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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

L'audiovisione


«Fino a oggi le teorie del cinema, nel loro insieme, hanno più o meno eluso la questione del suono: sia compiendo l’omissione di proposito, sia trattando il suono come un ambito specifico e minore».
Si apre così un importante saggio, pubblicato da Lindau, intitolato L’audiovisione Suono e immagine nel cinema.
L’autore è Michel Chion.
Nato a Creil in Francia nel 1947, è critico, compositore, regista di film e video, teorico dell'ascolto e dell'audiovisione. Molti suoi saggi sono apparsi sulle pagine dei «Cahiers du Cinéma». Attualmente vive e lavora a Parigi.
Di lui, Lindau ha pubblicato: “David Lynch” (2006); “Un'Odissea del cinema. Il «2001» di Stanley Kubrick” (2008); “Stanley Kubrick. L’umano né più né meno” (2016).

Finalità di questo libro è mostrare come nella combinazione audiovisiva, una percezione influenzi l’altra e la trasformi: non si “vede” la stessa cosa quando si sente; non si “sente” la stessa cosa quando si vede. Succede al cinema, ma anche alle trasmissioni tv oppure a certe opere di arte visiva che si avvalgono di sonorità; si pensi, ad esempio, a Jean Tinguely, a Heiner Goebbels, oppure a Pinuccio Sciola.
Esempio estremo, al limite della provocazione, dell’importanza del suono al cinema è il documentario Weekend (1930) del regista tedesco Walter Ruttman che girò quel film senza immagini, con i suoni impressi sulla banda magnetica della pellicola. Mi scuso per una citazione personale, quel raro documento riuscii a trasmetterlo, a metà degli anni '70, a Radiorai (grazie a un gentile prestito del critico Mario Franco) quando con Pinotto Fava dirigevo "Fonosfera"; esistevano allora alla Rai – epoca ormai di lontananza astrale – programmi sperimentali radiofonici.

Il volume di Chion s’impernia prevalentemente su quel fenomeno chiamato “sinestesia”.
Il vocabolario scientifico così lo descrive: “La sinestesia è un fenomeno sensoriale/percettivo, che indica una contaminazione dei sensi nella percezione. Con quel termine si fa riferimento a situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva di due eventi sensoriali distinti diventino conviventi".
Eccellenti studiosi della sinestesia nelle neuroscienze sono Lovelace, Ramachandran, Grossenbacher.
Quando la sinestesia avviene in campo estetico, si producono sensazioni che mettono in moto meccanismi di percezione che, spesso, vanno anche al di là delle intenzioni dell’autore di un’opera perché investono il vissuto dello spettatore.
Ora, come già detto, il cinema – come trasmissioni tv, videoart, installazioni che si avvalgono del suono – di quel fenomeno di percezione è un protagonista, ecco perché è benvenuto questo studio di Chion che si occupa a fondo del suono e dello scambio, per parallelismo o per contrasto, con l’immagine, troppo spesso, infatti, alle sonorità (non solo musica ma anche effetti sonori naturali o creati oggi al computer) in tanti, sbagliando, attribuiscono un ruolo ancillare.

Nel presentare questo classico della teoria cinematografica, Chion scrive: “I film, la televisione e i media audiovisivi in generale non si rivolgono soltanto all’occhio. Essi suscitano nel loro spettatore – nel loro “audio-spettatore” – una specifica disposizione percettiva, disposizione che, nel presente lavoro, proponiamo di chiamare audiovisione. Un’attività, questa, che non è mai stata considerata nella sua novità: si continua a parlare di “vedere” un film o una trasmissione, trascurando la modificazione introdotta dalla colonna audio. Oppure ci si accontenta di uno schema aggiuntivo. Assistere a uno spettacolo audiovisivo consisterebbe insomma nel vedere delle immagini più sentire dei suoni, e ciascuna delle due percezioni resterebbe saggiamente circoscritta al proprio ambito.

Cliccare QUI per il sito web dell’autore.

Michel Chion
L’audiovisione
Traduzione di Dario Buzzolan
Pagine 264, Euro 24.00
Lindau


L'inquieto

Che l’inquietudine sia fonte d’ogni più avventurosa esplorazione psichica è testimoniata da tante opere in tante arti, e non si contano i capolavori che ha ispirato.Comprensibile, quindi, il mio interesse per un periodico web (in foto il numero 8) che proprio L'inquieto si chiama.
Interesse ben riposto perché è un piccolo Giardino delle Delizie che attraverso racconti scanditi da opere visive – non in senso illustrativo ma interpretativo – presenta creature immaginarie, figure icastiche, tormenti reali, glorie e pericoli di vite smarrite e ritrovate sul filo di un rasoio sovente portato al taglio autoironico.

Non leggo narrativa come sanno quei generosi che leggono queste mie pagine, i motivi li ho illustrati (per chi volesse saperlo) QUI tempo fa.
Credo che la nuova narrativa si trovi oggi nelle serie tv, nei videogames interattivi e, se sulla carta, m’interessa la graphic novel.
C’è un genere, però, al quale guardo con attenzione ed è il racconto, specie se breve o brevissimo.
Perché lì nulla può essere sbagliato, neppure una virgola, mentre sul lungo si perdona perfino qualche pausa.
Spesso, specie di recente, ho provato più di una delusione, ma proprio sulle pagine web dell’Inquieto ho letto, invece, cose interessanti, mai noiose, mai presuntuose, veloci come a me piace, con tagli fumettistici, con abilità narrative che riservano anche coup de théâtre.

La pubblicazione mi era già nota e su questo sito intervistai due anni fa gli ideatori Bernardo Anichini e Martin Hofer; a distanza di tempo ho trovato L’inquieto che non ha tradito la sua inquietudine e, anzi, ne ha affinato le sue qualità affabulatorie.


L'arazzo oggi


L’arazzo, è un’arte tessile di cui i più antichi esemplari giunti a noi risalgono all'antico Egitto e alla Grecia tardo ellenica, ma erano diffusi ovunque nel mondo, dal Giappone all'America precolombiana.
Esistono – nonostante una comprensibile diminuzione della produzione – anche in anni recenti arazzi realizzati da artisti quali Gromaire, Matisse, Mirò, Braque, Picasso.
Tra gli italiani: Corrado Cagli, Corpora, Giulio Turcato, Giuseppe Santomaso, Giuseppe Capogrossi, Valerio Miroglio di cui in questi giorni è in corso una mostra ad Asti.

A testimoniare la presenza ancora oggi di quella tecnica, al MACRO si può visitare una mostra dedicate all’Arazzeria Pennese.
Fondata nel 1965 e attiva fino al 1998, quell’Arazzeria rappresenta un’eccellenza dell’artigianato artistico di Penne, antico borgo medioevale della provincia di Pescara.
L’esposizione è a cura di Barbara Martusciello (in foto), che ha al suo attivo oltre un centinaio di mostre con scoperte di nuove figure e presentazione di nomi noti, ricordo, infatti, che ha ordinato mostre di Nanni Balestrini, Pablo Echaurren, Nato Frascà, Mario Sasso, Luca Patella, Mario Schifano Matteo Basilè, Monica Cuoghi & Claudio Corsello, Renato Mambor, Alessandro Gianvenuti, Giuseppe Tubi, e tanti altri.
È editor-in-chief del webmagazine Art a part diretto da Isabella Moroni.
QUI una sua intervista apparsa su questo sito.

La nascita dell’Arazzeria Pennese nella seconda metà del ’900 è strettamente legata all’incontro e alla collaborazione con Enrico Accatino che nel laboratorio ha prodotto circa sessanta arazzi. I risultati brillanti ottenuti fin dall’inizio, ne fecero in breve tempo un centro di grande risonanza internazionale e sono molti gli artisti che hanno fornito i loro bozzetti e collaborato con le loro idee e suggerimenti alla tessitura: Marcello Avenali, Afro Basaldella, Diana Baylon, Remo Brindisi, Primo Conti, Antonio Paradiso, le figlie di Giacomo Balla e il già prima nominato Capogrossi, il cui arazzo, lungo più di 8 metri, è esposto attualmente nella Galleria della Biblioteca Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele II” di Roma.
In mostra, si potranno ammirare alcune grandi opere di Giacomo Balla e Afro, parte dell’arazzeria storica, e la nuova produzione contemporanea costituita da arazzi di Alberto Di Fabio, Matteo Nasini, Marco Tirelli, Costas Varotsos e materiale preparatorio del recentissimo lavoro di Andrea Mastrovito, opera che sarà presentata ufficialmente a chiusura della mostra con un convegno sul tema “Arazzeria e Contemporaneità”.

Ufficio Stampa Zètema Progetto Cultura
Patrizia Morici / T. +39 06 82 07 73 71 / M. +39 348 54 86 548 p.morici@zetema.it
stampa.macro@comune.roma.it

Arazzerria Pennese
A cura di Barbara Martusciello
MACRO - Museo d’Arte Contemporanea Roma
Studio d’artista 1, Via Nizza 138
Fino al 3 settembre 2017


Il passo sospeso

La Fondazione Ragghianti, in occasione del trentesimo anniversario della morte di Carlo Ludovico Ragghianti, propone una maiuscola mostra che è dislocata in tutta la città di Lucca.
È a cura di Alessandro Romanini.
Titolo Il passo sospeso Esplorazioni del limite .
Titolo che volutamente richiama il film di Theodoros Angelopoulos (“Il passo sospeso della cicogna”, 1991) e riguarda il preciso istante in cui un piede rimane ancorato a un luogo noto mentre l’altro è già sospeso oltre la linea di confine che ci separa dall’ignoto come chiarisce il direttore della Fondazione Paolo Bolpagni.

Mostra dunque dedicata all’esplorazione del concetto di limite. Limiti, confini, frontiere, da molto tempo alla ribalta della cronaca mediatica, sono indagati nelle loro declinazioni culturali, geopolitiche e storico-identitarie in una serie di opere di artisti internazionali. L’esposizione oltrepassa i confini del complesso monumentale di San Micheletto, sede della Fondazione Ragghianti, per estendersi, come detto in apertura, nel centro storico e sulle mura di Lucca.

Artisti: Marina Abramović, Gustavo Aceves, Bas Jan Ader, Roberto Barni, Alighiero Boetti, Marcel Broodthaers, Enrico Castellani, Sandro Chia, Michelangelo Consani, Leone Contini, Vittorio Corsini, Gino De Dominicis, Aron Demetz, Giuseppe Donnaloia, Mario Fallini, Roberto Fanari, Davide Ferrario, Lucio Fontana, Luca Gaddini, Peter Greenaway, Emilio Isgrò, William Kentridge, Joseph Kosuth, Markus Lüpertz, Piero Manzoni, Marisa Merz, Igor Mitoraj, Jonathan Monk, Alexey Morosov, Luigi Ontani, ORLAN, Mimmo Paladino, Giulio Paolini, Massimiliano Pelletti, Marc Quinn, Enrique Ramirez, Bernardí Roig, Wael Shawky, Santiago Sierra, Giuseppe Uncini, Sophia Vari, Massimo Vitali, Guido van der Werve, Kan Yasuda.

QUI un video sulla mostra.

Ufficio Stampa: Elena Fiori, elena.fiori@fondazioneragghianti.it

Il passo sospeso
Fondazione Ragghianti
Via San Micheletto 3, Lucca

Info:
Tel 0583.467 205 - Fax 0583.490 325
email: info@fondazioneragghianti.it

Fino al 3 luglio ‘17
Ingresso libero.



Trailer e film (1)

Un tempo veniva detto “Prossimamente”, prima ancora “Fuori quadro”.
Oggi si chiama “Trailer”.
Rispetto al film, sta fra la descrizione di un piatto raffinato e l’esibizione di un ammaliante streap tease.
Difatti espone i più appetitosi ingredienti della pietanza filmica in modo da invogliare lo spettatore più inappetente e maliziosamente mostra eccitanti sequenze che promettono piaceri dalla visione dell’intero corpo della pellicola, roba che non bisogna essere un cinephile per provare l’irresistibile desiderio di recarsi al primo giorno di programmazione di quel film.
Qual è l’origine di questo clip talvolta sincero talaltra ingannevole?
Secondo alcuni (ma esistono anche altri pareri), il primo trailer è considerato quello proiettato nel 1912 alla fine di “The Adventures of Kathlyn”, una serie di brevi episodi collegati l’uno con l’altro, ed era molto semplice. Alla fine di un episodio in cui Kathlyn, la protagonista, finisce in una fossa di leoni, fu proiettato un testo che, per convincere gli spettatori a tornare per l’episodio successivo, chiedeva: «Ce la farà a scappare dalla fossa? Venite a vedere i prossimi emozionanti capitoli».
Se volete saperne di più sulla storia del trailer: CLIC!
Esiste oggi anche un Festival dedicato ai trailers nato nel 2003, ma voglio ricordare che 26 anni prima, nell’agosto del ’77, Renato Nicolini nel corso della prima estate romana, dedicò ai trailers una rassegna che si tenne nella basilica di Massenzio.

La casa editrice Mimesis ha pubblicato un brillante saggio che svolge un’indagine semiologica su quel breve filmato che è ricco di segni linguistici.
Titolo: Trailer e film. Ne è autrice Martina Federico.
Dottore di ricerca in Scienze del Linguaggio e della Comunicazione presso l’Università di Torino. Laureata in Discipline Semiotiche presso l’Università degli Studi di Bologna con una tesi sui trailer, svolge attività di ricerca e didattica presso la cattedra di Semiotica dell’Università di Modena e Reggio Emilia, presso quella di Estetica e Semiotica delle Arti del Politecnico di Milano e presso l’insegnamento di Teorie della Creatività della Iulm.
Per la rivista cinematografica “Segnocinema” ha ideato la rubrica “SegnoFilmTrailer”.
Si occupa di trailer anche sull’ ”Huffington Post” e sulla rivista “8 e 1/2”.

Dalla presentazione editoriale.
«Cosa emerge da un confronto dettagliato tra trailer e film?
In questo volume, il primo in Italia integralmente dedicato a questo genere testuale, Martina Federico raccoglie anni di ricerche sul tema allo scopo di indagare il rapporto che si instaura tra un’opera cinematografica e la sua anticipazione.
Il trailer può raccontare fedelmente, nascondere, sedurre, ingannare, stabilendo un dialogo di volta in volta differente con il suo testo di riferimento.
In un’apposita sezione composta da schede di analisi che prendono in esame cinquanta opere, il volume analizza per mezzo di precise categorie (chiarezza, fedeltà, ecc.) i possibili incroci tra trailer e film e quanto il primo sia riuscito a valorizzare il secondo».

Segue ora una breve conversazione con Martina Federico.


Trailer e film (2)


A Martina Federico (in foto) ho rivolto alcune domande.

Alcuni registi – famosi i casi di De Mille e Hitchcock – hanno montato, o addirittura girato, trailers dei loro film, ma oggi chi è che fa o per meglio dire è l’autore dei trailers?

Non è chiaro, il panorama è vario.
Può essere un'agenzia creativa, un montatore, un videomaker, sotto la direzione marketing della casa di distribuzione. Qualche volta il regista ci prova...

Il tuo libro comincia con un importante capitolo giustamente intitolato “Antefatto” laddove indichi due tipi di trailers: il narrativo e l’antinarrativo.
Che cosa intendi con quelle due dizioni e quale la differenza fra loro
?

Il primo racconta una storia chiara, una storia che lo spettatore riesce a ricostruire, il secondo no, e si basa piuttosto su un altro tipo di strategia che fa dell' impossibilità di comprendere il suo punto di forza.

In quale rapporto (o rapporti) col film si pone il trailer?

Parecchi.
- in un rapporto di sintesi
- in un rapporto di traduzione
- in un rapporto di combinazione
- in un rapporto di seduzione
- in un rapporto di promozione
- in un rapporto di domanda/risposta
In tutti i casi pone in essere una situazione di attesa, con tutte le differenze del caso.

Il web ha imposto oppure no un diverso linguaggio al trailer nel proporsi al pubblico?

Certamente l'ha reso fruibile fuori dalle sale cinematografiche. Questo crea ora una gestione diversa del tempo di attesa nei confronti del film, oltre a fornire allo spettatore la possibilità di ritornare sul trailer in qualsiasi momento, anche a film visto.
Quindi, più che il linguaggio, in qualche modo è andato ad influire indirettamente sulla sua “comunicazione” in generale.

Che cosa, a tuo avviso, fa di un trailer un trailer riuscito?

In estrema sintesi, la capacità di attirare lo spettatore ma non di meno quella di far scaturire dalla sua visione un dialogo che arricchisca il film.

Martina Federico
Trailer e film
Pagine 232, Euro 20.00
Mimesis


Il cervello

Il cervello non è uguale per tutti, da qui il mio invito alla prudenza consigliando di usare per alcuni la parola ”testa” invece di “cervello”, così andate sul sicuro.
Pensate, ad esempio, a quelli che si oppongono ai vaccini.
E così correttamente diremo di quel tale o quella tale: “Che cosa mai avrà nella testa?” e non “Che cosa mai avrà nel cervello?”, e così via.
Due importanti dati fisici: 1) il cervello umano (fra quelli che ne dispongono), ha un peso medio di 1.330 grammi, è più voluminoso di quello di qualsiasi altro grande primate e più piccolo soltanto di quello degli elefanti, dei grandi delfini e delle balene; 2) Ha più di 100 miliardi di cellule; ciascuna connessa con almeno altre 20.000; probabilmente le combinazioni possibili sono più grandi del numero di molecole dell’universo conosciuto.

Una riflessione. Ogni organo del corpo umano, sia femminile sia maschile, ha uno specialista e uno solo che se ne occupa in quest’epoca della specializzazione che se da un lato presenta indiscutibili vantaggi, comporta pure la perdita di una visione olistica del nostro essere perché ciò che accade in un punto non è sempre diviso da quanto avviene in un altro. Si dà colpa di questa visione frammentata al progresso tecnologico, eppure sarà proprio da quel (da tanti) vituperato progresso che la medicina tornerà a essere olistica, quando, cioè, basterà un solo chip impiantato in noi per ottenere una visione d’insieme e senza neppure recarci dal medico o, allora più probabilmente, da un genetista.
Ma siamo nel 2017, e sorprende che ci sia un solo organo che vede applicate su di esso ben quattro professioni mediche!
Indagano, disputano, accolgono pazienti, infatti, quattro specialisti, in ordine alfabetico: il neurologo, lo psicanalista, lo psichiatra, lo psicologo.

Perché queste righe su quell’organo che tutti gli altri governa?
Perché Dedalo, proseguendo nella meritoria opera di divulgazione scientifica per la più verde età, ha pubblicato nella collana Piccola Biblioteca di Scienza, ben diretta da Elena Ioli, un libro intitolato proprio Il cervello.
Autori: William Rostène - Jacques Epelbaum

Rostène è specialista in neuroscienze e direttore di ricerca all’INSERM. Lavora all’Institut de la vision a Parigi e scrive romanzi storico-scientifici.

Epelbaum, specialista in neuroscienze e direttore di ricerca all’INSERM, dirige il Centro di psichiatria e neuroscienze dell’ospedale Sainte-Anne a Parigi. Ha scritto diversi libri sui ritmi biologici e ormonali e sull’invecchiamento cerebrale.

Lo spunto narrativo del volume è dato da un sogno.
Si è fatto tardi, Louis si è addormentato leggendo il libro consigliato dalla maestra.
Le vacanze si avvicinano e lui sogna di partire per un viaggio fantastico alla scoperta del cervello con i suoi compagni di scuola Marie, Alexandra e Serge.
Il signor Neurone, direttore di un’agenzia di viaggi molto speciale, li guida attraverso un mondo affascinante. Visiteranno il paese dei cinque sensi, quello delle emozioni e della memoria.

A proposito di vacanze, ecco un bel libro da regalare a chi ha fra i 7 e i 10 anni perché non è vero che i ragazzi non leggano, questo convincimento è meno vero di quanto sia drammatizzato. Di solito, questa cosa è detta rapportando tempi andati con quelli di oggi. È evidente che oggi siano moltiplicati, grazie alle nuove tecnologie, gli strumenti di svago extra scolastico; è altrettanto evidente che la crisi economica che ci affligge da poco meno di dieci anni ha ridotto le possibilità d’acquisto di libri (e non solo per ragazzi) delle famiglie. Poi c’è da chiedersi quanto facciano gli editori per rendere la loro produzione al passo dei nostri anni, in senso contenutistico, in forma visiva, in versatilità d’esposizione dei testi.
Dedalo mi pare che lavori bene e questo recente libro ne è buona testimonianza. Ad esempio, si avvale di una sitografia, di un glossario rapidamente esplicativo, di un’attrezzatura d’immagini che spiegano – per fare ancora un esempio – gli effetti fisiologici dei sapori sulla lingua.

William Rostène - Jacques Epelbaum
Il cervello
Traduzione di Gianna Cernuschi
Illustrazioni di Sophie Hérout
Pagine 64, Euro 8.00
Edizioni Dedalo


Bambini in fuga (1)

Una curiosità vivacissima, grande capacità d’indagine, una brillante scrittura, fanno di Mirella Serri un’autrice meritatamente stimata dalla critica e amata da molti lettori.
Da anni studia avvenimenti che hanno segnato la nostra storia anche occupandosi di nascosti episodi che, oltre a svelare angoli oscuri del nostro passato nel ‘900, sono esemplari per capire vergogne o glorie dei nostri comportamenti.
Lo fa anche in questo suo più recente libro, pubblicato da Longanesi, intitolato Bambini in fuga I giovanissimi ebrei braccati da nazisti e fondamentalisti islamici e gli eroi italiani che li salvarono

Mirella Serri insegna Letteratura e Giornalismo all’Università La Sapienza di Roma. Collabora a La Stampa, a Ttl e a Sette-Corriere della Sera. Tra i suoi libri: “Carlo Dossi e il racconto” (Bulzoni); “Storie di spie. Saggi sul Novecento in letteratura” (Edisud); “Il breve viaggio. Giaime Pintor nella Weimar nazista” (Marsilio); “I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948” (Corbaccio, 2005).
Ha curato “Doppio diario. 1936-194” (Einaudi) di Giaime Pintor e ha partecipato ai volumi collettivi “Donne del Risorgimento” e “Donne nella Grande Guerra” (entrambi per Il Mulino).
Questo sito ha recensito: I profeti disarmati. La guerra tra le due sinistre (Corbaccio, 2008); Sorvegliati speciali. Gli intellettuali italiani spiati dai gendarmi (Longanesi, 2012), e ancora con Longanesi nel 2014 Un amore partigiano e Gli invisibili.

Dalla presentazione editoriale di “Bambini in fuga”.
«Per sottrarsi alle persecuzioni naziste dopo aver perso i genitori nei campi di concentramento, settantatré giovanissimi ebrei, tra i sei e i diciassette anni, attraversano la Germania e la Slovenia e riescono ad arrivare in Italia, a Nonantola, un paese in provincia di Modena.
Qui, a dispetto del fascismo e delle campagne razziali, l’intera popolazione si mobilita per aiutarli, offrendo loro protezione per un anno intero.
Ma l’8 settembre del 1943 la situazione precipita: Nonantola viene occupata dai nazisti e i ragazzi devono essere messi in salvo in fretta e tenuti nascosti, con la speranza di farli espatriare in Svizzera.
Ripercorrendo la storia rocambolesca dei ragazzini in fuga dal Reich, Mirella Serri riporta alla luce anche il segreto e tenace lavorio di un personaggio poco conosciuto ma centrale nella Shoah: il gran Muftī di Gerusalemme, Amīn al-Ḥusaynī, esponente dell’islamismo più radicale. Da Berlino, dove si era rifugiato lavorando a fianco di Hitler e di Eichmann, al-Ḥusaynī cercò in ogni modo di bloccare l’espatrio e la salvezza degli ebrei, inclusi i ragazzi che si rifugiarono a Nonantola, arrivando perfino a costituire una divisione autonoma di SS musulmane nei Balcani per precludere l’ultima via di scampo.
Quella dei ragazzi di Nonantola e dei loro salvatori è una storia di eroi dimenticati o trascurati, una storia di ribellione corale alle dittature, una storia tutta italiana e al tempo stesso universale di generosità e di profonda umanità, in una lotta contro il male che si rivela, con altri volti e altri nomi, drammaticamente attuale».

Segue ora un incontro con Mirella Serri.


Bambini in fuga (2)

A Mirella Serri (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come sei venuta a conoscenza di questa storia?

Quando mi sono imbattuta nella vicenda del paese di Nonantola vicino Modena, i cui abitanti si sono mobilitati durante il secondo conflitto mondiale per accogliere i 73 ragazzi ebrei in fuga dal Reich, era iniziata in Siria la guerra che dura tutt’oggi. E in Italia ci confrontavamo con il dramma dell’arrivo in Italia dei profughi, in gran parte bambini. Mi è sembrata una bellissima testimonianza del ‘carattere’ degli italiani e di quanto fossero capaci di accoglienza e di tolleranza nei confronti del “diverso” e dello straniero. Gli abitanti di Nonantola, che ospitarono i ragazzi ebrei nell’Italia razzista e fascista in periodo di guerra quando scarseggiavano i generi alimentari e di prima necessità, misero a repentaglio la loro incolumità. Una vicenda, quella di Nonantola, di cui ho messo in evidenza, per la prima volta, il ruolo giocato dagli aguzzini e dagli inseguitori dei ragazzi: non solo i nazisti ma anche il Gran Muftì, Amin al Husayni, trasferitosi da Gerusalemme, a fianco di Hitler cercava di impedire l’emigrazione ebraica verso la Palestina e in particolar modo quella dei bambini per estirpare la ‘mala razza ebraica’ alle radici.

Come riuscì quel gruppo in Italia a sfuggire alle spie fasciste?

Dopo l’8 settembre 1943 i nazisti occuparono Modena e anche Nonantola. Già da tempo i ragazzi chiedevano permessi di espatrio per la Palestina che tardavano ad arrivare. Con i tedeschi a Modena l’unica possibilità di salvezza fu la fuga in Svizzera. Il gruppo si salvò grazie all’aiuto di Goffredo Pacifici, ebreo di Firenze che si era stabilito a Modena. Un personaggio eroico assolutamente dimenticato che organizzò il piano di espatrio e li accompagnò a Ponte Tresa nei pressi di Varese. Invece di passare anche lui in Svizzera, Pacifici tornò indietro per aiutare altri gruppi di ebrei che aspettavano di varcare il confine. Venne arrestato e mandato a morire ad Auschwitz con il convoglio del 2 agosto 1944 partito da Verona. Morì anche il sedicenne Salomon Papo che mandato in sanatorio perché affetto da tubercolosi venne denunciato da un infermiere e portato al lager.

Nelle pagine s’apprende che i ragazzi volevano andare in America o in Inghilterra e non in un kibbutz. Come mai?

Non tutti i giovani ebrei erano refrattari all’esperienza del kibbutz ma solo alcuni. Il gruppo era composto da bambini e ragazzi dai sei ai 18 anni che avevano aspirazioni assai diverse: alcuni venivano da famiglie ebree ortodosse molto religiose, altri come il loro capo Indig, che a soli 22 anni era gravato della responsabilità di portare in salvo il gruppo di orfani, erano sionisti convinti, altri ancora non avevano avuto nessuna educazione religiosa e volevano vite organizzate non secondo il modello sionista. Il diario di Indig registra queste varietà che anima i giovani ed è molto bello per questo poiché va oltre tanti stereotipi.

al-Ḥusaynī fu vicino al nazismo perché intimamente convinto di quell’ideologia o soltanto perché vedeva in Hitler la più efficace arma del tempo da lui voluta contro gli ebrei?

Amin al- Husayni sentì fin dagli anni Trenta una profonda vicinanza a Hitler e al nazismo. Prima di tutto era convinto dell’inarrestabile decadenza e corruzione dei principi democratici e dell’occidente in generale. Per cui era in sintonia con Hitler nel riaffermare l’antimodernismo, la religione come verità assoluta e il ruolo del capo carismatico, creatore di uno Stato dominato e regolato dall’autorità del Fűhrer o del «Califfo». A questa sintonia si aggiungeva l’importanza data, tanto dai fedelissimi di Amin che dai nazisti, alla missione suicida. Il gran Muftì, quando saà costretto a fuggire dall’Iraq, chiederà ai suoi uomini di diventare bombe umane per sterminare un numero più alto possibile di ebrei iracheni. E lo stesso metodo verrà utilizzato da gruppi di combattenti tedeschi e palestinesi paracadutati in Palestina nel 1944. Un’altra vicinanza ideologica e culturale era rappresentata dall’imperativo a una totale obbedienza e disciplina per portare a termine lo storico compito che le dittature si erano assegnate. Infine, sia l’Islam che il nazismo, vedevano la vita come lotta per la realizzazione della propria fede e dunque come jiha¯d (« sforzo supremo sulla via di Dio »).

Nelle aree più radicali di oggi dell’integralismo islamico, vedi tracce delle idee lasciate da al-Ḥusaynī?

E’ il gran maestro del fondamentalismo. Fin dagli anni Venti al-Husayni organizza gli accoltellamenti in strada degli ebrei ma anche dei suoi principali nemici, gli islamici moderati. A lui si deve la traduzione in arabo, a metà degli anni Venti, del libro tremendamente diffamatorio nei confronti degli ebrei i “Protocolli dei Savi di Sion” e la sua diffusione nel mondo arabo nel secondo dopoguerra, insieme al “Mein Kampf” di Hitler. Tutti testi assai letti ancora oggi nel mondo islamico peraltro abitato da tanti fedeli all’Islam che desiderano solo pace e lavoro. Cosa che descrivo nel mio libro quando racconto l’episodio del tentativo fallito nel 1944 del Muftì di arruolare i giovani musulmani dei Balcani. al-Ḥusaynī è il padre di una lunga linea di terrorismo: a organizzare, per esempio, il massacro al villaggio olimpico di Monaco di Baviera, il rapimento e l'uccisione di 11 atleti israeliani, e l'omicidio di un poliziotto tedesco, nel settembre 1972 sono stati uomini legati a al-Ḥusaynī che si spegnerà due anni dopo.

Il tuo libro è benvenuto in un momento storico in cui si assiste a una recrudescenza del neonazismo e dell’antisemitismo

Come dimostra con dovizia di dati Maurizio Molinari nel bellissimo saggio “Il ritorno delle tribù. La sfida dei nuovi clan all'ordine mondiale” (Rizzoli) è in crescita il numero degli ebrei in fuga dalla Francia dove si sentono minacciati dai numerosi attentati. Una fuga con destinazione soprattutto Israele. Ormai gli assassinii sono una realtà anche delle nostre cronache quotidiane. In Italia forse abbiamo volutamente e troppo rapidamente rimosso l’accoltellamento di un ebreo ortodosso nelle strade di Milano.

A chi attribuisci le maggiori colpe nel non avere previsto e prevenuto quanto oggi assistiamo?

Ho scritto questo libro per ricordare le dimenticate radici del fondamentalismo e il fiume rosso di sangue, il quale non ha niente a che vedere con le guerre di religione, che ci lega a quei tremendi giorni. La conoscenza della storia di al-Ḥusaynī, alla cui rimozione nel secondo dopoguerra hanno dato un contributo anche i governi di Francia, Inghilterra, l’Jugoslavia di Tito e gli Stati Uniti, può aiutare a prevenire.

Mirella Serri
Bambini in fuga
Pagine 256, Euro 17.60
Longanesi


Bellissima necessità (1)

L’architetto americano Claude Bragdon nacque a Oberlin (Ohio) nel 1866 e morì ottantenne a New York nel 1946.
Tra i suoi lavori, sono particolarmente ricordati la stazione ferroviaria centrale di New York, la Rochester First Universalist Church, la Bevier Memorial Building, la Shingleside e la Rochester Presbyterian Church, l’Oswego Yacht Club.
Tra queste opere, la Bevier Memorial Building fu completata nel 1910, lo stesso anno in cui Bragdon pubblicò un libro che è la raccolta di sette saggi i quali rappresentano la sua visione teosofica dell’architettura.
Ora quel libro lo possediamo, con la traduzione a cura di Maria Ercadi, pubblicato dalle Edizioni Pendragon. Titolo: Bellissima necessità Architettura come musica cristallizzata.

L’immagine qui riprodotta è tratta dal libro di Bragdon Projective Ornament, Manas Press Rochester N.Y., 1915.

Quel sottotitolo fa forse eco a quella musica delle sfere che fa dire all’architetto Eupalinos di Valéry: “Dimmi, poiché sei così sensibile agli effetti dell’architettura, non hai osservato, camminando nella città, come tra gli edifici che la popolano taluni siano muti e altri parlino, mentre altri ancora, cantano?”.
Il volume è impreziosito da una dottissima, appassionata, prefazione - intitolata “il giardino segreto della bellezza” - di Guglielmo Bilancioni, Billi per gli amici, docente di Storia dell’Architettura all’Università di Genova.
Ho la fortuna di conoscerlo da molti anni e sono uno dei suoi numerosi ammiratori del modo in cui riesce ad attraversare mappe e labirinti del sapere.
Di lui ricordo qui alcune pubblicazioni: Eugenio Fuselli. Poesia e urbanistica; la curatela di Architettura, tempo, eternità di Adrian Snodgrass; Spirito fantastico e architettura moderna; la traduzione di Mistica e architettura di Louis Hautcoeur; le scintille galattiche di un suo intervento nel cinquantenario della nascita di Star Trek.
Perché Bilancioni, come potete notare nell'intervista che segue, di anni fa però ancora attuale per merito delle sue risposte, può discorrere con uguale sapienza su antichi segni esoterici e su di un riff di Jimmy Page, sulle sinopie di Pisa o una sequenza di fumetti punk, perché è uno storico della cultura che agisce, in modo ragionato e corsaro a un tempo, su epoche e stili, condotte e forme.
Del resto, anche in questo libro la sua Prefazione reca in epigrafe versi tratti da “Love over gold” brano musicale dei Dire Straits scritto dal chitarrista e cantante Mark Knopfler.

Tornando a Bragdon, ecco un estratto dalla prefazione «Le opere di Bragdon, i suoi scritti o i suoi mirifici disegni, sono immerse nella grazia, nella gioia e nella gloria, che è bellezza trascendentale, e da esse scaturiscono nello splendore di aurei precetti. Sono tutte un inno alla bellezza, alla precisione, alla solarità radiante. Sono, sempre, poliedrica intuizione apollinèa, desiderante pre-sentimento della perfezione. Inducono, in modo diretto, alla contemplazione estatica. Lo diceva bene un altro teosofo degli astri, Camille Flammarion: “Lo constato ma non lo spiego”».

Dalla presentazione editoriale.
«Bellezza è qualcosa di semplice ed esatto, estratta dagli arcani del cosmo e dalle meraviglie della geometria. Una bellezza assoluta e libera, pura e perfetta: necessaria. Questo libro prezioso - una piccola storia delle idee su cosmo, numero e architettura - mostra come fondamento di disegnare e costruire il senso mistico dell'ordine, la musica delle sfere, il nesso delicato e inscindibile fra il tempio e il corpo umano, la potenza della geometria e delle proporzioni armoniche, la gioia della precisione, la gloria e la grazia della Legge. Ornamenti impersonali e democratici, liberi dall'ego e disposti al Sé più elevato, indicano un modo di vivere e un modo di vedere: libero, gratuito e meraviglioso. "Art is at all times subject to the beautiful necessity of proclaiming the world order”».

Il volume si avvale dell’elegante progetto grafico (zoom sulla copertina) di Simona Pareschi.

Segue ora un incontro con Guglielmo Bilancioni.


Bellissima necessità (2)


A Guglielmo Bilancioni (in foto) ho rivolto alcune domande.

Qual è l’importanza di Bragdon nell’architettura della prima parte del secolo scorso?

Claude Bragdon ha avuto un ruolo centrale nella teoria dell’architettura, perché ha trasmesso i valori eterni della divina proporzione, della grazia e dello stile in un mondo che andava perdendoli. Il suo ruolo come teorico supera di molto il suo operare, pur elevato, come architetto. Nei suoi molti libri Bragdon si impegna nella ricerca dei fondamenti della bellezza e libera, in questo, meravigliose energie e visioni senza tempo. Il mistero della forma, della sua Qualità, è sempre al centro dei suoi studi. Per questa ragione, come ha scritto con intelligenza Marco Belpoliti sul Robinson di Repubblica, le opere di Bragdon dovrebbero essere studiate con attenzione nelle scuole di architettura.
Gli aspetti immateriali dell’architettura vengono glorificati da Bragdon con un linguaggio sempre chiaro ed appropriato, sempre illuminante e capace di evocare i fondamenti spirituali delle poderose realizzazioni umane di ogni tempo.
La sua influenza sull’architettura moderna non fu diretta ma pervasiva: la sua amicizia con Sullivan lo dimostra; la riflessione sull’ornamento di Sullivan reca tracce sensibili delle idee di Bragdon sugli Ornamenti Proiettivi, che uniscono, come ha mostrato Jonathan Massey, Cristallo e Arabesco, rigidità geometrica e sinuosità, geometria e teosofia…

… già, Bragdon fu studioso e sostenitore della Teosofia. Di quel pensiero, quali riflessi si trovano nella sua opera?

Il padre di Bragdon era un eminente teosofo. Il giovane Claude si dedicava, studiando gli Antichi, ad una, diceva, ‘filosofia dell’Architettura’. Un giorno andò ad ascoltare una conferenza di Curuppumullage Jinarajadasa, un giovane teosofo di Ceylon, che faceva un ciclo di lezioni nelle varie sedi della Società Teosofica americana. Ne rimase folgorato, per la gentilezza dei modi e per la profondità degli argomenti. Ne divenne allievo e poi amico, e si dedicò da allora, con passione instancabile, alla Scienza Sacra che i Teosofi volevano diffondere. Il loro motto era, in sanscrito, Satyan Nasti Paro Dharma, nessuna religione (o dottrina, o legge) è più alta della verità. Molti libri di Bragdon, fra i quali il più importante è di certo questo “Beautiful Necessity”, sono modellati sugli insegnamenti di Madame Blavatsky, che impressionano per profondità e vastità, dalla cosmogonia alla psicologia del profondo, alla confluenza fra scienza e religione.
Gli studi di Bragdon sulla Quarta Dimensione hanno un fondamento teosofico, così come il suo amore per la sinestesia. Bragdon aveva organizzato dei festival di ‘audizioni colorate’, come aveva fatto Scriabin, un altro adepto della teosofia, con il suo Prometeo. Ogni suono aveva il suo colore che veniva proiettato, rutilante, in mirabili manifestazioni di massa, a Broadway o a Chicago, fra grandi lanterne colorate e un coro di 800 coristi. Un’arte del “colore mobile, diceva, che serviva a scuotere o ad affascinare con la luce, che è notoriamente il simbolo dello spirito, e a mandare, attraverso i sensi, un qualche messaggio di guarigione per l’anima”.
La teosofia, per Bragdon, come per ogni teosofo, è lo spettacolo trascendentale dell’intelligenza che si commisura con il mondo dell’Invisibile e del Superiore.

La colonna, l’architrave, l’arco. Perché Bragdon li riteneva gli elementi chiave nel fare architettura?

Sono le chiavi di volta di ogni costruire e sono i fondamenti, teoretici e formali, del pensiero che si trasforma in manufatto. Sono l’Eterno Presente, sono l’immutabile del costruire, che non nega la necessaria evoluzione ma conserva, nel divenire, l’Essere della Forma architettonica. Il Rinascimento fu Rinascimento dell’Antico e la lotta greca fra il gravame e il sostegno ha generato, attraverso la techne, che era arte e tecnica, la mutazione da architrave ad arco. La colonna è il Principio Primo dell’architettura, e le sue forme, i suoi Ordini, ne sono la eloquente bellissima espressione. L’elemento è indivisibile, unico, simile e ripetuto; esso traccia, nelle sue a volte impercettibili variazioni, il senso del costruire, il modo – modo e modulo... – e lo stile. Poiché, come ha insegnato Perret, un altro grandissimo Architetto della Tradizione, “stile è una parola che non ha plurale”. Gli elementi architettonici recano in loro stessi, ad un tempo, conoscenza ed esperienza dell’architettura, aspetti materiali ed aspetti spirituali, tecnica e cultura, bellezza e necessità.

Questo è un sito che si occupa prevalentemente di letteratura e spettacolo, non posso farmi sfuggire l’occasione per chiederti del Bragdon scenografo

Creare l’autenticità. Questo era il motto di Bragdon come scenografo.
Ad un certo punto della sua carriera di architetto, nel 1923, Bragdon improvvisamente la interruppe, definitivamente. Si trasferì da Rochester a New York, andò a vivere allo Sheldon Hotel e si dedicò esclusivamente alla scrittura e alla scenografia, al teatro.
I motivi di questa ‘inversione’ non sono del tutto chiari, nemmeno nella sua autobiografia, la quale, nondimeno, ha per titolo “More Lives than One”, che potrebbe alludere, oltre che ad una idea della reincarnazione, che gli deriverebbe dalle sue pratiche yoga e dalla spiritualità induista, e buddhista, studiata assieme alla teosofia, anche alle molte differenti attitudini professionali: il grafico, l’editore, e lo Stage Designer.
Bragdon ricercava la sapienza antica nel mondo moderno, come recita il sottotitolo di un altro suo libro “Old Lamps for New”, del 1925.
Colore e costume contavano per lui quanto la simulazione di uno spazio. Il suo esordio, in teatro, fu con Walter Hampden per un Amleto nel 1919, a 53 anni.
Bragdon sentiva con forza quanto il teatro fosse un mezzo per sperimentare una forma superiore di coscienza attraverso una elevata bellezza. Dopo tutte le sue molte vocazioni, Bragdon riteneva che il teatro fosse il mezzo migliore per sperimentare questo fenomeno: "Il Teatro è l'ultima roccaforte della Libertà, dove tutto si può immaginare, fare, dire. Da tempo sento che, liberato dalle inibizioni artificiali, il teatro mi offre il terreno più vasto per l'espressione di una bellezza sorgiva ".
La parola inglese play, gioco e rappresentazione, come quella tedesca spiel, significano illusione: in-lusio, essere-nel-gioco. Il teatro, come l’architettura, è un’arte illusionistica.
Bragdon lo spiega bene nella sua autobiografia: “La più antica e più profonda filosofia religiosa conosciuta, il Vedanta, pone il Creatore sia come attore che come spettatore di un dramma cosmico auto-inaugurato per nessun’altra ragione che non fosse il suo proprio diletto. Se pensiamo al cosmo come il campo di gioco di Dio, il teatro diventa per analogia un microcosmo nel quale l’uomo si diverte in modo creativo in qualsiasi modo possa volere.”

Bragdon muore nel 1946. Successivamente restano e si rintracciano segni del suo pensiero in singoli architetti o scuole? Se sì, dacci qualche indicazione. Se no, perché?

Poche evidenti tracce si rinvengono in Buckminster-Fuller, e in Norman Bel-Geddes, con il quale aveva collaborato per il teatro; e, nel leggendario Akròasis di Hans Keyser è evidente l’impronta pitagorica, che è, ancora, teosofia. Ma le sue influenze non sono mai dirette, dirompenti ed esplicite, ma sottili e sotterranee. Perché Bragdon coltivava il giardino segreto della bellezza, cercava la ‘forza vitale’ nell’unità arte-natura, e si è sempre dedicato al trascendentalismo di Emerson e alla dottrina segreta dei teosofi, mosso più dalle idealità che dai risultati pratici del suo operare. Il suo primo libro, al volgere del ‘900, era in poesia e si intitolava “The Golden Person in the Heart”, il suo ultimo, incompiuto, era “The Veil of Maya”. E Maya è, più che illusione, magia misuratrice.
La grande legge dell’ordine cosmico unita alla delicatezza di una persona sensibile, che cerca la bellezza in ogni cosa creata, trascende, e supera in importanza scuole e movimenti, perdurando ben oltre la fama mondana. E oltre le contingenze.
La bellezza, ci ha insegnato Bragdon, è fatta di polvere di stelle. Il suo suono è quello, raro e silenzioso, della musica delle sfere.

Claude Bragdon
Bellissima necessità
Prefazione di Guglielmo Bilancioni
Traduzione di Maria Ercadi
Pagine 150, Euro 15.00
Pendragon


Le forbici di Manitù

Quei generosi che leggono queste pagine web sanno che sono ateo e che neppure certi simpatici nativi americani sono riusciti – pur usando atroci minacce (ascoltare tutta la discografia di Iva Zanicchi) alternate a modi spicci (imponendomi la lettura dell’opera omnia di Susanna Tamaro) a farmi aderire alla loro religione.
Però… però c’è un gruppo che a Manitù s’ispira che ha tutta la mia simpatia nonostante il loro nome contenga uno strumento apparentemente più castratorio che musicale: Le forbici di Manitù.
Di loro scriverò fra qualche rigo; ora una notizia che con quel gruppo pure ha a che fare.
L’Associazione culturale BAU assembla, produce e distribuisce dal 2004 una rivista d’autore a scadenza annuale. BAU Contenitore di Cultura Contemporanea, raccoglie in una scatola-contenitore multipli, numerati e firmati, di artisti nazionali e internazionali.
Esemplari di BAU sono conservati presso biblioteche, musei, archivi e collezioni, dal Mart di Rovereto alla Tate Modern di Londra.
Il numero 14 della rivista, in uscita nel luglio 2017, ha per tema “GPS - Global Participation System”: come un impianto GPS, BAU si fa ricettore dei diversi “segnali di posizione” inviati dai satelliti creativi nella sua orbita, per poi suggerire traiettorie favorevoli ed obiettivi utili. Tra i 70 autori di BAU 14, che ha la forma di un cofanetto cilindrico (cm. 12 di altezza per cm. 40 di diametro), figurano personaggi storici come Enrico Baj, Giulia Niccolai, Mario Mulas, Gillo Dorfles, e giovani indagatori dei nuovi media come Lino Strangis e Max Serradifalco, chef stellati come Gualtiero Marchesi e Vito Mollica, sperimentatori sonori come My Cat Is An Alien, Paolo Tarsi, Fauve! Gegen A Rhino e Le Forbici di Manitù.

E veniamo a Manitù che i più colti scrivono “Manitou”, fatica inutile perché sempre con la “ù” finale poi si pronuncia.
Per BAU 14, Le Forbici di Manitù (Vittore Baroni, Manitù Rossi, Gabriella Marconi) – in foto – hanno registrato un album con due estesi “itinerari sonori”, GPS - Gigantic Paradigm Shift e GaPS - Global art Participation Systems, viaggiando in direzione di mete utopiche e rivisitando una storia sinottica delle reti artistiche sotterranee internazionali dell’ultimo secolo, dalla Patafisica a Fluxus, dalla Mail Art al Luther Blissett Project.
Il disco 12” in vinile trasparente è applicato ad una originale copertina circolare (diametro cm. 35) con iIlustrazioni di Emanuela Biancuzzi (già ospitata da questo sito; QUI bio e alcuni suoi lavori) e impaginazione grafica di Elisa Landini e Virna Zampolini.
Questo disco è stato prodotto in edizione limitata di 300 copie, 180 delle quali incluse in BAU 14, le restanti 120 disponibili separatamente.

Guidate fin dal lontano 1983 dall’enigmatico Manitù Rossi e responsabili di una dozzina di album per stimate etichette internazionali, Le Forbici di Manitù si trovano a loro agio nei più disparati idiomi sonori, dal rumorismo post-industriale a versioni di classici pop-rock, dal minimalismo elettronico al lounge jazz. Il loro più recente progetto è Tinnitus Tales (Sussidiaria, 2016), triplo album a tema con la collaborazione di una cinquantina di musicisti e artisti visivi. Nelle suite GPS e GaPS, le Forbici operano una singolare commistione di serialismo post-cageiano alla Reich/Glass/Riley ed eclettico citazionismo, passando dalla psichedelia Sixties dei Tomorrow alla new wave Ottanta dei B Sides, dal concettualismo di Fluxus al cut-up Situazionista.

Il disco può essere acquistato, in supporto fisico o digitale, tramite la pagina Bandcamp di Sussidiaria: https://sussidiaria.bandcamp.com/. In alternativa, il 12” in vinile trasparente, fornito di codice per download digitale, può essere richiesto pagando con PayPal € 25 + 10 per spese postali a vittorebaroni@alice.it, o mediante vaglia postale intestato a Vittore Baroni, via C. Battisti 339, 55049 Viareggio, Lu.

Il numero 14 GPS - Global Participation System della rivista d’autore BAU Contenitore di Cultura Contemporanea, in edizione numerata di 180 copie e contenente opere originali di 70 autori internazionali (tra cui il disco 12” GPS / GaPS delle Forbici di Manitù), può essere richiesto a info@bauprogetto.net (il costo è di Euro 300 + 15 per spese postali).


Valerio Miroglio. Il Giudizio Universale (1)


L’esposizione, di cui questa nota riprende il titolo, è imperniata su uno dei maggiori lavori di Valerio Miroglio artista nato a Cassano Magnago il 24 ottobre 1928 e morto ad Asti, il 16 settembre 1991.
Proprio ad Asti, in uno dei suoi più sontuosi edifici barocchi, Palazzo Mazzetti, – oggi attivissima pinacoteca della città – è in corso, dal 6 maggio, la mostra così intitolata curata da Giacomo Goslino e Alessandro Ferraro, aperta fino al 30 luglio.

Miroglio (qui in una foto scattata negli anni ’80) del suo “Giudizio Universale” scrisse È stato un lavoro tremendo: costretto per tre mesi sul gran carnaio, talora per coprire e talaltra, come vedrete, per ulteriormente discoprire. Ho toccato mio malgrado il fondo dell’impudicizia per un’impresa che forse pochi vorranno catalogare tra le più lodevoli.

A beneficio di coloro che non hanno avuto tempo per frequentare alcuna scuola essendo impegnati a calcetto per seguire i saggi consigli del Ministro del lavoro Poletti, ricordo che l’affresco di Michelangelo Buonarroti “Il Giudizio Universale”, fu realizzato tra il 1535 e il 1541 su commissione di papa Paolo III Farnese per decorare la parete dietro l'altare della Cappella Sistina.
L’originale sta QUI e potete ingrandire la visione con un CLIC sulle immagini.
Nel 1564, un anno dopo la fine del Concilio di Trento che le solite male lingue dissero durato un po’ sul lungo (durò, invece, solo 18 anni), in seguito alle tesi non troppo liberali e progressiste uscite da quel consess... no, forse è meglio dire augusta assemblea, venne decisa la censura dei nudi ritenuti scandalosi del Giudizio Universale.
Fu Daniele da Volterra, amico di Michelangelo (…vatti a fidare degli amici!), a coprire la nudità delle figure con le famose "braghe", cosicché da allora è stato soprannominato il Braghettone.
Lavoro, diciamo la verità, non troppo raffinato. Passi per i dannati che precipitano come meritano, ma far finire in braghe di tela pure i beati dopo una vita virtuosa con sacrifici d’ogni tipo, via, era una crudeltà!
Miroglio vi pose riparo vestendoli in modo elegante, secondo la moda degli anni ’70.
Vestì non solo i beati ma pure i dannati perché uomo sì rigoroso ma di anima buona.
I curatori della mostra fra breve chiariranno il profilo estetico dell’operazione, qui io ho voluto riportare soltanto qualche mia considerazione. Che mi deriva dal fatto di avere avuto la fortuna di conoscere molto bene Valerio Miroglio e il suo modo di avvicinarsi al lavoro artistico con rispettosa monelleria.
Valerio ha percorso in solitudine un tracciato espressivo meditato e gioioso, ragionato ed emozionato, attraversando stili e tecniche che lo portarono a riscoprire e rivisitare anche antiche forme visive, come ad esempio l’arazzo, passione che condivideva con Mirò; chissà, forse quelle quattro lettere comuni ai loro cognomi contengono qualche epifania.
Artista visivo e visionario, dissipatore della sua creatività, a conoscere la sua opera di poliartista (perché non fu solo pittore, ma scultore, scrittore, scenografo, autore radiofonico, performer – indimenticabile una sua performance alla galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma) appare di maiuscola evidenza che nella stragrande maggioranza dei casi s’impone nei suoi lavori come protagonista di se stesso. Da qui sarebbe logico pensare che fosse un genio dell’autopromozione… macché, era negato in quel senso. Altra cosa che tengo a dire è che pochi artisti quanto Valerio possono vantare il numero di autorevoli firme che hanno scritto su di lui. E non poche righe d’occasione, ma testi ben più impegnativi per estensione e fiducia accordate. Da Umberto Eco a Ermanno Krumm, da Sebastiano Vassalli ad Achille Bonito Oliva, da Adriano Spatola a Giulia Niccolai, da Fernanda Pivano ad Alberto Abruzzese, da Marisa Vescovo a Rossana Bossaglia, da Giovanni Arpino a Maurizio Corgnati a Ettore Sottsass… posso continuare se volete, ho una lista che va da qui a laggiù.
Altri avrebbero tesaurizzato questo capitale di consensi, lui non lo fece.
E questo non gli ha giovato.
In realtà dietro quel proporsi in primo piano nell’opera, c’era un timido, con l’aggravante d’essere un uomo dall’animo elegante.
Sono cose che il mondo non perdona.

Dal catalogo curato da Sergio Miravalle, qui di seguito i preziosi interventi critici dei due curatori della mostra.


Valerio Miroglio. Il Giudizio universale (2)

Giacomo Goslino
Il Giudizio Universale di Valerio Miroglio: un’ipotesi di allestimento

Quanto segue si pone come una guida a “Valerio Miroglio: Il Giudizio Universale”, allestimento che ripropone, a quarant’anni di distanza, l’operazione a cui vennero dedicate due personali, presso la Nuova Albertina di Torino e la Galleria d’Arte Apax di Roma, entrambe nel 1974.
L’impresa è quanto mai ardua; innanzitutto per il fatto che si tratta dell’operazione più ampia e complessa dell’artista, e in secondo luogo perché obbliga chi scrive a rapportarsi anche con il Giudizio Universale di un altro artista, un certo Michelangelo. Tuttavia essendo – sempre chi scrive – il nipote di Miroglio, per evitare che la sua opera possa passare in secondo piano rispetto all’originale, tuttora situato presso la Cappella Sistina, pochi saranno i riferimenti riservati a esso.
Come detto poco sopra si tratta dell’operazione che più di tutte le altre lo tiene occupato, tanto che non può ascriversi solamente al decennio Settanta, ma conosce sviluppi anche negli anni successivi. E’ altresì l’opera in cui si possono intravedere le diverse anime della sua poetica, sensibile alle cause primarie e alle conseguenze ultime della vita, attenta alla tradizione visiva, fatta di interscambi continui rispetto alla cultura del tempo – gli anni Settanta appunto – e alla sua dimensione politica, veicolo di un radicalismo pacato e mai sopra le righe. La riflessione sul concetto di Assoluto, cui sottende la messa in discussione dello stesso, portata avanti in questo caso con mezzi dissacratori ma allo stesso tempo con profondo rispetto, avviene mediante la citazione e può ascriversi al clima di disincanto tipico del postmoderno.
L’opera è un’articolata analisi dell’affresco michelangiolesco, delle sue componenti formali e dei suoi significati, una parafrasi, che in questo caso, oltre a essere una versione in prosa, è una versione Pop. A Miroglio interessava infatti avvicinare l’opera all’osservatore, facilitarne la fruizione mediante la distanza ravvicinata e rinnovarne la validità, portare quest’ultimo ad una sorta di immedesimazione; l’artista fa propria in questo modo l’istanza concettuale e, grazie alla componente manuale dell’opera, traghetta quest’ultima verso le ricerche degli anni Ottanta.
A lungo si è riflettuto su come potesse essere organizzato l’allestimento, cercando di limitare al minimo l’invasività degli apporti esterni, in modo tale da non scostarsi troppo da quella che è stata l’idea dell’artista e optando infine per la creazione di tre nuclei tematici; nuclei peraltro a cui si è deciso di non conferire un titolo, per far sì che il percorso risultasse il più organico possibile.
Il primo nucleo raccoglie opere dalla forte valenza estetica, opere nate dalla volontà dell’artista di sperimentare le possibilità formali, espressive e cinetiche suggerite dai soggetti originali dell’affresco. Ecco alcune versioni di Multibattista, o il Multidannato, laddove l’espressione dei personaggi decontestualizzati risulta ostile, di un’ostilità aumentata data la reiterazione degli stessi; oppure le due tele in cui il dannato per lussuria, dà origine a una macchia di Rorschach che, ambigua per definizione, richiamando al peccato del dannato, diventa una sorta di organo genitale femminile. San Pietro e il suo doppio e Pietro e Battista a confronto e, sculture in plexiglas, attraverso il gioco di sguardi, mettono in evidenza quanto le immagini possano avere significati diversi se decontestualizzate.
Due esempi di Caduta chiudono il primo nucleo e introducono il secondo, introspettivo e ambiguo. Qui vi è la possibilità di esplorare una realtà altra, nata forse da un Equivoco, in cui l’artista cita se stesso – Fotosculture – costruisce, fonde o plasma nuove Trombe del Giudizio, tesse le trame di avvenimenti di cronaca nera che hanno come protagonisti i personaggi dell’affresco. Porta a termine, rinnovandolo, il lavoro iniziato da Daniele Ricciarelli da Volterra nel 1565, vestendo i protagonisti del dipinto secondo la moda attuale.
L’Equivoco – descritto dall'artista in un'intervista televisiva – nasce dalla compresenza di tre elementi fra loro incongruenti, un dannato michelangiolesco, un drappo di tessuto blu e un individuo contemporaneo e molto diverso, rispetto al resto dell'operazione, è il dipinto in sé. Si crea così un corto circuito di significato e spetta all'osservatore evitare di cadere nell'equivoco.
Le Trombe del Giudizio, di cui in mostra sono presenti tre esemplari, rispettivamente in fusione di metallo, ceramica e materiale edilizio, sono silenti, addomesticate, private della loro funzione ma in urgente attesa di riacquistarla.
Le Fotosculture sono litografie tratte da fotografie, in cui l'artista compone immagini assemblando particolari tratti dalla sua produzione e, come annota Umberto Eco nella presentazione della cartella, “… nell'incertezza se le opere qui presentate siano collages, sculture o fotografie, lo spettatore che ama le etichette può vederle come la pura testimonianza di un esperimento visivo”
Ed è quindi in abito da lavoro, o in abito da sera, che ci si presenta al giudizio finale, che però è smontato e protetto da casse di legno perché è venuto il momento di chiudere questa operazione, vecchia cinquecento anni e passa - osserva ironicamente l’artista. Miroglio scherza ma, inquieto, si rende conto che nell’epoca della saturazione visiva e ideologica, l’opera d’arte necessita di una rinnovata attenzione, cosa che auspica, chiudendo l’affresco in casse da imballaggio, al fine di proteggerlo in caso di catastrofi.
Il Cristo Giudice, direttore di un’orchestra silenziosa – come ebbe a definirlo Corrado Costa – , dove tutto ciò che può essere ancora detto non avrebbe più significato, in legno, resina e frammenti di vetro, decreta la fine del percorso, indicando col gesto del braccio l’uscita; chi osserva, calato nei “panni” del giudicato, ritorna alla vita di tutti i giorni.


Valerio Miroglio. Il Giudizio universale (3)

Alessandro Ferraro
La ricerca di Valerio Miroglio e le ragioni di una mostra.

Articolato in serie, Imballaggi, Vestizioni, Multibattista, Carta da parati e in alcuni pezzi unici, il “Giudizio Universale” è un chiaro esempio della poetica multiforme di Miroglio, artista concettuale non allineato, anticipatore del ritorno alla figurazione e della riflessione sulla cultura visuale italiana. Le serie citate di cui si compone l’intera opera sono di natura plastica, concettuale, pittorica e permettono, dal punto di vista curatoriale, molteplici possibilità. A esse, in questa sede, si aggiungono le Trombe del Giudizio, le Fotosculture, l’Equivoco, e alcuni multipli; data la molteplicità espressiva e contenutistica delle opere proposte, la mostra risulta implicitamente come una antologica dell’artista: “Valerio Miroglio: Il Giudizio Universale” vuole essere un’operazione di recupero artistico sentitamente dovuta ad un grande artista italiano.
Per situare storicamente il Giudizio Universale (1973-1978) di Valerio Miroglio, l’opera più densa e problematica dell’artista astigiano, occorre considerare non soltanto l’immediato venir meno delle istanze ideologiche poveriste - già nel 1971, con la mostra di Monaco «Arte povera: 13 italienische Künstler», si può considerare conclusa l’esperienza corale del gruppo artistico - ma anche l’irrompere sulla scena nazionale della Transavanguardia (1979), imposta e difesa a spada tratta da Achille Bonito Oliva.
A complicare la situazione, il fatto che Miroglio abbia agito in una cesura storica difficilmente classificabile, dove gli interessi della critica nazionale si rivolgevano in maniera ambigua tra il riduzionismo dell’oggetto e il ritorno all’immagine: per situarlo storicamente occorre considerare anche l’importanza delle sperimentazioni artistiche dell’area romana degli anni ‘60 - ’70, che molto hanno influenzato l’artista astigiano. Nella ricerca di Valerio Miroglio sono infatti riscontrabili importanti riferimenti a Mario Ceroli e agli artisti romani della Scuola di Piazza del Popolo, Mario Schifano e Tano Festa. L’abbondanza dei contatti culturali e artistici dell’artista astigiano non testimoniano soltanto il fatto che facesse parte di gruppi e sodalizi artistici – si pensi ai contatti intrattenuti con gli esponenti della poesia visiva emiliana e non solo – ma evidenziano anche i molteplici interessi di Miroglio: è importante rilevare come, oltre a essere artista, sia stato direttore di giornali e riviste d’arte e letteratura, abbia sperimentato nuove forme di comunicazione (“Concerto per piano regolatore”), abbia ideato nuovi modi per rapportarsi con la società del proprio tempo. Non sono mancati gli interventi critici e le rassegne a lui dedicate in vita: si pensi all’importante pubblicazione Qualcosa di metafisico, con contributi di Achille Bonito Oliva, Paolo Fossati, Ettore Sottsass Jr, Luigi Paolo Finizio, ma anche testi e interventi d’artista come il brano “Qualcosa di metafisico” di Adriano Spatola, la “Poesia per Valerio Miroglio” di Mario Ramous, il “Monologo per Ghesa” di Gerald Bisinger o il componimento sperimentale “Neh?” di Corrado Costa, suo grande collaboratore e amico. Ai fini dell’analisi della fortuna critica di Miroglio, da rilevare anche il catalogo Valerio Miroglio redatto nel 1996, a cinque anni dalla morte dell’artista, da Rossana Bossaglia e Marida Faussone, che rappresenta un sincero apprezzamento della poetica mirogliana, oltre a essere un contributo fondamentale alla catalogazione delle opere più importanti dell’artista astigiano.
La molteplicità degli interessi e delle attività di Miroglio mettono in luce come la figura dell’artista “politicamente impegnato”, e la sua ripresa, oggi, non sia un vezzo passatista, ma un sincero tentativo di comprendere e analizzare le temperie storiche di quegli anni al fine di comprendere il presente.
Infatti, se analizzato con coscienza storica, il “Giudizio Universale” pone in evidenza e problematizza la pratica poverista e il ritorno all’immagine riducendo il gigantismo immaginifico del mito creazionista in piccole casse da imballaggio, non mancando però di riflettere sull’incidenza visuale che possiede lo stesso, benché costretto in piccole prigioni di legno. L’opera costituisce così un apporto meditato e attento non solo alle modalità di rappresentazione del mito, di lì a poco tema urgente nel contesto nazionale, ma anche alle problematiche espositive legate alla rivelazione dello stesso, qui relegato in casse lignee, a simboleggiare la mercificazione del senso storico e concettuale. Il “Giudizio Universale”, data la sua complessità tematica e densità di articolazione, può essere preso a modello come punto di ricerca da cui imbastire una ripresa storico-artistica che, attualmente, ha stentato ad affermarsi sul panorama italiano. Attraverso questa mostra si è cercato di fornire allo spettatore un appiglio critico, un vero e proprio dizionario di forme attraverso cui comprendere e padroneggiare il complesso linguaggio artistico di Valerio Miroglio.
Le ragioni di tale mostra sono quindi da ricercarsi nella volontà di riprendere un artista il cui estro multiforme non ha prodotto esclusivamente “situazioni artistiche”, ma che ha contribuito ad accrescere un patrimonio culturale difficilmente mercificabile: l’impegno sociale e l’attività politica.


Valerio Miroglio. Il Giudizio universale (4)


La mostra è il risultato di una sinergia fra più volontà che hanno trovato un punto d’incontro nella ragionata finalità di riproporre alla scena artistica Valerio Miroglio che, pure ricordato, come ho scritto in aperura, da alcune fra le più prestigiose firme dello scenario culturale italiano, è ancora in credito con la storia delle arti visive del secolo scorso.
Mi piace qui dare spazio ad alcune figure che hanno contribuito all’approdo nelle sale di Palazzo Mazzetti del “Giudizio Universale”.

Michele Maggiora, Presidente Fondazione Palazzo Mazzetti, e Mario Sacco, Presidente Fondazione Cassa di Risparmio di Asti, possono essere fieri del fatto che, come affermano a una voce, negli ultimi anni le due fondazioni … hanno dato vita a diverse esposizioni di arte contemporanea che sono state anche un omaggio alla città e in particolare, al ricco e vivace panorama artistico presente a partire dal secondo dopoguerra. In questo periodo straordinario della vita culturale astigiana avvenne anche la formazione artistica di Valerio Miroglio, che, dopo gli esordi presso il Circolo culturale La Giostra fondato da Eugenio Guglielminetti e Giorgio Griffa, divenne protagonista a partire dagli anni Sessanta del Novecento della scena artistica e culturale italiana.
L’esposizione del Giudizio Universale, organizzata d’intesa con l’Associazione «Astigiani», è un’importante occasione per riavvicinarsi al mondo di questo artista e intellettuale

Il sindaco di Asti, Fabrizio Brignolo, ricorda la poliedrica figura di Miroglio il quale … oltre che pittore fu precursore dei tempi, maestro della metafora, giornalista, sperimentatore di linguaggi espressivi, protagonista della vita culturale a tutto campo, artista militante, attento ai problemi storici e sociali. In questa veste, non solo aveva saputo, spesso attraverso l’arguta ironia, fornire al pubblico una chiave di lettura per capire la quotidianità, ma – nel 1975 – si era impegnato in prima persona nel movimento contro la segregazione manicomiale che faceva capo a Franco Basaglia, lavorando a progetti creativi con gli ospiti dell’ospedale psichiatrico di Mombello a Lambrate

La mostra, patrocinata dalla Regione Piemonte e dalla Provincia di Asti, è stata promossa dalle due Fondazioni che ho prima citato e dalla Città di Asti, in collaborazione con la “rivista di storia e storie” Astigiani.

Il catalogo (328 pagine, euro 20.00) – edito dalla Sagep – come ho ricordato in apertura – è a cura di Sergio Miravalle.
Nelle pagine, oltre agli interventi, prima riportati, dei due curatori, Giacomo Goslino e Alessandro Ferraro, troviamo una vasta documentazione fotografica, biografia dell’artista, bibliografia, cronologia delle esposizioni, una sezione dedicata a “l’altro Miroglio” (scritti di Sebastiano Vassalli, Sergio Miravalle, Antonio Catalano, Luciano Nattino), un’antologia critica curata da Carlotta Pera.

Valerio Miroglio
Il Giudizio Universale
Palazzo Mazzetti, Asti
Corso Vittorio Alfieri 357
Info: 0141 – 53 04 03
info@palazzomazzetti.it
Chiuso il lunedì
Fino al 30 luglio 2017


Street Art in Sicilia (1)


L’arte di strada ha varie declinazioni che vanno dall’improvvisazione teatrale, a quella musicale, dai numeri circensi di jongleurs alle arti visive.
La dizione “street art”, per convenzione, è però riferita a quella tendenza pittorica che si realizza, prevalentemente con vernici a spruzzo, su pareti di edifici, cabine telefoniche, convogli pubblici.
Nata negli Stati Uniti a partire dagli anni ’70 nelle comunità afroamericane, esprimeva ansietà e rabbie delle aree sociali più disagiate. Successivamente si diffuse anche in Europa dove si legò ai movimenti della controcultura divenendo un mezzo per messaggi politici di protesta verso governi, multinazionali, grandi marchi pubblicitari.
Parallelamente allo spontaneismo di queste creazioni, alle tecniche graffitiste prese a interessarsi negli US il mondo dell’arte istituzionalizzata con i primi successi dei tags di Jean-Michel Basquiat (1962 – 1988) e dei pieces di Keith Haring (1958 – 1990). Tale appropriazione da parte dell’arte ufficiale determinò crisi e mutamenti in quella produzione anche se l’ideologia di base rimase, e rimane, la stessa di anni fa.
Spesso tornano discussioni accese su chi vorrebbe questi artisti castigati dalle autorità cittadine, considerati, non di rado, addirittura vandali. Vandalo è chi deturpa monumenti o angoli di paesaggio urbano, ma non sono quelli della street art a farlo, bensì spesso proprio i partiti politici (quelli più contrari alla street art) con i loro manifesti.
Altri nomi di quell’arte oggi sono venuti alla ribalta. Uno per tutti, il celebrato Banksy.
QUI un rapido sguardo su quanto avvenuto in Europa e in Italia.
Da noi, ha fatto discutere di recente anche un movimento per il restauro di quest’arte stradale che ha visto risorgere l'Arcangelo firmato Ozmo, pseudonimo dell'ottimo Gionata Gesi che è stato tempo fa anche ospite di questo sito nella Sez. Nadir.

Ora, grazie all’editore Flaccovio, disponiamo di un prezioso volume che documenta, in senso sia visivo sia critico, la presenza di quell’arte nelle città siciliane.
Titolo: Street Art in Sicilia Guida ai luoghi e alle opere
Autori: Mauro FilippiMarco MondinoLuisa Tuttolomondo.

Filippi: architetto e fotografo, esperto di documentazione dei beni culturali, è cofondatore del laboratorio di innovazione PUSH. Si occupa di project management e service design, seguendo, tra gli altri, progetti relativi all’arte urbana, come Borgo Vecchio Factory e Street Art Factory.
Mondino: semiologo e dottore di ricerca in Studi Culturali Europei presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha svolto varie ricerche nell’àmbito della creatività urbana, sia in Italia sia all’estero, e pubblicato diversi articoli sul tema.
Tuttolomondo: sociologa e dottore di ricerca in Pianificazione e Politiche Pubbliche del Territorio presso lo IUAV di Venezia. Socia fondatrice di Sguardi Urbani, lavora come professionista freelance nell’ambito della ricerca sociale, valutazione di politiche e processi partecipativi.

Le foto della ricchissima documentazione del libro sono tutte scattate da Mauro Filippi.

Nel volume, leggiamo nell’Introduzione “... si compie un viaggio alla scoperta delle forme d’arte urbana che in questi anni si sono stratificate impresse sui muri e negli spazi pubblici urbani […] lo sguardo adottato cerca d’integrare il discorso della street art con quello della città con la consapevolezza che è fondamentale leggere e comprendere i territori d’intervento per ragionare sulle azioni e sui processi che l’arte urbana riesce ad attivare”.

Presenti nel volume un glossario, una bibliografia aggiornata e box di approfondimento.

Segue ora un incontro con i curatori del libro.


Street Art in Sicilia (2)


Agli autori di “Street Art in Sicilia” ho rivolto alcune domande.
Li sentirete rispondere con una voce sola. Prodigi della tecnologia di cui Cosmotaxi è provvista a bordo.

Quale metodo avete adottato per reperire l’abbondante materiale presente nel libro?

Il nostro è stato un vero e proprio lavoro di ricerca che è durato diversi anni. Inizialmente abbiamo concentrato il nostro sguardo su Palermo, documentando, studiando e analizzando il fenomeno della street art e cercando di coglierne le diverse sfaccettature. Da lì abbiamo deciso di estendere lo sguardo su tutta la Sicilia e fondamentale è stato il contributo di molti street artist, di appassionati come noi e ancora di tutte le diverse realtà associative che in questi ultimi anni si sono dedicate all’organizzazione di eventi e manifestazioni legate all’arte urbana.

Una volta rilevato i materiali, qual è stato il metodo seguito nella selezione?

Ci interessava restituire una “geografia della street art in Sicilia” e abbiamo pensato che il formato editoriale della guida fosse il più adatto. Abbiamo così suddiviso il libro per aree territoriali e indicato i punti di maggiore concentrazione di opere. Come si evince facilmente dalla mappa posta in apertura del volume non per forza le città più grandi godono di un maggiore patrimonio d’arte urbana. Nell’area di Trapani ad esempio i paesi con maggiore concentrazione di opere sono Gibellina e Petrosino, così come nell’area di Agrigento assumono un ruolo principale Favara e una piccola realtà come Castrofilippo. Le città più grandi come Palermo, Messina e Catania sono state invece analizzate attraverso i loro quartieri, così ad esempio si è presa in esame la concentrazione di opere a Borgo Vecchio, alla Kalsa, a Ballarò a Palermo o ancora a San Berillo e Librino a Catania. Per ogni area o quartiere abbiamo poi scelto una selezione di opere e costruito una sorta di catalogo-galleria con brevi descrizioni. A questa mappatura abbiamo poi affiancato dei box di approfondimento in modo da approfondire alcune questioni a nostro avviso essenziali: la riscrittura, la cancellazione e il furto delle opere, il rapporto tra street art e nuovi media o ancora la relazione con i musei e le gallerie.

Esiste una particolarità della street art siciliana, un genius loci per intenderci?

Nel nostro lavoro di ricerca abbiamo cercato di fare anche una ricostruzione diacronica con degli approfondimenti legati ai luoghi del writing soprattutto in città come Palermo e Catania. Piuttosto che parlare di street art siciliana ci interessava però far conoscere la Street art in Sicilia. Molte delle opere non sono state realizzate da artisti siciliani ma da street artist italiani o stranieri che hanno spesso attraversato l’isola lasciando le loro tracce sui muri di diverse città. Ci sono dei nomi che ricorrono spesso proprio perché molti street artist sono ritornati più volte in Sicilia costruendo forme di narrazione che si estendono su più città e che spesso spetta al fruitore ricostruire. Interessante è poi la relazione che la street art riesce spesso a costruire con i territori in cui si innesta e il gioco di citazioni che riesce a creare con le storie e l’iconografia locale. A Palermo non mancano le riproduzioni di Santa Rosalia o del Genio, figura emblematica della tradizione, così come a Messina il tema del mare diventa una ricorrenza in molte delle opere presenti.

C’è da rilevare un’evoluzione della street art in Sicilia nel corso del tempo?

Piuttosto che parlare di evoluzione ci interessano di più i processi e i sistemi di differenze che si ravvisano tra i modi di concepire la street art. In questo senso la Sicilia si caratterizza come un laboratorio della creatività urbana, un luogo di sperimentazione in cui a opere realizzate in maniera indipendente si affiancano interventi pensati con le comunità di riferimento o ancora festival che stupiscono per la monumentalità e la qualità tecnica delle opere. In ogni città, così come in ogni quartiere, la street art assume conformazioni diverse proprio perché è un linguaggio in grado di adattarsi e reinventarsi costantemente.
Allo stesso tempo le pratiche di street art prese in considerazione aprono a nuove percezioni sull’urbano e influiscono sull’immaginario di una città. Molti interventi posti nel centro storico o in aree periferiche costituiscono un tentativo di raccontare gli scarti, le fratture sociali, la precarietà edilizia e l’abusivismo. La street art diventa anche una riflessione critica sulla città, uno strumento in grado di attivare forme di sguardo che si estendono progressivamente da un singolo muro a un intero quartiere.

Quale rapporto si è creato (non solo in Sicilia) oggi fra street art e web?

La street art è una pratica che spinge ad interrogarsi sul ruolo delle immagini all’interno dello spazio urbano, sul modo in cui esse transitino costantemente all’interno di schermi e display e ancora sulle differenti trasformazioni dei progetti artistici in video, documentari o mostre.
È proprio attraverso testi e media differenti che la street art si riconfigura facendo emergere tutto il suo potenziale e caratterizzandosi come una delle forme artistiche che ha saputo al meglio sfruttare e interagire con il mondo digitale. Se il Writing veniva documentato fotograficamente e le immagini circolavano nelle fanzine oggi le opere di street art circolano in maniera costante sul web e molti progetti di street art sono pensati proprio per essere “rimediati” in altre forme e per diventare allo stesso tempo virali. Il nostro libro ha a sua volta un’estensione digitale e stiamo cercando di lavorare a un aggiornamento costante sul sito http://www.streetartfactory.eu/street-art-in-sicilia/. Allo stesso tempo alcune delle opere presenti nel libro possono essere “aumentate” attraverso l’applicazione Bepart che permette di accedere a contenuti multimediali innovativi semplicemente inquadrando le fotografie.

Mauro Filippi
Marco Mondino
Luisa Tuttolomondo
Street Art in Sicilia
Pagine 256, Euro 20.00
Dario Flaccovio Editore


Il cervello in amore (1)


Esiste una saggistica interessante (anche molto interessante) e una saggistica necessaria (anche molto necessaria), più raro che le due qualità siano contemporaneamente presenti nelle stesse pagine, però… don’t panic please!... testi siffatti, pur infrequenti, esistono.
È il caso del libro edito da il Mulino che presento oggi: Il cervello in amore Le donne e gli uomini al tempo delle neuroscienze.
Molto interessante e molto necessario. A questo va aggiunta un’altra cosa di non poco momento: una scrittura chiara, frizzante, scandita da divertenti vignette (dovute a Davide Abbate), da citazioni che mettono insieme versi di John Milton con altri di Gloria Gaynor, battute tratte da film e tabelle con quiz, riuscendo a tenere un discorso scientifico assolutamente rigoroso, dimostrando che solo nel rimario “rigoroso” va d’accordo con “palloso”.
Splendida autrice di tutto questo è Grazia Attili.
Psicologa evoluzionista, insegna Psicologia sociale nella Sapienza – Università di Roma. Tra i suoi libri: diversi titoli e con “Attaccamento e Costruzione Evoluzionistica della Mente (Cortina, 2007) ha vinto il premio Capalbio 2008 - premio Speciale della Giuria per le Scienze.
Con il Mulino ha pubblicato Attaccamento e amore (2004); Psicologia sociale (2011); L'amore imperfetto (2012).

Che il libro sia interessante, come prima scrivevo, basta già titolo e sottotitolo a dichiararlo, ma v’invito a dare uno sguardo all'Indice e ne sarete convinti.
Qualche parola in più mi va di spendere per l’altro aggettivo che ho usato a proposito del volume di Grazia Attili: “necessario”.
È necessario in un paese come il nostro, dove ti devi vergognare se non conosci quella tale poesia (mettiamo… di Foscolo, uno che sta sui cosiddetti a Carlo Emilio Gadda e pure a me) e non provare alcun rossore se s’ignora quali funzioni abbiano nel nostro corpo, ad esempio, la milza o il rene oppure le sinapsi. Per non dire degli organi che danno la vita e tanti altri momenti psichici.
Il fatto è che Foscolo – oggi l’ho presa fitta con lui – va guerreggiando e attraversando sepolcri, ma gli organi che ho citato prima stanno proprio dentro di noi e sarebbe, come minimo, che ne sapessimo qualcosa, o no?
Sono gli esiti che ancora permangono oggi di un’educazione ispirata a criteri idealistici per cui l’umanesimo precedeva le scienze.
Si sa: Gentile più Croce è cultura che nuoce.
Risultato? Del corpo si ha, spesso, perfino ai nostri giorni, una visione censurata (si pensi alle religioni monoteiste) o angelicata, oppure pornografica.
Tre errori di sbaglio, come diceva Petrolini.
Il testo di Grazia Attili serve pure a non commetterli e, soprattutto, spiega, come meglio non si potrebbe, la nascita di tante nostre pulsioni, l’origine di gioie o sofferenze che avvincono noi umani e che provengono da ragioni biologiche.
Sento già le voci di chi protesta affermando che tutto ciò toglie poesia all’amore.
Forse toglie solo la cattiva letteratura germogliata intorno all’amore. Perché nei versi e nella prosa d’alta fattura, c’è sempre un lampo disincantato o beffardo che illumina territori non propriamente spirituali. Ricordate il proustiano Swann che conclude: «E dire che ho rovinato tanti anni della mia vita, che ho desiderato di morire, per una donna che non era il mio tipo!».
Ancora una cosa. Se leggerete, come v’invito a fare, il libro dell’Attili, scoprirete che esiste una poesia del corpo che nulla ha da invidiare a una presunta “povesia” dello spirito.

Dalla presentazione editoriale.
«Quando all’inizio di una storia d’amore il nostro cuore batte all’impazzata, in realtà è il cervello, con le sue componenti chimiche, a scatenare quell’insieme di emozioni e di euforia. Ma anche quando l’amore finisce, le aree cerebrali hanno un ruolo nella disperazione che subentra dopo la rottura. Nei tanti modi di amare, a cominciare da quello così differente tra donne e uomini, sono allora i neurotrasmettitori, i geni, o i fattori relazionali, i responsabili di tanta diversità? Qui si parla di rapporti di coppia, del loro nascere e mutare nel tempo, di crisi e infedeltà, e del buon andamento di una relazione: un racconto rigoroso e divertente, in cui ciascuno di noi si riconoscerà, che combina la prospettiva evoluzionistica con le neuroscienze, ma anche con storie di vita, letteratura e cinema. Per conoscere le ragioni biologiche del come e del perché amiamo».

In questo video l’autrice presenta il suo libro.

Segue ora un incontro con Grazia Attili.


Il cervello in amore (2)

A Grazia Attili (in foto) ho rivolto alcune domande.
Qual è stata la principale motivazione dalla quale è nato questo suo saggio?

Ho scritto questo saggio per far prendere consapevolezza degli inevitabili mutamenti che avvengono a livello cerebrale, oltre che per ciò che concerne emozioni e comportamenti, nel dipanarsi di un rapporto di coppia e far capire che la fine della “passione “ non è la fine dell’amore.

Nell’accingersi a scrivere ”Il cervello in amore” qual è stata la prima cosa che ha scelto di fare e quale la prima da evitare?

Ho cercato di utilizzare uno stile leggero e anche divertente. Ho evitato di far sì che lo spessore scientifico che è dietro questo saggio si tramutasse nella noia che viene indotta da coloro che parlano di neuroscienze in maniera pomposa.

Perché in tanti – anche donne e uomini presenti in campi scientifici – arretrano di fronte a una interpretazione dell’amore fatta attraverso il coinvolgimento di aree cerebrali e reazioni chimiche?

Molti pensano che rintracciare le basi biologiche e neurali dell’ amore tolga poesia a un sentimento che è stato visto sempre come appannaggio della letteratura e delle canzonette. Invece evidenziare cosa accade a livello neurale quando siamo attratti o amiamo qualcuno dà spessore a quello che proviamo e rende ancora più romantico e importante il nostro sentire.

Esiste una differenza tra donne e uomini nel modo in cui vivono l’attrazione, l’innamoramento, l’amore?

Le donne e gli uomini amano in modo diverso perché il loro cervello è profondamente diverso. Questa diversità è da ricondurre alla selezione naturale che ha mantenuto quelle modalità e quegli assetti cerebrali che più possono portare i maschi in quanto maschi e le femmine in quanto femmine a trasmettere le loro caratteristiche in quanti più individui possibile.

Alla luce delle sue riflessioni, possiamo determinare se noi umani siamo tendenzialmente monogami o poligami?

Siamo sia monogami sia poligami. Monogami ed infedeli. L’emergere dell’una o dell’altra strategia dipende da molti fattori: le caratteristiche dell’ambiente, le modalità di allevamento di cui abbiamo fatto esperienza, alcune variabili genetiche.


Che cosa accade in noi quando la coppia, formatasi in virtù di una forte attrazione, ad un certo punto della propria storia, più non sente d’essere legata?
ll cervello, un tempo, si è sbagliato? Il cervello può inviare segnali errati
?

La passione iniziale è destinata ineluttabilmente a finire. Il cervello non sopporta troppo a lungo la tensione che caratterizza le prime fasi. Il legame si trasforma. Coloro che accettano questi cambiamenti continuano a sentirsi legati. Coloro che invece hanno bisogno di stare in uno stato perenne di eccitazione troncano il legame o instaurano relazioni parallele con altri partner. La novità crea sempre eccitazione

Grazia Attili
Il cervello in amore
Disegni di Davide Abbate
Pagine 230, Euro16.00
il Mulino


Perché si dice trentatré

La casa editrice Editoriale Scienza ha pubblicato un titolo che segnalo a quanti, per esempio, stanno pensando a un libro per le vacanze a ragazzi fra gli 8 e i 10 anni. Un regalino che abbia al tempo stesso qualità didattiche e sia divertente da sfogliare.
Il volume cui mi riferisco è intitolato Perché si dice trentatré e tante altre domande sulla medicina.
Ne sono autori Enrico Taddia Andrea Grignolio, con il primo che intervista il secondo.

Taddia è giornalista, scrittore e autore televisivo. Conduce L’altra Europa su Radio24 e Nautilus su Rai Scuola; è stato inoltre conduttore di Screensaver (Rai3), L'Altrolato (Radio2) e Pappappero (Radio24).
Collabora ai testi di Fiorello, scrive per Topolino, La Stampa e Style Piccoli. Ha vinto il Premio Alberto Manzi per la comunicazione educativa e, con Teste toste il Premio Andersen per la miglior collana di divulgazione scientifica per ragazzi.
Grignolio insegna Storia della medicina all’Università Sapienza di Roma ed è research fellow del programma di ricerca Le Studium Biomedicaments sulla storia della vaccinazione, presso l’Université François Rabelais di Tours, in Francia.
È autore di articoli apparsi su riviste nazionali e internazionali e del libro "Chi ha paura dei vaccini?" (Codice Edizioni, 2016). Si interessa da diversi anni di divulgazione scientifica scrivendo testi per il teatro e collaborando con Radio3, La Repubblica e La Stampa.
AntonGionata Ferrari firma le illustrazioni.
Nato nel 1960, dopo esperienze nel cinema d'animazione, ha iniziato a lavorare come illustratore soprattutto nell'ambito dell'editoria per ragazzi. Diversi libri da lui illustrati sono stati pubblicati in Francia, Spagna, Brasile, Stati Uniti e Giappone. È collaboratore di lungo corso di Smemoranda.
Ha vinto il Premio Andersen nel 2007 come miglior illustratore italiano per ragazzi.

Il volume è prezioso per i ragazzi, ma a molte domande che pone Taddia a Grignolio, storico della medicina, avendone chiare e sintetiche risposte, molti di noi adulti mica è tanto sicuro che sapremmo rispondere. Perché? Perché proveniamo da una scuola che, sbagliando, ha dato preminenza all’indirizzo umanistico a quello scientifico.

Dalla presentazione editoriale.
Perché vaccinarsi? Possiamo diventare immortali? Che cos’è il raffreddore e come si cura? Perché bisogna lavarsi le mani? Ecco una singolare intervista per giovani menti curiose: al microfono di Federico Taddia troviamo Andrea Grignolio, storico della medicina che ci aiuta a capire di più sul corpo umano e su come curarlo. Tante domande buffe e impertinenti per scoprire che i limoni hanno salvato la vita a molti marinai, perché tutti gli anni torna l’influenza, se davvero una mela al giorno leva il medico di torno e… perché si dice trentatré!
Con il piglio curioso e irriverente tipico dei bambini, Taddia incalza Grignolio sul mondo della medicina, affrontando temi che spaziano dalla prevenzione ai farmaci, dai virus alle cellule staminali.
La struttura dialogica del libro, tipica della collana Teste Toste, è particolarmente agile e adatta alla divulgazione scientifica per bambini e ragazzi: da un lato permette di affrontare singoli concetti in ciascuna domanda, dall’altro di creare un filo logico con il susseguirsi delle stesse. Consente inoltre un percorso di lettura personalizzato: si può scegliere di iniziare dalla domanda che più incuriosisce e procedere poi secondo gli aspetti che si vuole approfondire.
"Perché si dice trentatré" è dunque un libro per ragazzi che, con brio e ironia, sa intrattenere senza mai rinunciare alla chiarezza e al rigore
.

Età consigliata: da 8 a 10 anni.

Enrico Taddia – Andra Grignolio
Perché si dice trentatré
Illustrazioni: AntonGionata Ferrari
Pagine 96, Euro 12.50
Editoriale Scienza


Identità del cane e del gatto

Secondo il rapporto Eurispes 2017, in Italia è in calo (-10%), il numero degli animali domestici nelle nostre case. Non è diminuito il nostro amore verso quei nostri compagni, ma è la crisi che morde le tasche con milioni di famiglie prive di reddito, come informa l’Istat, sicché in tanti non possono permettersi spese per il cibo e l’assistenza veterinaria; accade, insomma, che quando muore la cara compagnia in parecchi rinuncino a rinnovare quella pur amata convivenza.
Ciò nonostante, resta elevato presso di noi il numero di cani (7 milioni), gatti (7 milioni e mezzo), e roditori, uccelli, pesci, perfino rettili che, pare, siano sempre più apprezzati.
Come ci comportiamo con loro?
A parte i casi aberranti di abbandono o uso delinquenziale degli animali (si pensi ai combattimenti fra cani), in genere bene, e, più spesso, crediamo di agire bene perché mossi autenticamente da amore verso quei nostri conviventi.
Non sempre, però, quelle buone intenzioni si rivelano corrispondenti alla realtà.
L’errore più frequente è muoversi con una visione antropocentrica, attribuendo loro condotte e reazioni che sono, invece, solo di noi umani.

La casa editrice Apeiron ha mandato in libreria due importanti volumi che si muovono in modo anfibio tra filosofia ed etologia: L’identità del cane e L’identità del gatto.
L’autore è Roberto Marchesini, in foto.
Filosofo, etologo e zooantropologo, dirige il Centro Studi Filosofia Postumanista e il Siua (Istituto di Formazione Zooantropologica).
Conta oltre un centinaio di pubblicazioni nei campi della bioetica, della filosofia postumanista e dell’etologia filosofica.
Il Corriere della Sera l’ha segnalato tra i 10 italiani che stanno cambiando il nostro Paese per i suoi contributi nel campo della zooantropologia.
Suoi lavori sono tradotti in inglese, francese, spagnolo, tedesco, portoghese.
In occasione della pubblicazione del suo libro “Etologia filosofica”, fu ospite di questo sito e v’invito a leggere un’interessante intervista: QUI.

Due identità, due sottotitoli, per il cane è scritto Storia di un dialogo fra specie; per il gatto La forza della convivialità.
Sono tracciati due caratteri, due comportamenti, smentendo una serie di luoghi comuni, invitando i lettori a disporsi ad attraversare un percorso ignoto quanto affascinante, per avvicinare mondi più lontani di quanto s’immagini, nonostante sembrino a noi vicini, s’invita a essere disponibili, pronti ad affrontare l’avventura e lo smacco, l’incontro e il rifiuto, tra angolosità e dolcezze.
Libri che consiglio vivamente a chi, per esempio, voglia fare un regalo a persone che abbiano uno di quegli animali e, ovviamente, vieppiù consiglio a chi ama e vive con una o entrambe di quelle creature.
Ne ricaverà una visione di quelle identità che permetteranno una migliore convivenza con quei nostri amici perché ne comprenderemo meglio il linguaggio e, meglio, il rapporto con noi stessi verso di loro.

Fra le tante differenze fra cane e gatto, mi piace cogliere una delle risposte di Marchesini:
Mentre il cane prende sul serio il ruolo affiliativo specifico che il gruppo gli ha attribuito, il gatto persegue il suo continuo gioco di ruolo, trasformando ogni coniugazione relazionale in una sorta di finzione, metafora del possibile.

Roberto Marchesini

L’identità del cane
Pagine 268, Euro 15.00

L’identità del gatto
Pagine 272, Euro 15.00

Edizioni Apeiron


La signorina Else


Il drammaturgo e narratore austriaco Arthur Schnitzler (Vienna 1862 – 1931), laureato in medicina nel 1885, abbandonò la pratica medica nel 1893 dedicandosi da allora esclusivamente alla letteratura. Conobbe rapidamente il successo e la notorietà, al suo lavoro fu molto interessato Freud.
Schnitzler al proposito scrisse: Non è nuova la psicoanalisi, ma Freud. Così come non era nuova l'America, ma Colombo.

Circa la sua opera, voglio ricordare due flashes di un suo grande studioso: Claudio Magris.
Il primo: Schnitzler è il tipico scrittore che fonde compassione e nichilismo in una visione desolata, in una cartella clinica della condizione umana in cui anche la storia e la politica appaiono maschere illusorie degli istinti e del destino.
E ancora: La vita gli appare un gioco di forze irrazionali e una giostra d'inganni senza senso; vivere significa tradire. L'insistito tema dell'adulterio, della delusione o della crudele umiliazione amorosa è il simbolo del suo "scettico determinismo", come diceva Freud, che lo spinge a vedere nella forza vitale un cieco desiderio di sopraffazione.

In questo scenario troviamo il racconto La signorina Else del 1924, l’ultima opera scritta prima della tragedia che piomberà sulla sua vita il 26 luglio del 1928: questa la data del suicidio della figlia Lili avvenuto a Venezia.
Nel Diario Schnitzler scrive: Quel giorno di luglio la mia vita si è conclusa. Gli altri non lo sanno e talvolta non lo so neanche io.

In foto: Arthur Schnitzler in un ritratto del 1900.

Dopo il successo riscosso con “Il ritorno di Casanova”, spettacolo andato in scena nel 2014 e tuttora in tournée, e la sessione pistoiese del Laboratorio della Toscana dedicata al “Pappagallo verde” nello stesso anno, la Compagnia Lombardi - Tiezzi prosegue la sua ricognizione sul grande scrittore austriaco, con un adattamento scenico della Signorina Else: debutto il 13 giugno, nel piccolo Teatro Anatomico di Pistoia dell’antico Spedale del Ceppo, gioiello di architettura e pittura settecentesca, e avrà una lunga tenitura fino al 2 luglio (per un numero limitato di spettatori a recita).
Traduzione di Sandro Lombardi che ha curato anche la drammaturgia con Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi che è regista dello spettacolo.
Scena di Gregorio Zurla, costumi di Giovanna Buzzi.
Interpreti: Lucrezia Guidone e Martino D’Amico.
Accompagnamento di musica dal vivo in collaborazione con il fiorentino Conservatorio di Musica Luigi Cherubini.
Produzione: Compagnia Lombardi - Tiezzi e Associazione Teatrale Pistoiese Centro di Produzione Teatrale con il sostegno di Regione Toscana e Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.
Lo spettacolo è un’anteprima del “Pistoia Teatro Festival”, uno dei momenti di Pistoia Capitale Italiana della Cultura 2017, organizzato dall’Associazione Teatrale Pistoiese.

Qui un estratto dal comunicato stampa della Compagnia.
«La Signorina Else costituisce uno dei massimi capolavori dello Schnitzler novellista. È un testo mirabile, tutto incentrato sul battito tumultuante dei pensieri che si affollano e scontrano nella mente di Else, l’adolescente ‘altera’, vivida e appassionata, su cui incombe una catastrofe familiare.
Costruita secondo la tecnica del monologo interiore (che tanta fortuna avrà in seguito presso i massimi esponenti della letteratura europea, da Joyce a Beckett, e che proprio in Schnitzler trova il suo inventore).
L’arco di tempo dell’azione è fulmineo: dal pomeriggio alla sera di uno stesso giorno.
Grazie proprio all’uso magistrale della tecnica del monologo interiore, i pensieri e le contraddizioni dei personaggi e della società in cui si muovono vengono alla luce con straordinaria potenza.
Un testo di spietata radiografia su una società corrotta proprio nel nucleo familiare che, invece di proteggere i suoi figli, li immola cinicamente: una vera e propria mise en abyme della coscienza moderna, sganciata dai valori della tradizione, attenta solo ai propri istinti e ai propri falsi valori, pronta a sacrificare una giovane donna sull’altare del dio denaro.
L’autore mostra il personaggio di Else nelle sue più riposte oscillazioni psichiche, in una simultaneità di impulsi e contro-impulsi che la conducono al delirio.
Questo ha portato Tiezzi a scegliere, per il debutto dello spettacolo, lo storico Teatro Anatomico dell'antico Spedale del Ceppo di Pistoia, seguendo la suggestione di un’analogia tra la dissezione operata da Schnitzler sulle pulsioni della ragazza e una regia che si basi sulla vivisezione delle strutture espressive del linguaggio.
Lo spettacolo nasce fin dall’inizio in duplice forma: quella per i teatri anatomici e quella per i palcoscenici tradizionali».

Compagnia Lombardi-Tiezzi
Ufficio Stampa Simona Carlucci: tel. 335.5952789 – 0765.24182
info.carlucci@libero.it

Associazione Teatrale Pistoiese
Info: 0573 . 991609 – 27112
Ufficio Stampa Francesca Marchiani tel. 329.5604925 – 0573.991608
f.marchiani@teatridipistoia.it

La signorina Else
Regìa di Federico Tiezzi
Teatro Anatomico di Pistoia
Dal 13 giugno al 2 luglio ‘17


Una cartografia della tecno-arte (1)

La casa editrice Cronopio fedele al suo intento di comunicazione che ne accompagna il cammino fin dalla sua fondazione, nel 1990, e che si riassume nella concezione del “libro inteso come macchina per pensare", ha mandato in libreria un volume che è un’ulteriore testimonianza di quel progetto.
Si tratta di Una cartografia della tecno-arte Il campo del non simbolico .
Autore: Vincenzo Cuomo.
Direttore della rivista Kaiak. A Philosophical Journey, si occupa da molti anni di estetica e di filosofia della tecnica.
Docente a contratto di Estetica dei nuovi media presso l'Accademia di Belle Arti di Napoli.
Tra le sue pubblicazioni: Del corpo impersonale. Saggi di estetica dei media e di filosofia della tecnica (Napoli 2004); Al di là della casa dell’essere. Una cartografia della vita estetica a venire (Roma 2007); Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene (Milano 2009); C’è dell’io in questo mondo? Per un’estetica non simbolica (Roma 2012); Eccitazioni mediali. Forme di vita e poetiche non simboliche (Tricase 2014).

Dalla presentazione editoriale.
Qual è il senso delle sperimentazioni tecno-artistiche degli ultimi decenni? Quale il senso della loro "contemporaneità"? Che cosa manifestano e di cosa sono annuncio? Il libro cerca di rispondere a queste domande proponendo una cartografia delle ricerche tecno-artistiche attraverso le nozioni di crudeltà, metamorfosi, ibridazione, sensazione, immersione, vuoto
Programmaticamente "non-simboliche", le sperimentazioni qui esaminate non sono solo espressioni artistiche, ma attestano anche l'emersione di modelli di "vita estetica" che non possono più essere compresi con le categorie estetiche novecentesche e che, al contempo, sono segni della crisi, probabilmente irreversibile, degli stessi processi di soggettivazione occidentali
.

Segue ora un incontro con Vincenzo Cuomo.


Una cartografia della tecno-arte (2)

A Vincenzo Cuomo (in foto) ho rivolto alcune domande.
Vedi – e se sì in che cosa lo identifichi - un rapporto fra le avanguardie storiche e le nuove ricerche espressive della tecno-arte dei nostri giorni?

Certo, a mio avviso una relazione c’è, ma con qualche differenza, forse sostanziale. Così come le avanguardie storiche sono state una risposta “artistica” alle trasformazioni allora in atto negli assetti psico-sociali delle società occidentali, così le sperimentazioni tecno-artistiche di cui mi sono occupato nel libro sono interpretabili in prima istanza nello stesso modo. La differenza non sta tanto nelle modalità di relazione di queste espressioni artistiche a ciò che sta accadendo, piuttosto nella differente profondità e complessità delle trasformazioni epocali cui stiamo assistendo a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo. Per tale ragione ho proposto di definire l’operatività tecno-artistica contemporanea come “ontologia sperimentale”.

Non solo Orlan, Stelarc, Stelios Arcadiou, Yann Marussich, usano il proprio corpo come esplorazione antropologica della fisicità. Penso, ad esempio, a quanto accade a certi artisti biopunk – come Dale Hoyt che n’è capofila - che considerano le biotecnologie una nuova forma estrema di Body Art. Come interpreti quest’interesse delle arti per una sorta di “neocorpo”?

Penso che sulla questione di un “neo-corpo” bisognerebbe essere più analitici e, per così dire, teoricamente freddi, per evitare di mettere insieme operazioni che, a mio avviso, pur avendo un’aria di famiglia, appartengono a programmi sperimentali differenti, anche se tutti accomunati da una messa in questione del “simbolico”. Come ho cercato di mostrare nel libro, nonostante le possibili contaminazioni che possono essere messe in atto dai singoli performer, c’è una netta differenza tra le poetiche della “crudeltà” e della “metamorfosi” del corpo-proprio da un lato e quelle che ho chiamato dell’ibridazione dall’altro. La nozione di ibridazione, che riprendo, rielaborandola, da Deleuze, non ha quasi più niente a che fare con il corpo-proprio – per quanto “portato al limite” delle sue possibilità – perché, al contrario, parte dall’espropriazione che la tecno-scienza contemporanea ha prodotto del corpo-proprio, considerato sia nella sua accezione biologica che in quella fenomenologica.

La tecnofilosofia di Nick Bostrom o di Max More, il pensiero di Ray Kurzweil con la sua Teoria della Singolarità (oggi studiata nell’Università da lui fondata con i finanziamenti della Nasa e di Google), quale influenza ha avuto sulla tecno-arte?

Ritengo che in alcuni casi le posizioni trans-umanistiche – sostenute, come è noto, esclusivamente da scienziati e non da filosofi – abbiano condizionato delle aree di sperimentazione artistica. Penso, per fare un esempio storico, all’influenza delle teorie teologico-evoluzioniste di Teilhard de Chardin sul cinema sperimentale americano degli anni Sessanta, così come è in qualche modo provato nel classico studio di Gene Youngblood sull’expanded cinema. Tuttavia, ritengo che le teorie transumaniste (Kurzweil, Moravec, Bostrom, eccetera) siano sostanzialmente teorie religiose neo-gnostiche che, pur essendo interessanti in quanto oggetto di studio, non sono utili per comprendere ciò che sta accadendo nella nostra epoca e, ancora di più, nelle sperimentazioni tecno-artistiche. La nozione di una “coscienza disincarnata”, di una coscienza sradicata dalla sua necessaria base corporea e “mediale” mi sembra filosoficamente destituita di senso. Ciò vale anche se si adotta una concezione allargata e non antropo-centrata di “coscienza”, come accade nel pensiero cibernetico. Quando negli anni Cinquanta dello scorso secolo Gottard Günther scriveva sulla “coscienza della macchina”, adottava una nozione allargata di “coscienza” ma non intendeva affatto una coscienza smaterializzata.

In tanti criticano la tecno-arte arrivando addirittura a temerla. Mi piace ricordare un motto di John Cage: “Molti sono spaventati dal nuovo, a me terrorizza il vecchio”.
Da dove viene quel panico che affligge parecchi
?

La paura dell’ignoto o di ciò che non si riesce a comprendere è una paura ancestrale, come è noto. Tuttavia, nelle attuali società, l’incessante innovazione tecnologica procura un continuo stress cognitivo, psico-emozionale, sociale al quale si reagisce con atteggiamenti puramente difensivi che, pur comprensibili sul piano psico-sociologico, non hanno alcuna possibilità di fermare i processi di trasformazione in atto. Cominciare a capire le ragioni di ciò che è accaduto e di ciò che sta accadendo implica il necessario abbandono di tali atteggiamenti reattivi. Tuttavia, come sapeva anche Cage, l’abbandono del noto per addentrarsi nel territori sconosciuti del presente, non è un esercizio facile.

Laurie Anderson canta "Language is a virus" citando William Burroughs che diceva "Il linguaggio è un virus venuto dallo spazio".
Qual è oggi la principale insidia portata da quel virus
?

La principale insidia è forse quella di fidarsi così tanto delle formulazioni linguistiche già date nel passato da confonderle con il mondo che è sotto i nostri occhi, rischiando così di non riuscire neanche ad osservarlo.

Vincenzo Cuomo
Una cartografia della tecno-arte
Pagine 154, Euro 12.00
Cronopio


Diana Baldon alla Fondazione Fotografia di Modena

La nuova direttrice della Fondazione Fotografia di Modena Diana Baldon è stata presentata ieri dal presidente della Fondazione, Paolo Cavicchioli, che, dopo aver ringraziato il direttore uscente, Filippo Maggia, ha ricordato come la nomina di Diana Baldon (in foto) sia "un'opportunità molto importante per la città. Continueremo nel solco del lavoro svolto in questi ultimi anni, in cui Fondazione Fotografia Modena si è accreditata a livello nazionale e internazionale con importanti collezioni di fotografia, ma anche grazie ad un'interpretazione originale del proprio posizionamento, che vede convivere l'aspetto curatoriale con quello didattico".
Nata a Padova nel 1974, storica dell’arte, critica e curatrice con un prestigioso curriculum internazionale alle spalle, Baldon è stata nominata lo scorso 19 maggio dal Consiglio di Amministrazione della Fondazione.
Dopo gli studi al Dams di Bologna, nel 1998 si è trasferita all'estero per lavorare in musei e istituzioni a Ginevra, poi a Berlino, Vienna, Stoccolma e Copenhagen. Dal 2014 al 2016 è stata la Direttrice della Malmö Konsthall, Svezia; prima ancora è stata la Direttrice di Index - The Swedish Contemporary Art Foundation, a Stoccolma. Tra il 2007 e il 2011 ha lavorato come curatrice e membro del corpo docente dell’Accademia di Belle Arti di Vienna

Sono onorata di essere parte di Fondazione Fotografia, un'istituzione che gode di un'alta reputazione in Italia - ha detto Diana Baldon - desidero contribuire alla sua identità, al suo futuro, considerando il medium della fotografia all'interno di un orizzonte più vasto, che ne vede un utilizzo centrale da parte della società grazie allo sviluppo delle tecnologie digitali. Le trasformazioni nel campo della fotografia degli ultimi vent'anni hanno avuto portata epocale, e il suo sviluppo è tuttora in corso: Fondazione Fotografia, in questo senso, offre una prospettiva di ricerca unica e questo è uno dei motivi per cui ho scelto di lavorare in quest'istituzione. Lavorare all'estero mi ha insegnato ad amare l'Italia. Sono tornata perché nel nostro paese abbiamo un'innata passione per la cultura. Non parlo solo di arti visive ma di cultura tout court. Modena, in particolare, è una città in cui sono stata spesso durante gli anni dell'Università, conosco la mentalità emiliana e mi immaginavo bene qui. Devo ancora familiarizzare con la struttura perché sono arrivata da poco e quindi non posso anticipare nomi, ma idee e temi sì. Quello che più mi ha colpito nell'esplorare la storia della Fondazione è il fatto che finora le mostre non hanno preso in considerazione che ci sono anche molte donne fotografe che hanno lasciato un segno importante nella storia della fotografia. Penso a Cindy Sherman, o Ahlam Shibli, con cui ho già lavorato nel 2007, e che sarà presentata a Documenta a Kassel. Questo mi offre grandi possibilità e materiale su cui operare.

Fondazione Fotografia Modena
Ufficio stampa e comunicazione
Cecilia Lazzeretti
press@fondazionefotografia.org
tel. 059 – 23 98 88; cell. 338 - 85 96 174


Pulcinellopaedia Seraphiniana


Conosco Luigi Serafini da quasi mezzo secolo e insieme abbiamo fatto anche un viaggio spaziale nel marzo del 2003. Non ci credete? Cliccate QUI.
Nato a Roma nel 1949, Luigi è un poliartista: architetto, ceramista, scenografo, artista del vetro, scrittore.
Famoso il suo libro Codex Seraphinianus che ha ricevuto gli elogi di tanti nomi della cultura italiana e straniera: da Roland Barthes a Federico Zeri, da Achille Bonito Oliva a Tim Burton, da Douglas Hofstadter a Italo Calvino che a proposito di questo testo fantastico così disse: Alla fine il destino d’ogni scrittura è di cadere in polvere, e pure della mano scrivente non resta che lo scheletro. Righe e parole si staccano dalla pagina, si sbriciolano, e dai mucchietti di polvere ecco che spuntano fuori gli esserini color arcobaleno e si mettono a saltare. Il principio vitale di tutte le metamorfosi e tutti gli alfabeti riprende il suo ciclo.
Ne esiste un’edizione Rizzoli del 2013.

Altra opera di Serafini è Pulcinellopaedia Seraphiniana.
Giorgio Manganelli ne scrisse: Serafini affronta un tema amabile e stizzoso, popolaresco e arcaico: la favola, o mito, o tragicommedia di Pulcinella.
Concepita come una suite musicale, la Pulcinellopaedia contiene oltre cento illustrazioni a grafite e matita, suddivise in nove scene con un intermezzo. Il volume, il cui coautore immaginario, “P. Cetrulo”, altri non è se non lo stesso Pulcinella, presenta le vicende di un antieroe ribelle che si confronta con le sfide della vita di tutti i giorni.
Come per il Codex Seraphinianus, per questa sua nuova opera, l’artista ha inventato un linguaggio personale, e l’ha popolata d’illustrazioni misteriose e affascinanti, nelle quali gli appassionati cercheranno ossessivamente di decifrare le intenzioni dell’autore.
Pubblicato per la prima volta nel 1984, dopo il coinvolgimento di Luigi Serafini nel Carnevale di Venezia del 1982 (il primo ripristinato dopo anni di silenzio) il volume originale è esaurito da decenni, ed è diventato un oggetto raro e ricercato dai collezionisti. Il libro è ora ripubblicato, più di tre decenni dopo, in un’edizione rivista e ampliata che include una nuova postfazione dell’autore.
L’edizione deluxe, in tiratura limitata in cofanetto, conterrà una litografia originale firmata e numerata a scelta fra 3 soggetti inediti.

Luigi Serafini

Pulcinellopaedia Seraphiniana
Edizione Trade
Pagine 128, euro 40

Edizione Deluxe
Pagine 128, euro 175
Rizzoli


La mediocrazia


Un velo grigio ha avvolto la società contemporanea omologando donne e uomini, docenti e discenti, dirigenti e dipendenti, quel velo non rende sofferenti coloro che ne sono avvolti – anzi ne rinsalda i cuori – ma lo patiscono solo quei pochi (o pochissimi) che sono fuori di quella prigione velata.
È questa la tesi di Alain Deneault nel libro pubblicato dall'editore Neri Pozza intitolato La mediocrazia.
Deneault è un docente e filosofo canadese. Ha scritto saggi sulle politiche governative, sui paradisi fiscali e sulla crisi del pensiero critico.
Insegna Scienze Politiche presso l’Università di Montréal e collabora con la rivista Liberté.

L’autore descrive un’umanità né seria né faceta, né rabbiosa né serena, né ottusa né acuta che tende più a inglobare che ad espellere (pur soffrendo frequentemente il precariato) se non ne sia costretta da teste calde le quali, a loro volta, manifestano dissenso avendo come unica ricompensa l’orgoglio di non far parte dei mediocri, di quelli, cioè, che hanno assunto il potere amministrando vite, economie, sentimenti, svago, in nome della mediocrazia.
Non più popolo ma “gggente” (diremmo in Italia) che senza forti stimoli personali né tanto meno ideali, ha creato per agire una nuova professione: il motivatore.
Quello che vede Deneault, un tempo lo abbiamo sia vissuto in altre epoche sia letto in altre pagine e riguardavano società vittime di regimi totalitari, ma ora, secondo il filosofo canadese, tutto ciò avviene senza necessità di un regime coercitivo, il potere si chiama adesso “governance” e passa perfino attraverso il politicamente corretto.
Si giova delle statistiche per i programmi, degli specialisti in una cosa sola per varare le produzioni, degli artisti per volgere perfino disgrazie (guerre, incidenti gravi) in episodi estetici che sostanzialmente distraggono dalla causa dei fatti.
Quando è cominciato tutto ciò?
In un’intervista l’autore ha affermato: «Quest’’ingranaggio sociale si è attivato con la prima rivoluzione industriale. Karl Marx l’aveva intuito. Il capitale ha reso i lavoratori insensibili al contenuto stesso del lavoro. La mediocrazia è l’ordine in funzione del quale i mestieri cedono il posto a una serie di funzioni, le pratiche a precise tecniche, la competenza all’esecuzione pura e semplice. Il lavoro diventa solo un mezzo di sostentamento, con una progressiva perdita di soggettività».

Fin qui il pensiero di Deneault che si avvale di una veloce, piacevole scrittura ben assecondata dalla traduzione di Roberto Boi.
C’è da chiedersi se questo trionfo dei mediocri sia delle dimensioni in cui lo vede Deneault. Perché se indubbiamente egli centra con esattezza alcune forme ancillari del vivere di singoli e di convivere di tribù sociali (si pensi, ad esempio, quanto avviene in tanti uffici pubblici e in parti di Stato dove i partiti, come accade in Italia, hanno predominanza nella scelta degli incarichi), non così avviene in campo scientifico dove solo grazie ad eccellenze si è riusciti ad ottenere risultati maiuscoli.
Né mi pare che non ci sia speranza nel futuro. Mi piace qui ricordare il Berenger di Ionesco che in una città invasa dai rinoceronti, simbolo del conformismo e di una violenta mediocrità, rinoceronti che hanno trasformato tutti in altrettanti rinoceronti, urla “Sono l’ultimo uomo, e lo resterò fino alla fine! Io non mi arrendo! Non mi arrendo!”.
Un Berenger esisterà sempre. In qualunque futuro.

Estratto alla presentazione editoriale.
«Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia, niente di paragonabile all’incendio del Reichstag, e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato un solo colpo di cannone. Eppure di fatto l’assalto è avvenuto, coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere».
Così questo libro annuncia l’oggetto delle sue pagine: la presa del potere dei mediocri e l’instaurazione globale del loro regime, la mediocrazia, in ogni ambito della vita umana.
La trattazione che ne segue è una sorta di genealogia di questo evento che, nella prosa accattivante ed errabonda di Deneault, tocca campi differenti – dalla politica (affidata ormai al “centrismo” dei mediocri) all’economia, al sistema dell’educazione, alla stessa vita sociale – offrendo differenti modulazioni di questa forma di potere».

Alain Deneault
La mediocrazia
Traduzione di Roberto Boi
Pagine 240, Euro 18.00
Neri Pozza


L'arte del colore nell'era digitale


Come vediamo i colori?
Come le neuroscienze possono aiutarci a capire l’esperienza delle opere d’arte?
Che cosa significa ‘guardare’ un dipinto o una sua riproduzione in formato digitale?
Come l’esperienza digitale cambia la nostra percezione del mondo?
Sono queste domande cui cerca risposte il Progetto di Ricerca L’arte del colore nell’era digitale a cura di Vittorio Gallese, Martina Ardizzi e Maria Alessandra Umiltà in collaborazione con il Dipartimento Educazione del Museo Castello di Rivoli.

Lo spazio museale ospiterà per la prima volta una stanza-laboratorio dedicata a indagare l’esperienza del pubblico davanti alle opere d’arte. Il progetto è finalizzato alla realizzazione di un innovativo dialogo tra arte, neuroscienze e ricerca attraverso lo studio dell’esperienza estetica in un suo contesto abituale, il museo. Sarà così possibile comprendere come la modalità di fruizione di opere d’arte, principalmente della componente cromatica, possa riflettersi in differenti risposte fisiologiche e giudizi soggettivi. In particolare, sarà analizzata la differenza fra le reazioni di fronte ad opere pittoriche nella loro realtà materiale e alla loro riproduzione digitale. Il laboratorio mostrerà come l’esperienza del colore possa essere influenzata dalla digitalizzazione delle immagini artistiche.
Negli ultimi anni le neuroscienze hanno manifestato un crescente interesse nei confronti dell’arte non solo per studiare il funzionamento del cervello, ma soprattutto indagando il sistema cervello-corpo per comprendere in cosa consista l’esperienza degli ‘oggetti artistici’ frutto dell’espressione creativa umana. I temi dell’arte e dell’estetica si possono studiare da una prospettiva nuova, quella di un’estetica sperimentale che studi le risposte del cervello e del corpo per mettere in luce le componenti ‘invisibili’ indotte dal visibile artistico.
Il progetto di ricerca proposto al Castello di Rivoli sarà caratterizzato dalla utilizzazione cross-disciplinare delle metodologie dell’estetica sperimentale e della curatela museale, consentendo di approfondire le conoscenze sull’esperienza dei visitatori focalizzandosi su un aspetto fondamentale della odierna ricezione artistica: l’effetto della digitalizzazione di opere d’arte astratte a prevalente contenuto cromatico. Accanto ad un’esperienza più classica di natura museale, di recente rilievo è l’uso di supporti digitali sfruttati per godere della visione di opere artistiche. La percezione visiva del colore è mutata in profondità da quando siamo immersi nel mondo virtuale.

Non conosciamo come la differente fruizione (nel contesto museale o in formato digitale) possa influenzare la percezione del colore, parte integrante dell’opera d’arte. Il laboratorio allestito all’interno degli spazi museali al Castello di Rivoli permetterà di approcciare queste questioni in via sperimentale, a partire dallo svelamento di alcune opere monocromatiche allestite nell’ambito della mostra e appositamente selezionate, a confronto con le rispettive riproduzioni, affermano i professori Gallese, Ardizzi e Umiltà.

Ai visitatori che vorranno arricchire la loro visita museale partecipando al laboratorio verrà chiesto semplicemente di osservare le opere d’arte presentate. Durante l’esperimento verranno registrate le risposte fisiologiche spontanee dei partecipanti mediante procedure non invasive quali elettrocardiogramma e risposte elettrodermiche. Verranno inoltre raccolti alcuni giudizi relativi all’esperienza estetica, sensoriale ed emotiva provata.
Il laboratorio, della durata di un’ora, è aperto a 60 partecipanti di età compresa tra 18 e 55 anni, equamente divisi tra uomini e donne.
Ai partecipanti sarà riconosciuto l’ingresso ridotto alla mostra “L’emozione dei colori nell’arte”.

Castello di Rivoli, III piano
6-11 giugno 2017, ore 9.30 -18.30
Info e iscrizioni: educa@castellodirivoli.org, tel. 011.95 65 213
La partecipazione è gratuita.


L'Italia al Giro d'Italia

Scrisse Dino Buzzati: “Se il Giro più non ci fosse, non solo un periodo dello sport, ma un capitolo del costume umano sarebbe finito con le sue gioie e i suoi drammi”.
Di gioie, drammi, e molte gloriose imprese, il ciclismo vive realizzando con protagonisti e comprimari un gran teatro del mondo.
Non è un caso se lo troviamo in tanta letteratura, in tanto cinema, nelle arti visive e, da qualche tempo, pure nell’arena ludoelettronica dei videogames.
Subito viene alla mente Alfred Jarry che amava correre in bici, immaginò, in uno dei suoi racconti ispirati alle due ruote, perfino Gesù in sella mentre s’arrampica lungo la tortuosa salita del Golgota. Amava correre sulla sua cara Clément luxe 96 da lui presa e mai pagata; il caso volle che quando nessuno più pagò per la tomba dello scrittore, al posto di Jarry venne sepolto un corridore di ciclismo. Né possono essere trascurati i suoi 5 ciclisti dopati che corrono in quintupletta nel "Supermaschio".
In Italia non mancano scrittori che dal ciclismo hanno tratto ispirazione per i loro lavori; ne trovate una cospicua (ma, ovviamente, non esaustiva) documentazione QUI.
Ai titoli che avete letto mi va di citarne un altro, magnifico, che lì non c’è: “Il dio di Roserio” di Testori.
Il cinema? Il ciclismo credo sia il solo sport che abbia un Festival dedicato: il Bycicle Film Festival. E poi tanti i titoli: “Il vincitore”, “All American Boys”, “La bicicletta verde”, “La banda delle BMX”, “Senza freni”, “Line of Sight”, “Il commentatore”, l’amaro “The Armstrong Lie” e l’ameno “Totò al Giro d’Italia” dove a fianco del grande comico recitano campioni veri: Bartali, Coppi, Kubler.
Le arti visive non sono da meno. E se pare che debba escludersi (essendo un falso, attribuito al critico Augusto Marinoni) il disegno di Leonardo del 1493 di una bici - Foglio 133 del Codice Atlantico, alla Biblioteca Ambrosiana di Milano - numerose sono altre testimonianze autentiche di artisti che si sono ispirati al ciclismo.
Celebri i lavori di Toulouse-Lautrec, ma è il Futurismo, con i suoi plurali inni alla velocità a celebrarlo: da Boccioni a Depero, da Sironi a Fillia.
Nel teatro troviamo poco, ma mi va di ricordare lo splendido spettacolo di Marco Martinelli del 2012, intitolato Pantani.
Così come a Pantani – e siamo in area musicale – dagli Stadio è dedicata “E mi alzo sui pedali“ pensata come colonna sonora per il “Il Pirata”, fiction Rai del 2007.
Le canzoni spazieranno da "Bartali" di Paolo Conte a "Il bandito e il campione" di Francesco De Gregori; da "Sotto questo sole" di Francesco Baccini a "Pedala" del rapper Frankie Hi-NRG, per citare le più note.
Nella musica classica, un esempio lo troviamo in Alto sui pedali, titolo del lavoro composto da Cristian Carrara con il testo di Davide Rondoni.

C’è poi chi è riuscito a fare attraverso il ciclismo, in una delle sue gare più famose al mondo, la storia del Paese in cui si svolge: l’Italia.
Edito da il Mulino ecco un libro di grande valore storico e sociologico: L’Italia del Giro d’Italia.
Ne è autore Daniele Marchesini.
Insegna Storia contemporanea nell'Università di Parma.
Con il Mulino ha pubblicato anche "Coppi e Bartali" (1998), "Cuori e motori. Storia della Mille Miglia" (2001) e "Carnera" (2006).

Le varie edizioni del Giro, forniscono a Marchesini l’occasione per fotografare in modo stratigrafico il nostro Paese attraverso gli anni: vizi e virtù, cadute e riscatti, valori in trasformazione. Il tutto senza trascurare l’evento sportivo vero e proprio, osservandone i protagonisti con i loro tic, le loro manie, e il funzionamento di ciò che intorno al Giro vive.
Estesi e puntuali gli apparati: tabelle nelle quali sono scandite, ad esempio, nello scorrere degli anni cifre sulla popolazione italiana per settori di attività e per classi sociali, produzione e circolazione di auto e bici dal 1946 al 2000, e così via; densa bibliografia, Indice dei nomi.

Dalla presentazione editoriale.
“E' dal 1909 che, salvo le interruzioni della guerra, la carovana del Giro attraversa l'Italia: il Giro è un'istituzione, fa parte della storia e dell'identità del Paese e nella vicenda del Giro davvero si rispecchia l'evoluzione sociale ed economica dell'Italia. Con una minuziosa attenzione non solo alle cronache, ma anche alle innovazioni tecniche, al contorno pubblicitario, persino ai gadget (dalle figurine agli indimenticabili tappi a corona con l'immagine dei corridori) che alimentano la passione e la mitologia popolare, Marchesini offre al lettore una narrazione di sorprendente spessore storico che illumina molti ed essenziali aspetti della società italiana contemporanea. Un capitolo, di particolare attualità, ripercorre la storia del doping nell'evoluzione del ciclismo italiano dalle origini a oggi”.

Segue ora un incontro con Daniele Marchesini.


L'Italia al Giro d'Italia (2)


A Daniele Marchesini ho rivolto alcune domande.

Il primo Giro parte nel 1909.
Quali i principali tratti dello scenario sociale dell’epoca?

All’inizio del XX secolo l’Italia è un paese politicamente – anche se non completamente – unito. Ma profondamente diviso – cioè con profondi dislivelli – sul piano economico, sociale e culturale (città/campagna, industria/agricoltura, nord/sud). È un paese in prevalenza agricolo (sfiora il 60 %), e analfabeta per quasi metà della sua popolazione. La sua trasformazione è però ormai iniziata, con la formazione importante dei suoi primi nuclei industriali, di una classe imprenditoriale e di un mercato avviato a diventare nazionale. La comparsa della bicicletta fa parte di questo processo, in quanto attrezzo sportivo ma anche bene destinato a diventare presto di largo consumo (più di 500 mila nel 1909 anno di nascita del Giro).

Come s’apprende dalle sue pagine, il fascismo non accettò subito in modo unanime il Giro come “sport fascista”.
Quando infine fu accettato, quale caratteristica assunse la gara durante il Regime
?

Il fascismo (come tutti i sistemi dittatoriali) non tralascia di usare lo sport come strumento di conquista del consenso. In quanto espressione della civiltà di massa, esso è attento agli ormai consolidati gusti di un largo pubblico rivolti alla novità rappresentata dallo sport. I successi soprattutto internazionali del ciclismo (all’epoca lo sport più popolare) sono perciò i benvenuti per confermare la qualità delle scelte fasciste e del suo duce, celebrato non a caso come il “primo sportivo d’Italia”. Senza, però, un particolare trasporto. Il fascismo, cioè, non può non nutrire un malcelato distacco verso uno sport non solo popolare, ma popolaresco, plebeo, specchio di un’Italietta liberale povera e arretrata che si vorrebbe trasformare o almeno dimenticare.
Il calcio, l’atletica, la boxe, soprattutto i motori sono invece le pratiche più consone alla nuova Italia che si racconta come avviata a diventare grande e moderna potenza. Questo non toglie che il fascismo senta come fisiologicamente suo il ciclismo, che si appropri dei suoi trionfi e del favore del pubblico. Inevitabilmente, cioè, i segni dei tempi che corrono si fanno vedere. I traguardi parziali inneggianti al regime, il fascio che adorna la maglia rosa, i freni “Balilla” o il cambio “Dux”, soprattutto i toni e le forme della pubblicità e del racconto dei media, del tutto allineati con la retorica ufficiale (“Un comandamento dell’Italia del Duce: Vincere! Bartali, campione della Legnano, ha obbedito”, 1938).

Quando nasce il ciclismo che si può definire moderno? Quali elementi portano a definirlo tale?

Già nel corso degli anni Trenta del secolo scorso intervengono importanti mutamenti. Le tappe si accorciano, per esempio. Non più 400 e anche più chilometri (con partenze nel cuore della notte e il giorno di riposo dopo ogni tappa), ma itinerari più corti, più “umani”. Le biciclette si perfezionano. Più leggere e con ritrovati come la ruota libera e il cambio che alleviano la fatica e accrescono la velocità del plotone. La trasformazione dei regolamenti, sempre meno punitivi. Poi va considerata la progressiva scomparsa degli isolati, non accasati, privi cioè di una squadra e della relativa assistenza. La preparazione del corridore, sempre meno espressione di semplice forza fisica e sempre più di sinergie diversificate (l’importanza della squadra, in corsa e fuori). L’ingresso dell’industria e della pubblicità, e la compiuta professionalizzazione del ciclismo. La televisione che cambia regole e modi del racconto sportivo.

In molti sostengono che il doping sia sempre esistito. Perché allora nella nuova edizione ha avvertito la necessità d’inserire un nuovo capitolo intitolandolo “I dolci veleni”?

Proprio perché il doping (inteso come “aiuto” medico per ottimizzare la prestazione) accompagna fin dall’inizio la pratica sportiva d’alto livello e di grande fatica. Gli esempi illustri non mancano: Thomas Hicks alla maratona di St Louis 1904 e Dorando Pietri a quella di Londra 1908 (stricnina). E perché la questione si è senza dubbio aggravata nel corso degli ultimi anni nonostante i controlli e la ricerca. Se una volta la “droga” era l’eccitante che ciascuno poteva comprarsi in farmacia, poi - nel passaggio ai cortisonici, agli steroidi, all’insulina, all’ormone della crescita, all’emotrasfusione, all’epo, ai diluenti ematici, eccetera – oggi è ormai un fenomeno complesso che richiede strumentazioni, collaborazioni, connivenze, specialismi sofisticati e appositamente dedicati. Una rete di “esperti” non lontanamente paragonabile alla simpamina che una volta si assumeva come una compressa di aspirina.

Daniele Marchesini
L’Italia del Giro d’Italia
Pagine 312, Euro 12.00
il Mulino


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