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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Una Galleria a gonfie vele

Torno ad occuparmi della Galleria d'Arte Moderna di Bologna – diretta da Gianfranco Maraniello – perché sta diventando uno dei poli espositivi di primo piano in Italia.
Mi piace particolarmente quel suo valorizzare i giovani artisti emergenti in Italia nella nuova espressività come testimonia la mostra in corso, curata dall’ottima Chiara Pilati, che presenta tre interessanti autori.
Si tratta di Francesco Arena, Flavio De Marco, Carlo Michele Schirinzi.
E qui una prima riflessione: nessuno dei tre, come avete notato, possiede un proprio sito web; dico ai 3: è piuttosto bizzarro che giovani artisti, impegnati – e impegnati benissimo come lo siete – sui nuovi temi delle arti visive non siano attrezzati con una home page. Siamo nel 2005 ragazzi, occhio! Occhio, perché vi occupate di visione. Avrei detto “orecchio” ad un musicista, e qualcos’altro se si fosse trattato di pornostar.
Il web, serve a meglio promuovere l’immagine, è utile ad acquirenti, critici, studiosi che non vanno costretti ad arrampicarsi sulle maglie della Rete per trovare vostre notizie. Finisce che uno si stufa, com’è capitato a me, e va a farsi un bicchiere. Ma può capitare anche agli astemi, credetemi.
L’esposizione si trova nello Spazio Aperto della Gam – sostenuto dal contributo della Regione Emilia Romagna – che ha già da tempo instaurato un rapporto di collaborazione con importanti istituzioni italiane e straniere impegnate nella promozione dell’arte contemporanea, fra le quali l'Assessorato alla Cultura del Comune di Bari che, nel 2003, ha ospitato la collettiva "Spazio Aperto al disegno". Da questo progetto di scambio, ad esempio, nasce questa mostra.
Il nesso che unisce i tre artisti, diversi fra loro per tecniche e tematiche, è il comune legame con la terra d'origine: la Puglia.
Strumento, si chiama l'opera in mostra di Francesco Arena.
E’ in tutto simile ad un pianoforte ad eccezione del suono che emette: a sostituire le note è il suono del mistico silenzio della cella di Padre Pio. Opera di tesa spiritualità che allude ad intensi mondi interiori che vanno anche oltre il Grande Fratello cui s’ispira. A proposito di Padre Pio, mi torna buona l’occasione per ricordarvi un bel libro su di lui, è di Mario Guarino: “Beato impostore” (Kaos Edizioni), un’eccellente, e illuminante, controstoria.
Flavio De Marco è interessato alla natura del mare eleggendo le interfacce grafiche dello schermo del computer a vero e proprio paesaggio naturale. Un "paesaggio schermo" che instaura un rapporto fra il muro dipinto e le tele ad esso sovrapposte. Mimesi 01 (II): progetto per una drammaturgia sulla rappresentazione, è il secondo atto dell'anteprima avvenuta ad Arte Fiera, un lavoro che viaggerà per più città, sia in Italia sia all'estero.
Dal Toboso, di Carlo Michele Schirinzi è l’opera sulla quale più mi soffermo perché è quella che suscita in me il maggiore interesse.
Il video è ispirato ad atmosfere cervantine. I protagonisti agiscono, fra immaginarie principesse e improbabili cavalieri, in modo grottesco, e si muovono come usciti quasi da un’azione slapstick. Operazione rischiosissima, coraggiosa, bastava poco per cadere in un precipizio da gag tv, e invece no, operazione riuscita; Schirinzi non beffeggia, interpreta – in modo opposto al metafisico Miguel de Unamuno – il mondo donchisciottesco.
Incuriosito dal video, ho cercato Schirinzi e gli ho chiesto di parlare alla radio di questo Cosmotaxi. Ecco che cosa mi ha detto:
M’interesso di video e fotografia, ricoprendo il ruolo di tutte le maestranze (la mia onnipresenza nei lavori è una dimostrazione d’abbondanza legata all’urgenza di ‘sputtanarsi’ mediante l’archiviazione di gesti ed azioni casalinghe) ed arrangiando set da cantina in ogni stanza della mia casa. Tutto ciò ha generato un vero e proprio ‘condominio di posa’ saturo di suoni, luci, oggetti e costumi recuperati dal vissuto personale: un eremo moderno in cui l’universale comodamente implode nell’intimo e viceversa, una mappa topografica rilevata da Ubu e Don Chisciotte, Beckett e Bene, i Dead Kennedys, Verdi e Paolo Uccello. Il percorso-video è nato con l’estromissione totale della parola come significato, in favore del corpo sospeso in uno spazio piatto teso all’azzeramento gravitazionale capace di annullare ogni tipo di gerarchia (un elogio della bidimensionalità da Bisanzio sino al monitor televisivo): come i lavori fotografici (‘iconoclastie su(al) negativo’), anche i video partono da un personale restauro dell’iconografia nota, prediligendo la fase artigianale all’effettistica digitale della postproduzione, impastato nel riciclo barocco per generare avanzi di sacralità in un perenne ed accidentato inno all’impotenza e all’incapacità di fuggire.
Il catalogo è a cura Chiara Pilati e s’avvale anche di scritti di Lia De Venere, Marilena Di Tursi, Antonella Marino

Galleria d’Arte Moderna di Bologna
Orari: 10 – 18 da martedì a domenica; chiuso il lunedì
Fino al 17 luglio 2005


La Città della Scienza

Napoli, tra i suoi poli culturali ne può vantare uno di livello internazionale: la Città della Scienza inaugurata nel 1992 da Rita Levi Montalcini.
E’ dislocata in una bellissima fabbrica dello scorso secolo, reinventata su una superficie di 65.000 metri quadri, di cui 45.000 al coperto; il progetto lo si deve allo Studio di Architettura Pica Ciamarra Associati che per tale opera ha ricevuto molti riconoscimenti; fra i più recenti, nel 2004, il Dedalo Minosse, Premio speciale Barasse, e, nello stesso anno, la menzione speciale al Trophées Sommet de la Terre et Batiment.
La Fondazione IDIS-Città della Scienza – Presidente: Giuseppe Vittorio Silvestrini – è nata per favorire diffusione della cultura scientifica e dell'innovazione. E’ attiva a Napoli dal 1989, organizza ogni anno, già dal 1987, la manifestazione Futuro Remoto, un viaggio tra Scienza e Fantascienza, accolta con grande interesse dal pubblico nazionale ed internazionale
Nel 2003, alla presenza del Capo dello Stato, sono state inaugurate nuove funzioni come il BIC (Business Innovation Centre), il Centro di Alta Formazione, e lo Spazio destinato ad eventi e congressi.
E’ così che oggi si configura come un sistema integrato di funzioni ed attività rivolte al territorio, alle imprese, al mondo giovanile ed a quello della scuola.
Tali attività fruiscono anche del sostegno dell’Associazione Amici Città della Scienza guidata da Ferruccio Diozzi.
L’Ufficio Stampa e Comunicazione, con il suo ruolo di valore strategico, è condotto come meglio non si potrebbe da Barbara Magistrelli.
La sede, allietata da tre caffetterie, di questa Città nella Città è in Via Coroglio 104.
Ecco un luogo che da solo merita un viaggio a Napoli.
Ai napoletani che non avessero ancora visitato la Città della Scienza (spesso, e non solo a Napoli, quando abbiamo un bene sotto casa non lo frequentiamo), consiglio d’andarci, passeranno ore interessanti e, se in compagnia di ragazzi, anche questi saranno istruiti e divertiti da quanto vedranno. E proprio ai ragazzi è dedicato quest’estate uno speciale programma. Per saperne di più, cliccate QUI.


Città della Scienza: Felice Frankel


L’incanto della scienza è il titolo della mostra della fotografa americana Felice Frankel, che il Gruppo Bracco – leader mondiale nelle soluzioni per la videodiagnostica – presenta a Città della Scienza nell'àmbito della rassegna estiva Join Us.
Felice Frankel, è ricercatrice presso il Massachusetts Institute of Technology di Boston, direttrice dell’Envisioning Science Project, membro dell’American Association for the Advancement of Science.
Le fotografie, realizzate con tecniche quali lo stereo microscopio e il microscopio complesso, in grado di ingrandire di milioni di volte dettagli e superfici, diventano grazie all'obiettivo della Frankel vere e proprie interpretazioni a colori dei micromondi che ci circondano con la straordinaria bellezza dei particolari non rilevabili ad occhio nudo di metalli, gocce d'acqua, microrganismi.
Nella scienza, parole e formule matematiche di solito sono considerate più autorevoli delle immagini: in netta opposizione a questa tradizione, le fotografie di Felice Frankel sono un modo, nuovo ed affascinante, di portare il pubblico a rapportarsi all' "universo scienza".
Insomma, bravissima questa Frankel allorché godiamo del suo straordinario lavoro fotografico. Un po’ meno lo è allorquando si dà a dichiarazioni teoriche, come ha fatto a Roma dicendo: Non mi considero un'artista perché un'artista ha un punto di vista molto personale e particolare, e comunica quella parte di sé che vuole che il mondo percepisca e fin qui nulla da eccepire, ma poi incautamente prosegue affermando Suggerire che l’arte e la scienza siano correlate potrebbe risultare pericoloso.
Prosegue ancora inabissandosi, ma ve lo risparmio.
Il grande Piergiorgio Odifreddi, di cui vanto l’amicizia, nell’imperdibile Penna, pennello e bacchetta. Le tre invidie del matematico (Editore Laterza, 2005), nella parte riservata alle arti visive, dopo aver fatto una ragionata carrellata su tanti nomi – da Leon Battista Alberti a Leonardo, a Paolo Uccello, fino a Escher, Kandinsjij, Léger, Duchamp, Dalì, Ugo Nespolo e altri – è tutta una clamorosa smentita delle idee della Frankel. Vi consiglio quel libro. Sull’argomento potrete trovare una sintesi del pensiero di Piergiorgio cliccando QUI.
E concludo ricordando alla Frankel che William Shakespeare ha scritto: “L'amante, il pazzo, lo scienziato ed il poeta hanno la stessa fantasia”.
Aldilà di queste mie considerazioni sulle teorie della Frankel, la sua mostra è di grande fascino e merita d’essere vista.

Città della Scienza, Napoli
Felice Frankel: “L’incanto della scienza”, fino al 31 luglio


Città della Scienza: Stefano Cerio


Alla Città della Scienza sono esposte le nuove opere di Stefano Cerio. Una riflessione sulla genetica, condotta attraverso una serie di immagini e un video sul mondo dei gemelli; titolo: Codice Multiplo.
Il percorso espositivo è di Gianluca Marziani, un giovane curatore di mostre che prevalentemente indagano sulle intersezioni espressive, sull’interlinguaggio; lo ricordo autore di un bellissimo saggio, Melting Pot, edito da Castelvecchi, pagine importanti per capire i meticciati fra i generi e i trasferimenti fra i supporti dell’immagine artistica.
Strana, intrigante mostra questa di Cerio che naviga fra quelle chimere biologiche che sono i gemelli. Aldilà del dato scientifico, i gemelli evocano una ricchissima tradizione letteraria, soprattutto nella commedia, che va da Plauto al Bibbiena, da Trissino al Fiorenzuola, da Ludovico Dolce a Giovanni Maria Cecchi, a Goldoni, per restare in Italia e ricordando, per brevità e autorità, fra gli autori stranieri solo lo Shakespeare de “La commedia degli equivoci” e “I due gemelli veneziani”.
Ma la cronaca riserva anche tragedie. Ricordo qui una dei nostri giorni, quella delle gemelle June e Jennifer Gibbons il cui drammatico caso (che le portò a scontare l’ergastolo nel carcere di Broadmoon dove sono ancora rinchiuse) è assai ben descritto nel libro Adelphi “Le due gemelle che non volevano parlare”. Un caso che ruota intorno ad dramma psicologico del Doppio biologico.
Lo psicobiologo René Zazzo ne “Il paradosso dei gemelli” (La Nuova Italia), scrive: “Questo stesso individuo fatto in due copie mette in discussione l’individualità di ogni essere […] Posso sopportare o soltanto immaginare che l’altro possa essere totalmente uguale? E’ una sfida alla convinzione di essere unico, di essere me stesso”.
Stefano Cerio espone foto (formato 100x120cm) e un video (durata 4’16”).
Le immagini rappresentano coppie gemellari, di nazionalità ed età diverse, all’interno di veri laboratori di ricerca. La scelta del luogo non è casuale ma necessaria per il messaggio che le opere suggeriscono: non tanto una riflessione sul concetto di Doppio quanto sulla genetica e sulle creazioni di esseri umani tra loro identici. Queste opere proseguono e ampliano la logica già sviluppata nella precedente serie intitolata Machine Man che forse piacerebbe ai transumanisti Nick Bostrom e Max More (e a me, certamente).
La mostra si arricchisce di una sezione allestita alla Galleria Riccardo Arti Visive (fino al 30 luglio) che completa il percorso iniziato alla Città della Scienza.
La mostra sarà accompagnata da un catalogo, edito da Effe Erre, con testi di Martina Corgnati , Gianluca Marziani, Vittorio Silvestrini Presidente della Fondazione IDIS-Città della Scienza e docente di Fisica Generale all’Università di Napoli “Federico II”.
Concludo con le parole del curatore: …arte e cultura scientifica stanno legandosi in un complesso e significativo genoma della contemporaneità. La riflessione di Cerio elabora una maniacale tensione iconografica attorno ad una visione anomala del corpo sdoppiato.

Città della Scienza, Napoli
Stefano Cerio, "Codice Multiplo", fino al 31 luglio


Che fine ha fatto Luther Blisset?


“Luther Blissett è un personaggio-metodologia, una ‘singolarità multipla’, un nome collettivo che chiunque è libero di adottare senza chiedere il permesso a nessuno”.
Così è definito LB in Totò, Peppino e la Guerra Psichica, AAA Edizioni1996; autore, ovviamente, LB.
Sono trascorsi dieci anni dalla prima apparizione del nome multiplo e icona mitopoietica Luther Blissett. Un primo e intensivo piano quinquennale di beffe mediatiche (a partire dal falso scoop per “Chi l’ha visto?” fino al gioco birbone tirato a Don Gelmini), provocazioni artistiche (la scimmia Loota alla Biennale di Venezia), invenzioni (il calcio a tre porte) e percorsi psicogeografici (la parola “arte” tracciata in bicicletta attraversando mezza Europa) che hanno avuto come banco di prova soprattutto l’Italia, lasciando tracce in una copiosa produzione di articoli su stampa quotidiana e periodica, dischi, saggi.
Se volete saperne di più sulle imprese e le beffe ai media praticate da LB, troverete un’ampa documentazione cliccando su: Luther Blissett.
Nel giugno 2000 l’esperienza del Luther Blissett Project è stata riepilogata a Bassano del Grappa nell’ambito della rassegna Sentieri Interrotti - Crisi della rappresentazione e iconoclastia nelle arti dagli anni Cinquanta alla fine del secolo (catalogo Charta).
È seguito un oscuro quinquennio nel corso del quale Blissett è stato sporadicamente avvistato in diversi angoli del globo, infiltrato in un programma radio nazionale in Australia o in una popolare trasmissione calcistica televisiva nel Regno Unito (a confronto col vero Luther Blissett, il calciatore di origine giamaicana che nel 1983 ha militato nel Milan con risultati disastrosi, prima di tornare al Watford con le tasche imbottite di bigliettoni…).
Ma dov’è ora Blissett?
È ancora vivo o è stato ucciso da sensazionalismo e superficialità?
Ha esaurito la sua funzione ed è stato rimpiazzato da altre strategie di sabotaggio mediatico?
Ha cercato di far perdere le sue tracce cambiando di nuovo identità?
Si è ritirato a vita privata, per coltivare insalata afrodisiaca e redigere le proprie memorie?
In una stanzetta di tre metri per tre di una casa a Bargecchia, in provincia di Lucca, sono state trovate tracce inconfondibili del passaggio di Luther Blissett: un piccolo “covo” con una finestra che si affaccia ad ovest, un giaciglio di fortuna, un armadio e una libreria pieni di cimeli, un computer ancora caldo e montagne di testi, appunti, immagini, ritagli stampa.
Nella casa e nel giardino retrostante sono state collocate installazioni ed opere di altri dodici autori: in un progetto chiamato BAC (Bargecchia Arte Contemporanea): Carlo Battisti, Antonino Bove, Luca Bocchini, Gian Luca Cupisti, Giampaolo Di Cocco, Giacomo Faiella, Cecilia Guastaroba, Tania Loranti, Marco Maffei, Daniel Milhaud, Massimo Pellegrinetti, Marino Serafin.

BAC, 24 giugno - 30 settembre 2005
Via Sezioni, Loc. Morello 8, Bargecchia (Lu), Tel. 0584.340991
Dal 24 al 26 giugno incluso: 18:00 - 22:00
Dal 27-6 al 30-9, visite su appuntamento


La scena premiata


I premi, specialmente d’estate, sono tanti. Troppi, francamente.
E, naturalmente, tanti i premiati. Un po’ come i santi di Woityla che è il Papa che più di tutti i suoi predecessori nella storia della cristianità ha ingigantito l’organigramma celeste: 488 santi e 1345 beati. Entrerà di diritto nel Libro dei Primati, che, per chi non lo sapesse, è il libro dei record non quello delle scimmie.
Mi piacerebbe fare una performance in cui vengono letti i nomi degli italiani non premiati, nelle varie categorie d’attività, sarebbe, credo, uno spettacolo di corto minutaggio.
Ma, forse, è l’invidia che mi fa parlare, perché di premi io non ne ho beccato neppure uno.
Quando avrò cent’anni, fatalmente, me ne vanterò.
Eppure di un Premio mi va di dire bene: il Premio Scenario che ha per direttrice artistica una studiosa e saggista teatrale di grande valore: Cristina Valenti.
Della Valenti mi sono già occupato in queste pagine web, nel corso di un incontro con Alfonso Santagata, per saperne di più su di lei, cliccate QUI.
Il premio, giunto oggi alla sua decima edizione, è promosso dall’Associazione Scenario che è nata nel 1987 con la finalità di promuovere la cultura di teatro con particolare riferimento alle esperienze di nuova drammaturgia proposte da artisti esordienti, gruppi di recente formazione, soggetti impegnati in un nuovo percorso espressivo.
Obiettivo pienamente centrato perché da quel premio sono usciti nomi che si sono in seguito affermati come, per fare qualche nome, il Teatro delle Ariette, Emma Dante, Davide Enia, Scena Verticale, e altri ancora.
L’Associazione Scenario - oltre ad un’intensa attività di convegni, incontri, seminari - recentemente, ha avviato un’encomiabile iniziativa con l’Associazione dei parenti delle vittime della strage di Ustica, che ha dato luogo al comune progetto del Premio Ustica per il Teatro, promosso e realizzato da entrambe le Associazioni.
Tornando al Premio Scenario, esso s’articola attraverso una complessa selezione, è roba complicata e non ve la racconto, ma è ben studiata in modo da permettere buoni filtri per ottenere che le proposte finaliste siano di buona qualità.
E, finora, Cristina Valenti è riuscita nel suo intento restando invitta nelle prove.
Però una cosa mi va di sottolinearla nelle regole del premio: ogni lavoro non può superare i venti minuti. La durata imposta è un’invenzione meritevole, e degna di ogni lode.
La rappresentazione delle opere finaliste avverrà a Santarcangelo di Romagna dal 24 fino al 26 giugno data che vedrà la premiazione.
Alla cerimonia sono scarsamente interessato, se v’incuriosisce chi ci cingerà d’alloro visitate, dopo il 26/6, il sito dell’Associazione di cui vi ho dato prima il link.
Mi piace, invece, riferire sui finalisti.
Ecco l’elenco in ordine alfabetico secondo i titoli delle produzioni.
“4 m3”, offucina eclectic arts (Spoleto - Pg)
“11/10 in apnea”, Teatro Sotterraneo (Firenze)
“Di maschile dolcezza”, Argonauti (Montevecchio/Guspini - Ca)
“Dux in scatola”, amnesiA vivacE (Roma)
“Hopper Mode”, Circo Bordeaux (Roma)
“Il deficiente”, Gianfranco Berardi, Gaetano Colella (Taranto)
“La casa d’argilla”, Lisa Ferlazzo Natoli (Roma)
“Noia sui suoi lussi”, Grumor (Padova)
“’OMare”,Taverna Est e DAMM Teatro (Napoli)
“Prove di condizionamento”, Cosmesi (Udine)
“Qualcosa da Sala”, Francesca Proia (Ravenna)
“Sür” Qualibò, Visioni di (p)Arte (Bari)
“Texticul”, Le Teste Cardiache (Teramo/Sassari)
“Wonderful. Volevano la vita eterna”, Manuela Capece, Davide Doro (Parma)


dux in scatola


Tra i finalisti del Premio Scenario, mi piace segnalare uno spettacolo alquanto piccante nella sua singolarità: dux in scatola.
Autore, interprete e regista è Daniele Timpano.
Nato a Roma nel 1978, ha già al suo attivo un congruo curriculum. Ha realizzato, infatti, diversi spettacoli, tra i quali: “Storie di un Cirano di pezza”; “Teneramente Tattico”; “Profondo Dispari”. E' stato coordinatore dei laboratori teatrali, letterari e musicali “Oreste ex Machina” (2003) e “Gli uccisori del chiaro di luna” (2004) e “Fiabbe Itagliane” (2005), finanziati dall'Università degli studi di Roma La Sapienza". Un suo testo, “Per amarti meglio!”, è risultato finalista nella rassegna Napoli Drammaturgia in Festival 2001
E questo dux in scatola?
Un attore - solo in scena con l’unica compagnia di un baule che viene spacciato come contenente le spoglie mortali di "Mussolini Benito"- racconta in prima persona le rocambolesche vicende del corpo del duce, da Piazzale Loreto nel ’45 alla sepoltura nel cimitero di S.Cassiano di Predappio nel ‘57. Alle avventure post-mortem del cadavere eccellente s’intrecciano brani di testi letterari del Ventennio (Marinetti, Gadda, Malaparte…), luoghi comuni sul fascismo, materiali tra i più disparati provenienti da siti web neofascisti, nel tentativo di tracciare Il percorso di Mussolini nell’immaginario degli italiani, dagli anni del consenso agli anni dei memorabilia nostalgici.
L’assimilazione forzata tra il soggetto (Daniele Timpano: sinistramente vivo) e l’oggetto (Mussolini Benito: destramente morto) del racconto riconferma la lontananza irriducibile tra due visioni del mondo inconciliabili.
Come sanno i visitatori di queste pagine, non amo particolarmente il teatro di parola preferendogli quello visivo ed elettronico, ma questo dux in scatola m'incuriosisce e spero incuriosisca anche voi.
La "prima" nazionale a Santarcangelo il 25 giugno.
La locandina:
drammaturgia e regia di Daniele Timpano
collaborazione artistica Valentina Cannizzaro e Gabriele Linari
foto di scena di Valerio Cruciani
Organizzazione di Maria Rita Parisi
Per informazioni e contatti stampa: 338 - 76 74 196
La produzione è di amnesiA vivacE che dispone di un Vivace (qui la maiuscola la metto io in testa alla parola) di cui vi parlerò prossimamente. Mo’ non ho tempo, devo concludere (e non vedo l’ora!) il montaggio di uno spot che si è rivelato di drammatica lavorazione e sta conoscendo le sue fasi conclusive in un clima di crescente tensione.


Proposta di referendum


E’ trascorsa una settimana dall’infelice esito del referendum e le tonache nere e i loro reggicoda hanno esultato, ancora ieri, con processioni, rosari e Te Deum di ringraziamento.
Com’è stato ottenuto dal Vaticano quel risultato è noto: rifugiandosi dietro l’astensionismo sostenuto perfino da governanti che avrebbero – proprio perché governanti di una democrazia – l’obbligo di votare e invitare a votare i cittadini che poi, com’è giusto, possono esprimere un SI’, un NO, o annullare la scheda.
Non votare, si sa, è riprovevole per chi lo fa e per chi spinge a farlo.
A dirvi la verità, come ateo, sono lieto che la Chiesa sia ricorsa a quel sotterfugio per spuntarla: dimostra la sua debolezza. Sapeva che se ci fosse stata una partecipazione tale da raggiungere il quorum, le avrebbe buscate.
Hanno preferito puntare sulla sfiducia verso i referendum che, grazie all’uso scriteriato che ne hanno fatto Pannella & Compari, sono sempre meno amati. Ma Pannella e i suoi pur d’ottenere visibilità sono capaci di qualunque impresa. E anche qualche bassezza. Vi ricordate quando la signora Bonino voleva allearsi con Rauti al Parlamento Europeo?
Ora Ruini & Soci affermano che il risultato dimostra che l’Italia è con loro.
Bene. Se così è, propongo che attraverso le loro organizzazioni sul territorio italiano (CL, AC, Focolarini o altri, ce ne sono alquante) promuovano un referendum per mettere fuori legge i contraccezionali meccanici e chimici. Via preservativi e pillole dalle farmacie, siano dichiarati illegali. E’ una cosa che vede, infatti, la Chiesa contraria da sempre a quelle tecniche per evitare gravidanze, con ripetuti moniti, pure recenti, anche dal Seggio di Pietro.
Vi sentite forti? Ebbene fatelo! E’ il vostro dovere di credenti.
Se non lo fate, i casi sono due: o tradite la vostra religione oppure ve la fate sotto.


Donna Melina e i suoi tanti mariti


Lacan, in uno dei, rarissimi, momenti in cui parla per farsi capire, afferma: L’amore è voler dare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole.
Melina, la protagonista di “Hey, men!” d’Isabella Rinaldi, nonostante l’aria da dura, cerca l’Amore, sogna l'uomo perfetto che possa essere marito, padre, amante e, perché no, anche schiavo.
Melina non vuole saperne di Lacan. Meglio o peggio per lei, fate voi.
Ma fatelo dopo aver letto questo “Hey, men!” edito da Addictions.
Isabella Rinaldi, donna di grande fascino intellettuale, e non solo intellettuale, è al suo debutto nel romanzo, dopo aver praticato racconti, essersi misurata nell’organizzazione culturale, aver esibito le sue qualità in molte occasioni verbali non trascritte; insomma, lo avrete capito è discepola dell’Effimero, maestra dello Spreco.
Accolgo con gioia, quindi, questo suo esito stampato, e detto da me che non amo in letteratura il genere romanzo, non è poco.
A Isabella Rinaldi – è nata a Roma, risiede a Milano – ho chiesto di parlarmi di Melina e del linguaggio scelto per narrarne le imprese, generose spesso e incaute sempre.
Hey, men!” è la storia di Melina, una trentenne in crisi di identità, che cambia faccia e vita ogni volta che deve affrontare un ambiente differente.
Dalla ovvia dicotomia "impiegata integerrima di giorno/disinibita scrittrice di notte", fino agli estremi che la portano ad abbracciare la new age, per amor di un vecchio amore o che la spingono a intraprendere azioni dimostrative anarchiche nella Rete per sopravvivere a un ménage familiare zoppicante. Melina inciampa spesso, ma mantiene l'equilibrio, traballando sui tacchi a spillo o negli scarponi militari di cinque numeri più grandi.
Circa il linguaggio usato, posso dire questo: mi sono divertita a scrivere questo romanzo e il mio piacere spero sia lo stesso di chi leggerà, che pure deve prestare attenzione all'ironia, a volte cattiva, di un linguaggio che non perdona il lettore disattento
.
Fin qui Isabella Rinaldi, con grande dono della sintesi.
Per saperne di più, e leggere il primo capitolo del libro, cliccate con fiducia su: Hey, men!

Isabella Rinaldi, “Hey, men!”, 144 pagine, 10:00 euro
Edizioni Addictions


AstiTeatro Festival


Cosmotaxi Special per AstiTeatro Festival

19 giugno - 2 luglio 2005



AstiTeatro Festival: storia e profilo


Asti Teatro è giunto alla sua XXVII edizione.
Pochi Festival in Italia possono vantare tanti anni di vita, e di successi, specie in un momento, come l’attuale, in cui il taglio dei fondi alla produzione culturale (mentre si spendono fiumi di denaro per finanziare guerre ipocritamente chiamate missioni di pace) ha determinato la fine di molte rassegne e impedito il sorgerne di nuove.
Asti Teatro è nato, nel 1979, anno importante per la società italiana segnata da quelle che io giudico (e, fortunatamente, non sono il solo) due calamità: le conseguenze dell’atroce strage avvenuta l’anno prima di Aldo Moro con la sua scorta e l’inizio dell’era Craxi che va al potere nel luglio proprio di quell’anno. Nasce, cioè, in un tempo nel quale la fine di speranze e l’inizio della corsa all’affarismo portarono molti a rinchiudersi in sé stessi e altri a intraprendere più di prima la via della corruzione.
Due cose che da sempre strozzano la comunicazione culturale.
Ne sappiamo qualcosa ancora oggi.
Grande merito, quindi, va riconosciuto a quanti ad Asti, proprio allora, lanciarono una sfida in aperto contrasto con la cattiva aria che si respirava in Italia, proponendo questo Festival, vale a dire un’occasione di fiducia nelle gioiosa capacità che ha il teatro nel mobilitare coscienze, divertire insegnando, produrre immaginazione.
Non a caso si legge in qualche nota redazionale di pubblicazioni di AstiTeatro che allora l’intento fu di “rivitalizzare il centro storico, restituire alla gente strade, piazze ed edifici, stimolando forme diverse di comunicazione, di conoscenza, di incontro”.
Non solo, però, di questo s’è trattato, ma anche di una fiducia nelle risorse della scena italiana e straniera di sapere esprimere modi inediti di fare teatro. Ecco perché il Festival ha ospitato, ed ospita anche oggi, accanto al teatro di tradizione, numerose presenze di nuova drammaturgia, di lavoro innovativo proveniente dalla performance legata alle arti visive e sonore.
Ed ecco che, grazie anche all’energia e all’acume del direttore Salvatore Leto (tornerò nella prossima nota a parlare di lui e con lui), il Festival vive e conferma la sua presenza ‘sul filo di una continuità caratterizzata da un intenso desiderio di ricerca, da una ben precisa vocazione non convenzionale e dall'ambizione di proporsi quale luogo di confronto delle ultime esperienze, delle innovazioni e delle tendenze della scena. Un Festival che mette a fuoco sperimentazioni di generi e linguaggi, portando alla luce una realtà poliedrica, problematica, ricca di risonanze, verità, implicazioni; intensa rilettura dell'epoca in cui viviamo, dei suoi mutamenti, delle sue inquietudini’.
Perciò le citazioni che seguono non sono rituali ma sinceri riconoscimenti di valore per chi ha voluto sostenere quest’edizione del Festival che è promosso e organizzato dal

Comune di Asti

ed è realizzato con il contributo

della Regione Piemonte,
Ministero Beni e Attività Culturali
Fondazione Cassa di Risparmio di Asti
Banca Cassa di Risparmio di Asti.

Per il programma, cliccate su www.astiteatro.it
Impeccabilmente guidato da Simona Carlucci è l’ufficio stampa nazionale che ha
una valida estensione sul territorio in Gianluca Valorio.
Altrettanto puntuale è l’assistenza organizzativa al Festival di Anna Chiara Altieri.
Concludendo: avete tempo fino a sabato 2 luglio per organizzare un viaggio ad Asti e godervi il Festival. E anche le imperdibili risorse enogastronomiche della città.
Una volta tanto, credetemi: non ve ne pentirete.


Parole di teatro


Sigismondo - …perché un sogno è questa vita / e anche i sogni, sogno sono.

Calderon de la Barca, “La vita è sogno”, Seconda Giornata


AstiTeatro Festival: Salvatore Leto


Come dicevo nella nota precedente, molto deve il Festival a Salvatore Leto che lo dirige. Probabilmente senza la sua passione e la sua tenacia oggi AstiTeatro non esisterebbe. Ne è stato sempre il motore e, non è un caso che negli anni, in cui per motivi che nulla avevano a che fare col teatro, ne fu allontanato, vi fu il periodo in cui la rassegna conobbe un periodo grigio, finendo col non avere il ruolo nazionale che ha recuperato oggi.
Gran lavoratore, uomo schivo, preferisce agire, è il caso di dirlo, dietro le quinte e ha tentato di sfuggire alla mia richiesta d’avere una sua dichiarazione. Non c’è riuscito. Perché io sono un assediante di riconosciuto valore.
Ecco quanto, vinte le sue resistenze, ho sentito da lui.
La 27° edizione di AstiTeatro si svolge in un momento di grave crisi economica per tutto il nostro Paese: l’attuale congiuntura non sta risparmiando neanche il nostro Comune, ma – come abbiamo ribadito in Consiglio Comunale in occasione dell’approvazione del Bilancio di Previsione 2005 – di questa condizione vogliamo fare un motivo in più per ridare alle attività culturali, pur nei limiti del possibile, quel primato che gli spetta.
Siamo convinti infatti che l’Italia supererà l’attuale crisi soltanto se le misure economiche verranno affiancate da quelle iniziative volte a soddisfare le esigenze immateriali che sono proprie degli uomini, convinti come siamo che per lo sviluppo della società siano necessarie l’arte e la poesia, la musica e il teatro.
E’ per questo motivo che l’Amministrazione, con un occhio a queste convinzioni e con l’altro al bilancio, non ha mai cancellato le attività culturali dal suo programma, all’interno del quale il festival Asti Teatro riveste importanza particolare, sia perché completa le attività del teatro Alfieri, ma soprattutto perché è un momento creativo alto, ancorato sì al presente ma volto al futuro.
La contemporaneità che ha sempre caratterizzato le scelte programmatiche del festival astigiano affonda le sue radici nella più schietta tradizione culturale europea, nella convinzione che non ci possa essere contemporaneità senza tradizione e che non si possa pensare al futuro se non si comprende il presente.
Se AstiTeatro si avvia a compiere 30 anni di attività, non lo deve soltanto alla caparbietà degli amministratori astigiani e regionali che vedono nella cultura e nel teatro un indispensabile mezzo per lo sviluppo del territorio e una risorsa da sfruttare adeguatamente, ma anche al fatto di essere presente pensando al futuro, ribadendo con forza la necessità del teatro.
Da qui allora quelle ‘vie del teatro’ che vogliono caratterizzare la ventisettesima edizione: portare il teatro per le vie della città, una città fatta non di case arroccate e vie chiuse bensì trasformata in spazio sostenibile e vivibile per uomini liberi. Ma ‘vie del teatro’ sono anche le molteplici possibilità espressive del teatro stesso, che AstiTeatro sceglie di sostenere sia attraverso l’intrecciarsi col mondo musicale e i suoi protagonisti sia attraverso la messa in scena di testi non teatrali, in un fecondo contaminarsi di generi e linguaggi
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Parole di teatro


Coro – Viva il vino spumeggiante / di Frascati e di Marino, / viva ognor l’Asti spumante / lo Champagne ed il Bordeaux. / E fra il bere ed il mangiare / con le donne a noi vicino /
ci faremo sollazzare / sulle molle del sofà
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Petrolini, “Nerone”, Atto Unico


AstiTeatro Festival: Marco Boarino e Fabrizio Nocera


Fra gli spettacoli in cartellone, molto m’intriga Sulle tracce di Utopia.
E’ una realizzazione dell’Associazione Oraeventi con la partecipazione del gruppo francese di danza aerea Motus Modules e le scenografie pirotecniche di Luigi Tamanini.
Regìa di Marco Boarino e Fabrizio Nocera.
Lo spettacolo, ambientato tra Piazza San Secondo e Piazza dei Medici, è una narrazione che ha per protagonista un immaginario marinaio, una sorta di via di mezzo tra Robinson Crusoe e Gulliver che per i pochi spiccioli di una bevuta ci racconta – o inventa per noi – la storia del naufragio nell’Isola di Utopia.
Mi piace il teatro quando esce dalla sala, abbandona le poltrone, e si fa evento mercuriale usando anche strumenti atipici come in questo caso i fuochi d’artificio.
Quando ciò accade, sono in tanti a dire “ma che teatro è?” oppure più rischiosamente “questo non è teatro!”. Ne patisco di critiche così per i miei spettacoli. E proprio ad un AstiTeatro di molti anni fa salvai la vita con la fuga per una mia messa in scena alfieriana ritenuta da tanti (… ma che ci facevano con quei forconi in mano?) irrispettosa.
Spero in cuor mio che pure Boarino e Nocera siano costretti alla fuga… e che? solo a me le disgrazie del teatro mercuriale? Non è giusto! Pure a loro! Addosso a questi due bricconi! Osano rifiutare attori commendatori con panciotto (e pancetta) che ‘ore rotundo’ parlano, parlano, parlano. A quei signori cui quel verboso teatro piace, dico che, una volta, ma proprio tanto tanto tempo fa, il teatro lo si faceva camminando, danzando e cantando.
E a chi, per esempio, si chiedesse che cosa c’entrano i fuochi d’artificio con il teatro, voglio ricordargli che Händel eseguì una suite da lui composta per accompagnare uno spettacolo di fuochi artificiali, e siamo nel 1749. Insomma, vorrei che chi andrà a vedere Sulle tracce di Utopia non si recasse lì accingendosi a vedere uno spettacolo d’avanguardia. Signori, ci crediate o non, andrete a vedere un classico.
Semmai mi preoccupa quel marinaio che parla. Sarà pure bravo, non lo metto in dubbio, ma (scusami marinaio se attento ai tuoi contributi Enpals) meno si chiacchiera facendo teatro e più mi piace. Però, quel marinaio, sappiatelo, parla fuori campo. E’ già qualcosa di meglio che vedere un attore in carne e ossa che apre e chiude la bocca.
Ho chiesto a Marco Boarino e Fabrizio Nocera di parlarmi di questa loro impresa scenica che ad Asti conosce la sua ‘prima’ nazionale.
Li sentirete parlare con una voce sola. Prodigi della tecnologia di questo Cosmotaxi.

Crediamo che la ricchezza nasca dall'incontro delle diversità.
che l'interconnessione sia la condizione d'esistenza della comunicazione
e che servano infinite lingue per cantare lodi di un dio infinito.

Crediamo che ogni volta che un uomo incontra un altro uomo
e vede se stesso riflesso nei suoi occhi,
da qualche parte, sull'Isola di Utopia
nascano nuove torri e fioriscano nuovi giardini.

Crediamo che per raccontare questa
come tutte le storie che fanno grande Utopia
servano la musica e le parole
l'incanto dell'aria e lo stupore del fuoco…
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Nella scansione grafica, ho seguito il ritmo trasmesso dalla tecnologia di bordo.


Parole di teatro


Edgardo – Non si è, a questo mondo, l’uno al posto dell’altro; si è al proprio posto e si è ciò che si è, né più né meno!

Arthur Adamov, “Intimità”, Atto Unico


AstiTeatro Festival: Tosca e Massimo Venturiello


Potrebbe a ragione essere definito melologo questo spettacolo - direzione musicale di Ruggiero Mascellino - dal titolo Romana che nel sottotitolo “Omaggio a Gabriella Ferri” chiarisce le intenzioni di un atto d'amore, ma che è anche un'occasione per affacciarsi sul mondo e sulle personalità della canzone romana: Balzani, Petrolini, Fellini, Pasolini, Giulietta Masina, Anna Magnani, la stessa Ferri naturalmente.
Ne è interprete Tosca che ormai da tempo si divide tra musica e teatro.
Al regista Massimo Venturiello ho chiesto di parlarci del suo spettacolo.
Sullo sfondo di una irreale notte d’estate, un’orchestrina romana sotto un gazèbo di luci colorate suona alla luna, mentre una donna, a metà tra zingara e clown si aggira col suo carretto carico di oggetti misteriosi alla ricerca di qualcosa che essa stessa non sa.
Da questa immagine (con la collaborazione di Roberto Agostini, curatore dei testi) e’ nata l’idea di questo monologo musicale dove il canto continuamente si intreccia col parlato senza mai segnarne il distacco. Una sorta di lunga canzone eseguita da Tosca una delle voci più belle che Roma ora possa vantare.
Dove ci condurrà il viaggio di questa “Romana” non c’è dato sapere, ma posso per ora solo dire che la direzione è quella di uno spettacolo fortemente teatrale in cui stili diversi, dall’avanspettacolo al varietà, si alterneranno in piena libertà creativa, seguendo il filo di una musicalità che certamente Gabriella Ferri avrebbe amato. Almeno così ci piace pensare
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Parole di teatro


Goetz – C’è da fare questa guerra, e la farò

Jean-Paul Sartre, “Il diavolo e il buon dio”, Atto III


AstiTeatro Festival: Giovanna Marini


Ho fatto quattro chiacchiere con Giovanna Marini in occasione della recente uscita di “Una mattina mi son svegliata” edito da Rizzoli; si è trattata di una conversazione che andava anche oltre il libro e spaziava sul suo pensiero musicale, gli incontri da lei ritenuti decisivi, la passione per la ricerca etnomusicologica, i perché si dedica all’insegnamento. Chi volesse saperne di più su quell’incontro può cliccare QUI.
Con piacere torno a parlare di lei perché è in cartellone qui ad Asti con lo spettacolo, in ‘prima’ nazionale, La ballata del carcere di Reading che s’avvale dell’interpretazione di Umberto Orsini e della regìa di Elio De Capitani.
“La ballata del carcere di Reading è la più celebre poesia di Oscar Wilde (Dublino 1854 – Parigi 1900) composta nel 1898 un anno dopo averne scontato due di penitenziario (era stato condannato per omosessualità) e due anni prima di morire in miseria e abbandonato da tutti.
Secondo il regista, quella famosa ballata si presta a una messinscena “perché in un certo senso lo è: è una messinscena complessa, ritualmente complicata, dove una volta ancora l’attrazione fisica si sublima in canto e il canto sublima la sofferenza in bellezza. “
Al centro di tutto Wilde, la sua condizione di prigioniero e il corpo di un ragazzo, un giovane soldato, condannato alla forca per l’assassino della sua amante, un Woyzeck inglese con la giubba rossa dei dragoni di sua maestà. Wilde lo ha solo intravisto nell’ora d’aria e trova una nuova vena che unisce i suoni, i colori, i pensieri e gli incubi e i corpi inappagati della galera con una certa luce di un amore trasfigurato.
Giovanna Marini ha scritto cinque brani, componendo una musica che va dalla ballata irlandese fino a Schubert, passando anche per i Beatles.
Umberto Orsini farà Wilde, teso a cogliere la bellezza di quei versi stupiti e addolorati.
De Capitani immagina e studia una scrittura che sia “strategia di dislocazione sapiente delle forme e dei materiali” - come scrive in una sua dichiarazione - “da combinare con le parole cantate di Giovanna, con la sua musica altrettanto ostinata e precisa”.
Un’ottima occasione per avvicinare Wilde attraverso la sensibilità vocale di Umberto Orsini, la sapienza musicale di Giovanna Marini, l’esperienza scenica di Elio De Capitani.


Parole di teatro


Simone – Aveva i capelli lunghi come una coda di cavallo e gialli come l’oro

Pietro – Beh, pace all’anima sua!

Eugene O’Neill, “Desiderio sotto gli olmi”, Atto I


AstiTeatro Festival: Neil Labute


La forma delle cose è il secondo testo di Neil Labute, autore americano, considerato dalla stampa anglosassone come il nuovo David Mamet.
E’ una commedia divertente, ma anche una spietata riflessione psicologica sulle nuove generazioni, sulla solitudine, sui meccanismi della persuasione, sul mondo nuovo che verrà; commedia sì, ma che si svolge attraverso una trama terrificante.
Ne sono protagonisti un quartetto di giovani talenti (Ilaria Falini, Camilla Filippi, Lorenzo Lavia, Fulvio Pepe), guidati dal regista Marcello Cotugno che vede in questo lavoro di Labute il rovesciamento del mito di Pigmalione.
Scene di Carmelo Giammello,costumi di Andrea Viotti.
L’allestimento recupera il concetto della scenografia/installazione, ispirata ai lavori dell’arte moderna più trasgressiva, da Damien Hirst a Tracey Emin, a Mona Hatoum.
Elementi semplici ma fortemente significanti, quali il letto disfatto di Tracey Emin, esposto nelle gallerie di tutto il mondo (qui sotto forma di ‘fac simile’) valgono a sottolineare che lo spettacolo è pensato all’insegna della ‘modernità’ e del ‘nuovo futurismo’, da ‘net@generation’.
Musiche di tendenza per un pubblico giovane, dagli Oi Va Voi, rivelazione del momento, agli islandesi Mum, con qualche incursione nell’ambiente della No Wave degli anni ’80 di James White.


Parole di teatro


Collatino – Amalia l’aspetta… Si sposano. Sbarbalo per la cerimonia, ha la barba difficile sotto la gola.

Pepesce – Come comandate…

Gennaro Pistilli, “L’arbitro”, Atto III


AstiTeatro Festival: Licia Maglietta


Sono stato un sostenitore di Licia Maglietta fin dai suoi esordi teatrali e la considero tutt’oggi una delle migliori attrici italiane capace – ed è cosa rara – d’essere tanto brava sul palcoscenico quanto sullo schermo.
Qualche cenno biografico per i più distratti. Licia Maglietta, è tra i fondatori di Falso Movimento e di Teatri Uniti, è stata protagonista in spettacoli di Mario Martone, Toni Servillo, Elio De Capitani, Carlo Cecchi, interpretando testi di Shakespeare, Molière, Camus, Buchner, Goldoni, Pirandello, Moscato.
Il suo “Delirio amoroso”, monologo tratto dall’opera di Alda Merini, a dieci anni dal debutto è ancora programmato nei teatri italiani. Dal teatro al cinema: con Mario Martone, “Morte di un matematico napoletano” (1992), “Rasoi” (1993), “L'amore molesto” (1995); con Antonio Capuano, “Luna Rossa” (2001). Protagonista negli ultimi lavori di Silvio Soldini “Le acrobate” (1997), “Pane e tulipani” (2000), la pellicola per cui ha vinto il Premio David di Donatello come miglior attrice protagonista, e “Agata e la tempesta” (2004).
Di film ne ha fatto anche un altro. Purtroppo. “Nel mio amore” (2004). Che segna l’esordio (e speriamo anche l’epilogo) cinematografico di Susanna Tamaro.
La Tamaro, si sa, può abbattere ogni talento che gli passa vicino, e sùbito, quasi per maleficio, quel talento s’intamarra.
Un consiglio a Licia: mai più copioni della Tamaro, anche se ti promette zecchini d’oro!
Qui, ad Asti, la troverete in gran forma (la Tamaro è lontana), interprete e regista di un racconto di John Berger tradotto da Maria Nadotti.
Titolo: Una volta in Europa.
Il testo mostra come lo sviluppo industriale spinto degli ultimi decenni, le migrazioni forzate, l’inurbamento massiccio, la perdita di radici linguistiche e geografiche, la scomparsa del lavoro artigiano, abbiano inciso su contadini, braccianti, pastori, costringendoli all’amnesia o ad un grumo di intatta, umana resistenza.
L’autore, John Berger, nato a Londra nel 1926, da quasi trent'anni risiede in un piccolo villaggio delle Alpi francesi, è un personaggio noto a livello mondiale per la sua eclettica personalità. E' infatti noto come poeta, giornalista, critico d'arte, romanziere, sceneggiatore, autore teatrale e disegnatore.
E, pare, non voglia proprio saperne d’incontrare Susanna Tamaro.


Parole di teatro


Luisolo - … Marietta, se non vuoi essere mia moglie, sii almeno il mio ideale!

Carmelo Bene
“Ritratto di signora del cavalier Masoch per intercessione della beata Maria Goretti”
Parte Prima


AstiTeatro Festival: B


B - ad Asti presentato in ‘prima’ nazionale - è un testo di Giampaolo Spinato segnalato al Premio Riccione 2001 con la seguente dizione: “Per avere creato con ellittica scrittura beckettiana di lucida potenza l’intrecciarsi di un doppio enigmatico quadro: la vicenda di sesso e di sangue di B. e di una Lei, che quando non scopa selvaggiamente si traveste da Madonna, contrapposta al chiacchiericcio di guardie, o voyeur, o spettatori tv con telecomando, o registi che ripassano il girato del video”.
Viene voglia di vederlo questo testo che concorre al Guinness dei Primati per il titolo più corto del mondo. La regia è di Fulvio Cauteruccio, fratello di Giancarlo, che esaspera il dramma della coercizione, della violenza dell’uomo sull’uomo, il conflitto tra forza e debolezza, tra movimento e immobilità.
Tutto accade in una stanza dove il silenzioso B, vittima sacrificale, immobile su un piedistallo, in un’immagine che ricorda il personaggio beckettiano di ‘Catastrofe’, è prigioniero insieme ai suoi aguzzini. E’ dentro quella stanza che sarà ininterrottamente attraversato da visioni e apparizioni. E’ dentro quella stanza che subirà le torture. E’ dentro quella stanza che non verrà mai nominato. Nel sottotesto di quest’opera passano forse atroci storie di droga, di violenza, di sesso. Tutto nasce dalla condizione di forte disagio di certe aree giovanili.
Fulvio Cauteruccio proviene da esperienze particolarmente attente alle problematiche delle nuove generazioni. Sarà qui affiancato da una giovane e nota interprete fiorentina, Silvia Guidi, forte di tanti successi di teatro anche internazionali, e Daniele Bartolini. Ambedue diverranno i carnefici di B. e all’occasione si trasformeranno fisicamente nei suoi ricordi e nelle sue visioni, quasi a voler prevaricare l’unica libertà che l’uomo possiede: il pensiero.
Già, il pensiero. Ma siamo certi che tutti gli uomini lo posseggano?


Parole di teatro


L’Araldo – E in che ho errato contro la giustizia?
Il Re – Non sai d’esser straniero, in primo luogo

Eschilo, “Le supplici”


AstiTeatro Festival: Luciano Nattino


Canto per Vanzetti è, per frammenti, la storia dell’anarchico italiano Bartolomeo Vanzetti, nato nel 1888 a Villafalletto, nel Cuneese, e della tragica avventura che lo ha visto protagonista, insieme all’amico Nicola Sacco, negli anni ‘20 in America, di uno dei casi giudiziari più controversi di tutto il Novecento.
Bartolomeo e Nicola, infatti, per le loro idee anarchiche e per la loro condizione di immigrati (italiani, per giunta; e gli italiani in America erano visti allora come certuni guardano agli extracomunitari oggi in Italia), subirono un ignominioso processo che li consegnò, dopo sette anni di ricorsi e rinvii, alla sedia elettrica nel 1927.
Negli anni ’60 e ‘70 il caso Sacco e Vanzetti veniva indicato come un caso irrisolto della giustizia e della democrazia mondiale. Joan Baez lo cantava nei raduni sterminati. Migliaia di giovani ne conoscevano, a grandi linee, risvolti ed esiti. Oggi invece le più giovani generazioni non conoscono quel caso o lo ricordano al massimo come titolo di un film. Bene, quindi, ha fatto Luciano Nattino a comporre questo "Canto per Vanzetti" avvalendosi di documenti e lettere tratti dal Fondo Vanzetti – Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea di Cuneo.
Nel suo lavoro è assistito da Andrea Borini e s’avvale della collaborazione per la scenografia di Francesco Fassone, e per le luci di Marco Burgher.
Conosco, e stimo, da anni Luciano Nattino. Fin dall’epoca in cui agiva con il “Mago Povero” ad Asti, perché proprio da qui iniziò la carriera registica che ha meritatamente portato il suo nome a livello nazionale. Nel 1994 ha fondato la Casa degli Alfieri, centro studi e ricerca teatrale che produce questo spettacolo (con il Teatro degli Acerbi e AstiTeatro 27) qui in prima nazionale.
Per la bioteatrografia di Luciano, cliccate QUI.
Gli ho chiesto di parlarmi di questa sua messa in scena e così mi ha risposto.
Da anni volevo lavorare intorno alla figura di Bartolomeo Vanzetti e, più in generale, attorno al caso Sacco-Vanzetti, per uno spettacolo teatrale che cercasse nuovi punti di vista, andasse oltre ai fatti noti e già “visitati” in letteratura, cinema, teatro, musica.
Per cui ho indagato a fondo sulle lettere di “Tumlin” ai famigliari, agli amici, a Mary Donovan, sui suoi scritti, su articoli e atti di convegni. Il Fondo Vanzetti, presso l’Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea di Cuneo, mi è stato molto utile per le ricerche. Da queste carte la storia di Bartolomeo Vanzetti si presentava via via sempre più attuale ed emblematica.
In essa, infatti, c’è innanzitutto la vicenda di un giovane che, dopo anni di precarie condizioni di salute e di lavoro, s’imbarca per l’America (come tanti in quegli anni) in cerca di una nuova vita, di una nuova società. Al tema dell’emigrazione si affianca poi quello dell’emarginazione e della discriminazione. In quegli anni agli italiani era “vietato giocare nei cortili”; il lavoro per essi era quello più avvilente e sottopagato; le “little Italy” delle principali città erano mal servite dai mezzi pubblici, prive di fognature, di acqua, eccetera.
In più la comunità anarchica vedeva gli italiani in prima fila e questo contribuiva ulteriormente a peggiorare il già pesante pregiudizio. Pregiudizio peraltro in parte comprensibile visto l’affermarsi, negli anni 20, della mafia italiana nelle principali città e lo scoppio di bombe, a firma di anarchici italiani, che facevano saltare banche, case e caserme con decine di morti e feriti.
Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco, pur attivisti anarchici, non si macchiano di alcun delitto e, tuttavia, diventano, loro malgrado, protagonisti di uno dei casi più controversi di tutto il Novecento. Accusati infatti ingiustamente di omicidio e rapina, finiranno sulla sedia elettrica, nonostante un grande movimento internazionale che ne chiede la liberazione.
Al processo, tuttavia, e al tema “giustizia” il nostro lavoro dedicherà pochi riferimenti.
La materia è già stata trattata ampiamente. Ho preferito riferirmi al lato domestico dell’anarchico di Villafalletto, terrigno e volante, indagando la sua adolescenza, la maturità, le relazioni, le amicizie, i rapporti con la sorella Luigia, con il padre, con gli ambienti in lotta per la sua difesa, con la giornalista Mary Donovan.
Ho voluto sondare quel misto di ingenuità e di decisione, di idealismo e di generosità, di concretezza e di spiritualità, che traspaiono da tutta la vita e l’esperienza di Bartolomeo, prima e dopo la sua partenza per l’America.
Nello spettacolo prendono vita le immagini di Bartolomeo giovane, il suo amore per la natura, per gli umili, per la cara mamma (che morirà giovane), le difficoltà nella ricerca di un lavoro stabile, le passeggiate lungo il Maira, le rare amicizie
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Parole di teatro


Principessa – Sento che tutto diventa più torbido, più torbido. Questa volta l’autunno è triste oltre ogni limite.

Franz Kafka, “Guardiano alla tomba”, Atto Unico


AstiTeatro Festival: Elisabetta Pozzi


Elisabetta Pozzi, una delle attrici più interessanti e versatili della giovane generazione, presenta ad Asti, da interprete e regista, Il funambolo e la luna di Ghiannis Ritsos (Monemvasìa, Peloponneso, 1909 - Atene 1990), una delle voci poetiche forti della Grecia contemporanea.
Dopo aver portato in teatro “Elena e Fedra”, monologhi lirici ispirati alle arcane figure del mito secondo Ritzos, la Pozzi approfondisce la sua esplorazione del mondo del grande poeta con l’interpretazione di questo poemetto in nove parti ricco di spunti drammatici.
Come una moderna Sibilla, l’attrice ci guida tra i segreti di un circo, che pianta il suo immaginario tendone in una città portuale intrisa di umori greci. Ai clowns, ai giocolieri, ai cantastorie, ma soprattutto all'aereo e superbo funambolo sospeso su una corda di luce che si protende alla luna, Ritzos affida il ruolo di alfiere e metafora della realtà.
Dai dialoghi tra la voce-guida della Sibilla e il piccolo popolo del circo, emergono le verità e le passioni di Ritzos: incarnata nei passi spericolati dell'acrobata il volo vertiginoso della poesia e dell'arte, il tumulto della Storia, le lotte e le sconfitte.


Parole di teatro


Polonio – Che cosa leggete o mio signore?
Amleto – Parole, parole, parole…

William Shakespeare, “Amleto”, Atto II


AstiTeatro Festival: Vincenzo Cerami e Nicola Piovani


Vincenzo Cerami e Nicola Piovani sono protagonisti di due eventi ad Asti. Due spettacoli in cui parola e musica s’integrano svolgendo piani sonori in cui la parola rimanda alla musica e questa a quella.
In Lettere al metronomo Vincenzo Cerami presenta una nuova versione di un epistolario in versi concepito per lo spazio teatrale.
Accanto a lui Aisha Cerami, voce cantante.
“Lettere al metronomo”, con musiche di Piovani, è andato in scena con grande successo, per cinque serate, al Festivaletteratura di Mantova che l’ha prodotto.
Lo spettacolo viene ora proposto in una nuova edizione.
Disegno scenico di Tanino Liberatore; alle tastiere Aidan Zammit.

L’altro spettacolo, Concerto Fotogramma, con Norma Martelli, vede Piovani al pianoforte accompagnato dai solisti dell’Orchestra Aracoeli con la musica alternata a testi inediti, in prosa e in versi, di Cerami.
Disegni di Emanuele Luzzati e Milo Manara.
“Concerto Fotogramma” è uno spettacolo teatrale che ha per argomento la musica e il cinema. La colonna sonora è inquadrata in primo piano, la pellicola la accompagna diventando colonna visiva, commento fotografico. Le immagini sono ferme, sospese nell'immobilità del fotogramma.
Nicola Piovani ha riscritto le sue partiture originali; le ha rielaborate per suonarle al pianoforte, arricchite di canzoni, duetti, concertati. Da un repertorio di quasi centocinquanta film ha estratto un riepilogo del tutto provvisorio e inevitabilmente lacunoso. Un'autobiografia musicale da cui non potevano essere escluse le composizioni nate per il teatro, comunque legate a un'immagine, un disegno, un bozzetto scenografico.
Dice Vincenzo Cerami: Questa nuova edizione di Concerto fotogramma mette in mostra l’aspetto più segreto e peculiare di Nicola Piovani, che io conosco bene avendo a lungo lavorato con lui. Si tratta infatti del suo modo di trattare la materia musicale destinata al palcoscenico.
È una musica, quella di Nicola Piovani, che trova tutta la sua autonomia nel mettersi al servizio di un racconto, per esprimere quanto non si vede in superficie o quanto i personaggi nascondono e si nascondono. Un compositore che, in virtù soprattutto della sua esperienza cinematografica, ha passato gran parte della vita a confrontarsi con temi e sonorità contemporanee, non può non proporsi come cantastorie, come testimone del passaggio da un mondo musicale diviso per caste e gerarchie al mare magnum delle trasversalità stilistiche di questi ultimi anni. Piovani attraversa verticalmente, dall'alto al basso, suoni e generi che appartengono alla nostra cultura, comprese le memorie bandistiche, i canti popolari dimenticati, con irruzioni nel varietà e citazioni di canzonette o di improvvisi schubertiani. È una musica che non rifiuta nulla, che spariglia il cosiddetto sacro e il cosiddetto profano, la tragedia con lo sberleffo, il melodramma col jazz-rock, la severità con il gioco, nella tradizione di Gershwin, di Bernstein, di Rota... È questa utilizzazione ampia e spregiudicata dei lessici musicali che offre a Piovani la possibilità di spaziare con naturalezza dallo Stabat Mater La pietà alle canzoni scritte per Fabrizio De André, dal trio per violino, violoncello e pianoforte Il demone meschino (dedicato alla memoria di Fedele D'Amico) alla marcetta bandistica che accompagna l'ingresso in scena di Roberto Benigni nei suoi spettacoli
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Festival AstiTeatro: eventi nell'evento


Avviandomi alla conclusione di questo Special dedicato ad Asti Teatro, voglio precisare che non mi sono occupato di tutto il programma, ma solo delle cose che più m’interessavano.
Prima di andarmene al bar, voglio però ricordare ancora qualcosa finora non detta.

Non è stato trascurato da Salvatore Leto il teatro per ragazzi, infatti, durante tutto il periodo del Festival, ogni giorno agirà Merenda a Teatro con spettacoli di burattini, racconti di fiabe, giocolerie. Lo svolgimento di questo particolare cartellone è ideato e realizzato da Progetto Teatro Ragazzi e Giovani Piemonte.

Warner Bentivegna racconterà in un suo recital baudeleriano Lo spleen di Parigi

Infine, sarà aperta la Fondazione Eugenio Guglielminetti con due mostre: una dedicata alle immagini fotografiche di Nadar e l’altra agli scenografi francesi di fine ‘800.


Parole di teatro


Zia Lena – Cia!... Cia!... Cia!

Luigi Pirandello, “Come tu mi vuoi”, Atto III


AstiTeatro: Valerio Miroglio


Concludo questo Special con un nome che non è in cartellone: Valerio Miroglio.
Pittore, scenografo, autore di testi teatrali e radiofonici.
Non c’è perché ci ha lasciati nel 1991.
E’ un assente giustificato, è un’assenza ingiustificabile.
Nato a Varese, è però sempre vissuto ad Asti e molto deve la città a lui, alle sue realizzazioni artistiche, al suo impegno politico, ai tanti stimoli culturali che ha prodotto.
Tanti rappresentanti europei delle avanguardie letterarie, musicali, delle arti visive sono arrivati ad Asti per conoscere lui. Discepolo dell’effimero e maestro di dispersione, Valerio mai ha curato la promozione di se stesso. Ne sono testimone. Dovetti trascinarlo a Roma negli studi della Rai per fargli realizzare una suo adattamento per la radio di “Concerto per Piano Regolatore” - già un tempo realizzata in teatro dal “Mago Povero” di Luciano Nattino -, né mi costò poca fatica portarlo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna dove s’esibì in una performance che divertì e strabiliò: “Il criticometro”.
Quanti discorsi insieme abbiamo fatto, e quante bevute!
Valerio mai volle lasciare Asti (ma Asti qualche volta lasciò lui), percorrendo in solitudine un’avventura espressiva meditata e gioiosa, ragionata ed emozionata, attraversando stili e tecniche che lo portarono a riscoprire e rivisitare anche antiche forme visive, come ad esempio l’arazzo, passione che condivideva con Mirò; chissà, forse quelle quattro lettere comuni ai loro nomi contengono qualche epifania.
Valerio ci manca molto, a me e a tanti altri.
E’ ora di chiudere questo Special, e me ne vado al bar. Senza Valerio. E mi dispiace. Molto.


Parole di teatro


Manfurio - … e megliormente voi, che dei nostri casi fastidiosi ed importuni siete stati gioiosi spectatori. Valete et Plaudite.

Giordano Bruno, “Candelaio”, Atto V


Future Film Kids


Il Future Film Festival è una di quelle manifestazioni che non vive soltanto durante il periodo della rassegna, ma durante tutto l’anno svolge un’attività di promozione della cultura cinematografica con proiezioni, seminari, concorsi. Si pone così come una risorsa espressiva essenziale per Bologna dove agisce, ma anche come stimolo per altre parti d’Italia non di rado coinvolte in iniziative tese ad approfondire i temi estetici e tecnici del cinema.
Il tutto è sostenuto dalla puntualissima promozione di Simone Spallanzani
Di quanto dico n’è testimonianza un recente premio per i corti d’animazione realizzati dalle classi che hanno aderito ai laboratori didattici, promossi dall’Associazione “Amici del Future Film Festival”, per imparare a creare piccoli cartoni animati. I corsi si sono svolti tra ottobre e dicembre a Bologna e tra febbraio e maggio 2005 a Carpi (in collaborazione con la Videoteca Comunale di Carpi e con il sostegno all’Assessorato alle Politiche Culturali di Carpi).
Grazie al contributo di Conad, che quest’anno ha sostenuto le iniziative Future Film Kids, è stato possibile organizzare un concorso per tutte le classi che hanno partecipato al progetto. Alla conclusione dell’anno scolastico, infatti, i corti realizzati dai partecipanti ai laboratori Future Film Kids sono stati sottoposti al giudizio di una giuria composta da: Mario Lodi, scrittore e pedagogo; Davide Ragona, animatore e regista; Antonia Mascioli, responsabile della Videoteca del Comune di Carpi; Tiziana Nanni, responsabile della Biblioteca Sala Borsa Ragazzi di Bologna; Gianluigi Covili, dirigente Nordiconad.
A Giulietta Fara che dirige il Future Film Festival, ho chiesto quali impressioni ha ricavato dai lavori visti.
È straordinario scoprire l’incredibile serbatoio di creatività dei più piccoli. Ogni anno, quando visioniamo i risultati dei laboratori didattici Future Film Kids, rimaniamo stupiti dall’originalità delle storie create dai bambini, in controtendenza rispetto a quello che spesso ci viene raccontato sulle nuove generazioni.
Durante l’incontro a Carpi abbiamo visionato i corti animati; le classi erano entusiaste di vedere per la prima volta il risultato del proprio lavoro. Per premiare la creatività di questi piccoli autori abbiamo pensato di scegliere i tre corti che meglio interpretano lo spirito di Future Film Kids, tra quelli prodotti a Bologna e Carpi. Le 3 classi vincitrici del concorso sono state: la Quinta A della Scuola Fortuzzi di Bologna, la Quinta A della Scuola Martiri della Libertà di Carpi e la Quinta B della Scuola Sandro Pertini di Carpi. A loro andranno TV con DVD
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Terra post-atomica


In occasione dell'inaugurazione dell'Alma Graduate School, la Galleria d'Arte Moderna presenta la mostra "Fuori di Terra" di Marco Di Giovanni.
Alma è la Graduate School of Information Technology, Management and Communication dell‘Università di Bologna, costituita come consorzio tra Università di Bologna, Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna e Fondazione Guglielmo Marconi. Dalla forte vocazione interdisciplinare di Alma nasce la collaborazione con la Galleria d'Arte Moderna e la volontà di ospitare nella cinquecentesca Villa Guastavillani il lavoro di Marco Di Giovanni.
La mostra si compone di cinque grandi installazioni in ferro appositamente realizzate per l’evento: una grande cisterna di quattro metri di altezza e un tubo che corre lungo il terreno creano, già all'ingresso della villa, un forte impatto visivo. Nella parte retrostante del parco, due silos di grandi dimensioni accostati fra loro possono essere percorsi dall’interno, mentre una cisterna emergente dal terreno invita il visitatore all’osservazione di una lente posta al suo centro.
Il lavoro di Marco Di Giovanni – nato a Teramo nel 1976 – è caratterizzato dall’utilizzo di tubature e di cisterne ferrose di varia scala; l’artista le recupera e le assembla costruendo organismi che si integrano con l’ambiente in cui sono ospitati. Esterno ed interno delle strutture sono complementari, sulle superfici Di Giovanni innesta degli oculari di varie misure, costruiti con gruppi ottici di lenti che distorcono la visione dell’interno e proiettano lo sguardo in una dimensione fantastica.
Il labirinto di condotti rimanda all’archeologia industriale, ad un immaginario post-atomico; il tunnel contiene in sé l’idea di passaggio, di presenza effimera: le installazioni dell’artista si offrono così ad una conoscenza solo parziale, mai assoluta o definitiva.

Marco Di Giovanni, "Fuori di Terra"
Alma Graduate School, Villa Guastavillani - Via degli Scalini 18 Bologna
Fino al 26 settembre 2005


I Sogni Della Casa


Do per certa una sola cosa: Giuliano Della Casa ha a che fare con la gioia, e la gioia non è affare tanto facile da trattare per un critico. Così ha scritto Elena Volpato.
Conservo sui miei scaffali un anomalo volume di forma sospesa tra il catalogo e il libro: “Le meraviglie dello spirito del senatore No”; sottotitolo: ‘Racconti straordinari’, testo di Paolo Badini, disegni di Giuliano Della Casa, una pubblicazione di oltre vent’anni fa.
Non è un libro di racconti illustrato, ma un lavoro a quattro mani in cui le parole e le immagini sembrano più giocosamente inseguirsi che giudiziosamente accoppiarsi.
Fu un dono che ebbi da Corrado Costa o da Adriano Spatola, non ricordo bene.
La bibliografia di Giuliano Della Casa, però, non sta solo in quel titolo, per saperne di più cliccate QUI.
Mi piacque allora quel segno marcato e lieve, colorato e sognante di Giuliano che conoscerò di persona soltanto molti anni dopo, e col quale ho trascorso ore in allegria davanti a ottime tavole imbandite a Modena dove lui abita.
In quelle occasioni abbiamo parlato pochissimo di arte e dei nostri rispettivi lavori, e molto di cucina e vino.
Ora mi ha raggiunto un cartiglio – anch’esso di forma anomala: molto più d’una cartolina e molto meno di un depliant – che annuncia una nuova mostra di Giuliano Della Casa; ne darò luoghi e date in chiusura di questa nota.
Adesso voglio ricordare quanto su di lui ha detto nel 1992 Ernst Hans Gombrich, uno dei massimi studiosi e divulgatori di arte del secolo scorso, scomparso nel novembre 2001: Ho incontrato per la prima volta l’arte deliziosa di Giuliano Della Casa in una mostra di ceramica a Faenza (…) chiunque ha avuto il privilegio di guardarlo mentre sta dipingendo capirà: quando le tracce del suo pennello danzante congiurano sia figurazioni astratte, sia visioni fuggitive di fiori o di farfalle, scoprono davvero l’eccellenza dell’artefice.


Giuliano Della Casa
Galleria Ossimoro
Via S. Giovanni 63, Spilamberto (Modena)
Fino al 9 luglio, ore: 10 -13 / 16 – 20
Per informazioni: 059 – 78 35 19


Quattro SI' contro gli infiniti no


Questa è una nota atipica di Cosmotaxi. Soprattutto per la sua lunghezza.
Credetemi, però, leggerla ne vale la pena.
Tranquillizzatevi, in pratica non l’ho scritta io, quindi, don’t panic please!
Ho raccolto i materiali che mi sono sembrati i più utili ad illustrare il problema.
Troverete, infatti, dichiarazioni ma anche documentazioni scientifiche, frizzanti tesi politiche e riflessioni umoristiche.
Comincio con alcune dichiarazioni raccolte dal Comitato per il SI’, seguite da un intervento di Maria Turchetto, da un articolata spiegazione di Chiara e concludo il tutto con un video di Stefano Disegni.
Se questa nota vi piacerà, fatela circolare.

Umberto Veronesi:
«La legge tutela più le cellule che le donne»


Vasco Rossi:
«Votate Sì, per la vita che c'è»


Fabio Fazio:
«Non è solo una cattiva legge, ma una legge cattiva e crudele»


Lella Costa:
«Referendum: uomini, svegliatevi»


Miriam Mafai
«Sono con voi, per dire sì a un'Italia laica, civile e tollerante»


Sabrina Ferilli
«Devono smetterla di perseguitare le donne»


Andrea De Carlo
«Andrò a votare e saranno 4 sì, per la ricerca e la salute delle donne»


Giulio Giorello
«La legge sulla fecondazione è anticristiana»


Paolo Hendel
«Ma quale fecondazione. L'Italia è concentrata sul lifting»


Renato Dulbecco
«Proibire la ricerca sulle staminali embrionali è un insulto alla medicina»


Margherita Hack
«Uniti a favore del sì, contro una legge iniqua e medievale»


Monica Bellucci
«La legge 40 offende le donne. Che ne sanno politici e preti delle mie ovaie?»

I nemici di questo referendum, soprattutto quelli che s’astengono, mirano non solo a conservare la legge iniqua che speriamo sia cancellata, ma nascondono un altro, per loro, più ambizioso obiettivo: rivedere la legge sull’aborto.
Maria Turchetto, con il suo stile irriverente e gioioso, con parole sagge e divertenti, dà un esauriente ritratto di quel disegno.
Per le parole trascinanti di MT, cliccate QUI


So soltanto che si chiama Chiara.
E’ una laureanda che ha scritto la sua tesi di laurea sulla fecondazione assistita.
Gira in Rete una sua chiara… manco a dirlo… esposizione del perché è necessario votare e votare SI’.
Prima di cedere la parola a Chiara, ancora una cosa.
Coloro che scrivono un giorno sì e l’altro pure contro gli estremisti sanguinari del fondamentalismo ebraico e musulmano, sappiano che quei signori se posti di fronte al nostro referendum s’asterrebbero dal votare per farlo fallire, oppure voterebbero no.


Chiara:

I quattro referendum chiedono di abrogare alcune norme contenute nella Legge 40/2004, e precisamente:

1 - IL DIVIETO DI FECONDAZIONE ETEROLOGA

La fecondazione eterologa è la tecnica che consente alle coppie in cui l'uomo è completamente sterile di concepire un figlio grazie al seme di un donatore anonimo; è una tecnica che si pratica decenni in tutto il mondo, e oggi l'Italia è l'unico paese che la vieta. Questo perché il legislatore ha deciso di tutelare il modello tradizionale di famiglia, basato sui legami di sangue; ma, a parte il fatto che questo è un concetto non più rispondente alla nostra realtà sociale, le conseguenze di questo divieto si stanno rivelando molto pericolose; le coppie italiane non hanno mai smesso di praticarla: i più ricchi possono andare in Spagna, Francia, Inghilterra ecc.; ma tutti gli altri si stanno dirigendo verso paesi come la Bulgaria o l'Ucraina, più economici ma con standard di sicurezza igienica e sanitaria molto bassi. E cosa ancor più grave, si è sviluppato ormai grazie a internet un fortissimo mercato nero: vere e proprie banche clandestine in cui abbondano le offerte di seme a pagamento; gli affari vanno alla grande, ma non c'è alcuna garanzia sulla provenienza di questo seme e soprattutto sulla salute dei donatori, che potrebbero anche essere sieropositivi o affetti da malattie veneree. Se passerà il referendum si potrà
ricominciare a praticare l'eterologa nei centri autorizzati, dove sarà al sicuro la salute delle donne e dei loro bambini

2 - IL DIVIETO DI RICERCA SUGLI EMBRIONI


Ciò che non viene detto è che nessuno pensa di fare strani esperimenti su dei futuri bambini! Esistono in Italia migliaia di embrioni non più impiantabili, perché vecchi o malati, che non potranno mai svilupparsi e che quindi potrebbero essere destinati alla ricerca; ricordate che quando si parla di embrioni a questo stadio ci si riferisce a poche decine di cellule in una provetta. La legge 40 dice che questi embrioni devono essere lasciati in provetta "fino alla loro naturale estinzione", perché questo significherebbe rispettare la loro dignità; in realtà è molto più rispettoso della vita umana sostenere la ricerca sulle cellule staminali, che costituiscono l'unica via per curare in futuro i tumori, il Parkinson, il diabete ecc., piuttosto che lasciar morire in una provetta le sole speranze di essa. Ricordate che: si tratta di embrioni che comunque non possono svilupparsi, e che così invece sarebbero utili e importantissimi per il nostro futuro; ormai tutti gli scienziati italiani, che in questo campo sono tra i migliori al mondo, lavorano all'estero - e noi compriamo a caro prezzo da quei paesi i ritrovati brevettati molto spesso proprio da italiani!; e infine, se da una persona adulta in punto di morte possono essere espiantati gli organi per salvare altre vite umane, per quale motivo delle cellule in una provetta destinate a morire non possono essere usate allo stesso scopo?


3 - L'ARTICOLO 1 DELLA LEGGE


In esso si stabilisce che la procreazione assistita si può praticare solo per curare la sterilità, e solo se non esistono terapie alternative. Questo significa innanzitutto che le coppie non sterili ma affette da malattie genetiche non possono usare queste tecniche, come in passato, per concepire un bambino senza trasmettergli la loro malattia; significa inoltre che non si può richiedere direttamente la tecnica che si sa essere più idonea per il proprio caso, ma si deve passare prima obbligatoriamente per altre cure più "blande", come i bombardamenti ormonali (che blandi non lo sono per niente). Quindi si sottopone la coppia e terapie non solo molto pericolose per la salute, ma anche inutili, perché stiamo parlando di persone di cui è stata già accertata la sterilità, e che fanno perdere del tempo prezioso.


4 - IL DIVIETO DI FORMARE PIÙ DI TRE EMBRIONI PER OGNI TENTATIVO DI IMPIANTO, L'OBBLIGO DI IMPIANTARE CONTEMPORANEAMENTE TUTTI GLI EMBRIONI FORMATI, E IL DIVIETO DI CONSERVAZIONE DEGLI EMBRIONI.

Questa è una delle norme francamente più assurde della legge.
Il legislatore ha deciso che gli embrioni non si possono più conservare in laboratorio, perché questo non è rispettoso della dignità di un organismo che la legge considera come una persona a tutti gli effetti; e quindi bisogna fare in modo che non si producano più embrioni di quanto necessario. Ecco la soluzione: per ogni tentativo di impianto si possono produrre al massimo tre embrioni, che devono essere tutti trasferiti in utero; se i tre embrioni non fossero sufficienti, i tentativi si potranno ripetere senza limiti. Innanzitutto, non si possono stabilire per legge dei numeri, perché ogni donna è diversa dall'altra e solo il medico può dire quanti embrioni sono necessari per avere delle speranze di successo; tre embrioni poi sono quasi sempre troppo pochi, perché stiamo parlando di una donna sterile o infertile: quindi si dovrà ripetere tutto il procedimento da capo, di tre in tre fin quando non si riesce, e ogni tentativo di impianto implica una serie di interventi fortemente invasivi e pericolosi per il corpo della donna (senza pensare al trauma psicologico di dover affrontare una serie di fallimenti). Esiste anche la possibilità inversa, che tutti gli embrioni attecchiscano: a quel punto dovranno essere comunque trasferiti in utero, e quindi la coppia potrebbe ritrovarsi con una gravidanza bi o trigemellare e con il doloroso dilemma se abortire o meno.


Concludo con un intervento a tema di Stefano Disegni in un videoclip ospitato sul sito ‘Il Cannocchiale’.
Disegni – un destino con imperativo nel nome – è uno delle nostre migliori matite che da anni mette la sua verve creativa al servizio di cause civili sfiorando quelle penali a suo carico che - diciamolo! - fa di tutto per meritarsele.
Tutto bene, dunque, per costui? Ehm… sì… no… certo… insomma... meglio dirvelo, un difetto ce l’ha: tifa Lazio. Ma, si sa, nessuno è perfetto.
Per vedere il video, cliccate QUI.


Napolifilmfestival


Cosmotaxi Special sul Festival
Napoli, 5 – 16 Giugno


Napolifilmfestival: presentazione


Questo Festival è giunto alla sua settima edizione.
La prima si svolse a Napoli nel 1997 e fu centrata su un incontro fra tra il giovane cinema europeo e la cultura indipendente americana.
Fu un piccolo, coraggioso inizio. Da allora il Festival ha fatto carriera.
Oggi, organizzato dall'Associazione NapoliCinema in collaborazione con il Warner Village Metropolitan e la Fondazione Laboratorio Mediterraneo s’avvale, infatti, dell’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica, il supporto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione Generale per il Cinema, della Regione Campania, della Provincia, del Comune, e della Camera di Commercio di Napoli.
Gli sponsors: Lottomatica, Grimaldi Ferries Prestigi, Eurofly, Il Denaro;
in collaborazione con: Università degli Studi Napoli Federico II, Alitalia, Corriere della Sera, Corriere del Mezzogiorno, City, Ateneapoli, Radio Capri.

La direzione è di Davide Azzolini e Mario Violini.

Si avranno tre sezioni competitive con l’assegnazione del Vesuvio Award, una scultura in bronzo dell¹artista Lello Esposito:

1) Lungometraggi Euro Mediterranei: dieci titoli;

2) Making Off: 20 Backstage sui set di film internazionali;

3) Schermo Napoli: film, corti e altri audiovisivivi realizzati a Napoli o da napoletani.

Tra le sezioni collaterali di quest’anno: una personale completa del regista greco Theo Anghelopulos che sarà accompagnata da un convegno ed una pubblicazione dedicati alla sua poetica.
Il percorso filmico di Giuseppe Tornatore.
Una finestra sull’Oriente che si apre su Zhang Yimou.
Incontri con attrici di Hollywood: Cate Blanchett, Marisa Tomei, Sigourney Weaver.
L’ufficio stampa è guidato da Lorena Borghi dell’ottimo Studio Sottocorno di Milano (02 – 20 40 21 42) e Patrizia Wachter ed un’estensione a Napoli affidata a Francesco Tedesco che risponde alla mail: press2005@napolifilmfestival.com

Per leggere il programma, cliccare sul sito Napolifilmfestival

Che fatica!... Mo’ me lo sono meritato un bicchiere, o no?


Napoli e parole


C’è della Palestina a Napoli.

Pier Paolo Pasolini


Napolifilmfestival: 2 direttori 2


Davide Azzolini e Mario Violini, sono i direttori del Festival.
Hanno svolto un eccellente lavoro sia sul piano della programmazione sia su quello dell’organizzazione.
Qui tutto sta funzionando con perfezione: accoglienza, informazioni, tempi delle conferenze stampa e delle proiezioni.
Ai due è stato chiesto d’illustrare in sintesi il profilo di questa loro creatura di celluloide. Così hanno risposto: Giunto alla sua settima edizione, il Napolifilmfestival abbraccia stimoli nuovi, sfide inedite e idee fresche, pur confermando la centralità di Napoli sul nuovissimo scenario sociale e culturale che si presenta da un po’ sotto i nostri occhi: il confronto aperto tra le diverse culture che si affacciano sul Mediterraneo. Molto spazio sarà dedicato anche all’America e ai suoi rapporti con l’Europa, attraverso la presenza delle dive ospiti e grazie a Criterion Collection, che, oltre oceano, restaura i capolavori del nostro cinema. Abbiamo la presunzione di aver regalato alla città una grande edizione, con il giusto equilibrio nell’offerta, fra autori, glamour e sperimentazione. Un Festival che si apre alla città ancor più che in passato, inserendo in giuria i rappresentanti del mondo universitario, studenti e docenti.


Napoli e parole


- La migliore sedia al marchesino?... la migliore non c’è.

Totò


Napolifilmfestival: le località


Giro per Festival da una vita. E una cosa che guardo sempre con attenzione è in quali posti della località ospitante si svolge la rassegna. E’ una mia fissazione, credo che nell’organizzare un festival fanno bene quelli che da questo partono o a questo molto badano.
Il Napolifilmfestival articola incontri e proiezioni in tre posti concettualmente assai interessanti: uno dei più vecchi cinema della città: lo storico Filangieri; il più moderno: il Warner Village Metropolitan; uno dei centri culturali da sempre fra i più vivi della città: l’Istituto Francese di Napoli ‘Grenoble’.
Non so se è stato fatto apposta o è capitato per motivi dovuti ad esigenze organizzative.
Sia come sia, i luoghi non potevano essere migliori, una triangolazione assolutamente perfetta. Volontà o caso, benvengano l’una o l’altro.


Napoli e parole


Nun voglio cchiù nutizie
d'amice e de pariente...
Nun voglio sapé niente
'e chello ca se fa!...

Da “’A canzona ‘e Papule”, di Bovio – De Curtis


Napolifilmfestival: Il ciak e la dea Partenope


"La più grande invenzione del secolo” – scrive Mario Franco in un suo saggio – “giunge a Napoli il 4 aprile del 1896 al Salone Margherita. E ben presto la città impazzisce per il cinematografo […] nel giro di pochi anni Napoli si riempie di sale cinematografiche. La Sala Iride, l'Arenile Olimpia, il Cinema Moderno, il Salon Parisienne, il Vittoria, l'Alberini, l'Umberto, il Krumas, l'Internazionale, la Sala Roma, il Trianon, il Santa Brigida… E questa febbre di cinema non si limita a moltiplicare le sale di spettacolo; nascono anche i primi produttori di film, come Roberto Troncone, che inizia con documentari per passare poi al lungometraggio verista ed è anche il primo a costituire un teatro di posa per realizzare i suoi film”.
Come si può notare, Napoli è stata tra le prime città italiane ad accogliere la settima arte e, come si racconta nella mia famiglia, in quel campo trovò lavoro, facendo spesso la comparsa, anche un mio zio paterno morto ben prima che io nascessi; meno fortunato di me, mai beneficiò dell’Enpals, allora inesistente, di cui, invece, godrò io con minori meriti storici: la vita – si sa – è ingiusta assai.
E oggi, Napoli vanta una generazione di registi – da Martone a Capuano, da Corsicato alla De Lillo, ad altri ancora - di prima fila nello scenario cinematografico italiano.
Non meraviglia, quindi, che quest’importante rassegna di cinema da ben sei anni si tenga proprio a Napoli e sia approdata felicemente alla sua settima edizione.
Semmai meraviglia, e va dato merito a chi dirige il festival, che il festival sia riuscito a sopravvivere in questi oscuri tempi berlusconiani in cui i Beni Culturali sono affidati a Buttiglione, la scuola alla sciura Moratti, l’addetto alla cultura del partito di maggioranza si chiama Dell’Utri, e la prima rete tv della Rai ha per consulente culturale Gigi Marzullo.


Napoli e parole


Napoli, cominciò a decadere col Regno d'Italia. Non ha finito ancora di ruzzolare.

Giancarlo Fusco


Napolifilmfestival: Luciano Emmer


Nel programma del Festival, figura la sezione “Evento Speciale Schermo Napoli” - realizzata in collaborazione con la Campania Film Commission guidata dal produttore Rino Piccolo - dedicata ad una retrospettiva di documentari girati a Napoli da Luciano Emmer. E, precisamente, “Il miracolo di S. Gennaro” (1947); “Fuori il Grano per la Banca dell’Agricoltura” (1975); “I magici colori di Napoli” (2004).
Emmer, nato a Milano nel 1918, è uno fra i nomi storici del nostro cinema che lo vede al lavoro fin da quando nel 1942 debuttò, a 24 anni, prima come sceneggiatore con “Il cantico delle creature” e poi da regista con “Racconto da un affresco”.
Seguirono tantissime produzioni; famose restano: “Le ragazze di Piazza di Spagna” del 1952 e “Terza liceo”, dell’anno successivo. A me piace ricordare anche un suo film meno citato ma che, invece, m’appare come uno dei suoi migliori: il polemico ”La ragazza in vetrina” girato nel 1960 che gli costò parecchie inimicizie della produzione e della critica italiane.
Intensa anche la sua attività di regista pubblicitario (è stato un protagonista del mitico ‘Carosello’) e televisivo. Ecco qualche titolo tv: “Geminus”, con Walter Chiari e Alida Chelli, un curioso mix di giallo e commedia, come più tardi sarà pure “K2+1” con Jhonny Dorelli; “Aimes-Vouz l’Italie”; “Io e…”, e altri successi.
Ho avvicinato Luciano Emmer e gli ho chiesto parecchie cose: il suo rapporto con Napoli, che cosa pensa del cinema e degli attori italiani di oggi, qual è il suo giudizio sull’attuale momento della produzione culturale, come guarda alle nuove tecnologie.
Uomo riservato, elegante, di poche parole espresse con puntualità e cortesia, ha risposto a tutto quanto gli chiedevo. Ecco, in sintesi, le sue risposte.
Francamente vorrei astenermi dal dire cose su Napoli, è una città meravigliosa, ma voglio stare lontano dal colore e dalla banalità che spesso il colore comporta. Circa il mio rapporto con Napoli e i suoi protagonisti, voglio ricordare solo che oltre ai titoli da te citati prima, io ho girato nove Caroselli con Totò. Di questi, otto non esistono più. E, ancora su Napoli, sono interessato ad una proposta che mi ha fatto il produttore Rino Piccolo presidente della Campania Film Commission, mi piacerebbe realizzarla, ma le difficoltà sono parecchie, ovviamente, per prime quelle finanziarie. E questo mi porta a rispondere ad un’altra tua domanda circa l’attuale momento della produzione culturale: pessimo momento, poiché quando, come ora, si è in tempi di crisi, i primi tagli vengono fatti sui soldi destinati alla cultura.
Cinema e attori. Sai, non è solo questione della bravura del regista o degli attori, esiste un problema che precede la domanda: il cinema europeo, e specie il cinema italiano, non esiste più sul mercato internazionale che è soffocato dalla distribuzione americana. Puoi essere bravo quanto vuoi, ma il pubblico degli altri paesi assai difficilmente, verrà a sapere di te. E questo non è privo di conseguenze su produzioni e carriere artistiche.
Per ultimo, mi pare, che mi chiedevi su come la penso sulle nuove tecnologie. Te la dico in breve: pellicola o video per me è lo stesso, non sono quei supporti e le loro strumentazioni tecniche a condizionare le storie, semmai è il contrario
.


Napoli e parole


A Napoli il colera passa, i Gava restano.

Enzo Biagi


Napolifilmfestival: Peppino De Filippo


La sezione “Volti del cinema italiano”, quest’anno è dedicata a Peppino de Filippo che morì 25 anni fa a Roma nel 1980, all’età di 77 anni.
L’ampia retrospettiva prevede ben 21 pellicole da “Il cappello a tre punte” di Mario Camerini del 1934 fino a “Giallo napoletano” di Sergio Corbucci, 1979.
Non mancano, ovviamente, alcuni dei famosi film con Totò, per la cronaca: ne girò 16.
Per la Rai, Tv dei ragazzi, non ricordo se nel 1972 o ’73, ho fatto con lui un programma di in cui riprendeva la famosa maschera di Gaetano Pappagone, che era diventata popolarissima nelle trasmissioni ‘Scala reale’ e ‘Canzonissima’. Lavorammo insieme tre giorni. Era ancora addoloratissimo (e lo fu fino alla fine della vita) per la perdita ch’era avvenuta poco prima della sua compagna d'arte e di vita Lidia Maresca.
Nonostante fosse noto per avere un carattere non facile, furono tre giorni deliziosi perché – e me ne vanto – provò simpatia per me, s’affidò a mie decisioni, non ci furono i soliti contrasti che accompagnarono non pochi dei suoi incontri professionali.
Allorché si parla di Peppino, è fatale un parallelo artistico con Eduardo. Peccato, perché ciò talvolta ha limitato il campo d’indagine anche a valorosi critici. Peppino, infatti, ha una rilevanza autonoma che può benissimo affrontare vittoriosamente altri paralleli con eccellenti attori dei suoi anni. Ma se proprio di Eduardo si preferisce parlare, allora non sono d’accordo con chi vede Peppino come un personaggio minore. Minore fu, rispetto al fratello come autore. Certamente. Come attore, no. Riuscì, ad esempio, meglio di Eduardo, ad usare mezzi come il cinema e la tv. E in teatro, non aveva nulla da invidiargli, recitando spesso anche in copioni non suoi a differenza del fratello che era interprete esclusivamente della propria scrittura.
Giusto, quindi, e non solo perché siano trascorsi 25 anni dalla morte (le date rotonde, si sa, sono ghiotta preda dei media), ma perché è bene ricordare la sua grandezza d’attore.



Napoli e parole


I napoletani sono personaggi di Dostojevski truccati da spagnoli.

Augusto Guerriero


Napolifilmfestival: la Settimana Incom


Bene hanno fatto i due direttori Davide Azzolini e Mario Violini a dedicare una sezione del Festival alla Settimana Incom; è un reperto storico che aiuta a capire l’Italia di anni fa e anche il cinema italiano che ne fu specchio, sia quello critico sia quello d’evasione.
In sole otto parole meglio non poteva dirsi di quanto scrive Augusto Sainati nel presentare questa selezione di Incom: Testimone del tempo, ma anche voce del padrone.
Assolutamente perfetto.
Questo è stato La Settimana Incom, il più grande cinegiornale italiano della storia del cinema - ancora Sainati - è stato prodotto in oltre 2500 numeri fra il 1946 e il 1965. Un gigantesco pot-pourri di tagli di nastro e poste del cuore, di riviste militari e feste popolari, di domeniche della buona gente e nuovi costumi americani che arrivavano a inondare sale di prima visione e piccoli cinema di quartiere.
Poi arrivò l’occhiuta tv con il telegiornale a sostituirne il ruolo adeguandosi in parte a quei modelli di comunicazione e in parte affinandoli con più invasiva e persuasiva capacità d’influenza.
Ancora oggi, nei tg di MediaRai e Raiset si trova eco di quella lontana maniera di occultare realtà ed esaltare presenze. Ma ora è tutto a colori. Volete mettere?...


Napoli e parole


A Napoli ci sono taluni che sono amici del boia, ma non ne condividono il mestiere.

Raffaello Franchini


Napolifilmfestival: Silvia Angrisani


A conclusione di questo Special, presento l’intervento di una eccellente studiosa di cinema: Sivia Angrisani, ospite del Festival, proveniente da Parigi dove lavora attualmente sui rapporti tra Italia e Francia nella produzione e distribuzione cinematografica.
E’ direttrice del quadrimestrale on line Cinemascope Independent Film Journal e corrispondente da Parigi di diverse testate italiane, tra le quali Vivilcinema, rivista della Federazione Italiana Cinema d’Essai, Cinecittà News e Leggendaria.
Saggista particolarmente attenta al ruolo del sonoro al cinema, ha pubblicato testi sulla cultura delle differenze al cinema (ETS, Pisa 2001), su Derek Jarman (Pensa Multimedia, 2002), e su Tony Gatlif (Lindau, 2003).
Il catalogo di questo Festival (ottimo, uno dei migliori che ho visto recentemente, e ne giro di Festival….) s’avvale della sua direzione con la valida collaborazione nell’impaginazione di Simone Perna.
A Sivia Angrisani, ho chiesto di parlare sulla possibilità (o impossibilità) di tracciare una definizione di cinema napoletano. Così ha risposto.

Resto sempre perplessa di fronte all’espressione di uso corrente “cinema napoletano”. A che cosa si fa riferimento? A registi che sono nati e vivono a Napoli? A film di produzione napoletana? A film girati a Napoli? A sceneggiature tratte da libri di autori napoletani e/o ambientati a Napoli? Ad attori e attrici napoletani? A storie napoletane?
Dove collocare un film come ‘Certi bambini’, autori Andrea e Antonio Frazzi, fiorentini, storia ambientata nella periferia napoletana, ispirata a un romanzo di Diego de Silva, napoletano? Si può sostenere che i film segnati dalla presenza di Totò siano tutti film napoletani? Il progetto di Francesca Comencini di un film tratto da ‘Montedidio’ di Erri De Luca darà vita a un film napoletano? E se fosse prodotto da capitali francesi, continuerebbe a essere un film italiano?
Non molto tempo fa, una polemica ha infiammato la Francia: l’ultimo film di Jean-Pierre Jeunet, ‘Una lunga domenica di passioni’, si è visto negare dal tribunale amministrativo di Parigi l’accesso al fondo di sostegno del CNC, riservato ai film francesi, poiché tra gli azionisti della società di produzione c’è la Warner. Questo film che racconta una storia francese, adattamento di un romanzo francese, girato interamente in Francia, da un regista francese e con tecnici francesi (circa 600), attori francesi (una trentina), e più di duemila comparse, francesi… è stato dichiarato americano.
Se già a livello nazionale la definizione identitaria di un film non è semplice (appellarsi alla nazionalità della produzione causa aberrazioni sorprendenti), discutere di cinematografie regionali diventa pericoloso.
Eppure, l’uso di un’espressione come “cinema napoletano” è senz’altro indicativa di un sentire diffuso che individua nella “napoletanità” un elemento distintivo e unificante di una parte della produzione italiana. Il caso è unico: benché si sia parlato, ad esempio, di “comici toscani”, non è stata usata l’espressione “cinema toscano”, né si è mai discusso di un cinema torinese, o milanese, o romano…
Se ci si attiene alla presenza di Napoli e dei napoletani nel cinema italiano contemporaneo, esiste senz’altro un segno forte che la città ha impresso e imprime, ancora, nel cinema (una città – vale la pena precisarlo – la cui cultura si è storicamente costruita attraverso scambi e meticciamenti, non fosse altro che per le dominazioni straniere e per l’economia portuale).
Oggi, Paolo Sorrentino e Vincenzo Marra sono tra i giovani autori più acclamati - e a giusto titolo – del cinema italiano. La fucina di Teatri Uniti è stata terreno fertile di dialogo tra teatro e cinema ma altri luoghi sommersi della città hanno nutrito il talento di registi e attori. Quelli che dieci anni fa sono stati chiamati “i Vesuviani”: Antonietta De Lillo, Mario Martone, Antonio Capuano, Stefano Incerti, Pappi Corsicato; e per citare soltanto pochi nomi, tra gli attori: Carlo Cecchi, Toni Servillo, Renato Carpentieri, Anna Bonaiuto, Andrea Renzi, Licia Maglietta, Vincenzo Peluso, Giovanna Giuliani, Ernesto Mahieux, Se tra i comici è noto il successo al botteghino di Vincenzo Salemme, formatosi alla scuola di Eduardo, un po’ più nell’ombra attori come Antonella Stefanucci o Riccardo Zinna danno forza e credibilità ai film “napoletani”.
Se volessimo continuare con gli elenchi, bisognerebbe passare a quello dei musicisti. Ma anche qui mi limito a due esempi: il napoletanissimo Nino D’Angelo che firma la colonna sonora di ‘Tano da morire’, storia siciliana di Roberta Torre, milanese emigrata in Sicilia (come la mettiamo qui con la “carta d’identità” del film?) o Luca “Zulù” Persico che commenta in musica una storia di periferia milanese, in ‘Fame chimica’.
Napoli come insieme di artisti e al tempo stesso come immaginario ha un legame fortissimo con il cinema contemporaneo. Altra storia è comprendere se esiste un cinema napoletano inteso come industria (produzione, distribuzione, esercizio, festival, ecc.) in grado di far vivere la città
.


Per vedere il volto di Carmilla


A Roma, da domani c’è una mostra di Daniele Cascone che ha per titolo Il volto di Carmilla; dizione che rimanda ad un autore della letteratura fantastica: Joseph Sheridan Le Fanu (1814 -1888).
Scrittore dublinese, nato da famiglia di origine ugonotta, studiò al Trinity College della sua città, e dal 1839 iniziò a lavorare come giornalista, per diventare, poi, lui stesso direttore e proprietario di giornali.
Il più famoso dei suoi lavori è il romanzo “Carmilla” (1871), dal quale Roger Vadim trasse il suo film da noi noto con l’infelice titolo ‘Il sangue e la rosa' (1960), in cui il volto di Carmilla era quello di Annette Stroyberg.
Alcuni sostengono che la sua opera sia stata saccheggiata da molti e, perfino da Bram Stoker autore di “Dracula”, io, pur riconoscendo i meriti di Le Fanu, francamente su questa cosa ci andrei più cauto.
Presentando la mostra, scrive Micol Di Veroli: Alla prima exhibition dell’artista siciliano saranno presentate sei pallide icone della bellezza caduca e assoluta. Il viaggio di Cascone in un universo onirico e femminile offre visioni avvolte da un sinistro alone di mistero, malattia e drammaticità. Le sue opere sono vere e proprie rappresentazioni della sofferenza ove si stagliano ferme e lancinanti figure diafane, melanconicamente consce della loro deforme realtà.
Io, dal canto mio, più prosasticamente aggiungo che quelle di Cascone sono immagini che, specie se viste a lume di candela in un momento in cui l’Enel ha scriteriatamente deciso di sospendere il servizio, possono avere indesiderati effetti diuretici.
Più avanti, la Di Veroli, spiega la tecnica compositiva dei lavori in mostra: Le opere di Cascone sono frutto di elaborati passaggi mixed multimedia che implicano l’uso di acrilici con trasformazione digitale dell’immagine.
Eccellente artista il videopittore Daniele Cascone che, non a caso, scelsi di presentare su questo webmagazine; per provare gioia e brividi cliccate su Nadir.
Consiglio a chi a Roma sta, o nelle date che darò appresso ci passa, di andare a vedere la mostra che ho qui segnalata. Non se ne pentirà.

Daniele Cascone, “Il volto di Carmilla”
Opera Caffè, Via della Scala 43, Telefono: 06 - 339 84 67 653
Orario: dal martedì alla domenica 18:00 - 02:00
Fino al 17 giugno; ingresso libero


Affettuosità giornalistiche


Il titolo della nota è preso da una felice rubrica dell’Espresso, presto vi sarà chiaro perché.
Ricevo, come tutti gli iscritti e i soci della Siae, il Bimestrale di quell’ente, periodico che di recente ha cambiato veste grafica uscendo da certi panni tipografici un po’ mesti d’un tempo e, guidato dal direttore Alberto Ferrigolo, è diventato uno strumento non solo d’informazioni di difficile reperimento, ma anche di essenziali contributi scientifici (tecnologici e legali) sul diritto d’autore oggi, nonché scritti critici su profili e opere d’autori di ieri e d’oggi.
Nel numero più recente, però, tra tanti valorosi articoli, c’è n’è uno un po’ meno valoroso.
E’ un’intervista di Linda Brunetta al direttore di Radio Rai Sergio Valzania.
Nel corso di quell’intervista viene accennato al calo degli ascolti senza fare cifre, evidentemente per motivi di spazio. Per la cronaca, dalla fonte Audiradio, in data 6 aprile ’05, s’apprende che la radio della Rai perdono tutte nel giorno medio. Ecco i dati:
Radio 1 = meno 10.51%; Radio 2 = meno 9.26%; Radio 3 = meno 18.71%; Isoradio = meno 18.75 %.
Il direttore tenta, ma cicca la palla, di fare dell’umorismo rispondendo a quella domanda e mette in dubbio l’attendibilità dei metodi di rilevazione di Audiradio. Ora, per chi non lo sapesse, Valzania fa parte del Consiglio d’Amministrazione di Audiradio in rappresentanza della Rai. Che ci sta a fare lì se la pensa a quel modo sull'attendibilità dei calcoli della società di cui fa parte? E quale proposta ha agito per correggere (dal suo punto di vista) quei metodi? Lui non lo dice. Brunetta non glielo chiede. Ogni giornalista lo avrebbe fatto. Perché Brunetta no? Perché è una cattiva giornalista? Per niente, è un’ottima penna, lo dico sul serio, ma il fatto è che con la stessa penna ha partecipato l'anno scorso a "La via lattea" (Radio Tre), quest’anno a "La via francigena" (ancora Radio Tre), né desta sorpresa il fatto che al termine dell’intervista, ammirando il drappello di soldatini in fila sullo scaffale dietro la scrivania di Valzania, affermi che “per battere l’armata degli interessi e liberare le radio non ci vuole la Grande Armée, ma ci vuole anche Napoleone”. Già, lei è un’esperta, perché sta andando in onda (Radio Due) un suo sceneggiato radiofonico in 20 puntate intitolato "Madame Bonaparte".
Vabbè che oggi in Italia al conflitto d’interessi non ci si fa troppo caso, ma sono certo che il direttore Alberto Ferrigolo in futuro sarà più prudente nell’assegnazione dei servizi per le sue pagine, giusto per dare alle stesse la credibilità giornalistica che meritano.


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