia alle tre di un pomeriggio d’estate. Devi aspettare la coincidenza di un treno, sei uscito dalla stazione, hai guardato la piazza vuota, con un solo tassì fermo sotto al sole, ti sei messo a camminare in un gran silenzio, eppoi in una piccola viuzza carica d’ombra hai visto una vetrina di un negozio qualunque, diciamo di elettrodomestici, e dentro in un angolo c’era una ragazza né bella né brutta, e tu sei entrato… c) ti risvegli di notte perché il treno si è fermato. Che silenzio! Dove sei? Fuori è buio pesto, si ode solo un rumore metallico, ad intervalli, leggerissimo, sotto le viscere del treno, qualche molla che si raffredda, una nota vibrata, appena percettibile. I compagni di viaggio dormono, sono ombre confuse con la tappezzeria del sedile di fronte. d) apri gli occhi di colpo dopo un breve sonno. A pochi centimetri da te c’è la faccia sconosciuta della puttana che un’ora prima ti ha portato in quella bieca stanza a fare l’amore. Momento di allegria sfrenata: davvero è morto? Ormai è fatta, non può capitargli più nulla di così estremo. Il grande varco è passato? Sì, è passato. In fondo non è successo nulla di così terribile, non è stato troppo difficile, non è stato nemmeno troppo doloroso; anzi non se n’è proprio accorto. Tenta con mezzi pateticamente umani di scoprire come ci si possa sistemare in questa nuova dimensione per “vivere bene”, farsi amici, intrallazzare, ottenere raccomandazioni. E adesso non si morirà più? Ora quest’idea lo angoscia spaventosamente» Dalla presentazione editoriale di “Amarcord Fellini «Nel centenario della nascita di Federico Fellini, questo alfabeto dei sogni racconta l’estetica incantata e il linguaggio del regista riminese, inseguendone forme ed espressioni nei film e ritrovandole poi, vive più che mai, nella cultura e nella società d’oggi. Dalla A di Amarcord alla V di Vitelloni, alla Z di Zampanò, lasciamoci allora guidare alla scoperta della poetica felliniana e della straordinaria vita dell’artista, affollata di incontri e ricca di onori, eppure segnata dalla solitudine di una perenne ricerca. Nello specchio dell’infanzia e nei labirinti del desiderio, non meno che nella realtà quotidiana di un’Italia in radicale trasformazione, egli fu tra i pochi a saper cogliere il Paese in divenire, regalandoci un immaginario che ormai è diventato struttura del profondo». Oscar Iarussi Amarcord Fellini Pagine 238, Euro 16.00 Con 11 foto in b/n Il Mulino
Tartufo in tournée
"Compito della commedia è quello di correggere gli uomini divertendoli”. Così diceva Molière, pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin, nato nel 1622 e morto a 51 anni nel 1673. Un vertice drammaturgico in cui s’invera quel suo detto è rappresentato da Il Tartufo opera rappresentata per la prima volta a Versailles il 12 maggio 1664. Protagonista è un ambiguo personaggio dal quale si fa derivare l’aggettivo “tartufesco”, per indicare una persona ipocrita, bigotta, che ostenta una falsa devozione. QUI trama, curiosità e avventure di quella piéce. A Pistoia esiste uno dei più vivaci Centri di Produzione Teatrali italiani grazie all’Associazione Teatrale Pistoiese. Tra le produzioni recenti c’è proprio un Tartufo, nella traduzione di Cesare Garboli, con protagonista Giuseppe Cederna insieme con Vanessa Gravina, Roberto Valerio (che è anche regista del lavoro, oltre che adattatore del testo), Paola De Crescenzo, Massimo Grigò, Elisabetta Piccolomini, Roberta Rosignoli, Marcello Di Giacomo. Dopo i successi già registrati parte ora una nuova tournée Molière nel Tartufo – forse la più provocatoria delle sue opere – come troviamo sul sito Student: “… riprende la tradizione anticonformista di Rabelais e Michel de Montaigne, e anche l’influenza del pensiero libertino, che era critico e anticonformistico. Deriva da qui l’identificazione fra ragione e natura e la loro difesa contro quanti vogliono soffocare i diritti naturali, con la conseguente critica dell’intolleranza e dell’ipocrisia”. Nell’immagine una foto di scena di Marco Caselli Il regista Roberto Valerio afferma: «Il protagonista, emblema dell’ipocrisia, indossa la maschera della devozione religiosa e della benevolenza per raggirare e tradire il suo sprovveduto e ingenuo benefattore Orgone. Tartufo è dunque un arrivista che veste i panni del virtuoso in odore di santità e Orgone è colui che gli regge lo specchio in un gioco di oscura manipolazione e dipendenza affettiva. Tartufo (…) è sensuale e inquietante, tanto da ricordare qualcosa di diabolico, di sinistro. Il più delle volte, le versioni sceniche del Tartufo si sono concentrate sull'ipocrisia del personaggio del titolo. Non c’è dubbio che all’epoca in cui Molière scrisse la sua opera, i suoi obiettivi chiari erano i bigotti che usavano il rigorismo religioso come facciata per nascondere i loro empi comportamenti, senza nemmeno credere a ciò che stavano predicando. Ora, 350 anni dopo, questa equazione va parzialmente modificata. Tartufo non può più essere un semplice impostore. È molto più di questo: un profeta anticonformista. Un guaritore. Un guru fanatico. Questo angelo oscuro o demone pietoso irrompe in una famiglia borghese benestante, la sconvolge completamente, prende il controllo, la castiga, la rivoluziona, la assorbe. (…) Come nel Teorema del film di Pasolini, egli lavora come un uragano, come una forza sovrannaturale, che con la sua radicalità scatena tutti i desideri e le furie trasformando il convenzionale e conformista vivere della casa. La sua preda, Orgone, è la fragilità di un cuore catturato per la prima volta, il potere comico di un’anima contraddittoria, l’autorità della figura paterna che in modo vendicativo ha deciso di insegnare a tutta la sua famiglia come vivere punendola con Tartufo. Elmire è uno dei personaggi più interessanti creati da Molière. Il suo potere enigmatico, la sua complessità evasiva, la sua apparente sottomissione, fanno di lei la vera potenza della commedia, l’unica in grado di sconfiggere Tartufo. Orgone ne è stato sedotto fino a sposarla, Tartufo è irresistibilmente attratto da lei. Un oscuro oggetto del desiderio» Quelle che seguono sono le prossime piazze dello spettacolo. Ufficio Stampa: Francesca Marchiani mail: f.marchiani@teatridipistoia.it ; tel: 0573 - 99 16 08 Pordenone | 21 e 22 febbraio ore 20.30; 23 febbraio, ore 16.30 Teatro Giuseppe Verdi Empoli | 25 febbraio, ore 21 Teatro Excelsior Pietrasanta | 27 febbraio, ore 10.30 (matinée per le scuole); ore 21, Teatro Comunale Castelfranco Pandisco | 1 marzo, ore 21 Teatro Capodaglio Cagliari | 11, 12, 13, 14, 15 marzo, Teatro Massimo Cortona | 17 marzo, ore 21.15 Teatro Signorelli Biella | 19 marzo, ore 20.30 Teatro Sociale Milano | 20, 21, 22, 24, 25., 26, 27, 28, 29 marzo, Teatro Franco Parenti Sala Grande Città di Castello | 31 marzo, ore 21 Teatro degli Illuminati Santa Croce | 1 aprile, ore 21.15 Teatro Verdi Russi | 2 aprile, ore 20.45 Teatro Comunale Lamporecchio | 3 aprile, ore 21 Teatro Comunale Lovere | 4 aprile, ore 20.45; 5 aprile, ore 16 Teatro Crystal Faenza | 7, 8 e 9 aprile, ore 21 Teatro Masini Trieste | dal 15 al 19 aprile, ore 20.30; Politeama Rossetti Gallarate | 21 e 22 aprile, ore 21 Teatro delle Arti Lodi | 23 aprile, ore 21 Teatro alle Vigne
domenica, 16 febbraio 2020
Musei a Budrio
Cosmotaxi Special per il polo museale della città
Musei a Budrio (1)
A Cosmotaxi piace visitare i piccoli musei che, spesso, riservano grosse sorprese per singolarità tematica e qualità d’esposizione. Sentiamo da alcuni anni a questa parte sempre più spesso di nostri connazionali recatisi in lontane località del pianeta Terra ignorandone altre d’estremo interesse a pochi chilometri dalla propria casa. Mi è capitato settimane fa di parlare con un amico che abita a Bologna, reduce per turismo da Rutshuru provincia congolese del Kivu Nord, il quale quando ha saputo della mia tappa a un posto vicino alla sua città ha alzato gli occhi al cielo sospirandone il nome come a fissare uno sperduto posto della foresta amazzonica. Mi recavo a Budrio (in foto: Piazza Filopanti) località a pochi chilometri dal capoluogo emiliano-romagnolo raggiungibile, oltre che in automobile, anche in pochi minuti con la ferrovia Bologna-Portomaggiore, oppure con le corriere della società Tper. È bene attrezzata, quanto a ospitalità, io sono stato, splendidamente, Al Melograno dove Nives e Gino coccolano gli ospiti in maniera tanto affettuosa quanto elegante. Né a Budrio, e immediati dintorni, manca un cospicuo conforto enogastronomico; insomma andateci e mi ringrazierete. Tanti personaggi lo hanno attraversato, qui ne voglio ricordare uno soltanto: Arturo Reghini (1878 – 1946), grande matematico antifascista che scelse quel luogo per confino volontario e riposa nel cimitero della Pieve di Budrio.
Quanto a insediamenti culturali – sui quali mi soffermerò fra poco – dispone di un teatro del ‘600, di una ben organizzata biblioteca con frequenti incontri col pubblico, intitolata al pittore e illustratore Augusto Majani, di un piccolo ma assai interessante polo museale che comprende il museo archeologico, una pinacoteca, un museo dei burattini, e il museo dell’Ocarina, antico strumento musicale nato proprio a Budrio. Questo complesso fa riferimento al Servizio di Promozione Culturale guidato da Maria Rita Santeramo. Per informazioni, prenotazioni e visite guidate: Telefono 051 - 69 28 306; fax: 051 – 69 28 289 e-mail: musei@comune.budrio.bo.it
Musei a Budrio (2)
Nel riferire quanto segue a chi sta ora leggendo questo special dedicato ai musei di quella località emiliana, voglio rivolgere un particolare ringraziamento ad Antonio D’Alvano che mi ha guidato attraverso quei luoghi sapientemente illustrandoli e contestualizzandoli nella storia di Budrio e dei personaggi che ne hanno animato la vita culturale sia nel passato sia in tempi vicini. La prima tappa non è un luogo museale, ma ricco di antica storia: il Teatro Consorziale sorto intorno alla metà del Seicento per volere del budriese Paolo Sgargi che lo fece costruire annettendolo alla propria abitazione. Teatro privato, quindi, usanza diffusa in quel tempo, ma fin dalle origini fu aperto gratuitamente al pubblico non solo per assistere a rappresentazioni ma anche in occasione di feste. Attualmente sono in corso dei lavori di restauro che saranno conclusi entro l’autunno di quest’anno. Il teatro (in foto) è in grado di ospitare 562 spettatori: 242 in platea, 220 nelle due gallerie e 100 nel loggione. Quel palcoscenico ha conosciuto grandi nomi della prosa: da Alberto Lupo a Dario Fo, da Raf Vallone a Paolo Poli, da Valeria Moriconi a Glauco Mauri; ha visto anche spettacoli diretti da maiuscoli registi italiani e stranieri come, ad esempio Luchino Visconti e Krystoff Zanussi. La lirica ha ospitato Renata Tebaldi, Katia Ricciarelli, e, in una “Boheme”, un cantante allora astro nascente destinato a fama internazionale: Luciano Pavarotti; mentre per la danza si è esibita l’etoile Carla Fracci. Ci sono stati anche concerti di Peppe e Concetta Barra, Giuliana De Sio, e per i jazz il pianista Cecil Taylor considerato come uno degli inventori del free jazz. Nel foyer sono state allestite numerose mostre, di famosi disegnatori, in particolare, si sono avuti autori quali Altan, Hugo Pratt, Quino, Maceraro, Chiappori. Non solo il pubblico budriese ha affollato il teatro, perché è diventato un centro di cultura amato da tanti dei vicini comuni di Castel San Pietro Terme, Ozzano dell’Emilia, Molinella, Malalbergo, Castenaso. Impegnativo sarà il compito di chi curerà i cartelloni alla ripresa dell’attività perché dovrà dare continuità ad una tradizione di grande qualità.
Musei a Budrio (3)
La pinacoteca si trova in Via Mentana al numero 32. La prima configurazione della raccolta civica di dipinti, disegni e incisioni di Budrio risale al 1821, allorché Domenico Inzaghi donò il suo ricco patrimonio d'arte alla Partecipanza, antica istituzione agraria di origine medievale, alla quale venne assegnato nel 1839 alla morte della vedova del collezionista. Nel 1931, con lo scioglimento della Società Agraria, tutti i beni passarono al Comune, che istituì in quello stesso anno la pinacoteca in Palazzo Boriani, già sede della Partecipanza, acquisito agli inizi dell'Ottocento dai Dalla Noce che lo avevano fatto restaurare ed affrescare In foto: Democrito di Battista Luteri detto Battista Dossi (prima metà del ‘500) Le opere pittoriche esposte sono attribuite ad importanti artisti quali Vitale da Bologna, Tommaso Garelli, Cristoforo di Benedetto, Innocenzo da Imola, Dosso Dossi, Denijs Calvaert, Bartolomeo Passerotti, Bagnacavallo il Giovane, Lavinia Fontana, Francesco Brizio, Mastelletta, Cesare Gennari, Alessandro Tiarini, Francesco Albani, Simon Vouet, Lorenzo Pasinelli, Antonio Mezzadri, Vittorio Maria Bigari, Gian Domenico Ferretti, Mauro Gandolfi. La collezione è stata poi incrementata con i dipinti provenienti dall'Opera Pia Bianchi e dalla Fondazione Benni di Bologna, oltre che con acquisizioni e donazioni di pittori contemporanei. Nella sezione grafica sono comprese opere provenienti dalla raccolta Inzaghi, tranne la serie delle "Antiche Chiese di Roma" di Antonio Sarti e le novecentesche "Vedute di città d'Italia" di Antonio Carbonati. Tra i disegni si conservano fogli pregevoli di Guercino, Vittorio Maria Bigari, Donato Creti. Notevole il patrimonio delle incisioni con i fogli di Albrecht Dürer (1471 – 1528) e dei Carracci (1500), mentre tra le incisioni francesi spicca la serie di Jacques Callot (1592 – 1635). Nella sala è esposto un bel gruppo in terracotta di Giuseppe Maria Mazza (1653 – 1741) . Al Torrione del Risorgimento, sede distaccata del museo, è visibile uno spaccato di storia di Budrio nell'Ottocento. La puntualissima sistemazione attuale la dobbiamo per la parte architettonica ad Antonio Nicoli e per quella storico-artistica a Carla Bernardini.
Musei a Budrio (4)
In via Garibaldi ci sono le sale che ospitano dal 2000 un incantevole Museo dei Burattini. Nell’attraversare quel luogo è inevitabile per i meno giovani il ricordo dell’infanzia quando la tv non aveva ancora occupato negli occhi dei ragazzi lo spazio dello spettacolo d’animazione. A me è capitato di ricordare quando bambino ero a Napoli e lì alla Villa Comunale ogni domenica c’erano le cosiddette guarattelle . Il “guarattino” è la versione dialettale formato dalla flessione napoletana del termine italiano di burattino originato nella lingua nazionale del tardo Quattrocento. E nella Casina del Quattrocento, una delle abitazioni antiche del centro storico di Budrio, è esposta la meravigliosa collezione di burattini, pupi, scenografie ed oggetti di scena raccolti dai Vittorio Zanella e Rita Pasqualini (in foto) che con il loro “Teatrino dell’Es” conoscono da molti anni successi in Italia e all’estero. QUI trovate la storia della nascita di questo museo e della ben meritata cittadinanza onoraria conferita a quei due famosi burattinai. Le sale di via Garibaldi, espongono le collezioni Perani e Menarini, composte da oltre cento burattini della prima metà del ‘900 e da un ricchissimo materiale da baracca, bagaglio di lavoro dei burattinai bolognesi Amilcare Gabrielli, Arturo Veronesi e Umberto Malaguti. In particolare, si può ammirare una grandiosa varietà di materiali scenici; oggettistica varia (cappellini, elmi, vestitini, spade, sciabole, pugnali, bastoni) e un teatrino appartenuto a Umberto Malaguti, dove, in particolari occasioni, si svolgono piccoli spettacoli e animazioni. Numerosi i burattini realizzati dai fratelli Emilio e Filippo Frabboni, attivi a Bologna nei primi decenni del ‘900. Il Museo continua ad arricchire le proprie collezioni e le esposizioni ed a svolgere un ruolo di studio, ricerca e promozione nell’ambito del teatro di figura.
Prima di presentare un’esibizione del Teatrino dell’Es intitolata “Pulcinella e la pivetta”, è opportuno spiegare che cosa significa la parola pivetta. Al tempo dei Borboni, i burattinai spesso negli spettacoli satireggiavano la Corte sicché piombarono su di loro molti divieti. Allora ecco spuntare un teatrino in cui non si capivano le parole ma l’azione e le intonazioni facevano ben intendere che questo succedeva per effetto della censura e quello che non veniva pronunciato alludeva a quanto non si poteva dire con parole chiare. Nonostante questo, però, le legnate arrivavano lo stesso sul capo della marionetta. Ed ecco .Pulcinella, il bastone e la pivetta. Buon divertimento!
Musei a Budrio (5)
Ho lasciato per ultimo il Museo dell’Ocarina come si fa con i protagonisti che escono in scena per ultimi. Già, perché l’Ocarina, strumento della classe degli aerofoni, proprio qui è nata. Tanto da ispirare all’artista Lorenza Mignoli un intervento di arredo urbano che è uno degli angoli più fotografati di Budrio: l'Albero delle Ocarine. L’ocarina – così chiamata perché rassomiglia vagamente a un’oca senza testa – fu inventata nel 1853 da Giuseppe Donati. Eccone un ritratto che ne fa un giornalista nei primi anni del secolo scorso: “Egli sembrava uno dei vecchi misteriosi, leggendari, che cercano l’elisir per vivere in eterno: con una grande veste da camera avvolta intorno al corpo ossuto e lungo, ed una berretta frigia in capo. Il volto avvivato dagli occhi lustri, mobili, acuti, barba candida e fluida”. Doveva incutere rispetto e, forse, anche timore. Seguirono poi altri costruttori e concertisti, fra i più famosi: Cesare Vicinelli, allievo di Donati, Emilio Cesari, Guido Chiesa, Arrigo Mignani. A Budrio, Fabio Menaglia è l’attuale fabbricante di ocarine ed esercita l’attività con successo dal 1990; è il continuatore della grande tradizione ocarinistica della città.
La mia passione videoludica mi fa ricordare che l’ocarina figura in “The Legend of Zelda” dove il protagonista Link, suonandola, acquista il potere di viaggiare nel tempo; mentre Guido Zaccagnini, storico della musica e da decenni nota voce di RadioTre, da me interpellato, mi ha informato che c'è un Concerto per ocarina e orchestra, intitolato "Visions and Fantasies” di Kristopher Maloy presentato in anteprima il 2 maggio 2010 e dei successi che ottengono l’"Ocarina Japan Orchestra" diretta da Riko Kobayaschi e la Chinese National Orchestra of Ocarina condotta da Li Dong. Musicisti orientali, già. Perché – giusto orgoglio a Budrio – in quei paesi l’ocarina è amatissima. Ha iniziato la Corea, che l’ha adottata nelle scuole dell’obbligo, dove ha sostituito il flauto, e adesso tutti i bambini di quel Paese hanno le loro ore obbligatorie di ocarina. Poi è arrivato il Giappone con l’invito ministeriale che ne sottolinea la funzione terapeutica, infine la Cina, dove l'ocarinamania dilaga, con maiuscoli riflessi sulla produzione. A conclusione di questo special come non ascoltare il suono dell’ocarina? CLIC!
Musei a Budrio
Cosmotaxi Special per il polo museale della città
FINE
venerdì, 14 febbraio 2020
Arafat (1)
La casa editrice Castelvecchi ha pubblicato Arafat Il sovrano senza Stato L’autrice di questo densissimo saggio è Stefania Limiti- Giornalista professionista, ha collaborato con «Gente», «L’Espresso», «Left», «La Rinascita della Sinistra», «Aprile», «Il Fatto Quotidiano». Da anni segue la questione palestinese ed è tra le fondatrici, con Stefano Chiarini e Maurizio Musolino, del Comitato “Per non dimenticare Sabra e Shatila”. Nei suoi lavori si è dedicata anche alla ricostruzione delle pagine oscure della recente storia italiana, svolgendo inchieste giornalistiche attraverso l’analisi delle sentenze giudiziarie e le interviste
“Arafat” di Stefania Limiti non è soltanto di un leader internazionale la biografia, che pure è tracciata attentamente, ma la descrizione, attraverso un protagonista di una delle vicende che insanguinano una terra dal secolo scorso, delle cause e degli effetti di decisioni politiche prese altrove trascurando un popolo, quello palestinese e la sua storia, occupandone i territori, ignorando, e spesso calpestandone, l’identità. Il libro si avvale di una scrittura, tesa, veloce, che incatena alla pagina perché il lettore è trascinato nel vortice degli avvenimenti descritti con un ritmo incalzante. Dalla presentazione editoriale. «Il conflitto israelo-palestinese è stato esacerbato dalla ritrosia della comunità internazionale a riconoscere l’identità di un popolo, perché serviva «una terra senza identità pubblica, senza storia, senza leader, ma fino a quando Arafat avesse continuato ad essere a capo della malandata Autorità palestinese avrebbe continuato a dirsi il capo di un popolo e a fare di tutto, nel bene e nel male, per dare un volto umano e un’identità collettiva ai palestinesi». A novant’anni dalla nascita di Yasser Arafat, e a quindici dalla sua scomparsa, Stefania Limiti ripercorre le tappe della vita di questo personaggio controverso, eroe per alcuni e terrorista per altri, leader carismatico, uomo politico sempre molto più aperto al dialogo e al compromesso di quanto i suoi avversari vogliano ricordare». Segue ora un incontro con Stefania Limiti.
Arafat (2)
A Stefania Limiti, in foto, ho rivolto alcune domande.
Come nasce questo libro? La proposta è arrivata dall’editore Pietro D’Amore e io non potevo rifiutarla. Era una sfida difficile ma ho sempre seguito da vicino la questione palestinese e dunque la figura di Arafat non è affatto estranea al mio panorama di conoscenze e di formazione. Inoltre, penso che questo vecchio leader, tanto criticato anche dai suoi amici, a cui non mancano certo buoni argomenti, possa insegnarci qualcosa: la forza del dialogo nelle relazioni internazionali. Proprio lui, Arafat il terrorista, infatti, ha creduto più di ogni altro alla ‘ragionevolezza’ delle trattive. Sebbene la causa palestinese non sia affatto stata risolta, anzi si è avvitata attorno ad un vortice di violenza terribile, essa comunque ci consegna una figura di leader assolutamente da non dimenticare. Nello scrivere questo volume qual è la prima cosa che ha ritenuto di fare assolutamente per prima e quale quella assolutamente per prima da evitare? Parto dalla fine: la prima cosa in assoluto da evitare era quella di evitare ritratti ‘militanti’, o, per essere più esplicita, una rappresentazione agiografia del personaggio, Quella sarebbe stata una deriva perdente. Dunque, mi sono preoccuata di leggere i ritratti di quel tipo – peraltro assolutamente legittimi - per prendere ancora più consapevolezza del compito che mi ero data: quello di inserire Arafat nei processi storici del suo tempo. Non per caso ho volute aprire il libro mettendo in epigrafe la frase di Marx: <>. I leader vanno giudicati alla luce del loro tempo e non in forza di ciò che è successo dopo. Perciò quello che ho ritenuto assoltamente importante studiare le fasi storiche-politiche, comprendere cosa accadeva e trovare le chiavi per spiegare le scelte di Arafat. Quando sorge la stella di Arafat? Esiste un episodio che ne determina la leadership? Arafat era uno dei tanti giovani palestinesi che partecipavano alle lotte studentesche al Cairo contro il dominio inglese e contro l’improvvisa e violenta nascita di un nuovo Stato sulle proprie terre. Molti di loro hanno seguito le strade delle professioni: lo stesso Abu Ammar, come era chiamato tra i suoi, divenne ingegnere e poi iniziò a lavorare a Kuwait City: amava le macchine sportive e aveva di fronte una carriera ben remunerata. Ma in ogni paese arabo c’erano tanti giovani in cerca di un futuro ma anche profondamente feriti da quello che succedeva nelle loro terre: fu naturale la nascita di ‘circoli’ politici e il loro coinvolgimento nelle attività di risposta e di resistenza a quell’evento così improvviso e non prevedibile, soprattitto nelle sue dimensioni di violenza. E poi non dimentichiamo che siamo negli anni della straordinaria crescrita dei movimenti di liberazione la cui forza dava speranze a milioni di persone che vivevano sotto la dominazione straniera. La Resistenza palestinese nasce lì, e Arafat ebbe l’incredibile energia personale per rappresentarla. Nel tuo libro si legge della “lontananza dalle ideologie e dalle teorie politiche” di Arafat. Si può dire la stessa cosa della religione? Direi proprio di sì. Arafat era un credente, svolgeva le preghiere abituali per ogni buon musulmano ma si dice che le raggruppava tutte in solo momento della giornata, per non perder tempo. Questo dà esattamente l’idea della sua personalità: totalmente pragmatica, tutta e sempre focalizzata a raggiungere l’obiettivo, la liberazione della Palestina, usando tutte le tattiche possibile, quelle che le circostane gli mettevano a disposizione. Era un tattico pazzesco, estenuante, non mollava mai e sapeva incunearsi negli spazi che di volta in volta vedeva davanti a sè: per i palestinesi non c’erano altre strade da percorre. Qual è stato il più grande successo politico di Arafat e quale la sua più grave sconfitta? Decisamente aver evitato che il conflitto con Israele scivolasse verso derive etnico-religiose, come volevano gli israeliani: era il pericolo più grande, chiunque poteva cascare in quella trappola. Lui non lo fece mai. Questa è stata la sua più grande vittoria o forse è meglio dire, visto che di vittorie nel panorama palestinese non ce ne sono, è stato un suo grande merito. La più grave sconfitta è stata la corruzione. Quando ha accettato di presiedere l’Autorità palestinese, dopo i contestati, velenosi accordi di Oslo, avrebbe dovuto capire che non poteva usare i metodi con cui aveva guidato il movimento di liberazione, perché aveva il compito di costruire le istituzioni di una nuova entità statale. Se Arafat si fosse misurato con più consapevolezza e forza rispetto a questo traguardo secondo me avrebbe tolto qualche carta ai suoi nemici. Invece, andò avanti accettando le forme di malversazione che aveva intorno, non isolò nessuno dei responsabili, preferì chiudere gli occhi. Favorì così un processo di corruzione pur non essendo lui personalmente un corrotto. Il tuo pensiero sul giallo che in molti vedono nella morte di Arafat... Di certo Arafat è stato ammazzato dalla prigionia che Sharon e i suoi uomini gli hanno inflitto. L’isolamente dentro il palazzo di Ramallah, in condizioni insalubri, umiliato di fronte al suo popolo e di fronte al mondo intero: quella è stata la causa della sua morte di cui si conoscono, dunque, mandanti ed esecutori. Quando arriva all’ospedale di Parigi era in condizioni terribili: senz’altro non si è mai capito cosa abbia stroncato il suo cuore: la causa della morte di Arafat sarebbe dovuta alla “coagulazione intravascolare disseminata” (Cid o Civd) una particolare malattia del sangue che si manifesta quando i fattori di coagulazione vengono “messi in moto” non da processi fisiologici – che attivano la tromboplastina, un attivatore dell’addensamento sanguigno, fondamentale in caso di emorragie – ma da altri processi, come leucemie o neoplasie, o trasfusione sbagliate, che portano alla formazione di micro-coaguli, causa di trombosi. Eppure Arafat non aveva nessuna di quelle malattie. Non venne fatta l’autopsia, come invece aveva chiesto il medico personale di Arafat, Ashraf al-Curdi, strana scelta che contribuì a lasciare indefinita la causa della morte di Arafat. Ma altre evidenze non sono mai emerse. Scrivi che dopo la Guerra dei sei giorni, “l’eminente storico israeliano, Yeshayahu Leibowitz” disse «O usciamo dai territori che abbiamo occupato o dovremo scontrarci con tutto il mondo islamico, o usciamo o diventeremo un popolo di agenti segreti!». Fu inascoltato. Da lì deriva l’impossibilità oggi di una pace? Si sono aggiunte da allora altre cause? Gli israeliani non vogliono fare i conti con l’occupazione delle terre palestinesi, pensano solo ad espandere le colonie e, in definitiva, non si pongono nessun problema circa la natura della loro società: hanno approvato una legge che riconosce la natura ebraica dello Stato, una deriva discriminatoria che suddivide i cittadini in base alla propria religione. Gli abitanti arabi di Israele sono persone di serie B, non gradite. La prepotenza della destra governativa, ideologicamente razzista, e l’era barbarica di Trump, che ha osato ‘regalare’ Gerusalemme al corrotto Bibi Netanyahu, rendono i palestinesi un ‘popolo di troppo’ dimenticati come non mai in ogni tavolo politico-diplomatico internazionale. Una ferita alla dignità di ogni coscienza democratica. ………………………….. Stefania Limiti Arafat Pagine 238, Euro 17.50 Castelvecchi
L'invenzione del colpevole
"Una via Almirante a Verona? Davvero? Oh, povera strada...". È la prima reazione della senatrice a vita Liliana Segre, esponente di spicco della comunità ebraica italiana, sopravvissuta alla deportazione nazista e alla Shoah, alla notizia che il consiglio comunale di Verona ha votato di intitolare una strada a Giorgio Almirante, redattore della rivista fascista “La Difesa della Razza”, che dopo la caduta del Regime di Mussolini aderì alla repubblica di Salò alleata di Hitler. E dopo leader del Msi. "Mi chiedo se sia lo stesso Comune, quello di Verona, a concedere a me la cittadinanza onoraria e poi a intitolare una via ad Almirante: si mettano d'accordo! Le due scelte sono di fatto incompatibili, per storia, per etica e per logica”. Fin qui una notizia che colgo su Rai News.
Il sindaco che presiede la giunta veronese responsabile di quella aberrante decisione ha, però, ragione quando rispondendo alle critiche ricorda che “Il presidente Napolitano nel 2014 disse 'Giorgio Almirante è stato espressione di una generazione di leader che hanno saputo confrontarsi mantenendo un reciproco rispetto a dimostrazione di un superiore senso dello Stato”. Ricordo ancora che, Presidente del Consiglio D’Alema, un pomeriggio sulla prima rete Rai, il conduttore Limiti presentò un gruppo che, calzoni alla zuava e camicia nera, cantò l’inno della X Mas e nulla accadde il giorno dopo. E che dire di Gaetano Azzariti che fu Presidente del Tribunale della Razza, funzionario, dal giugno '45 a luglio '46, riassunto dopo una breve sospensione al Ministero di Grazia e Giustizia allora guidato da Togliatti? QUI i dettagli di quella storiaccia. Insomma, è roba che viene da lontano, si fa strada passo dopo passo approfittando di progressivi cedimenti e colpevoli distrazioni della Sinistra e in quei varchi il neofascismo (che ha varie forme) compie gesti sempre più decisi. C’è da meravigliarsi poi delle scritte antisemite di questi giorni? Dell’intolleranza razziale? Decidete voi. C’è, per fortuna, anche chi si oppone al degrado politico in cui versa questo paese attraverso azioni in area culturale che, però, si sa, hanno tempi omeopatici e andrebbero accompagnati con forme repressive in nome di leggi peraltro già esistenti. Segnalo oggi, ad esempio, una interessante mostra in corso a Trento, al Museo Diocesano Tridentino, a cura di Domenica Primerano, intitolata L’invenzione del colpevole (in foto il manifesto dell’esposizione) che ha suscitato molti consensi ed anche il plauso della senatrice Segre. È dedicata al ‘caso’ di Simonino da Trento, un bambino presunta vittima di omicidio rituale ebraico, venerato per secoli come ‘martire’ innocente. La vicenda, risalente al XV secolo, si potrebbe oggi definire una clamorosa fake news del passato, nella quale si intrecciano sentimenti antiebraici, esigenze devozionali e ambizioni di politica ecclesiastica. L’esposizione intende richiamare l’attenzione del pubblico su una delle pagine più oscure dell’antisemitismo, per stimolare la riflessione sui meccanismi di ‘costruzione del nemico’ e sul potere della propaganda. In questo breve video è sintetizzata la storia di quell’incitamento all’odio. QUI il ricco apparato di schede che accompagna la mostra. Il catalogo è a cura di Domizio Cattoi, Lorenza Liandru, Valentina Perini con la collaborazione di Emanuele Curzel e Aldo Galli. L’invenzione del colpevole A cura di Domenica Primerano Museo Diocesano Piazza Duomo 18, Trento Informazioni: tel. 0461- 23 44 19 info@museodiocesanotridentino.it Fino al 13 aprile 2020
giovedì, 13 febbraio 2020
Un anno con Shakespeare
Oltre alla lettura integrale dell’opera omnia, quanti altri modi esistono per leggere William Shakespeare? Il rimario (in inglese), le acrobazie verbali dell’Oulipo, il random proposto da alcuni siti web, e poi, ovviamente, le antologie. La prima che si ricordi nella storia letteraria è di William Dodd, la vita gli andò malissimo: fu impiccato pubblicamente a Tyburn il 27 giugno 1777. Ne seguirono altri (non sul patibolo) con alterno valore, e nel secolo scorso infine emergono due nomi quelli di George Rynalds e dello scrittore Ted Hughes, marito della grande poetessa Sylvia Plath morta suicida… a proposito, anche l’amante di Hughes fece la stessa fine… ragazze, prudenza con un tipo così! Fare un’antologia delle opere di un autore è arte difficile, tanto che essa stessa può costituire un’opera com’è capitato, ad esempio, a Rynalds che vide il suo lavoro rappresentato a Broadway e tradotto in film con John Gielgud. Ora disponiamo in italiano di una originale antologia pubblicata dalla casa editrice Neri Pozza: Un anno con Shakespeare. Perché originale? Perché ogni pagina di quel libro contiene una citazione legata a una data del calendario non perché citata in un’opera del Bardo, ma come certi lunari di un tempo che citavano proverbi giorno per giorno. Qui, invece, di ricordare famosi detti in una certa data, troviamo la larga citazione di un’opera, la sua sinossi, una sintetica ma non per questo meno ragionata nota critica. Shakespeare giorno per giorno si apre il primo gennaio con il famoso prologo di “Romeo e Giulietta” per concludere l’anno il 31 dicembre con l’altrettanto celebre epilogo detto da Prospero in “La Tempesta”. Il volume è a cura di Allie Esiri, scrittrice britannica nata nel 1967, ex attrice teatrale, cinematografica e televisiva. Ha creato iF Poems, un’app di poesia educativa, e The Love Book, un’app letteraria interattiva su iOS e Android; QUI una sua estesa biografia. Allie Esiri ha scritto un libro delizioso che oltre a istruire si presta a vari usi: alle redazioni di giornali, radio, televisioni, siti web che potrebbero così ricordare i giorni evitando d’ammanire oroscopi e vite di santi, e anche, perché no, a un divertente regalo di compleanno per festeggiare la coincidente data ricordata nel volume. Il testo si avvale di giudiziosi apparati: trama delle opere ripartite in commedie, drammi storici, tragedie, poemi narrativi; copyright delle stesse; cronografia dal 1557 al 1625; l’indice degli incipit dei titoli citati. Dalla presentazione editoriale. «William Shakespeare scrisse almeno trentasette componimenti teatrali, centocinquantaquattro sonetti e un paio di poemetti. A quattro secoli di distanza dalla sua scomparsa, la sua imponente opera continua a parlare in modo diverso a ogni nuova generazione, motivo per cui la sua poesia non è mai fuori luogo, in nessuna epoca. Questa antologia offre una selezione dei suoi capolavori, proponendo un estratto per ogni giorno dell'anno e dando voce non solo ai personaggi e ai brani più noti e più amati, ma anche alle opere meno conosciute, come i poemetti che in epoca elisabettiana furono dei bestseller, ma di cui forse in pochi hanno sentito parlare. Ogni brano citato, corredato da un commento di Allie Esiri, offre la possibilità di entrare nella vita di ciascun personaggio ed esaminarlo da ogni angolazione, così che il lettore si troverà a vivere, giorno dopo giorno, i dilemmi di Amleto, i finti stupori di Viola, la feroce determinazione di Macbeth e la sconvolgente disonestà di Iago persino verso sé stesso. Un libro per gli estimatori del Bardo, ma anche per chi decida di accostarsi per la prima volta alla sua opera, per trascorrere qualche ora del giorno all'insegna della saggezza, dello spirito e della poesia di uno dei più grandi geni dell'umanità». …………………………….. A cura di Allie Esiri Un anno con Shakespeare Traduzione di Chiara Ujka Pagine 520, Euro 20.00 Neri Pozza
Polidoro e le bufale
Massimo Polidoro (in foto) – giornalista, scrittore, segretario nazionale del Cicap: Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze – è uno dei migliori cacciatori di bufale di cui disponiamo in Italia, e forse non soltanto in Italia. Vorrei che fosse scritturarlo dalla tv per fargli trasmettere al mattino le sue scoperte al posto degli inutili oroscopi. Che passi questa mia idea, però, la vedo dura. Basti pensare che un lanciatore di fake news da noi può diventare presidente della radiotelevisione pubblica.
Oggi dal suo sito L’Esploratore dell’Insolito, segnalo intervento video sulle bufale messe in giro su di un argomento che di tutto in questi giorni ha bisogno tranne d’insensate fantasie: il coronavirus. Passando ad un argomento di comicità involontaria, cliccando qui troverete risposte, scrupolosamente documentate, alla domanda proposta da quelli che credono nel mondo del paranormale: parola di 11 lettere che condivide le prime 6 con la parola “paranoico”. La domanda: i Simpson prevedono il futuro? Segue smascheramento.
mercoledì, 12 febbraio 2020
Darwin Day
Il 12 febbraio 1809 nacque Charles Darwin, questo giorno è festeggiato in quasi tutto il mondo con celebrazioni che vanno tutte sotto lo stesso nome: Darwin Day. “Darwin” – scrisse Umberto Veronesi – “oltre alle scoperte dei paleontologi che gli danno ragione sarebbe ancora più soddisfatto del fatto che la conferma della sua teoria ci viene dalla grande scoperta del Dna che è identica in ogni organismo. Il Dna di un virus è uguale a quello di un elefante”. Non mancano coloro che in nome di un cosiddetto ‘disegno intelligente’, in effetti uno sgorbio, tentano di mettere in discussione la sua scoperta. Daniel Kevles, storico della Yale University, ne spiega bene il perché: “Nel seicento la Chiesa teme Copernico che rimuove la Terra dal centro del sistema solare minando l'autorità dei teologi… poi perseguiterà Darwin che ha osato ficcare il naso nella narrazione cristiana dell'origine della vita detronizzando l'uomo dalla sua speciale posizione in cima alla scala biologica, sottraendolo all'autorità morale della religione”.
È quanto mai opportuno, quindi, occuparsi di Charles e difenderne la barba da chi vuole a tutti i costi darle fuoco su nuovi roghi eretti oggi su giornali, radio, televisioni, siti web asserviti ai baciapile. Se ne occupa benissimo da anni l’epistemologa Maria Turchetto. È stata docente all’Università di Venezia; ha diretto per anni il bimestrale “L’Ateo”; ha curato la raccolta di saggi “Darwin fra Natura e Storia”; le è stato dedicato il volume Sconfinamenti. Scritti in onore di Maria Turchetto). Ecco uno stralcio da un suo brillante articolo di tempo fa proprio su L’Ateo (la cui scomparsa manca molto allo scenario editoriale laico). «Per i preti, con Darwin l'imbarazzo è grande. E quale chiesa lo sopporta? La Chiesa d'Inghilterra, comunque, ha provato a chiedere scusa, per bocca del Reverendo Malcolm Brown. Già qualcosa. Da noi Monsignor Ravasi fa spallucce: noi a Darwin non abbiamo mai torto un capello! Già, nel 1859 l'Inquisizione non era più quella di una volta, vero Eminenza? Ma che peccato! Ma non basta, il Pontificio Rivoltatore di Frittate vuole sdoganare alla grande il naturalista inglese, sentite qua: "non c'è incompatibilità a priori fra le teorie dell'evoluzionismo e il messaggio della Bibbia". Sia serio, Eminenza: c'è incompatibilità eccome. Nella teoria di Darwin non c'è posto né per la creazione né per la divina provvidenza, c'è poco da fare. Tant'è, Darwin non vi va proprio giù, nemmeno col bicarbonato. E infatti non passa un giorno dalla coraggiosa uscita di Monsignor Ravasi che il quotidiano l'Avvenire titola (19 ottobre 2008): "Darwin cattivo maestro". E sai perché? Perché - secondo l'estensore dell'articolo, il teologo protestante Jürgen Moltmann, che confonde senza ritegno Charles Darwin con suo cugino Francis Galton - Darwin sarebbe stato ‘razzista’. Questa è una balla davvero! Razzista Darwin? Darwin che condannava lo schiavismo, Darwin che fin dal viaggio sul Beagle denuncia aspramente la "guerra di sterminio" (sono parole sue) condotta in Argentina contro gli indios e in Australia contro gli aborigeni! Darwin che vede il progresso della civiltà nell'allargarsi dei sentimenti di solidarietà e simpatia - oltre i confini delle tribù, delle razze, delle nazioni e perfino della specie umana! Darwin monogenetista, per profonda convinzione scientifica ma anche in diretta polemica contro il poligenetismo (teoria che negava alle razze "inferiori" l'appartenenza alla stessa specie dell'uomo bianco), diffusissimo all'epoca. Darwin che proprio perché mette al centro del proprio pensiero il concetto di ‘variazione’ - inaugurando l'approccio "popolazionista" - espunge il concetto di "razza" dalla teoria dell'evoluzione.Via, signor Moltmann!».
martedì, 11 febbraio 2020
Arlecchino servitore di due padroni
Questa famosa commedia scritta nel 1747 da Carlo Goldoni ha per titolo originale Il servitore di due padroni. Fu Giorgio Strehler che, con buon intuito, nel mettere in scena quel lavoro nel 1947 aggiunse il nome della celebre maschera al precedente titolo dell’autore per attirare soprattutto gli spettatori stranieri della prevista tournée all’estero. La sua regìa, com’è noto, fu tanto ammirata che ancora oggi a oltre settant’anni dal suo debutto riscuote, con nuovi interpreti, l’applauso di molte platee. Forse, però, la natura stessa del teatro non conosce un’ultima tappa perché è anima del tempo e, quindi, col tempo reclama sempre nuove riletture anche dei grandi classici. Ecco, quindi, che di quel famoso testo, il regista Valerio Binasco riproporre una nuova lettura con un Goldoni che guarda più alla commedia all’italiana che alla commedia dell’arte. Nella foto di Bepi Caroli: il protagonista Natalino Balasso. Binasco nel mettere in scena la commedia: «Non è mia intenzione fare uno spettacolo ispirato alla Commedia dell’Arte, così come non userò le maschere della tradizione. Per quanto sarà possibile, tenterò di dare a questo testo un sapore moderno, cercando di restituire l’umanità e la credibilità dei personaggi anche quando la tentazione del formalismo teatrale fine a se stesso ci sembrerà irresistibile. Non ho voluto avvicinarmi a un 'mostro sacro', un’icona come Arlecchino per testimoniare il mio rapporto con la teatralità. Certo, la forza impressionante delle prime commedie di Goldoni arriva fino a noi, anche a dispetto di molte ingenuità drammaturgiche, e di altrettante concessioni al gusto e alle convenzioni dell’epoca. Resistere a questa pura forza teatrale che si propone in modo giocoso, infantile, ballerino, non sarà impresa facile, e qualcuno potrà legittimamente domandarmi: perché resistere, dunque? Ho due risposte. La prima è che le invenzioni di Strehler per rivisitare (per quanto possibile) la Commedia dell’Arte sono insuperabili, e si sono espresse con una nettezza che rende inutile e frustrante qualsiasi tentativo di incamminarsi sulla medesima strada. La seconda, che ha una risonanza più intima per me, è che in questa commedia, (al pari di altre commedie del ‘primo’ Goldoni) io avverto il richiamo di qualcosa che ha a che fare con un ‘certo tipo di umanità’, la cui anima travalica i limiti del teatro per il teatro, e chiede di essere raccontata con maggiore realismo, con maggiore commozione. È il richiamo di una tipologia umana di vecchio stampo, l’Italia povera ma bella di sapore paesano e umilmente arcaico che è rimasta attiva a lungo nel nostro paese, sia sulla scena che nella vita reale, ha abitato il nostro mondo in bianco e nero, si è seduta ai tavoli di vecchie osterie, ha indossato gli ultimi cappelli, ha assistito al trionfo della modernità con comico sussiego, ci ha fatto ridere e piangere a teatro e al cinema con le ‘nuove maschere’ dei grandi comici del Novecento, e poi è svanita per sempre, nel nulla del nuovo secolo televisivo. La voce di questa umanità è quella della Commedia». Ufficio Stampa Teatro di Roma: Amelia Realino tel. 06. 684 000 308 I 345.4465117 e_mail: ufficiostampa@teatrodiroma.net Trailer e nomi del cast CLIC! Teatro Argentina, Roma Da oggi al 21 febbraio Prossime date della tournée dello spettacolo 25 febbraio 2020 | Teatro Puccini | Merano (BZ) 26 febbraio 2020 | Teatro Cristallo | Bolzano 28 febbraio - 1 marzo 2020 | Teatro Fraschini | Pavia 4 - 8 marzo 2020 | Teatro Sociale | Brescia 11 - 15 marzo 2020 | Teatro Toniolo | Mestre (VE)
lunedì, 10 febbraio 2020
Breve storia del segnalibro
Ogni tanto, aggirandoci fra i banchi delle librerie, superando con sguardo angosciato le tante copertine di volumi scritti da conduttori televisivi, scansando l’aggressiva presenza dei troppi romanzi lì impudicamente esposti, càpita di tirare un sospiro di sollievo. Ciò accade, purtroppo non di sovente, quando incontriamo un libro che tratta argomenti apparentemente laterali, pagine con riflessioni sulle nuvole, o sui vari tipi di andatura di noi umani oppure pensieri sorti osservando la fiamma di una candela, o ancora qualche vertigine oulipiana. E anche esercitazioni su storia e usi di oggetti. A uno di questi, particolarmente destinato proprio alla lettura, dobbiamo un raffinato librino: Breve storia del segnalibro, pubblicato . dalla casa editrice Graphe.it L’autore è Massimo Gatta nato a Napoli nel 1959. È bibliotecario dell’Università degli Studi del Molise. Studioso di editoria del Novecento, tipografia privata, bibliografia, grafica aziendale, storia della carta, della libreria, della bibliofilia e di aspetti paratestuali del libro. Nell’ambito di tali settori ha organizzato diverse mostre bibliografiche. Ha collaborato al supplemento domenicale de «Il Sole 24 Ore». Da venti anni collabora al periodico «Charta», oltre che a «La Bibliofilia», «Bibliologia. An International Journal of Bibliography, Library Science, History of Typography and the Book», «Paratesto. Rivista internazionale», «ALAI. Rivista di cultura del libro», «PreText», «Fogli. Rivista dell’Associazione Biblioteca Salita dei Frati di Lugano», «la Biblioteca di via Senato», «Utz», «Percorsi», «ImPressioni», «Colophon», «L’Esopo», «Wuz», «Cartevive», «Il Domenicale», «Leggere:Tutti», «MenSa. Culture e piaceri della tavola», «Contributi biblioteconomici». Fa parte del comitato di redazione di «ALAI. Rivista di cultura del libro», organo dell’Associazione Librai Antiquari d’Italia e della Collana “Piccola Biblioteca Umanistica”, edita da Olschki e del comitato scientifico de «la Biblioteca di Via Senato». È direttore editoriale della casa editrice Biblohaus di Macerata, specializzata in bibliografia e bibliofilia. Per l’editore Palladino di Campobasso ha diretto la Collana “DAT - Documenti d’Arte Tipografica”.
Dei segnalibri l’autore traccia storia, forme, descrive i tanti materiali di cui sono stati fatti: dalla pergamena di un tempo fino a quello elettronico di oggi. Quell’oggetto che pone riparo all’infamia dell’orecchia alla pagina, non è soltanto stoffa o carta oppure l’immateriale segno informatico, ma è scrive Gatta: Un elemento filosofico prima ancora che materiale, ulteriore tassello della galassia paratestuale che in molti hanno indagato, cercandone l’origine, il significato, e tentandone quindi una microstoria che potesse renderne più chiare e visibili le tante, fascinose, declinazioni letterarie e paraletterarie, così come simboliche. Il libro si avvale di un ricco apparato di note, una nutrita bibliografia ed una altrettanta estesa sitografia; inoltre riporta i cataloghi di mostre dedicate all’argomento. Dalla presentazione editoriale. «Cosa usate per tenere il segno, quando momentaneamente interrompete la lettura di un libro? Avete mai prestato davvero attenzione a quell’oggetto (biglietto del tram, fiore essiccato, laccetto di seta…) che vi permette di ritrovare il punto in cui vi eravate fermati? Fra il segnalibro d’emergenza (come la classica e vituperata “orecchia”) e quelli pregiati, pensati come elementi da collezione, passa un mondo che non merita soltanto curiosità classificatoria, ma una considerazione che non è troppo definire filosofica; proprio con questo termine, infatti, l’autore – esperto degli aspetti paratestuali del libro – descrive il segnalibro come ”un elemento filosofico prima ancora che materiale”». L’editore ha qualcosa da aggiungere.In questo video. Massimo Gatta Breve storia del segnalibro Pagine 62, Euro 7.00 Con riproduzioni a colori Graphe.it Edizioni
venerdì, 7 febbraio 2020
Professione Art Consultant (1)
La casa editrice FrancoAngeli ha pubblicato un libro che traccia una nuova figura per l’attività nel campo dell’arte. Titolo: Professione Art Consultant. L’autrice è Vera Canevazzi. Svolge consulenza artistica per privati, enti pubblici, gallerie e studi d'architettura. Si è formata come storica dell'arte presso l'Università degli Studi di Milano e la Fondazione di Studi di Storia dell'Arte Roberto Longhi di Firenze. Ha lavorato nell'arte contemporanea in Italia e all'estero presso enti pubblici e gallerie. Dal 2019 è professore a contratto presso l'Accademia di Belle Arti Santa Giulia di Brescia. Sito web: QUI Ecco un libro che oltre ad essere interessante è anche molto utile sul piano pratico essendo un’eccellente guida a una nuova professione che può dare soddisfazioni sia sul piano espressivo sia su quello economico. Esamina, infatti, in maniera esaustiva l’operatività di questo nuovo lavoro e quanto è necessario conoscere per svolgerlo nel modo migliore. Da come selezionare gli artisti e promuoverli a come condurre l’expertise, da come rintracciare i possibili clienti a come guidarli per l’acquisto o la vendita, da come gestire i costi fino a quanto fare per le perizie in tribunale, e altro ancora. Condotto con una scrittura chiara e veloce, il volume è ricco d’indicazioni concrete riportando esempi grafici di modelli su come, ad esempio, fare la schedatura di un'opera o come redigere una scheda storico-critica. Una cospicua bibliografia conclude il libro In una Premessa scrive Ilaria Bignotti : “Se essere consulente d’arte significa, e il libro lo spiega bene sin dalle prime pagine, saper consigliare, ovvero saper condurre, coscientemente e coerentemente, il cliente in un processo di crescita e di scoperta, di bellezza e di conoscenza, tornare all’ascolto di chi ci circonda deve diventare un atto primario e precedente ogni altra azione e strategia da ipotizzare e definire. Credo che questi aspetti siano non solo il punto di forza del libro come manuale di studio, ma anche in quanto percorso di conoscenza e di definizione di una professione consapevole e soddisfacente, aspetto fondamentale per essere persone – e professionisti – felici”. Dalla presentazione editoriale «L'arte oggi offre molte opportunità di sviluppo professionale. Trovare la propria strada è possibile, se si acquisiscono delle competenze mirate e si mettono a fuoco i propri obiettivi. Questo libro vuole essere una guida per orientarsi nel mondo dell'arte e, nello specifico, nel mondo dell'art consultant: figura, nuova in Italia, che opera tra creazione e fruizione artistica. Analizzare e valutare opere d'arte, fornire consulenza per l'acquisto e la vendita, progettare interventi artistici site-specific, sono alcune delle sue attività più tipiche che vengono qui illustrate in maniera chiara e analitica. Questo volume non si rivolge soltanto agli studenti o a coloro che stanno costruendo un percorso lavorativo, ma anche a professionisti affermati nel mercato dell'arte, a collezionisti, o semplicemente ad appassionati». Segue ora un incontro con Vera Canevazzi.
Professione Art Consultant (2)
A Vera Canevazzi (in foto) ho rivolto alcune domande.
Chi è l’art consultant? L’art consultant è un esperto d’arte che fornisce ai suoi clienti un supporto specialistico. Questo profilo professionale è nato in tempi recenti ed è tuttora in fase di definizione: si è delineato a partire dall’ultimo ventennio XX secolo, inizialmente nel mondo anglosassone e negli ultimi quindici anni anche in Europa e in Asia. Qual è l’importanza del suo ruolo? Negli ultimi trent’anni vi è stato un processo di “democratizzazione” dell’arte, con un esponenziale aumento di attori, fruitori e canali di vendita ed esposizione. Questo, se da una parte è stato molto positivo, dall’altra ha creato una grande confusione anche sul concetto stesso di arte, generando una esigenza crescente di essere affiancati da esperti. Esperti che non solo sappiano selezionare gli artisti promettenti e muoversi nel campo del gusto, ma che riescano anche a distinguere il vero dal falso, un’opera di qualità da una scadente, verificandone lo stato conservativo, l’autore e la storia. La democratizzazione dell’arte si è inoltre accompagnata alla sua “burocratizzazione”, dove, ad esempio, per movimentare un’opera occorrono permessi, certificazioni, assicurazioni, autorizzazioni doganali, etc. In questo scenario la presenza dell’art consultant, che si pone come una guida e come referente per i suoi clienti, è dunque diventata sempre più indispensabile. È possibile rintracciare ascendenze di questa figura? La professione dell’art consultant affonda le sue radici in tempi lontani. In ogni epoca, infatti, i regnanti e le persone più agiate si sono fatte affiancare da artisti, eruditi e mercanti per selezionare le personalità più innovatrici del loro tempo. Pensiamo ad esempio a Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova, che all’inizio del Seicento ha al suo servizio come pittore di corte e art hunter Paul Rubens. Rubens segnala al duca diversi capolavori da acquistare, tra cui la Morte della Vergine di Caravaggio, quadro che era stato rifiutato dai committenti, i Carmelitani Scalzi, perché ritenuto troppo irriverente e dissacrante. Oppure alla zarina Caterina II di Russia che, per scovare opere preziose per la sua collezione (futuro Museo dell’Ermitage), assolda agenti in tutta Europa: nella sola Parigi ne aveva quattro. Quali competenze deve avere oggi l’art consultant? Oggi l’art consultant deve possedere conoscenze trasversali che si estendano anche a settori tra loro molto distanti: dall’interior design alla gestione patrimoniale. Per questo egli non si deve limitare ad avere conoscenze storico-artistiche, ma deve anche possedere delle consolidate skill organizzative, amministrative, progettuali e di mercato, oltre che un’estesa rete di conoscenze, che gli permettano di soddisfare tutte le esigenze artistiche dei suoi committenti. Esigenze che possono, ad esempio, essere connesse alla progettazione di un museo o di un’opera site-specific, alla gestione di una collezione, al desiderio di un investimento economico o semplicemente a quello di abbellire uno spazio con l’acquisto di alcune opere. Esiste una differenza fra l’art advisor e l’art consultant? Art consultant è comunemente confuso o usato come sinonimo di art advisor, dal momento che entrambi i termini, advisor e consultant, hanno un significato similare: consigliere e consulente. Esistono tuttavia delle differenze tra i due profili. L’attività cardinale dell’art advisor è quella di fornire consulenza ai suoi clienti per l’acquisto di opere d’arte, con la principale finalità dell’investimento economico. Il suo lavoro si concentra soprattutto sugli aspetti commerciali e legali. Anche l’art consultant svolge questo tipo di attività, ma con un differente approccio: vi è sempre attenzione per l’investimento economico, ma esso è uno tra i diversi criteri di selezione e sicuramente non il principale: la qualità dell’artista e dell’opera sono considerati importanti anche a prescindere dai risultati d’asta. Rispetto all’art advisor, l’art consultant fornisce anche dei servizi complementari. Coordina per esempio tutta la parte logistica successiva all’acquisto di un’opera, fino all’inserimento nel contesto spaziale (casa, museo, albergo, società etc.). Per esempio nel caso in cui un albergo gli affidi un incarico di consulenza per la ricerca di opere da collocare nelle stanze, nell’ingresso e nelle varie sale, egli dovrà inizialmente concepire un progetto che preveda la scelta degli artisti, la tipologia e la dimensione delle opere, la migliore localizzazione e lo stile, in accordo con l’interior design e gli spazi architettonici. In una seconda fase coordinerà, assicurandosi di rimanere all’interno dei costi preventivati e concordati, la commissione delle opere, gli acquisti, la logistica e l’allestimento, con un’assistenza amministrativa e legale e la direzione dei lavori. Il libro oltre a dare importanti riflessioni critiche si pone anche come manuale. Nel tracciare suggerimenti e linee di comportamento che cosa ha deciso di fare per prima e quale per prima quella da evitare? Nel decidere come strutturare i contenuti del libro sono partita innanzitutto dalla mia esperienza personale, che fortunatamente è stata varia e interessante, sia in Italia che all’estero. Ho poi cercato di sviluppare i contenuti che potessero essere utili per chi inizia questa professione, ma anche per chi in questo campo sente la necessità di trovare un sostegno. Per rivolgermi a un pubblico piuttosto allargato e non di nicchia ho cercato di usare un linguaggio che fosse il più chiaro e semplice possibile, arricchendo la narrazione con esempi, mescolando l’antico con il moderno. …………………………….. Vera Canevazzi Professione art Consultant Premessa di Ilaria Bignotti Pagine 110, Euro 16.00 Con 21 ill. a colori FrancoAngeli
giovedì, 6 febbraio 2020
Antinomie
Do il benvenuto a una nuova, lucente, rivista web: Antinomie Scritture e immagini. Antinomie è un blog collettivo. I fondatori sono Andrea Cortellessa, Federico Ferrari e Riccardo Venturi.
Alessandra Salvini si occupa del coordinamento redazionale. Finalità di “Antinomie” è tenere traccia delle forme di scrittura (poesia, letteratura, saggistica, filosofia, critica, ecc.) che, attraverso il superamento dei confini disciplinari, hanno posto al cuore della propria pratica il rapporto tra la parola e le immagini. Così Andrea Cortellessa nell’Ouverture: «”Non sfugge al passato colui che lo dimentica”, scriveva Ruth Berlau – l’amante fotografa di Bertolt Brecht che lo aveva aiutato a impaginare la Kriegsfibel, L’abicì della guerra dopo tante traversie pubblicato nel 1955 –; per questo quel libro in tutti i sensi epocale voleva «insegnare l’arte di leggere le immagini»: perché «per chi non vi è abituato, leggere un’immagine è difficile quanto leggere dei geroglifici». Ha commentato queste parole Georges Didi-Huberman mostrando come quell’operazione fosse legata a «una doppia propedeutica: leggere il tempo e leggere le immagini in cui il tempo ha qualche possibilità di essere decifrato». È assai significativo che a fondamento di questa tradizione sia un testo, come quello, che anziché praticare un’inerte armonia fra parola e immagine metteva in scena quello che è, fra loro, un conflitto senza quartiere: a riflettere il conflitto storico che era chiamato a raffigurare. È insito nel codice genetico della modernità, oltre che del modernismo, il precetto che László Moholy-Nagy aveva codificato già negli anni Venti: «non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia sarà l’analfabeta del futuro». Non solo di fotografia è questione (anche se l’innovazione tecnologica è sempre stata, appunto dal brevetto di Daguerre, parte integrante di questa storia): sin dagli albori del segno, sulle superfici parietale proto-umane, l’immagine e la parola hanno giocato su un terreno di scontro, di conflitto. Ed è da questo conflitto che, ha insegnato un maestro come W.J.T. Mitchell, si origina la scintilla del senso – se necessario elidendo, o superando, la tautologia del significato. Anche il nostro presente è storia, se solo riusciamo a guardarlo senza fermarci alla banalità della cronaca: in quanto è percorso dalle tensioni e dai conflitti che, della storia, sono il palinsesto ineludibile. Così che guardare alle immagini che, di questi conflitti, sempre più evidentemente sono insieme le armi e la posta in gioco, non sarà l’ultimo ufficio di Antinomie. Guarderemo alle immagini, dunque, anche nella loro valenza sociale e politica: a quello che, parafrasando Rosalind Krauss sul «fotografico», chiameremo «l’iconico». Per tutti questi motivi su Antinomie la «scrittura» – letteraria, visiva, iconotestuale – è insieme «scrizione», come preferiva chiamarla Roland Barthes per sottolineare il suo rivolgersi alla «significanza» anziché alla «comunicazione». Significanza ha a che fare col significato, certo, ma in qualche misura è anche il suo opposto: un processo anziché un dato, una relazione anziché uno stato, una metamorfosi anziché un assunto. Anche il gesto mentale dell’interpretazione – se è davvero tale, anziché tautologica illustrazione –, come sanno gli scienziati «duri» ormai da quasi un secolo, opera infatti una trasformazione dell’oggetto interpretato: quanto del soggetto che lo interpreta. La scrittura «saggistica», se non si limita a esporre i contenuti di una compilazione, come dice il suo etimo è, anzitutto, esplorazione dei propri limiti: oltre che del proprio campo di indagine. È per tutto questo che impiantare un cantiere su questi temi, nel campo per definizione volatile del web dove l’impermanenza è tutto, ha il senso di un gesto controcorrente: di una prassi di opposizione. E, se almeno in minima parte questo gesto sortirà degli effetti, scopriremo che la frase di quella fotografa la si può leggere anche al suo rovescio: non si apre al futuro colui che lo dimentica, se è vero che “l’opera è l’attesa dell’opera”». CLIC per scrivere ad Antinomie. Antinomie Via Fratelli Bronzetti 17 20129 Milano
mercoledì, 5 febbraio 2020
Il neurone bugiardo
La casa editrice Cronopio ha pubblicato Il neurone bugiardo Perché psicoanalisi e neuroscienze non hanno quasi nulla da dirsi. L’autore è Walter Procaccio psichiatra e psicoterapeuta. Insegna all’Università “G. D’Annunzio” di Chieti e presso la scuola di psicoterapia SSPIG di Palermo. È responsabile sanitario della Comunità Terapeutica “L’Airone” di Orvieto. Per Cronopio, nel 2016, ha curato Oblio. Dalla postfazione di Felice Cimatti. Perché psicoanalisi e neuroscienze non hanno quasi nulla da dirsi”. Perché la prima si occupa di “testi” (in cui rientra tutto, emozioni, affetti, ricordi, paure, tutta roba che entra nel setting sotto forma di parole) mentre la seconda si occupa di neuroni, cioè di molecole, di ioni di potassio e roba del genere. Ma c’è quel “quasi”. In quel “quasi” c’è la consapevolezza dello psichiatra Procaccio, che ricorda sempre allo psicoanalista Walter che il dualismo è sempre lì. Ogni sintomo è un sintomo mentale, è vero, ma questo non toglie che è pur sempre un sintomo. Lo psicoanalista che avrà letto, e meditato, Il neurone bugiardo, non si dimenticherà mai di quell’avverbio. Perché, in fondo, in quel “quasi” c’è tutto quello che conta, senza presunzione, senza troppe convinzioni, senza dubbi. La psicoanalisi, quasi. Dalla presentazione editoriale «Questo saggio prende le mosse da una convinzione: neuroscienze e psicoanalisi sono due saperi che condividono solo una breve ma bruciante linea di contatto, il cui studio è decisivo per una rigorosa gestione clinica della sofferenza. Il titolo è una riflessione su questioni aderenti alla prassi clinica: ammalarsi, curare, relazione mente-corpo, relazione medico-paziente. Lo scopo di questo studio è duplice, come duplice è il suo destinatario. In prima battuta, si propone di invitare la psicoanalisi a occuparsi della sua creatura che è l’inconscio e non il neurone. In secondo luogo, si prefigge l’obiettivo di motivare il neurologo e il clinico in senso lato a rendersi consapevoli delle dinamiche invisibili che si attivano quando un curante e un curato si incontrano e che insidiano la riuscita del progetto di cura, perché ovunque vi sia un significato, anche neurologico, si annida l’inconscio». Walter Procaccio Il neurone bugiardo Postfazione di Felice Cimatti Pagine 196, Euro 14.00 Cronopio
martedì, 4 febbraio 2020
Vestimenti di Sissi
A Bologna, nel cinquecentesco Palazzo Bentivoglio, a cura di Antonio Grulli è in corso una mostra di Sissi. È intitolata Vestimenti. QUI le tappe artistiche di Sissi, al secolo Daniela Olivieri. CLIC per una sua autobiografia in video. Dal comunicato stampa. "Vestimenti" raccoglie un’ampia selezione di sculture-abito dell’artista. Buona parte della produzione di Sissi negli anni si è infatti concentrata sulla realizzazione di abiti, talvolta indossabili, fatti dei più svariati materiali, che l’artista ha sempre inteso e presentato come vere e proprie sculture, anche all’interno di ampie installazioni o di performance, come nella sua prima fondamentale opera “Daniela ha perso il treno” (1999). Si tratta di un grande corpus di lavori in grado di coprire venti anni di carriera e di approfondire uno degli elementi cardine della sua poetica. Le sculture sono presentate attraverso un grande progetto installativo pensato appositamente dall’artista per lo spazio espositivo di Palazzo Bentivoglio. Qui un'intervista a Sissi a Sissi su “Vestimenti” apparsa sul webmagazine Zero. La mostra è accompagnata da una pubblicazione bilingue (italiano-inglese) edita da Corraini Edizioni con testi di Mariuccia Casadio (critica d’arte, curatrice e giornalista), Antonio Grulli (curatore della mostra), e un dialogo di Sissi con l’artista Christian Holstad. Ufficio Stampa Palazzo Bentivoglio: Sara Zolla: 346 – 84 57 982; sarazolla@palazzobentivoglio.org Sissi Vestimenti A cura di Antonio Grulli Palazzo Bentivoglio Via del Borgo di San Pietro 1 Bologna Fino al 19 aprile 2020
lunedì, 3 febbraio 2020
Piccola Farmacia Letteraria
Perché si sceglie un libro aldilà delle necessità di studio o di lavoro? Secondo Elena Molini la scelta, in gran parte, è dettata dagli stati d’animo dell’acquirente. Perciò ha aperto una singolare libreria a Firenze, che si chiama Piccola Farmacia Letteraria.
Un luogo accogliente, di sobria eleganza, dove il lettore, assistito da esperte libraie, è guidato fra i tanti titoli scegliendoli in rima con il momento emotivo che sta attraversando. Del resto, lo scrittore francese Philippe Dijan ha detto: “Quando mi sento male, non vado in farmacia, ma in una libreria”. Elena Molini, titolare della Piccola Farmacia Letteraria, è stata l’ideatrice di questa particolare maniera di vendere letteratura, con lei collaborano due psicologhe Ester Molini e Deborah Sergiampietri i cui profili si trovano QUI sul sito web della libreria. Lascio ora la parola a Elena Molini in questo video Piccola Farmacia Letteraria Via di Ripoli 7/R , Firenze info@piccola farmacialetteraria.it Tel: 055 – 62 77 605
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