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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Teatro La Pergola

Esistono centri di cultura ed espressività la presenza dei quali dà luce ai territori in cui operano.
Uno di questi è il Teatro La Pergola di Firenze.
Ha per direttore generale Marco Giorgetti

La Pergola si fa notare per il suo cartellone che, ad esempio, sapientemente unisce Tennessee Wiiliams alla riuscita sperimentazione di un Pirandello in Realtà Virtuale per la regìa di Elio Germano (su questo spettacolo nei prossimi giorni vi dedicherò una particolare nota).

Per i redattori della carta stmpata, delle radio-tv, del web:
Ufficio Stampa, Matteo Brighenti.


Cattive notizie


Accanto alla buona notizia per Mario che potrà liberarsi di una vita insopportabile, ce ne sono altre cattive.

L’Humanist international ha diffuso i dati emersi dalla nuova edizione del Rapporto sulla libertà di pensiero nel mondo,

«Atei e agnostici sono discriminati in 144 paesi del mondo: in 39 c’è una religione di Stato; in 35 la legislazione deriva, in tutto o in parte, dal diritto religioso; in 12 esponenti del governo o agenzie statali emarginano, molestano o incitano all'odio o alla violenza contro le persone non religiose; in 83 la blasfemia è un reato e in 6 tra questi è punibile con la pena di morte; in 17 l'apostasia è un reato e in 12 tra questi è punibile con la morte; in 79 vige un discriminatorio sistema di finanziamento della religione; in 19 è possibile il ricorso a tribunali religiosi su questioni familiari o morali; in 26 è fatto divieto ai non religiosi di ricoprire alcuni incarichi; in 33 l’istruzione religiosa è obbligatoria nelle scuole statali senza un'alternativa laica; in 16 è difficile o illegale gestire un'organizzazione apertamente umanista».

La cattiva notizia è che Dio non esiste. La buona è che non ne hai bisogno.
Motto ateo.


389 candeline


Tante ne occorrerebbero su di una torta per festeggiare gli anni raggiunti oggi dal filosofo olandese Baruch Spinoza particolarmente caro a Nybramedia e al suo conduttore, o tenutario se ritenete sia denominazione più acconcia.
Il 24 novembre del 1632 nasceva ad Amsterdam Baruch Spinoza.
Consultato il Calendario Perpetuo, si apprende che il 24.11.1632 era di mercoledì.
Se pioveva?... Faceva bel tempo?... ah, ma siete pignoli! Non lo so!!
So, però, che Spinoza è un tipo che mi garba.
Ci berrei volentieri qualche bicchiere al bar con questo scomunicato dagli ebrei e detestato dai cattolici… gli islamici?... lui ha scritto che le religioni “… sono fatte per ingannare i popoli e per vincolare le menti degli uomini". Inoltre, afferma che l'Islam supera di gran lunga il Cattolicesimo in ciò, se fosse finito tra le mani dei barbuti mullah avrebbe perso le sue di mani, come minimo.

Per avere un ritratto del pensiero di Spinoza, mi sono rivolto a un’amica da molti anni di questo sito: Maria Turchetto.
Epistemologa, già docente all’Università di Venezia; ha diretto per 15 anni il bimestrale “L’Ateo”; curato la raccolta di saggi “Darwin fra Natura e Storia”; le è stato dedicato il volume Sconfinamenti. Scritti in onore di Maria Turchetto pubblicato da Mimesis.
Oggi dirige il periodico L’Atea, per uno sguardo ai primi numeri della rivista CLIC
Torna così su queste pagine web una voce che ragiona sui saperi d’origine di noi atei e li approfondisce alla luce delle nuove conoscenze dei nostri giorni.
Ecco la sua risposta da me richiesta in forma sintetica.

«Nell’ambito della filosofia moderna, l’”Etica” di Spinoza rappresenta la più importante, rigorosa (more geometrico demonstrata), sistematica formulazione di un pensiero ateo, materialista ed edonista.
Ateo: Spinoza non nega esplicitamente Dio (scrive nel XV secolo, clamorosamente inaugurato dal rogo di Giordano Bruno, l’odore di bruciato era ancora nell’aria), ma riconducendo Dio alla natura (Deus sive Natura) ottiene l’effetto di toglierlo completamente di torno.
Materialista: fondamentale la sua negazione del dualismo mente/corpo (tanto caro a Cartesio e tuttora profondamente radicato nelle teste dei nostri contemporanei) che ne fa un antesignano delle attuali neuroscienze – a detta di Antonio Damasio (cfr. Alla ricerca di Spinoza) che in questo campo non è certo uno sprovveduto.
Edonista: la “sapienza” – secondo il mio compianto maestro Paolo Cristofolini, uno dei maggiori studiosi di Spinoza, la filosofia di Spinoza è “l’ultima manifestazione in Occidente di un ideale sapienziale, intendendo per sapienza […] l’ideale di sintesi tra la somma del sapere e il perseguimento di ciò che per noi è bene” (cfr. Spinoza edonista) – ha come scopo la gioia (laetitia). Qui ed ora, non certo in un improbabile paradiso».

Per chi volesse approfondire, segnalo di Maria Turchetto “Spinoza edonista (e materialista). Una lettura incrociata”, in L’Ateo, n. 2/2013 scaricabile QUI.


Nabbovaldo e il Cyberspazio

La nascita di ogni manufatto antico o perfino dei nostri giorni ha sempre date che litigano fra loro. Succede anche per i videogiochi. La più accredita origine, pare sia da far risalire all’anno 1952 quando all'Università di Cambridge A.S. Douglas sviluppò OXO, una versione grafica del gioco del Tris, per dimostrare una sua tesi sull'interazione uomo-macchina.
Ne è trascorso di tempo da allora e quello strumento è diventato un protagonista nello scenario dell’intrattenimento con risvolti che vanno a toccare anche campi quali l’esercitazione per operazioni chirurgiche o, ahinoi, militari.
Inoltre, i videogames hanno attratto l’attenzione di sociologi e semiologi che ne hanno studiato sia l’interfaccia giocatore-macchina sia gli aspetti psicosociali.
Un grande studioso di questi temi è Matteo Bittanti ha dedicato alla materia alcuni suoi libri, fra i quali ricordo “Per una cultura dei videogames” e “Schermi interattivi”
Ecco una sua definizione del videogame durante un’intervista data a Marco Leonardi.
“È una macchina della felicità: è appositamente sviluppato per soddisfare il giocatore per mezzo di una gratificazione istantanea […] I videogiochi producono endorfine e riducono i livelli di stress, ansia ed irritabilità. Non dimentichiamo che la prassi videoludica è performativa: richiede abilità, dedizione, pratica. Il videogame si colloca a metà strada tra lo sport e la danza, tra la narrazione e l’esplorazione. Quello che mi affascina di questo medium è che contiene tutti i linguaggi e i codici degli altri, ma non è per questo una forma espressiva inferiore o “minore”. L’errore da evitare è di applicare al videogame i criteri qualitativi dei media tradizionali, analogici e lineari”.
Paola Carbone, professoressa associata presso lo Iulm, con un’attività di ricerca sulle potenzialità della tecnologia informatica per la produzione e trasmissione del sapere umanistico e la letteratura e la scrittura creativa in ambiente digitale, così dice: “Il videogioco può essere inteso come un ‘dispositivo tecnosociale’, vale a dire un fenomeno sociale e culturale che deve imprescindibilmente avvalersi della tecnologia.
Nato come mera sperimentazione (si ricordi, “Tennis for two”, sviluppato per oscilloscopio nel 1958), il videogioco ha sempre seguito l’evolversi della tecnologia fino a diventare oggi un vero e proprio campo di sperimentazione. Negli ultimi anni la modellazione tridimensionale degli ambienti e lo sviluppo della grafica applicata alla caratterizzazione dei personaggi hanno favorito la creazione di ambienti immersivi sempre più coinvolgenti dal punto di vista emotivo. In particolare, il non-luogo (o l'iper-luogo virtuale) videoludico oggi si configura fortemente come luogo della socializzazione, del consumo, dello scambio”.

In apertura di questa nota, scrivevo dei tanti campi nei quali è entrato il videogioco anche lontano dal trattenimento ludico, ne abbiamo un nuovo, maiuscolo, esempio che ci viene da Nabbovaldo Videogame – presentato, in occasione del RomeVideoGameLab – un progetto, validato da ricercatori del CNR, centrato su di un videogioco educativo sulla cybersecurity. In azione Nabbo, professione tuttofare, che sarà coinvolto in un’avventura contro un Ramsomware (un malware che estorce denaro) che tiene sotto scacco l’intera città e sarà necessario trovare una soluzione per evitare il ricattatorio disastro.
Di rilievo nell’iniziativa è stato il ruolo della Ludoteca del Registro di Pisa.
QUI un video su quanto finora esposto.

Per maggiori informazioni:
www.ludotecaregistro.it/il-videogioco-nabbovaldo/
ludoteca@registro.it
www.instagram.com/ludotecadelregistro.it/
www.facebook.com/LudotecaRegistro
www.youtube.com/channel/UCQvCwo8lOHfe--od7f2TIpQ

Ufficio stampa: Carlo Dutto, cell. 348 0646089 --- carlodutto@hotmail.it


La scienza del crimine

Come succede per il calcio dove tanti s’improvvisano allenatori e criticano gli allenatori volendo apparire (e, forse, ci credono anche) più in gamba di famosi trainer – e nelle guerre più intelligenti in tattiche e strategie di molti generali – così avviene per fatti di cronaca nera, specie nei casi di omicidio dove c’imbattiamo in detectives improvvisati che dicono di essere certi che la mano assassina appartenga proprio a quello o quella lì e attaccano gli indugi degli investigatori, talvolta perfino irridendoli.
Ovviamente le cose non stanno come quei perniciosi buontemponi affermano.
Le investigazioni sono spesso difficili, a volte perfino difficilissime.
La criminologia poi chiamata in causa, non è un sapere unico, ma un complesso di scienze tanto che esistono varie specializzazioni fra i criminologi, perché raccoglie in sé: Psicologia, Chimica, Sociologia, Scienze Forensi, Fotografia, e da alcuni anni tutta l’area informatica con i continui aggiornamenti del campo digitale.

Proprio da questa specializzazione (ma ha competenze, come vedremo, anche su altre) proviene l’autore di un eccellente libro pubblicato dalla casa editrice Hoepli.
Titolo: La scienza del crimine Quando la scienza risolve i casi
Ne è autore Riccardo Meggiato.
Questo sito si è già occupato di suoi libri QUI e anche QUI.
È perito forense. Consulente Tecnico sia d'Ufficio e sia di Parte.
Ha maturato oltre 15 anni di esperienza, operando su svariati casi in Italia e all'estero. Autore di 30 libri, 300.000 le copie vendute in Italia.
È fondatore di un'agenzia di cyber-security e di informatica forense.
Come ben spiega Kaspersky: “La Cybersecurity consiste nel difendere computer, server, dispositivi mobili, sistemi elettronici, reti e dati dagli attacchi dannosi. È anche conosciuta come sicurezza informatica o sicurezza delle informazioni elettroniche. La Cybersecurity si applica a vari contesti, dal business al mobile computing.
In questo libro, tecniche, segreti e curiosità investigative sono illustrate in maniera che a tutti risultino comprensibili pur nel loro complesso svolgersi.
Ogni capitolo è seguito dalla descrizione di un caso storico di delitti dall’antica Roma ad oggi giovandosi anche di una felicissima impaginazione a colori.
Sito web: CLIC.

Dalla presentazione editoriale-

«Ti è mai capitato di leggere un romanzo thriller o di seguire una serie tv piena di polvere da sparo e sangue e chiederti "chi è stato?", "come è successo?", "come è riuscito a fare perdere le proprie tracce?". Questo libro svela a tutti, dai principianti ai più scaltri lettori di romanzi gialli, i segreti delle scienze forensi. Un viaggio che inizia con la scena del crimine più antica e famosa, la morte di Giulio Cesare, attraversa i più celebri e chiacchierati casi di cronaca – da Meredith Kercher a Yara Gambirasio, da Ted Bundy, uno dei serial killer più famosi della storia, all'omicidio Gucci – e le tecniche investigative che hanno portato alla loro soluzione attraverso l'analisi del DNA o le indagini tossicologiche. Scoprire l'identità di un assassino da un'impronta digitale o da una piccola goccia di sangue è solo un esempio di ciò che si può ottenere con le scienze forensi e questo libro ne è la prova tangibile».

Concludendo: ma come riconoscere un grande criminale?
Mi convince Roland Barthes: “I gangsters e gli dei non parlano, muovono la testa, e tutto si compie”.

…………………………………..

Riccardo Meggiato
La scienza del crimine
Pagine 256, Euro19.90
Hoepli


19 novembre di tanti anni fa


Oggi voglio ricordare una data e una donna che appartengono alla storia letteraria, nomi legati fra loro da un comune destino: l’americana Sylvia Beach (1887 – 1962) in foto, e la celebre libreria da lei fondata Shakespeare and Company.
Lo farò riproducendo il quarto di copertina di un libro edito nel 2018 da Neri Pozza intitolato proprio "Shakespeare and Company" di cui è autrice proprio Sylvia Beach.
È il libro che meglio di tutti gli altri titoli sullo stesso argomento documenta grandi storie e piccoli fatti sulla nascita di un centro propulsivo d’innovazione culturale che ha fatto storia. Del resto, poca sorpresa: l’autrice è proprio la mitica Sylvia.

«Il 19 novembre del 1919 apre i battenti la libreria parigina più famosa al mondo: la Shakespeare and Company. Nelle vetrine fanno bella mostra di sé le opere di Chaucer, di T.S. Eliot e di Joyce mentre alle pareti sono appesi i disegni di Blake, ritratti di Whitman e Poe e due fotografie di Oscar Wilde in brache di velluto. A dare vita a tutto questo è l’americana Sylvia Beach, un uccellino di donna che fuma come un turco e che sognava di aprire una libreria francese a New York, prima che l’amicizia con Adrienne Monnier la spingesse a dare vita a una libreria inglese a Parigi. André Maurois è uno dei primi a fare gli auguri alla neonata libreria, portando una copia del suo piccolo capolavoro appena pubblicato: Les silences du Colonel Bramble. Ezra Pound, fuggito dall’Inghilterra con la moglie Dorothy, si offre di riparare una sedia e diventa un cliente abituale. E ovviamente non può mancare il punto di riferimento degli americani a Parigi, Gertrude Stein, con l’inseparabile Alice B. Toklas.
Shakespeare and Company diventa presto una tappa imprescindibile per tutti quei pellegrini degli anni Venti che attraversano l’oceano e si stabiliscono a Parigi, creando una colonia americana sulla Rive Gauche. Ma anche per coloro che, non potendo permettersi l’acquisto di volumi importati, si accontentano di prenderli in prestito. La tessera per abbonarsi vale, per gli scrittori dalle speranze in boccio, quanto un passaporto e, benché la regola dica che non si possono ritirare più di uno o due libri alla volta, Hemingway la infrange spesso portandosene via una mezza dozzina, e Joyce ne prende delle sporte intere, riportandoli dopo anni.
Ed è proprio a Joyce, e alla pubblicazione di Ulysses, che è legato uno dei capitoli più interessanti della Shakespeare and Company. Nell’estate del 1920, quando la libreria non conta ancora un anno di vita, in Inghilterra Harriet Weaver, pioniera joyciana e direttrice della rivista l’Egoist, ha già combattuto e perso la sua battaglia per l’Ulysses. Nessuno vuole assumersi il rischio di pubblicarlo, «Al solo sentire il nome di Joyce i tipografi inglesi scappavano come il diavolo davanti all’acqua santa», temendo conseguenze penali. Solo una persona, intuendo l’alto valore letterario di quello che è destinato a diventare uno dei capolavori indiscussi del Novecento, è disposta a rischiare il tutto e per tutto per darlo alle stampe: Sylvia Beach. Testimonianza di prima mano della libreria più famosa e culturalmente più importante del mondo, Shakespeare and Company è un libro brillante, pieno di aneddoti e di retroscena sulla vita di celebri scrittori della Parigi degli anni Venti e Trenta»


Le delusioni della speranza

A Lucca, alla Fondazione Ragghianti egregiamente diretta da Paolo Bolpagni è stato presentato un volume che di Carlo Ludovico Ragghianti, famoso storico e critico delle arti visive (Lucca, 18 marzo 1910 – Firenze, 3 agosto 1987), traccia l’impegno civile e l’indipendenza di pensiero che ne connotò la figura.
Il libro è intitolato: Le delusioni della speranza Carlo Ludovico Ragghianti militante di un’Italia nuova” ed è pubblicato dalle Edizioni Biblion.
Le delusioni patite da Raghianti dopo il 1945 furono molte, però questo mai lo allontanò dal pensiero democratico, antifascista, per cui aveva combattuto non solo a parole ma imbracciando anche il fucile.
Non ricordo l’autore (mi scuso, quindi, se non lo cito) di quell’aforisma che sostiene essere la caduta della speranza l’indicazione per intraprendere una giusta strada.
Questo capitò a Ragghianti.
QUI la sua biografia.

Del libro ne è autore Andrea Becherucci, storico e archivista, lavora negli Archivi Storici dell’Unione Europea (Istituto Universitario Europeo) di Firenze.
È autore di numerosi saggi e articoli riguardanti in particolare partiti ed esponenti dell’area laica e liberaldemocratica, la storia del Partito d’Azione, i rapporti fra politica e cultura, la politica sociale e il federalismo europei.
Il suo precedente libro è “L’Europa tra luci e ombre” (Biblion Edizioni, Milano 2020).

Dalla presentazione editoriale.

«Il volume di Becherucci indaga la passione civile dello storico dell’arte lucchese, che lo portò a impegnarsi nell’antifascismo clandestino prima e nella Resistenza armata poi. Tra i fondatori del Partito d’Azione, fu presidente del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale e capo delle Brigate Rosselli. Terminata la guerra, fu sottosegretario alla Pubblica Istruzione con delega alle Belle Arti e allo Spettacolo nel governo presieduto da Ferruccio Parri. Nel febbraio del 1946 abbandonò il Partito d’Azione e, con Parri e Ugo La Malfa, aderì al Movimento della Democrazia Repubblicana. Il dopoguerra lo vide presente nel dibattito politico e culturale con un impegno che culminò nell’esperienza della rivista “Criterio”, ultima vera espressione dell’azionismo».

Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web:
Ufficio Stampa Fondazione Ragghianti: Elena Fiori.
elena.fiori@fondazioneragghianti.it

Andrea Becherucci
Le delusioni della speranza
Prefazione di Paolo Bagnoli
Pagine 236, Euro 20.00
Biblion Edizioni


Roberto Calasso: Bobi

Esistono personaggi che al pubblico dei lettori non sono noti quanto meriterebbero.
Anche perché hanno sfuggito con meticolosa precisione tutte le occasioni per esserlo.
Eppure, hanno avuto un ruolo maiuscolo in fatto di letteratura attraversando più generi, più lingue, più autori, scoprendone alcuni e di altri rilevandone inediti aspetti critici.
Uno di questi è stato Roberto Bazlen noto anche come Bobi Bazlen.
Critico, traduttore, scrittore, e, soprattutto, lettore infaticabile.
Nacque a Trieste il 10 giugno 1902 da padre tedesco luterano di Stoccarda e madre triestina appartenente alla borghesia ebraica della città.
Visse oltre che a Trieste, a Genova, Milano, Roma.
Morì a 63 anni in un albergo di Milano nel luglio 1965.
Ecco una veloce panoramica di giudizi su di lui.

Dicevo di un ruolo maiuscolo che ebbe nell’editoria. Fu, infatti, consulente editoriale di varie case: Nuove Edizioni Ivrea, Edizioni di Comunità, Bompiani, Astrolabio, Giulio Einaudi, ed è stato insieme con Luciano Foà e Calasso il fondatore di Adelphi.
E non sorprende che proprio da Adelphi sia uscito un libro su di lui, piccolo per dimensioni, ma grande per profondità di documentazione e interpretazione del personaggio, a cura di una grande firma che di quella casa è stato un protagonista fin dalla nascita, poi direttore editoriale: Roberto Calasso, scomparso a Milano nel mese di luglio di quest’anno.
Singolare la coincidenza con Bazlen, entrambi morti nella stessa città, nello stesso mese dell’anno, vicinissime anche le date: Bazlen il 27,Calasso il 28 luglio.
In occasione della sua fine molti gli articoli che lo hanno ricordato, ne segnalo uno QUI.

Il titolo del volume è Bobi e c’informa di molte cose.
È condotto come un documentario in cui la voce di uno speaker assai dotto – e testimone primario ed eccellernte – è quella di Calasso, intercalata da brani di scrittura di Bazlen.
Un uomo che ha scritto tante lettere, note editoriali, diari, riflessioni sparse. Questo ha autorizzato Montale, uno dei suoi amici, (altri furono Italo Svevo, Gianni Stuparich, Gillo Dorfles e parecchi altri grandi nomi) a scrivere che non avrebbe lasciato ”nulla che possa intendersi come un’opera”. Questa frase fa scattare Calasso che replica: “L’opera compiuta di Bazlen fu Adelphi”. Senza di lui, infatti, prosegue Calasso, Adelphi non sarebbe forse mai nata.
Ancora di Calasso è una splendida definizione di Bazlen quale “ Abitatore ancora inesperto di un mondo che in una logica delle essenze sarebbe ancora il mondo successivo».
“Bobi” insieme con “Memè Scianca” (cui dedico una nota subito dopo questa), è uscito lo stesso giorno della scomparsa di Calasso.
Due libri fatti di memoria, appassionata e pudica al tempo stesso; memoria che secondo Octavio Paz è “presente che non finisce mai di passare.”

Dalla presentazione di Roberto Calasso.

«Di Roberto Bazlen, universalmente noto come Bobi, non poco è stato scritto, ma il più rimane da dire e capire. Bazlen attraversò la prima parte del Novecento come un profilo di luce imprendibile. Nell’ultima fase della sua vita, fu l’ideatore di Adelphi, su cui riversò la sua sapienza, che non era solo quella – stupefacente – sui libri, ma investiva il tutto. L’idea e la fisionomia della casa editrice risalgono a lui. Quando Bazlen mi parlò per la prima volta di qualcosa che sarebbe stata Adelphi e non aveva ancora un nome mi disse: «Faremo solo i libri che ci piacciono molto».

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Roberto Calasso
Bobi
Pagine 98, Euro 12
Adelphi


Roberto Calasso: Memè Scianca

In una notte di fine primavera, seduto a un tavolo di pietra, un uomo sta raccontando ai suoi due figli i ricordi d’infanzia di Pavel Florenskij tratti da un libro che ha per titolo “Ai miei figli”. Poi Josephine, ventun anni, e Tancredi, dodici anni, a un tratto chiedono al loro padre che cosa ricordi dei suoi primi anni.
Dobbiamo a quelle domande un’autobiografia di quell’uomo che è Roberto Calasso.
Memorie contenute nel volume pubblicato dalla casa editrice Adelphi intitolato Memè Scianca.
Come l’altro libro, “Bobi”, di cui ho scritto nel precedente pezzo, queste pagine sono uscite il giorno in cui Calasso, a 80 anni d’età, ci ha lasciati: il 28 luglio 2021.
Due biografie. “Bobi”, infatti, può essere considerata la biografia dell’Adelphi raccontata attraverso Bobi Bazlen, uno dei suoi fondatori, e questo “Memè Scianca” i ricordi di un altro che ha fatto nascere Adelphi: Calasso, appunto, che da ragazzo gli piaceva darsi il nome di Memè Scianca e qui alcuni ricordi di Memè racconta.

Gli episodi dell’infanzia si succedono in maniera cronologicamente non lineare, non progressiva, oggi in epoca internettiana, diremmo reticolare, si dispongono come vecchie fotografie di un album sfogliato a caso o come oggetti che galleggiano dopo un naufragio, uno qui, uno lì. Un viale di Firenze quando si chiamava Regina Margherita, lo squittìo dei topi in un vecchio armadio, una spiaggia di Viareggio, i soldatini di piombo regalategli da La Pira, Frau Block il primo nome tedesco che ha sentito, l’Orlando Furioso illustrato da Dorè con quelle figure dalle quali arriva il primo eros, il nonno Ernesto, l’arresto del padre da parte dei fascisti, i libri che presero il posto dei giochi.
Il volumetto contiene una vita: quella ricordata e quella che proverrà dall’età narrata.
Un uomo, seduto a un tavolo di pietra diceva ai figli dei ricordi di Florenskij… e con righe tratte da ‘Non dimenticatemi’, proprio di Florenskij, voglio chiudere questa nota. “"Tutto passa, ma tutto rimane. Questa è la mia sensazione più profonda: che niente si perde completamente, niente svanisce, ma si conserva in qualche modo e da qualche parte. Anche se, a volte, noi cessiamo di percepirlo".

Dalla presentazione dell’autore.

«Un padre racconta ai figli, che glielo hanno chiesto, quello che ricorda dei suoi primi dodici anni, di cui loro non sanno quasi nulla. Storie troppo remote, pensa. Che differenza poteva esserci, in fondo, ai loro occhi, fra Firenze durante la guerra, dove era cresciuto, e per esempio la steppa dell’Oltre­Caucaso di Florenskij, alla fine dell’Ottocento? Non molta. Apparteneva tutto a quell’età incerta e fumosa che precedeva la loro nascita. E poi, da dove cominciare?
La prima immagine della guerra, intravista dalla finestra di una soffitta clandestina nel centro di Firenze. La vecchia villa di San Domenico, dove un mattino, a seguito dell’assassinio di Giovanni Gentile, suo padre viene arrestato come pericoloso antifascista. Il polverio che sale dalle macerie di Por Santa Maria, subito dopo che i tedeschi hanno fatto saltare i ponti. L’immersione nella letteratura e la scoperta della musica. E Firenze, quella Firenze degli anni subito dopo la guerra, separata da tutto, anche dal resto dell’Italia. Una lastra impenetrabile e trasparente confermava quella convinzione della città di essere a parte. E un giorno, forse anche prima di saper leggere, chi scrive dichiara che il suo vero nome è Memè Scianca».

Per leggere le prime pagine .CLIC.

………………………….

Roberto Calasso
Memè Scianca
Pagine 98, Euro 12.00
Adelphi


Alter Eva

“Dov’è Eva? In quali pieghe della storia e delle storie è stata confinata? Eva sin dal Libro della Genesi si sdoppia, si dissolve, si mescola nelle riletture e si affaccia ad altre narrazioni. L’eredità di Eva è oggi motivo di forza per le donne, di riflessione per gli uomini e un ulteriore tassello alla decostruzione degli stereotipi e delle proiezioni sui generi”
.
Così Cristina Simonelli in un libro recente (“Eva, la prima donna”) pubblicato da il Mulino.
Eva è una che ne ha passate tante, calunniata, ammirata, detestata, e poi raffigurata nei modi più diversi, soprattutto nuda come, per fare qualche esempio d’alcune immagini famose, da Albrecht Dürer a Luca Cranach il Vecchio, oppure rivestita di pixel nei videogiochi Metal Gear ideati da Hideo Kojima.
Come forse già è, e, soprattutto come sarà un’Alter Eva Natura Potere Corpo si chiede una mostra così intitolata in corso a Palazzo Strozzi a cura della classe 2020/2021 del Master Curatorial Practice di IED Firenze (Francesca Bonissone, Elena Castiglioni, Nora Criado Diaz, Linda Kristiina Toivio, Thea Moussa, Yanru Li), e coordinata da Martino Margheri (Responsabile progetti università e accademie Fondazione Palazzo Strozzi) e Daria Filardo (docente e coordinatrice Master IED Firenze).
Attraverso le opere di sei artiste italiane; Camilla Alberti - Irene Coppola - Martina Melilli - Margherita Moscardini - Marta Roberti - Silvia Rosi partendo da un punto di vista femminile, si punta ad una riflessione sul futuro fondato su nuovi principi di coabitazione naturale e sociale.

In foto “Grande Pavone” (2020) di Marta Roberti

Estratto dal comunicato stampa.

«Tra scultura, pittura, fotografia e installazione, l’esposizione propone una narrazione sfaccettata dove la natura decostruita o immaginifica si affianca a corpi esibiti o raccontati, ma anche dove forti dichiarazioni politiche dialogano con storie intime e personali di appartenenza culturale, tutte istanze accomunate da un impegno rivolto al cambiamento per una trasformazione del nostro modo di osservare, parlare e agire nel mondo. Mettendo in discussione il patriarcato, i ruoli di genere, l’antagonismo tra natura ed essere umano, i ruoli restrittivi e le relazioni di potere, la mostra costruisce futuri alternativi proponendo forme di relazione ancora in fase di negoziazione.
Il progetto si inserisce all’interno di Palazzo Strozzi Future Art, nuovo programma della Fondazione Palazzo Strozzi, inaugurato con l’installazione La Ferita di JR per la facciata di Palazzo Strozzi, nato dalla collaborazione con Andy Bianchedi in memoria di Hillary Merkus Recordati».

QUI alcune conversazioni sulla mostra.

Alter Eva
Palazzo Strozzi, Firenze
Fino al 12 dicembre ‘21


Ho troppo poco tempo per dire cos'è il tempo

La casa editrice Dedalo ha pubblicato Ho troppo poco tempo per dire cos'è il tempo.
Ne è autore una delle grandi firme del mondo scientifico italiano e non solo italiano: Edoardo Boncinelli fisico, biologo, filosofo.
Ho avuto il piacere di averlo ospite su questo sito alcune volte.
A cominciare da una lunga conversazione con lui nell’enoteca da me gestita sull’Enterprise di Star Trek, dodici anni fa, nell’occasione dell’uscita del suo Mi ritorno in mente.
E poi QUI, ancora QUI e, sono certo che c’è stata anche qualche altro incontro che la ricerca in Rete mi sta negando.

Il volume è scandito in 10 momenti che mi piace definire dieci movimenti come in musica.

Uno. Che cos’è il tempo?.

«Questo libro vorrebbe rispondere alla domanda “Che cos’è il tempo?”. Un bell’interrogativo, non c’è che dire! Se lo chiese tra gli altri a suo tempo anche sant’Agostino e nelle sue Confessioni così si rispose: «Che cos’è quindi il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più». Una risposta famosa, che è quasi d’obbligo citare in circostanze del genere. In realtà, l’affermazione che sant’Agostino fa per il tempo potrebbe essere appropriata anche per tante altre parole, più o meno astratte, come simmetria, bellezza, giustizia e simili. Ma non complichiamo le cose, perché forse il problema sta a monte.
Nella formulazione della domanda, per esempio, o, meglio, nei suoi assunti impliciti. Che cosa vuol dire veramente “Che cos’è questo?” o “Che cos’è quello?”. Nel quotidiano ciò è chiarissimo: ogni giorno si usa dire “Questo è questo” come pure “Le cose stanno così”. Gli altri capiscono e ci si pone tutti su un piano di realismo familiare: il mondo è fatto di cose che esistono e che possono essere distinte le une dalle altre.
Quando ci si mette però su un piano di rigore, e si tenta di dare una patente di validità universale alle risposte a domande del tipo “Che cos’è?”, le cose si mettono subito al peggio e occorre prima di tutto chiarirsi. Se esiste un catalogo di realtà diverse, per poco o per tanto diverse che siano, la domanda non può che voler dire “Quale di queste cose, o combinazione di alcune di queste cose, è questo o quello?”. Va da sé che quando diciamo a quale ci stiamo riferendo, implicitamente diciamo anche a quali non ci stiamo affatto riferendo.
Se il catalogo in questione non esiste, come è molto probabile, la nostra domanda rischia seriamente di non voler dire niente, anche se non ce ne accorgiamo, e continuiamo a porcela come se questo non l’avessero già fatto in tanti tante altre volte. Sarebbe bene quindi riferirsi a un qualche catalogo e chiedersi “quale” invece di “che cosa”, in relazione a cose che “sicuramente” esistono, persistono per qualche tempo, possono essere distinte e vanno soltanto individuate.
Per dire che cos’è una cosa, in sostanza, occorre prima dissodare il terreno e riempirlo di entità credibili e distinguibili. A quel punto si può porre una questione che prelude a un’indagine conoscitiva per la quale dovrebbe esistere una risposta non ambigua. Tutto quanto, quindi, risiede nel considerare disponibili e accettabili un certo numero di proposte alternative, che devono anche avere un minimo di parentela con qualche nostro vissuto. Da giovani non ci si fa caso, e molti non ci fanno caso neppure da adulti, ma abbiamo fatto così un’incursione nel mondo del remoto e del diversamente reale. E che Dio ci aiuti!
Nel tentativo di riuscire in tale impresa, in un libro pubblicato qualche anno fa ho distinto almeno tre aspetti diversi dell’argomento “tempo”: il tempo fisico, ovvero il tempo delle cose tutte; il tempo biologico, ovvero il tempo delle cose vive; e il tempo della psiche e del nostro vissuto. La domanda implicita era, ovviamente, se uno dei tre tempi era proprio “il tempo”, e quale. Non abbiamo risposto allora e non risponderemo oggi.
Ma in questo libro la situazione è più semplice: con lo spazio che ho a disposizione posso solo parlare del tempo delle cose, lasciando da parte gli altri due temi, pur interessantissimi e in continua evoluzione. Fortunatamente si può dire tanto sul tempo fisico, non fosse altro che perché di questo si parla da secoli, anche se in modo assai articolato e contraddittorio, mentre i contenuti delle altre visioni del tempo sono più recenti e oggetto di un continuo esame. Ci intratterremo quindi sul tempo fisico, che ha anche il vantaggio veramente impagabile di poter essere misurato. Per rispondere ad almeno tre tipi di domande:
Quanto tempo è passato da x?
Quanto tempo manca a y?
Quanto tempo corre tra x e y?».

Raramente è possibile trovare in 90 pagine un testo così forte che riesce ad affrontare questioni altissime in modo scorrevole e, aggiungo, con grande umiltà. E lampi d’umorismo.
“Ciascuno di noi” – afferma l’autore – “si sente in balia degli eventi, incalzato dal ritmo del tempo che passa. Per molti, o forse per tutti, questo non è facile da accettare e si tende a rifugiarsi nel superiore e nell’eterno, cioè nei soliti ignoti“.

Edoardo Boncinelli
Ho troppo poco tempo per dire cos'è il tempo
Pagine 90, Euro 11.50
Edizioni Dedalo


Una lieta notizia

La ricevo da Emilio Coveri, ottimo, infaticabile, Presidente dell’Associazione Exit.
Ecco il suo testo.

Care Amiche e cari Amici,

ricevo la notizia dai nostri avvocati che hanno partecipato all'ultima udienza del processo a me ascritto per “Istigazione al suicidio” di quella signora, Alessandra Giordano di Paternò (CT) che per suo conto si è recata in Svizzera dalla “Dignitas”, perché affetta da un male gravissimo, incurabile, ed ha lì ricevuto l'assistenza e l'accompagnamento alla morte volontaria assistita.
Questo accadeva nel 2017, dopodiché un Procuratore, il sig. Ignazio Fonzo della Procura di Catania, pensò bene di mandarmi un "avviso di garanzia" per “Istigazione al suicidio” a seguito di questa vicenda.

Ebbene, questa è stata ora a sentenza del Giudice:
"Si assolve Emilio Coveri per il reato a lui ascritto ... Perché il fatto non sussiste.

Una volta ancora, viene dimostrata l'onestà di tutti voi che mi avete sempre sostenuto e stati vicino, quella grande onestà di valori e di intenti che hanno sempre caratterizzato la nostra Associazione, la Exit-Italia, valori fondamentali in cui io, come fondatore, ho sempre creduto.

Exit - Italia
Exit Svizzera Italiana
Il Presidente
Emilio Coveri



300 dichiarazioni d'amore al cinema


Un modo di dire corrente quando qualcuno ci lascia per sempre è: “Ha lasciato un vuoto”.
Ci sono, però, persone che quando se ne vanno lasciano un pieno.
È il caso di un giovane regista che ho conosciuto tempo fa e che non c’è più.
Il suo nome è Ottavio Cirio Zanetti. Una storia breve e luminosa la sua.
Nato a Genova il 15 settembre 1983, è mancato a 37 anni il 24 gennaio 2020.
Di lui non restano soltanto i titoli che ha girato e il libro postumo di cui dirò tra breve intitolato 300 dichiarazioni d’amore al Cinema Racconti di film, registi, attori, sceneggiatori.
Un’assenza, tragica, straziante, la sua. Non un vuoto.
Resta lo stile delicato che traspare dalle sue pellicole. La luce delle sue recensioni ora raccolte in quel libro cui accennavo, intessute di un ragionamento mai aggressivo. Poche eccezioni, condite da godibile umorismo, come quella per “By the Sea” (e vagli a dare torto) anche quando riferisce di cose che gli piacciono poco. Inoltre, la cura di esaminare non solo i film del grande circuito, ma anche quelli che appena lampeggiano in poche sale, come, per fare un esempio, lo spazio dedicato a “La Ricostruzione” di Juan Taratuto o “Angeli della rivoluzione” di Aleksej Fedorcenko.
E per chi gli è stato vicino o lo ha conosciuto resta anche l’eleganza del vivere.
Ecco come, invitato a dire di sé, si descrive in una pagina web.

Ho 23 anni, sono nato a Genova, Vivo a Roma ma ho passato una parte della mia infanzia a Parigi e anche un po’ a Marsiglia. Ho cominciato a recitare in francese molto presto (Molière, Beckett) ai corsi di St. Louis des Français. Frequento il Dams cinema di Roma tre e intanto faccio tirocinio sul set dei film: ho lavorato con Marco Ponti (A/R Andata e ritorno) e ho fatto il video assist nell’ultimo film di Lina Wertmuller con Sofia Loren e Murray Abraham: un’ esperienza da cui ho imparato moltissimo. Ho lavorato in regia sul set del film “Arrivederci amore ciao” di Michele Soavi. Ho fatto parte della giuria di preselezione del festival di corti di Capalbio e della giuria del festival di corti di Bosa in Sardegna. Mi piace leggere gialli (Simenon, Agatha Christie, Scerbanenco), guardare i quadri di certi pittori (Degas , Turner , Caspar Friedrich , Van Gogh , Caravaggio, Rembrandt), andare al cinema.
Mia madre è il critico teatrale dell’Espresso da prima che io nascessi, lo è stata anche di cinema, grande amica di Fellini che per di più era nostro vicino di casa: quando ero piccolo per gioco mi metteva in testa il suo cappello e diceva a mia madre di portarmi sul set se non sapeva con chi lasciarmi. Mio padre, Livio Zanetti, giornalista della carta stampata e poi direttore del Giornale radio della Rai, debuttò giovanissimo come critico cinematografico. Un po’ della passione di famiglia devo averla ereditata senza accorgermene. Vedo cinema in modo onnivoro, senza pregiudizi: ho una vera passione per Hitchcock e poi Kubrick, Scorsese, Woody Allen e, naturalmente, Fellini. Il cinema è come il nuoto: bisogna provare a buttarsi e farlo. Così due anni fa ho rinunciato alla macchina, ho aperto una mia (piccola, molto piccola ) casa di produzione, (Orlando 22 ).
Il mio primo cortometraggio “Il miele del Luxembourg” (2005, durata 22’00”), con la partecipazione straordinaria di Umberto Eco, è stato selezionato al festival di Annecy e al Ficep di Parigi Quest’anno ho girato il mio secondo cortometraggio: “Sipario”, durata 30’00”. Con un cast di attori, anzi di star, che hanno accettato di farsi dirigere da me
Del cinema mi piace il lavoro d’ equipe, cercare e trovare i collaboratori affini, costruire qualcosa insieme agli altri da un’idea pensata da me. Ho grande rispetto per i tecnici: da loro non si smette mai di imparare. E quest’anno posso dire d’aver acquistato più scioltezza nel dirigere gli attori

Ditemi se a 23 anni, quanti ne aveva allora in quella dichiarazione, si legga una sia pur minima spavalderia o alterigia che pure potrebbe essere perfino perdonabile per chi, come lui, aveva già conosciuto qualche primo successo. Al Ficep, per esempio, era stato l’unico italiano selezionato, e su dieci autori da tutto il mondo.
La sua bio va arricchita da due lauree, una su Hitchcock, l’altra su Fellini che ottenne il Premio Filippo Sacchi. Un libro, “Tre passi nel genio. Fellini tra fumetto, circo, teatro di varietà”, introduzione di Nicola Piovani, pubblicato nel 2018 da Marsilio. È stato cultore della materia presso l’Università di Roma Tre.

Il volume postumo “300 dichiarazioni d’amore al Cinema” pubblicato dalle Edizioni Erga, è composto prevalentemente dalle recensioni settimanali per la testata on line inpiu.net, cominciate nel 2013.
Sono scritti che documentano non solo una grande passione per il cinema, ma pure una cultura ben articolata come dimostrano le ragionate citazioni di autori e testi non direttamente riferiti allo schermo ma che derivano da estese letture di narrativa, poesia, filosofia. Letture che concorrono a sostenere tesi critiche a favore, o meno, dei film esaminati, a trovare origini e rime con temi trattati dalle pellicole.
Inoltre, non va trascurata la padronanza di scrittura che possiede. Ad esempio sfido a condensare, come fa lui, in poche righe, l’intricatissima trama di “Il Centenario che saltò dalla finestra e scomparve”.
Scrive Giancarlo Santalmassi nella Prefazione: “Ottavio era uno spettatore onnivoro, precoce, regista, sceneggiatore e documentato documentarista, che sapeva cogliere e descrivere i particolari. Ha sempre sostenuto che lo spettatore si perdeva un bel pezzo di film alzandosi ai titoli di coda. E raccontava i film per stimolarci a inventare e a costruire altre storie, andare altrove, in un gioco di realtà e finzione che diventa una dichiarazione d’amore. E infatti il libro si intitola “300 dichiarazioni d’amore al Cinema”, (sì, con la ‘C’maiuscola)”.

Le pagine sono provviste di QR dov’è possible vedere i trailer di “Il miele del Luxenbourg” e di “Sipario”.

I diritti d’autore di questo volume saranno devoluti dalla società “Orlando22 Produzioni Multimediali” alla ricercar e la cura di tumori rari.

Ottavio Cirio Zanetti
300 dichiarazioni d’amore al Cinema
Prefazione di Giancarlo Santalmassi
Pagine 450, Euro 18.00
Erga Edizioni


Leonardo Crudi ad Art Stop

A cura di Nufactory è in corso a Roma la quarta edizione di Art Stop Monti cominciata lo scorso 23 ottobre si concluderà il 31 dicembre 2021.
Dal comunicato stampa: «Il titolo di questa edizione è “Together”. L’intento è quello di riflettere in maniera corale sulla costruzione di un nuovo mondo, proiettato nel futuro ma che parta dalle suggestioni del presente, «Una rivoluzione che (ri)parta dal valore della solidarietà e dalla fratellanza: per riscoprire la forza e la gioia del condividere realmente il mondo e (ri)trovarsi insieme, senza nessuna forma di esclusione.
Il progetto, in collaborazione con Atac, è finalizzato alla riqualificazione della stazione Cavour della Metro B di Roma, con il coinvolgimento di professionisti nel campo delle arti, della grafica, del design e della comunicazione. Per questa edizione sono stati selezionati Leonardo Crudi - Lucrezia Di Canio - Er Pinto - Guerrilla Spam - Fontanesi - Michela Picchi.

Il nome di Leonardo Crudi è familiare a questo sito cui molto piace il suo lavoro e già lo ebbe ospite nella sezione Nadir.
Un’altra occasione per conoscerlo la trovate in quest'intervista su Exibart ben condotta da Maria Gaia Redavid.
Segnalo anche una conversazione (con un video “mostruoso”) proposta da Chiara Colli.
Crudi partecipa ad Art Stop pure alla campagna – Where is my name, “Dov’è il mio nome? – fondata da Laleh Osmany, attivista per i diritti delle donne. Campagna nata per cambiare l’antica usanza di identificare ufficialmente le donne afghane con i nomi dei loro padri o mariti. Volti di donne che nei tratti stilistici dell’artista ci guardano (in foto) chiedendo a gran voce dove sia il loro nome.
L’opera che avete visto in apertura del sito ArtStopMonti è di Crudi e con il suo inconfondibile stile ha riprodotto l’ Uomo Vitruviano che Leonardo realizzò oltre cinque secoli fa.
Fu detto un tempo “Centro del mondo e di tutte le cose”, ed ecco ora il Vitruviano nella versione di Crudi: un avatar costruttivista posto su di una terrazza con affaccio sulla Piazza della Suburra.


Donne medievali (1)

Torna graditissima ospite di questo sito la grande medievista Chiara Frugoni.
L’occasione è data dall’uscita di un suo nuovo libro – dopo il precedente Le paure medievali – è intitolato Donne medievali Sole, indomite, avventurose con un corredo di 200 testi e 200 illustrazioni a colori, pubblicato dalla casa editrice il Mulino.

Chiara Frugoni ha insegnato Storia medievale nelle Università di Pisa, Roma e Parigi.
Tra i suoi numerosi libri, per il Mulino, «Vivere nel Medioevo. Donne, uomini e soprattutto bambini» (2017); «Uomini e animali nel Medioevo. Storie fantastiche e feroci» (2018), «Paradiso vista Inferno. Buon governo e tirannide nel Medioevo di Ambrogio Lorenzetti» (2019).
I suoi saggi sono tradotti nelle principali lingue europee, oltre che in giapponese e in coreano.

Dalla presentazione editoriale.
«Nella società medievale, guerriera e violenta, la presenza femminile rimane in ombra: le donne, per lo più analfabete e sottomesse, offese e abusate, a volte addirittura considerate specie a parte rispetto agli uomini, come gli animali, non hanno voce. A meno di non essere obbligate al monastero, dove possono vivere in modo più dignitoso, imparando a leggere e scrivere. Da dove viene tanta misoginia? Una volta affermatosi il celibato dei preti con Gregorio VII, ogni donna è una Eva tentatrice, non compagna dell’uomo ma incarnazione del peccato da cui fuggire. Eppure, da questa folla negletta emergono alcune personalità eccezionali, capaci di rompere le barriere di un destino rigidamente segnato. Illuminate dalla finezza decifratoria di Chiara Frugoni, oltre che da un bellissimo corredo di immagini, incontriamole: sono monache e regine come Radegonda di Poitiers, scrittrici geniali come Christine de Pizan, personaggi leggendari come la papessa Giovanna, figure potenti come Matilde di Canossa, donne comuni ma talentuose come Margherita Datini. Tutte hanno scontato con la solitudine il coraggio e la determinazione con cui hanno ricercato la piena realizzazione di sé».

Ecco un booktrailer di "Donne medievali"

Segue un incontro con Chiara Frugoni.


Donne medievali (2)

A Chiara Frugoni (in foto) ho rivolto alcune domande.

Nell’affrontare il tema di questo suo nuovo libro quale cosa ha deciso di fare assolutamente per prima e quale per prima assolutamente da evitare?

Ho deciso di evitare di ripetere cose già dette e di studiare a fondo le vicende di alcune donne di cui non sapevo abbastanza come ad esempio leggere le 150 lettere di Margherita Datini, abbastanza difficili a volte da comprendere perché Margherita si esprimeva nel dialetto di Prato di fine Trecento-inizio Quattrocento.
Leggerle e studiarle
Oppure ho letto la biografia di Radegonda di Poitiers, una ex-regina e poi monaca vissuta mille e cinquecento anni fa, scritta dalla sua consorella Baudonivia: è quella di Baudonivia è una rarissima voce di donna che ci fornisce un vivace ed importante ritratto di Radegonda colmo di dettagli sorprendenti, bene diverso dal ritratto del coevo poeta Veianzio Fortunato che vuole tramandare invece il ritratto stereotipato di una monaca dedita solo a penitenze estreme. Radegonda giocava anche ai dadi!

Che cosa ha determinato la scelta dei cinque personaggi che troviamo in “Donne medievali”?

Sono tutte donne di grande talento (anche l'inesistente papessa Giovanni) che hanno scontato con la solitudine e a volte con la morte la volontà di esprimere i loro talenti affrontando con estremo coraggio molte amare vicissitudini.

Due domande in una.
Fra quelle cinque figure troviamo la Papessa Giovanna. Perché ha inserito il nome di un personaggio mai esistito tra gli altri di cui, invece, si ha documentazione storica delle loro vite? E ancora: come è accaduto che quella leggenda sia, come riferito nelle sue pagine, durata per tre secoli dal 1250 al 1550

La papessa Giovanna prima di essere eletta papa e di guidare per due anni la Chiesa era stata una giovinetta coltissima e innamorata che aveva seguito il coltissimo compagno ad Atene e aveva studiato con lui imparando anche il greco. Dopo l'improvvisa morte del giovane decise di non avere altri uomini e di continuare a studiare e in abiti maschili - altrimenti non avrebbe potuto – di insegnare le arti liberali spostandosi a Roma. Ovviamente non ci poteva essere un lieto fine. Il diavolo interviene. La papessa cede alla lussuria, rimane incinta e durante una processione partorisce un bambino e viene uccisa. Nella biografia che le dedica il Boccaccio si vede l'enorme ammirazione dello scrittore per questa donna intrepida e straordinaria anche se è costretto ad appiccicare al racconto una fine tragica. È una storia interessante perché mostra il terrore della Chiesa che la donna si avvicini al sacro. Anche oggi una donna non può esse neppure diacono, mentre nei primi tempi del cristianesimo questo era possibile. Le contestazioni alla Chiesa cattolica che portarono alla Controriforma dimostrarono che le fonti su cui si basava l'esistenza della papessa erano del tutto leggendarie.

Qual è l’origine di tanto sospetto e tanta ostilità verso le donne da parte del mondo medievale maschile?

La Chiesa nel Medioevo dimenticò le parole di Cristo piene di comprensione e stima per le donne e portò in primo piano quelle di san Paolo, il grande detrattore delle donne a cui proibisce di insegnare e di parlare in pubblico spiegando che devono anche essere sottomesse ai loro mariti. Poi con Gregorio VII (1015-1085) i preti non si poterono più sposare e perciò quella che era la loro compagna di vita divenne solo l'occasione di peccato. Questo portò ad una grande misoginia nella Chiesa.

Quella dura condizione cui furono assoggettate le donne conobbe nel tempo un miglioramento? Dall’epoca dell’alto Medioevo al raffinato 1300 si notano elementi di novità? Se sì, quali?

Certo che si sono fatti passi in avanti. Ad esempio, il matrimonio da semplice contratto divenne un sacramento in cui era importante che gli sposi esprimessero il loro consenso. In una società più ricca e più colta anche alle donne furono offerte più possibilità, ad esempio di leggere. Non è un caso che il Boccaccio dedichi il Boccaccio alle donne o che san Berrnardino raccomandi alle donne di leggere i libri di preghiera. Ma è anche colui che dice che le donne devono stare essenzialmente in casa a fare le massaie e le bravi madri. Ma c'è ancora moltissimo da fare. Anche oggi, in Italia non è stata raggiunta la parità salariale e quasi ogni tre giorni una donna è uccisa dal compagno che la considera evidentemente come sua proprietà. E c'è la Festa delle Donne. Sarebbe mai possibile la festa degli uomini? Siamo ancora considerate una specie a parte. Però mi piace citare la frase con cui chiudo il mio libro detta da Charlotte Witton (1896-1975), la prima sindaca di Ottawa: «Qualsiasi cosa facciano le donne, devono farlo due volte meglio degli uomini per essere apprezzate la metà. Per fortuna non è una cosa difficile».

……………………………….

Chiara Frugoni
Donne medievali
Pagine 424, Euro 40.00
Con 200 illustrazioni a colori
Il Mulino


Mostri. La dimensione dell'oltre


«Chi combatte con i mostri nell’abisso deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guarderà dentro di te».
Friedrich Nietzsche

«… il mostro non muore mai. Cerbero, Il lupo mannaro, il vampiro, il mangiacadaveri, l’innominabile creatura dei boschi… il mostro non muore mai».
Stephen King

«E tu caro Fester, qual è il tuo vero essere? L'odioso perfido mostro che sei diventato... o l'odioso perfido mostro che abbiamo imparato ad amare?».
Morticia, famiglia Addams

“La visione di un mondo à rebours” – scrive Paolo Malese – fu trasmessa dagli antichi greci che situarono le creature mostruose in regni ai confini del mondo, nell’inconoscibile”.
E lo storico dell’arte Rudolf Wittkover: “Gli antichi razionalizzarono i loro timori istintivi in forme anche non religiose, con l’invenzione di creature mostruose e di animali spaventosi; Plinio ne fa un accenno nella ‘Naturalis Historia’: da uomini con testa di cane ad altri con occhi sulle spalle. Sarà poi in Occidente il cristianesimo a dare ai mostri forma di diavoli”.
Non è, quindi, un caso che Collin de Plancy immagini il suo ‘Dizionario Infernale’ popolato di mostri in forme diaboliche.
Quelle terribili figure hanno attraversato i secoli passando dal racconto orale alla scrittura, ne seguiamo le tracce da incisioni elementari alle più mature arti visive, fino ad arrivare con la loro terrificante presenza alla radio, alla tv, al cinema, ai fumetti, ai videogiochi. L’osservazione dello Spazio e le nuove tecnologie hanno permesso poi nuove forme fisiche, sicché abbiamo minacciosi Alieni e Robot assassini.
Già, ma chi è, che cosa rappresenta il Mostro? Quale “spazio oscuro” – per dirla con Borges – “offre a noi per specchiarci”?
Secondo il semiologo Paolo Fabbri una grande rivelazione sulla personalità del mostro è data da "Lo strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde" di Robert Louis Stevenson, dove il buon Jekyll è la stessa persona del malvagio Hyde.
E se i mostri autentici, fossero quelli che spesso niente hanno di fisicamente mostruoso, esseri che si aggirano nella società vestendo i panni della più grigia normalità?

Questa e altre domande, tra filosofia e sociologia, con ricche documentazioni, propone una sontuosa esposizione al Museo Civico di Crema e del Cremasco
Titolo: Mostri La dimensione dell’oltre, a cura di Silvia Scaravaggi.
Nelle sale Agello sono esposte 112 opere – molte delle quali prestate dallo storico dell’arte Emanuele Bardazzi – opere su carta, grafiche, e poi libri, illustrazioni dedicate alle figure del mostruoso nella letteratura e nell’arte, dall’Ottocento fino a oggi,

Segue ora un incontro con la curatrice Silvia Scaravaggi.


Mostri. La dimensione dell'oltre (2)


A Silvia Scaravaggi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Nella storia della cultura occidentale dove troviamo le origini del Mostro?

Il mostro è insito nel subconscio umano e nella sua immaginazione fin dall'inizio dell’umanità. Basti pensare alle incisioni rupestri oppure, per spostarsi di molti secoli, in un ambiente culturale elaborato, alla letteratura greca antica e alle figure mitologiche e mostruose che la caratterizzano.

La figura del mostro come cambia attraverso i secoli?

Generalizzando, il mostro si configura al principio come divinità o come natura, per diventare poi nel tempo un'astrazione sempre più lontana da un concetto concreto, tant’è che oggi il mostro può albergare all’interno di dimensioni immateriali come la rete internet.

È la deformità morale a determinare nel Mostro quella fisica o viceversa?

Nella esposizione “Mostri. La dimensione dell’oltre” si è scelto intenzionalmente di non trattare il concerto di deformità; è piuttosto la diversità, la difformità dalla norma o dal consueto a interessare il percorso curatoriale e le opere degli artisti esposti. Pertanto, c'è una assoluta aderenza tra dimensione dell’oltre e figurazione nelle opere presenti.

Dice Dylan Dog: “Non sono io a trovare i mostri... Sono loro a trovare me”
Succede solo a Dylan Dog
?

Non è necessario cercare mostri, la tensione per l’oltre, lo sconosciuto e il misterioso è dentro di noi, questo gli artisti tra passato e presente ci mostrano con una capacità visionaria e rivelatrice.

Cinema, fumetti, videogiochi, teatro tecno-sensoriale, arti visive realizzate con modalità elettroniche fino alle immagini create dall’Intelligenza Artificiale: in questi nuovi strumenti post-letterari chi (o che cosa) è diventato il Mostro di questa nostra epoca? Ha solo nuove fattezze oppure ha assunto una nuova natura?

Il Mostro è un simbolo che conduce alla soglia dell'ignoto, nulla cambia a seconda del mezzo o del medium utilizzato. Anche nei nuovi media le suggestioni e le ispirazioni derivano dalla stessa fonte attrattiva, dall’abisso della Sibilla alla metamorfosi fisica operata da Stelarc.

Due domande in una. La mostra reca nel titolo la dizione “La dimensione dell’oltre”. Che cosa dobbiamo intendere per “Oltre”? È in quella dimensione che vive il Mostro oppure è un traghettatore verso quella dimensione?

L’oltre è ciò che non conosciamo, se ne fossimo assolutamente consapevoli potrei risponderle in modo certo. In questa indeterminatezza, nella possibilità di accedere a un mondo altro o a una realtà che possiamo solo intravedere, abbiamo posto la figura del mostro, che egli viva nell’oltre o che ci conduca a una soglia è uno dei temi centrali della mostra a cui i visitatori potranno cercare di trovare risposta.


Mostri. La dimensione dell'oltre (3)

Estratto dal comunicato stampa.

«L’esposizione “Mostri. La dimensione dell’oltre” è una riflessione sulla potenzialità del mostro come tramite per un’altra dimensione. Non tratta il concetto in quanto deformità, negli aspetti della teratologia, indaga, invece, attraverso un percorso tra le più ricche espressioni dell’arte grafica e del libro illustrato, un’etica del superamento in cui si condensa una rivoluzione: l’accoglimento dell’alterità, l’ammissione di una realtà flessibile e fluttuante, affatto definitiva o rigida.

Il mostro nell’esposizione, che è tale grazie alla concorrenza di due preziose collezioni d’arte private di Milano e Firenze, è inteso come figura di rivelazione. Mostro è rivelazione di qualcosa che doveva restare occulto e improvvisamente riappare: la mitologia, le divinità, il rapporto dell’uomo con la natura, gli esseri soprannaturali, i simboli legati non solo a taluni rituali bensì anche a cruciali momenti storici e sociali, di cui sono riflesso spesso rivelatore.

Il mostro entra nell’immaginario dell’uomo fin dall’origine e in ogni cultura e tradizione. Per cogliere appena l’ampiezza e varietà della sua presenza, almeno nella letteratura occidentale, è sufficiente pensare alla Divina Commedia di Dante, al Paradiso Perduto di Milton, o ai più recenti Dracula di Braham Stoker e Frankenstein di Mary Shelley. Le mutevoli forme del mostruoso, accompagnate da fascino e timore, in bilico tra luce e oscurità, abitano narrazioni e illustrazioni, ma, per quanto multiforme il mostro possa apparire, egli è sempre un simbolo posto lungo un confine, una soglia che offre accesso a un orizzonte ignoto, a un abisso sconosciuto o che riporta in superficie elementi accantonati, temi celati e diversità negate

Alcuni mostri hanno un nome proprio, sono Lilith, Lucifero o Satana, Frankenstein o Dracula, alcuni mostri hanno un pubblico, adulto o giovane. Scopriamo tendenze e predilezioni guardando nella ricerca artistica a partire dagli anni a cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Un momento in cui, nuovamente come già accaduto in precedenti periodi storici, uno fra tutti il Medioevo, l’attenzione si sposta su ciò che è irrazionale, inconscio. Studiosi, artisti, letterati si dirigono verso il superamento delle barriere dei sensi e ciò accade anche come stretta conseguenza di un mondo illuminista che aveva migliorato la visione razionale della vita ma al contempo forzato troppo nella direzione del positivismo, conducendo inevitabilmente gli intellettuali, gli artisti e le anime curiose verso l’ignoto. Nell’esposizione il percorso di conoscenza del mostro ha inizio sul finire dell’Ottocento e celebra quello straordinario momento di fervore artistico e culturale capace di valorizzare come mai prima e, forse, mai in seguito, la fascinazione dell’invisibile, dell’irrazionale, dello sconosciuto.

La mostra, prodotta e promossa dal Comune di Crema, Assessorato alla Cultura, è accompagnata da un catalogo edito da Museo Civico Crema con testi critici di Emanuele Bardazzi, Edoardo Fontana, Silvia Scaravaggi».

……………………………………….


Ufficio stampa: Sara Zolla
346 8457982 – press@sarazolla.com

……………………………………….

Mostri. La dimensione dell’oltre
A cura di Silvia Scaravaggi
Museo Civico di Crema e del Cremasco
Piazzetta W. T. Gregorj, 2, Crema
Per informazioni:
0373 - 257161 / 0373 - 894481
scripta@comune.crema.cr.it
Fino al 12 dicembre 2021


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