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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Cosmotaxi per il MEIS

Special per il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah a Ferrara


Special per il Meis (1)

Il 14 dicembre scorso, a Ferrara, in Via Piangipane, si è avuta l’inaugurazione del MEIS (Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah).
Il Museo, fornito di bookshop e biblioteca, già svolge laboratori didattici e prossimamente sarà attrezzato con auditorium, caffetteria, ristorante.
Presidente del Museo è Dario Disegni, direttore Simonetta Della Seta.
Il Meis ha aperto i battenti presentando due occasioni d’informazione e riflessione.
La mostra “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni” – a cura di Anna Foa, Giancarlo Lacerenza, Daniele Jalla – dove sono esposti oltre duecento oggetti preziosi, fra i quali venti manoscritti, sette incunaboli e cinquecentine, diciotto documenti medievali, quarantanove epigrafi di età romana e medievale, e centoventuno tra anelli, sigilli, monete, lucerne, amuleti. L’esposizione è scandita da alcuni video con narrazioni esplicative di studiosi della cultura ebraica. Il tutto in un accuratissimo allestimento ideato dallo Studio GTRF di Brescia.
L’altro momento offerto ai visitatori è l’installazione audiovisiva intitolata “Con gli occhi degli Ebrei italiani” a cura di Giovanni Carrada e Simonetta Della Seta, installazione opera di due artisti: la videomaker Raffaella Ottaviani e il musicista Paolo Modugno.

Serve, e molto serve, oggi un museo nazionale dell’ebraismo italiano.
Non solo come conoscenza e approfondimento della presenza e dei contributi degli ebrei alla comunità italiana, ma anche a testimoniare il sacrificio che fu imposto loro da leggi scellerate che trovano nei nostri giorni un’eco nel risorgere d’idee e comportamenti che, erroneamente, molti ritenevano roba del passato.
La riproposizione violenta del razzismo cui assistiamo non deve meravigliarci più di tanto.
Che cosa è stato fatto per prevenirlo? Pressoché nulla.
Basti pensare che la Federazione Calcio multa soltanto una squadra di calcio che ha visto parte dei suoi tifosi usare l’immagine di Anna Frank per disprezzare gli avversari.
E ricordate quando un Presidente del Consiglio alla vigilia della Giornata della Memoria raccontò barzellette sui lager?
E un presentatore che invita su Raiuno un coro in camicia nera a cantare l’inno della X Mas?
E i tanti social, solo superficialmente, debolmente, contrastati che incitano sulla Rete a colpire stranieri ed ebrei?
Queste righe appartengono a me e a me soltanto perché sono parole che non le sentirete pronunciare da dirigenti e funzionari del Museo i quali, pur condannando i vari avvenimenti d’intolleranza, preferiscono ai singoli episodi indicare le lontane cause che li determinano e la necessaria azione culturale da svolgere oggi, a partire dalla scuola, illustrando la storia per far capire il valore della convivenza civile. Cose queste che animano il Meis.
Tutto quanto sta accadendo, infatti, viene da lontano.
Il calendario ricorda che esattamente 80 anni fa furono promulgate in Italia le leggi contro gli ebrei.
Dice la scrittrice Lia Levi: “L’Italia non ha mai preso davvero coscienza delle leggi razziali. Alcuni articoli erano più duri di quelli del nazismo, per esempio quelli sulla scuola. Nelle città piccole dove non c’erano scuole ebraiche, è stato perso il diritto allo studio”.
In un libro di Franco Cuomo, "I dieci: chi erano gli scienziati italiani che firmarono il Manifesto della Razza", è citato quel precedente. Il Manifesto della Razza, pubblicato il 14 luglio 1938, fu la premessa alle leggi razziali promulgate il 6 ottobre dello stesso anno che comportarono la perdita dei diritti civili per 58mila italiani, parte dei quali poi deportati in Germania e 8mila di loro morti nei lager.
Quei famigerati Dieci non solo mai furono processati, ma sono state loro intitolate strade, borse di studio, aule universitarie.
I nomi: Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Dosaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari.
A questi vanno aggiunti altri 329 che sottoscrissero il Manifesto.
Tornando a quei nomi di vergognosa memoria, Cuomo così scrive: “Volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. E ci riuscirono, in prima persona. Perché lo furono”.


Sagge parole

“Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi.
La peste si è spenta, ma l'infezione serpeggia.”

Primo Levi


Special per il Meis (2)


Dall’aprile 2017 Simonetta Della Seta (in foto) è il nuovo direttore del museo.
Giornalista professionista, ha raccontato Israele, il Medio Oriente, nelle pagine dei giornali, alla radio, e dai telegiornali.
Nel suo curriculum si legge, tra l’altro, che è presidente della Commissione Cultura della Comunità ebraica di Roma e docente di Storia ebraica contemporanea nel Master in Cultura e Comunicazione dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane.

«Questa nomina segna un momento molto importante nella storia del Museo” – affermò, al momento della nomina il presidente del Meis Dario Disegni –. “non a caso all’insediamento del nuovo Consiglio, nello scorso gennaio, avevo indicato come prioritaria l’individuazione, attraverso un bando internazionale, di un valido direttore».

Della Seta così scrive a proposito del Meis: “La cultura italiana e quella ebraica rappresentano, ciascuna per la propria natura, due laboratori di civiltà.
Dall’unione di questi due mondi è nata la narrativa del tutto singolare dell’ebraismo italiano, che per questo si distingue dal resto dell’esperienza ebraica, sia in Terra di Israele sia nella Diaspora.
Nonostante l’alternarsi di periodi nitidi e altri più offuscati, se non addirittura oscuri, la convivenza fra le due culture è durata ventidue secoli ed esprime ancora oggi decise volontà e vitalità di scambio.
Il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah nasce per raccontare questo aspetto meno noto, eppure fondante, dell’italianità, ricostruendo le tappe e i frutti di un lungo abbraccio culturale, avvenuto in continuità, seppure in circostanze alterne, contraddittorie, a volte dolorosa.
Il percorso espositivo si intitola non a caso “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni”. Il MEIS comincia a svelare una vicenda ai più completamente sconosciuta. Una storia sorprendente, dalla quale si evince che l’Italia è stata costruita con gli Ebrei e anche dagli Ebrei. Non è un’esperienza di altri: gli ebrei sono pregni di italianità antica, parte del tessuto del nostro paese, componente attiva della ricchezza e della forza dell’Italia. Hanno combattuto nelle sue guerre, per il suo risorgimento e per la sua liberazione”.


Sagge parole

“Il fascismo si cura leggendo e il razzismo si cura viaggiando”

Miguel de Unamuno


Special per il Museo Meis (3)

Come già detto in apertura, tra i curatori della mostra c’è Anna Foa (in foto).
Ha insegnato Storia moderna all’Università di Roma La Sapienza. Si occupa di storia della cultura nella prima età moderna, di storia della mentalità, di storia degli ebrei.
Tra le sue pubblicazioni: "Ateismo e magia"; "Giordano Bruno"; "Eretici. Storie di streghe, ebrei e convertiti"; "Andar per ghetti e giudecche"; "Cicerone o il Regno della parola (con V. Pavoncello)"; "Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento"; "Ebrei in Europa. Dalla Peste Nera alla emancipazione XIV-XIX"; "L'eclisse dell'antifascismo. Resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989"; "I giorni di Roma".
Su questo sito è stata intervistata nella sezione Enterprise in occasione della pubblicazione di Portico d'Ottavia 19. Una casa del ghetto nel lungo inverno del '43

Ad Anna Foa ho rivolto alcune domande.
Com’è avvenuta, nella mostra in corso, la scelta sul periodo delle origini?

La scelta di illustrare il primo millennio della presenza degli ebrei in Italia risponde a due obiettivi principali.
Il primo obiettivo, spiegare l’antichità della presenza ebraica in Italia.
Ci sono prove documentarie della presenza di ebrei a Roma nel secondo secolo prima dell’era volgare, cioè 2200 anni fa. E’ questa, dell’origine della presenza degli ebrei in Italia, una delle domande che vengono poste più frequentemente da studenti e pubblico. Anche chi non è del tutto digiuno in materia tende spesso a collocarla nel 70 dell’era volgare, con la distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte di Tito, da cui si fa erroneamente iniziare la Diaspora (dal greco “dispersione”). In realtà, esiste una diaspora che precede le guerre dei Romani contro la Giudea, dispersione di giudei nel Mediterraneo a scopi commerciali, come esisteva un’analoga dispersione di altri popoli del Mediterraneo, greci, fenici, etc. A questa dispersione volontaria si sovrappone la deportazione dei giudei sconfitti a Roma e in Italia, dopo la distruzione del Tempio ad opera di Tito ed ancor più dopo che Gerusalemme viene vietata agli ebrei e denominata Aelia Capitolina, ad opera dell’Imperatore Adriano, nel 135 e.v.. Dalla fusioni di queste due diverse origini derivano le comunità ebraiche italiane.
Il secondo obiettivo: sottolineare l’importanza di una fase poco nota della presenza ebraica in Italia, sotto l’Impero romano e poi nel corso dell’Alto Medioevo, la cui rilevanza fu grandissima sia per la storia del mondo ebraico che per quella dell’Italia. Si trattava, in vista del futuro Museo, di una mostra di prefigurazione, che esponesse, con i limiti tecnici esistenti fra una mostra temporanea e un’esposizione definitiva, la prima fase della storia che il museo era deputato a raccontare.

Quali sono le origini delle comunità ebraiche italiane?

Nel primo millennio, oltre a Roma, le comunità ebraiche sono presenti soprattutto nell’Italia meridionale e nelle isole maggiori. L’Italia del centro-Nord è nei primi secoli assai scarsamente popolata di ebrei, anche se intorno al VI-VIII secolo cominciano a ricrearsi, in località dove perlopiù erano state presenti in età romana, alcune comunità ebraiche. E’ verso questa data che comincia un afflusso di ebrei dal Sud verso il Centro e il Nord, spinti soprattutto dalla politica bizantina di vessazioni e conversioni forzate. Nel Sud d’Italia, la presenza ebraica risale con probabilità già all’età imperiale, anche se sovente la documentazione esistente, per lo più archeologica, è più tarda. Abbiamo però fonti letterarie, sia ebraiche che romane, che ne testimoniano. Sicilia, Puglia, Calabria sono terre a forte presenza ebraica, una presenza destinata a crescere ulteriormente fino a tutto il Quattrocento. Le comunità dell’Italia meridionale possono essere considerate, nei primi secoli del Medioevo, come la culla della Diaspora europea: dall’Italia meridionale partiranno, verso il IX- X secolo, correnti migratorie che contribuiranno alla formazione del mondo ebraico askenazita, nella Germania renana. In Italia meridionale sarà importato il testo fondamentale dell’esegesi rabbinica, il talmud babilonese, che si fonderà con la precedente tradizione palestinese di quelle comunità. E sembra anche che sia nata nell’Italia meridionale la forma politica stessa assunta dalla presenza ebraica nella Diaspora, la Comunità. Dal punto di vista dell’apporto di questo mondo ebraico del Sud d’Italia alla cultura esterna, si tratta di un apporto fondamentale. Abbiamo testi scritti in volgare italiano, fra i primi esistenti, e in lettere ebraiche. Possiamo parlare di una vera e propria coesistenza e di una stretta mescolanza tra cultura ebraica, tanto letteraria che scientifica, e cultura esterna.

Dove e quando le prime tracce della persecuzione degli ebrei?

A parte qualche episodio sporadico e i sempre difficili rapporti con la dominazione bizantina nel Sud d’Italia, le prime tracce di un cambiamento nel clima di convivenza tra ebrei e mondo esterno possono rinvenirsi nel clima determinatosi in tutto il mondo ebraico della diaspora dopo i massacri che durante la prima crociata distrussero le comunità ebraiche del Reno, massacri che ebbero ovunque una vastissima eco e che furono il preludio ad un radicale cambiamento nell’equilibrio esistente tra il mondo ebraico e i cristiani. Successivamente al periodo trattato nella mostra, verso la fine del XIII secolo, durante la dominazione angioina, vi saranno conversioni forzate, espulsioni, violenze, conversioni delle sinagoghe in chiese. Ma il mondo ebraico del Sud dell’Italia continuerà a prosperare fino al XV secolo, fino alla cacciata degli ebrei dalla Sicilia e dalla Sardegna nel 1492, in seguito alla loro espulsione dalla Spagna.
Nella prima metà del secolo XVI gli ebrei verranno cacciati anche dal regno di Napoli, ormai anch’esso spagnolo. Di quella ricca e millenaria cultura restavano solo poche tracce. È anche a farla conoscere e rivivere che questa mostra è dedicata.


Sagge parole

“Se fossi stata una ragazza ebrea ai tempi di Hitler, sarei diventata la sua ragazza.
Dopo dieci giorni a letto, avrebbe iniziato a pensare alla mia maniera.”

Yoko Ono


Cosmotaxi Special per il Meis (4)

Un’introduzione al tema del Museo è data da un’installazione audiovisiva intitolata Con gli occhi degli ebrei italiani.
È a cura di Giovanni Carrada e di Simonetta Della Seta.
“Ci ha guidato l’idea” – afferma Carrada – “che un’attrazione spettacolare e coinvolgente, come l’installazione presente, potesse cogliere due obiettivi: innanzitutto, incuriosire il pubblico, stimolandolo a capire che, oltre alla Shoah, ci sono tante dimensioni interessanti nell’ebraismo italiano. Inoltre, prefigurare il Meis che verrà, fornendo un primo quadro degli argomenti che il percorso museale svilupperà in futuro”.
“Abbiamo voluto pensare prima di tutto al visitatore” – dice Della Seta – “cercando di orientarlo da subito ai complessi temi attorno ai quali apre e si svilupperà il Museo”.

“Con gli occhi degli ebrei italiani” si avvale di una lussuosa regìa di Raffaella Ottaviani impreziosita da una colonna sonora di Paolo Modugno.
Ottaviani da molto tempo si occupa di comunicazione di mostre ed eventi, di allestimenti, di grafica editoriale e, da alcuni anni, di installazioni multimediali immersive e regia.
A lei ho rivolto una domanda.

Qual è il criterio che ti ha guidato nel realizzare quest’installazione?

- Raccontare in mezz’ora la lunga storia degli ebrei italiani non è facile se non si ha un autore come Giovanni Carrada e un photo editor come Manuela Fugenzi, con i quali è nato il progetto. Il video è proiettato su due pareti angolari contigue per un effetto immersivo. Ci è sembrato importante far dialogare il percorso storico con una visione più privata ed intima, una sorta di testimonianza individuale che riporta ad emozioni condivisibili, perché lo spettatore possa sentirsi coinvolto come se tutto questo fosse capitato a lui. Da qui il focus e il tempo dedicato alla storia degli ebrei in Italia nel corso del ‘900, aperto da nuvole cupe che si sovrappongono alla foto di una classe elementare di bambine negli anni ’30,e poi da passi solitari contrapposti al movimento indaffarato della folla. Solitudine e paura. Le immagini sono di parte, fotografano un punto di vista della realtà in un periodo dato e il desiderio è che possano in qualche caso toccare corde inaspettate, aprire lo sguardo ad altre visioni.
Quello che ho cercato di fare, appunto, è prendere partito attraverso una narrazione che, raccontando l’intreccio antico e profondo delle comunità ebraiche con la storia del nostro Paese diventa metafora per non dimenticare che questa storia di violenza e follia può ripetersi in ogni momento a danno di qualsiasi gruppo sociale e etnia, magari la nostra. Per invitarci quindi a vigilare, partendo da noi stessi.

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Paolo Modugno è sperimentatore sonoro, ingegnere del suono, sound designer. Si definisce “etnomusicante”.
Gestisce la sala di registrazione OasiStudio a Roma dal 1984.

Dimmi del tuo lavoro nella composizione della colonna sonora

- Per tutta la prima parte, fino al medioevo, mi sono sentito libero di interpretare il clima dei tempi senza sentirmi troppo condizionato dallo specifico della cultura ebraica, vista la scarsità di fonti. Ho potuto utilizzare così materiali originali e di repertorio che si adattavano alle situazioni via via descritte dalla narrazione.
Dal Rinascimento in poi, fino ad oggi, mi sono avvalso dei preziosi consigli di Massimo Acanfora Torrefranca, amico musicologo e studioso della Torà, che mi ha fornito alcuni brani composti da musicisti ebraici legati ai vari periodi storici trattati. Ciò mi ha permesso di restare fedele ad uno scorrere filologico del commento musicale.


Sagge parole

“L'antisemitismo è sempre stato il mezzo più economico impiegato da minoranze egoistiche per ingannare il popolo”.

Albert Einstein


Special per il Museo Meis (5)


Nel concludere questo special, un ringraziamento va a Daniela Modonesi
responsabile dell’Ufficio Stampa del Museo.


Sagge parole

- Non solo abbiamo perso 6 milioni di ebrei, ma quello che mi preoccupa è che i record sono fatti per essere battuti.

Woody Allen, dal film "Harry a pezzi"


Special per il Museo Meis (6)

Per i visitatori del Meis:

Informazioni e prenotazioni
Call center: 84 80 82 380
Attivo tutti i giorni dalle 9.00 alle 18.00

Contatti
Tel. +39 0532 – 76 91 37
Fax +39 0532 – 71 17 72
E-mail: info@meisweb.it

Cliccare QUI per entrare nel sito web del Museo.


Mindscapes (1)

Esistono libri belli (pochissimi), libri brutti (un’infinità), libri utili (proprio pochi), libri inutili (un’immensità), libri ovvi (non si contano) ma libri che siano al tempo stesso tematicamente originali e di bella scrittura ne girano un pizzico.
Ne presento oggi uno dei rari esempi: Mindscapes Psiche nel paesaggio.
Non affannatevi a cercare il significato di quella parola sul vocabolario, è un neologismo “per evocare il rapporto tra psiche e paesaggio e collocarci a metà strada, la dove dobbiamo stare con la psiche nel paesaggio e il paesaggio nella psiche”.

Autore del volume – RaffaelloCortina Editore – è Vittorio Lingiardi.
Psichiatra e psicoanalista, è professore ordinario di Psicologia dinamica alla Sapienza Università di Roma, dove dal 2006 al 2013 ha diretto la Scuola di specializzazione in Psicologia clinica. Con Nancy McWilliams è coordinatore scientifico e curatore dello Psychodynamic Diagnostic Manual (PDM-2 - Guilford Press, 2017; prossimamente Raffaello Cortina 2018).
Altri libri pubblicati presso Cortina QUI.
Collabora con l’inserto culturale Domenicale del Sole 24 Ore, con la Repubblica e con il Venerdì di Repubblica, dove tiene la rubrica settimanale “Psycho” su cinema e psicoanalisi. Per nottetempo edizioni ha pubblicato due raccolte di poesie: “La confusione è precisa in amore” (2012) e “Alterazioni del ritmo” (2015).
Per più diffuse notizie CLIC.

Dalla presentazione editoriale di “Mindscapes”.
«Guidato da bussole psicoanalitiche, letterarie e neuroestetiche (da Searles a Winnicott, da Schnitzler alla Dickinson, da Zeki a Gallese), Vittorio Lingiardi ci invita a ripensare l’idea di ambiente e, in particolare, di paesaggio elettivo. Un luogo che cerchiamo nel mondo per dare forma e immagine a qualcosa che è già in noi. Al tempo stesso una scoperta, un’invenzione e un ritrovamento. Fiumi, montagne, ruderi e spiagge abitano la nostra mente, i nostri viaggi e i nostri sogni. Come oggetti psichici sono immersi nella nostra memoria, e forse risalgono al primo incontro con il volto di chi ci ha guardato. O ha distolto lo sguardo.
Per stare al mondo dobbiamo conoscere il paesaggio. Soprattutto, dobbiamo avere molti luoghi dentro di noi per avere qualche speranza di essere noi stessi».

Segue ora un incontro con Vittorio Lingiardi.


Mindscapes (2)

A Vittorio Lingiardi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro?

Questo libro ha molte nascite. Nasce sicuramente dal mio continuo dialogo interiore tra Poesia e Psicoanalisi. Dall’incontro tra queste due P ne è nata una terza, quella di Paesaggio. Mindscapes nasce anche da una frase dello psicoanalista francese Jean-Bertrand Pontalis: “Ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé per avere qualche speranza di essere se stessi”. Una frase che mi ha colpito probabilmente perché stavo muovendomi in quella direzione: volevo scrivere su un tema per me nuovo e da tempo rimuginavo sul ruolo che hanno i luoghi e i paesaggi nel farci diventare ciò che siamo. La nostra storia e la nostra psiche sono anche una geografia; siamo inseparabili dai nostri luoghi, per amore o per rancore. Non riesco a uscire da un museo o da una mostra senza comprare qualche cartolina. Ne ho centinaia. Finiscono in un cassetto, dentro un’agenda, sulle mensole della libreria, nell’interstizio di una cornice, piccoli quadri nel quadro. Ecco, l’idea di scrivere questo libro mi è venuta quando mi sono accorto che moltissime delle mie cartoline raffiguravano paesaggi. Città lontane di Cima da Conegliano, lagune di Guardi, bufere di Turner, acquerelli di Roberts, nebbie di Friedrich, scogliere di Monet, acquetinte dei Daniell, sterpaglie di Kiefer, cretti di Burri. Ho bisogno di loro. Sono immagini silenti, magari imprigionate tra le pagine di un libro o dentro una scatola. Ma io mi muovo, viaggio con loro dentro di me. Rinnovando ogni volta il legame che unisce, talora fino a confonderli, paesaggio e pittura del paesaggio.

Tanti scrittori hanno descritto luoghi senza esserci mai stati o addirittura luoghi immaginari. Possiamo (o dobbiamo) pensare che anche quei luoghi erano già dentro di loro?

Direi proprio di sì. Le geografie della terra sono inseparabili da quelle della mente. I luoghi che amiamo sono al tempo stesso una scoperta e un’invenzione, li possiamo trovare perché sono già in noi. Certo non sono i luoghi dei viaggi di Bruce Chatwin, Freya Stark o Walter Bonatti. Ma sono viaggi altrettanto intensi e impegnativi. I poeti lo sanno. Emily Dickinson, che non esce dalla sua stanza, la cui finestra incornicia il mondo, scrive: “L’angolo di paesaggio/a ogni mio risveglio”... Allora il ramo di un pino può trasformarsi in un mare (“Dalla finestra ho come scenario / solo un mare – con uno stelo”).
O Giorgio Caproni che, giocando con la malinconia, ribalta la situazione: “Tutti i luoghi che ho visto, / che ho visitato, / ora so – ne sono certo: / non ci sono mai stato”.

I luoghi immaginari (si pensi, ad esempio, alla fantascienza), rappresentati dalle arti visive, dalla letteratura, dai videogames, dal cinema, hanno la stessa valenza psichica di quelli da noi fisicamente vissuti?

Siamo noi a dare valore psichico a un paesaggio. Che è una parte del mondo reale, ma anche un luogo dell’identità e della memoria, uno specchio delle nostre emozioni, un’esperienza d’immersione sensoriale. I luoghi che amiamo sono al tempo stesso una scoperta e un’invenzione, li possiamo trovare perché in un certo senso sono già in noi. Fiumi, montagne, ruderi e spiagge abitano la nostra mente, i nostri viaggi e i nostri sogni. Come oggetti psichici sono immersi nella nostra memoria, e forse risalgono al primo incontro con il volto di chi ci ha guardato. O ha distolto lo sguardo. Perché quel volto è il primo paesaggio. “Parigi oggi è compiuta”, scrive il poeta René Char. “Ci vivrò. Il mio braccio più non lancia lontano l’anima. Appartengo”.

Termino quest’intervista con parole che traggo da una pagina di “Mindscapes”.
Perché proprio “Roma e l’Italia, la Grecia, l’Egitto sono territori psichici fondamentali per conoscere Freud”
?

In una lettera da Lavarone, indirizzata alla moglie, Freud si chiede: “Perché lasciamo questo luogo ideale per bellezza e tranquillità, e ricco di funghi? Perché ci resta ancora solo una settimana e il nostro cuore, come abbiamo constatato, volge al Sud, verso i fichi, i castagni, l’alloro, i cipressi, le case ornate di balconi, gli antiquari”. La lettera è del settembre del 1900, Freud è già stato in Italia, ma non a Roma. Per vari anni la capitale italiana è stata per lui un sogno proibito, un richiamo ambivalente e, come scrisse a Fliess, “profondamente nevrotico”. Nell’Interpretazione dei sogni racconta “una serie di sogni fondati sull’ardente desiderio di visitare Roma” e alcune vicende (che legge alla luce del conflitto edipico e della sua appartenenza culturale e religiosa) connesse con l’impossibilità di raggiungerla. Roma per Freud è un sintomo. Per andarci, dovrà diventare archeologo di se stesso e, con l’analisi dei sogni, portare alla luce la Roma che è in lui. “Un grande amore e un’invincibile fobia”, come dirà Musatti. Freud visita Roma sette volte, tra il 1901 e il 1923, instancabilmente. È per lui un paesaggio di archeologia evolutiva, contaminazione psichica e religiosa, femminilità (è ai Musei Vaticani che Freud, dopo aver letto il racconto di Jensen, acquista una riproduzione del bassorilievo di Gradiva) e mascolinità (San Pietro in Vincoli è meta di continue visite al Mosè di Michelangelo, al cui “sguardo corrucciato e sprezzante” cerca di “tener testa”, ma dal quale talora se la svigna “quatto quatto nella penombra”). E Roma gli aprirà la strada verso sud: Napoli, Pompei, Paestum, e poi Palermo, Agrigento. Nel 1904 sarà la volta di Atene. Nel mio libro riporto molti brani, tratti da lettere e scritti di Freud, che parlano della sua passione per il Sud. E rivelano i suoi “sintomi mediterranei”, come lo svenimento sull’Acropoli. E concludo domandando a me stesso e al lettore: abbiamo bisogno di altri racconti per capire la forza psichica del paesaggio, quello che può raccogliere dalle nostre storie e quello che possiamo assorbire dalle sue?

………………………….

Vittorio Lingiardi
Mindscapes
Pagine 262, Euro 16.00
Con foto b/n e colore
RaffaelloCortina Editore


Poetry and Pottery

A La Spezia è in corso alla Camec (Centro Arte Moderna e Contemporanea) Poetry and Pottery Un’inedita avventura fra ceramica e poesia visiva.
I curatori sono Giosué Allegrini e Marzia Ratti.

Estratto dal comunicato stampa.
«Si tratta di un progetto espositivo che riunisce questa particolare tipologia di lavori, certamente la più rara nell’ambito della poesia visiva contando poche centinaia di esemplari al mondo.
Un progetto rappresentativo della produzione artistica su supporto ceramico di circa trenta poeti verbovisuali, nato e sviluppato con il supporto di Isaia Mabellini, in arte Sarenco, e con il contributo dei collezionisti Paolo Scatizzi, Paolo Berardelli, Luigi Bonotto, Giuseppe Verzelletti e di alcuni artisti di poesia visiva, uno su tutti Lamberto Pignotti.

In foto: Lamberto Pignotti “Goodbye Butterfly”.

Importante il sostegno del maestro ceramista Michelangelo Marchi, che presso il proprio laboratorio di Cèllora d’Illasi ospitò le realizzazioni ceramiche dei poeti visivi operanti presso la Domus Jani, Centro Internazionale per l’Arte Totale.
La mostra riprende e completa la storia della Visual Poetry su supporto ceramico, limitatamente alle opere realizzate prima dell’anno 2000. Sono comunque inserite nel catalogo scientifico che accompagna l’esposizione anche la serie “Azulejus” realizzata da Sarenco nel 2004 e alcune opere prodotte in tempi più recenti da Pignotti e da artisti affini alla Poesia Visiva.
Le tematiche trattate sono molte: dalla Poesia Concreta, alla Poesia Visiva italiana ed internazionale per giungere alla Scrittura Visuale – Nuova Scrittura; molti gli artisti e i gruppi artistici rappresentati: da Sarenco a Giovanni Fontana, dal Gruppo Genovese di Tola e Vitone, al Gruppo 70 di Pignotti, Miccini e Marcucci, dal gruppo Milanese del Mercato del Sale di Ugo Carrega a Roberto Malquori, per giungere ad artisti Fluxus quali Giuseppe Chiari, Vittorio Gelmetti e Gianni Emilio Simonetti, a importanti Mail-artisti come Ruggero Maggi, o ad artisti di grande fascino concettuale quali Aldo Mondino, Maria Lai e lo stesso Michelangelo Marchi.
Nutrita è anche la presenza dei poeti visivi internazionali presenti: da Alain Arias Misson a Julien Blaine, da Jean Francois Bory a Pierre e Ilse Garnier, da Ladislav Novak a Klaus Groh, da Joan Brossa a Bartolomé Ferrando, da Carlos Pazos a Fernando Millan, da John Furnival a Emmet Williams»

I testi nel catalogo, edito da Silvana Editoriale, sono di Giosué Allegrini, Lamberto Pignotti, Marzia Ratti, Sarenco.

Ufficio stampa: Luca Della Torre

Poetry and Pottery
a cura di
Giosué Allegrini e Marzia Ratti
Camec
Piazza Cesare Battisti 1
La Spezia
Fino al 29 aprile 2018


Era domani


Dalla GinaFilms ricevo e volentieri rilancio.


«Dopo "Io sto con la sposa" e "Per un figlio", Gina Films è partita per un’altra avventura: da gennaio è iniziata la distribuzione di Era domani, il nuovo film di Alexandra D'Onofrio.
“Era domani” è un documentario frutto di un lungo lavoro partecipato e di una ricerca antropologica durata tre anni tra viaggi, laboratori di teatro, fotografia, animazione e storytelling che hanno coinvolto tre giovani egiziani vissuti in Italia senza documenti per quasi dieci anni.
Alì Henish, Mahmoud Hemida e Mohamed Khamis, durante le riprese del film, riescono a regolarizzarsi grazie ad una sanatoria.
Improvvisamente il loro futuro si ripopola di sogni e possibilità. Così decidono di ritornare insieme alla regista sui luoghi di approdo dopo la traversata del Mediterraneo.
Un ritorno al passato alla ricerca del futuro, un viaggio compiuto per recuperare i desideri di un tempo e immaginare come tutto sarebbe potuto andare diversamente».

QUI il trailer di “Era domani”.
Scrivere a ginafilms.distribuzone@gmail.com per organizzare una proiezione.


La strage dimenticata


In apertura è necessario dissolvere un possibile equivoco: il libro che presento oggi è solo omonimo di quello d’Andrea Camilleri pubblicato da Sellerio nel 1984; quella strage si riferiva a 114 patrioti uccisi dalla polizia borbonica.
La strage dimenticata pubblicata da Interlinea, invece, è dedicata alla rievocazione di un eccidio per opera delle SS avvenuto a Meina sulla sponda piemontese del Lago Maggiore.
Tra il 13 settembre e l’11 ottobre 1943, quel territorio fu teatro di una strage di ebrei italiani nell'Hotel Meina di proprietà di Alberto Behar, cittadino turco di origine ebraica.
Altre esecuzioni di vari gruppi di ebrei italiani avvennero in vari paesi vicino a Meina.
Sulla vicenda è stato girato nel 2007 il film “Hotel Meina” diretto da Carlo Lizzani, prendendo spunto da un libro-reportage di Marco Nozza.
Furono in totale 56 le vittime accertate, uccise e gettate nel lago, ma poiché i corpi riaffiorarono, furono straziati con le baionette affinché affondassero definitivamente.

Il libro di Interlinea si avvale dell’Introduzione di Roberto Morozzo della Rocca, docente di storia contemporanea all’Università di Roma Tre che tra l’altro scrive “Fino alle leggi razziali gli ebrei italiani si sentirono perfettamente integrati con la popolazione italiana. Anche tra quelli allora sul Lago Maggiore era diffusa la convinzione, malgrado le discriminazioni successive al 1938, di essere intoccabili (…) L’ebraismo italiano era in gran parte sprovvisto dei sensori di persecuzione che aveva invece l’ebraismo dell’Europa centrale e orientale”.
Altri interventi appartengono a Claudia De Benedetti, Mauro Begozzi, Giuseppe Laras.
Dallo scritto di quest’ultimo, anche in rapporto a quanto sta succedendo in Italia in questo 2018 voglio riportarne un passaggio significativo che mi pare allarmante perché si sofferma sull’indifferenza provata dalla maggior parte dell’opinione pubblica dinanzi ad atti di persecuzione : “… le coscienze erano come narcotizzate a seguito di una propaganda martellante che additava gli ebrei (oggi da noi gli stranieri, ma l’antisemitismo pulsa vivacemente sopra e sotto pelle) come la causa di tutti i mali (…) emergeva un’assoluta insensibilità, un’assoluta mancanza di senso morale e di solidarietà tra le persone".
Naturalmente ci furono anche casi di alcuni che aiutarono gli ebrei mettendo a rischio la propria posizione sociale o addirittura la vita, ma quanti furono i casi di delazione! Quando fu fondata la Repubblica di Salò, la ricompensa per la cattura di un ebreo era di 5000 lire, qualche migliaio di euro oggi.

Il volume si conclude con la testimonianza di Becky Behar, figlia del proprietario dell’Hotel Meina, sopravvissuta alla strage. Di lei si possono leggere anche parti del diario che tenne in quei terribili giorni.
La copertina riporta una sua foto di quando nel ’43 aveva 12 anni; è morta nel 2009.

AA. VV.
La strage dimenticata
Pagine 86, Euro 10.00
Interlinea Edizioni


Autocurriculum


La casa editrice Sellerio ha pubblicato Autocurriculum dell’artista, giornalista e drammaturgo Emilio Isgrò.
È nato in Sicilia, a Barcellona Pozzo di Gotto il 6 ottobre 1937.
Alle 4 del mattino: “Ancora risento di quell’alzataccia”.
QUI più diffuse notizie biografiche.

L’attività di autore scenico è la meno conosciuta. Eppure non è di minor valore rispetto alle altre aree di produzione d’Isgrò. Ad esempio, di successo fu l’Orestea di Gibellina, una trilogia: “Agamennuni”, “I Cuefuri”, “Villa Eumenidi”; questa terza parte allestita sulla scena “concettuale” del terremoto che distrusse la cittadina del Belice.
Ma è soprattutto noto per le sue famose "cancellature". Quel tratto grosso di pennarello grasso che lui sovraimprime a famosi testi, ad esempio, alla Costituzione italiana della quale restano leggibili soltanto poche parole che lette in successione danno comici risultati. Ad esempio in prima pagina tre sole parole: “una indivisibile minorata”. Isgrò è contro la Costituzione? Per niente. Il contrario. Dice: “Ho preferito cancellarla io con buone intenzioni che farla cancellare da altri con cattive intenzioni”.
Le “cancellature” risalgono al 1964. Un gesto di negazione del sapere codificato e, al tempo stesso, di riscatto rigenerativo del testo che è diventato il segno di una ricerca che pur legandosi all’ambito concettuale, mai si è pienamente identificato con esso, mantenendo una riconoscibile autonomia.

Autocurriculum è il contrario di una cancellazione, perché ripercorre la sua vita, i suoi molti incontri con personalità dell’arte, della politica, della moda, della musica, le sue tante avventure nella società letteraria e delle arti visive. Però “adotta” – come nota Andrea Cortellessa – “uno stratagemma retorico geniale: presentando questo suo testo come un curriculum, allestito al fine di trovare finalmente un impiego a tempo indeterminato”.
E proprio rispondendo a una domanda di Cortellessa, dirà: “L’autobiografia si fa alla fine di una carriera, il curriculum all’inizio... Sì, il libro enuncia la volontà di esserci. Non tanto perché io sia Isgrò, ma poiché titolare di un mestiere che rischia di sparire in un assetto, come quello attuale, in cui la vecchia figura dell’artista come intellettuale non può più avere neppure il vizio del narcisismo!

Il libro si avvale di un microsaggio sulle bandelle di Salvatore Silvano Nigro: «Emilio Isgrò (…) si innalza sopra il personaggio omonimo che, dentro il libro, tra le righe d’inchiostro di una finzione curriculare, si fa viandante “alla costante ricerca di un lavoro” e del sentimento del mondo. Trova quindi, l’agio di affacciarsi, dall’alto della sua postazione straniata, sull’”avventurosa vita” del proprio doppio letterario che, passo dopo passo, finisce per convertire il fittizio tracciato burocratico della sua carriera nelle peripezie vissute e briosamente raccontate di un vero romanzo picaresco: il resoconto nega se stesso per infiltrarsi e riconfigurarsi in una trama fascinosamente narrativa che ha tutti i diritti della realtà».

In questo video Isgrò traccia il profilo dell’inizio della sua vita artistica a Milano e del suo percorso stilistico.

Emilio Isgrò
Autocurriculum
Pagine 232, Euro 14.00
Con ill. in b/n e colore
Sellerio


Hitler non è mai esistito (1)

Già, è proprio questo il titolo di un libro pubblicato da Celid: Hitler non è mai esistito seguito dal sottotitolo Un memorabile oblio.
La faccenda merita una spiegazione. Se qualcuno sostenesse quanto lì si afferma verrebbe considerato un demente, tante sono le foto, i filmati, le registrazioni con la voce del fürher, tante le testimonianze di chi lo ha incontrato.
Eppure ci sono alcuni che sostengono addirittura l’inesistenza dei lager, dei forni crematori, o perfino la persecuzione degli ebrei. Li chiamano i negazionisti, espressione, se ci fate caso, tradita da un anagramma che riporta a una certa ascendenza di questi nipotini unita a un certa malsana sostanza volatile: zii noti nei gas.
Gli autori del volume sono: Furio Colombo e Vittorio Pavoncello

Furio Colombo ha vissuto a lungo negli Stati Uniti, e insegnato alla New York University, alla University of California, Berkeley, alla Columbia University.
Con Umberto Eco ha partecipato alla fondazione del Gruppo 63, del Dams di Bologna (1969), e de La Nave di Teseo (2015), la casa editrice indipendente voluta da Eco per non sottostare a Berlusconi.
È l’autore della legge che dal 2000 istituisce il Giorno della Memoria per la Shoah.
Più estese notizie biografiche QUI.

Vittorio Pavoncello artista attento interprete degli sviluppi dell’arte e della scienza, ha realizzato sia spettacoli teatrali sia mostre. Sul tema della memoria e della Shoah nel 2002 ha scritto, tra altri testi, “Eutanasia di un ricordo” (che ha ricevuto una medaglia dalla Presidenza della Repubblica).
È ideatore di SpamLife che si occupa dei fenomeni di esclusione sociale.
Per una più completa biografia: CLIC.

Il negazionismo è un tema sul quale questo sito si è soffermato più volte, ricordo, ad esempio, una conversazione con lo storico Claudio Vercelli che anni fa mi disse: “È cresciuta l’area dello scetticismo programmatico e del dubbio sistematico verso ogni narrazione pubblica, percepita come mero esercizio di occultamento del potere (e quindi, in immediato riflesso, di spoliazione dei diritti delle collettività). Il negazionismo si presenta sempre sotto le capziose sembianze di una offerta di conoscenza, che rivelerebbe lo scandalo dell’altrui menzogna, in questo caso quella di Auschwitz. Per tali ragioni le sue potenzialità sono non trascurabili. Lo sono tali tanto più il giorno in cui dovesse incontrare in un qualche movimento politico un comodo vettore di legittimazione”.
E nel libro di Colombo e Pavoncello, in un passaggio, si legge: “Proviamo soltanto a immaginare i pensieri e le emozioni che possono vivere i sopravvissuti alla Shoah, oggi, nel vedere che quelle stesse forze politiche che un tempo tentarono di distruggerli e che sono state sconfitte, tornano a gestire gli strumenti del potere”.

Il volume dei due autori si avvale di ricchi apparati: diffuse e preziose note; le leggi razziali in Francia, Germania, Italia; il Manifesto della Razza.
Libro prezioso sia per quanto tristemente ora vediamo e sia perché esce quando il calendario ricorda che esattamente 80 anni fa furono promulgate da noi le leggi contro gli ebrei. In un libro di Franco Cuomo, "I dieci: chi erano gli scienziati italiani che firmarono il Manifesto della Razza", è citato un precedente. Quel Manifesto, pubblicato il 14 luglio 1938, fu la premessa alle leggi razziali promulgate il 6 ottobre dello stesso anno che comporteranno la perdita dei diritti civili per 58mila italiani, parte dei quali poi deportati in Germania e 8mila di loro morti nei lager.
Quei famigerati Dieci non solo mai furono processati, ma a loro, sono state intitolate strade, borse di studio, aule universitarie. I nomi: Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Dosaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari.
A questi vanno aggiunti altri 329 che sottoscrissero il Manifesto.
Tornando a quei nomi di vergognosa memoria, Cuomo così scrive: “Volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. E ci riuscirono, in prima persona. Perché lo furono”.

Dalla presentazione editoriale di “Hitler non è mai esistito”.
«Nelle pagine di questo libro Furio Colombo e Vittorio Pavoncello vogliono riportare in luce la forza del negazionismo (che resiste bene all’intensità, alla commozione, ma anche alla documentazione della memoria) e l’oscillante debolezza delle istituzioni che non hanno mai saldato la loro autorevolezza con la grandezza del crimine che si erano impegnate solennemente e per legge a non scolorire per non perdere il senso dalla vastità del crimine. Ha fatto scudo la calcificazione del fascismo, che vuole assurdamente continuare a essere opinione legittima come ogni altra opinione.
Può esserci una opinione che non risponde del fatto che esalta?

Segue ora un incontro con Vittorio Pavoncello.


Hitler non è mai esistito (2)


A Vittorio Pavoncello (in foto) ho rivolto alcune domande.

Com’è nato questo libro?

La nascita del libro si deve alle molteplici conversazioni che Furio ed io abbiamo avuto. E che esprimevano alla fine un profondo disagio e preoccupazione. Abbiamo cercato di scriverle e di trovare risposte e possibili soluzioni. Ognuno di noi due ha scritto un saggio che è una faccia di una stessa medaglia. Idealmente è anche una prosecuzione di un precedente libro che avevamo pubblicato: Il paradosso del giorno della memoria http://mimesisedizioni.it/il-paradosso-del-giorno-della-memoria.html#yt_tab_products2

Perché non c’è stata una Norimberga italiana? E, anzi, come nel libro sono ampiamente commentate, perfino amnistie per i repubblichini da quella di Togliatti ai successivi ampliamenti varati da governi Dc?

Questione complessa e non saprei dire se la mia è una risposta o una constatazione. Mentre si svolgeva il processo di Norimberga iniziato nel 1945 e finito nell’ottobre del 1946, l’Italia faceva nel giugno del 1946 una scelta importante passando dalla Monarchia alla Repubblica ed erano altri i problemi da affrontare. E poi alla fine del conflitto dove stavano i fascisti? Erano diventati tutti cittadini italiani e non più sudditi di un regno che ambiva all’Impero fascista... o no?!
“Volemose bene”, così nel 1944 Filippo Andrea VI Doria Pamphili il Sindaco di una Roma liberata si era espresso. Forse a sinistra fu ascoltato ma a destra e al centro?

Come ho accennato in apertura, il libro è benvenuto in un momento storico in cui si assiste ad una recrudescenza del neonazismo e dell’antisemitismo. A chi attribuire le colpe nel non avere previsto e prevenuto quanto sta avvenendo oggi?

Alla menzogna e presunzione di sentirsi vincenti. Alle indulgenze. Al non aver saputo costruire il Giorno della Memoria come un giorno di festa e non come un evento luttuoso. Con l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz si è vinta la battaglia sul razzismo, e si è combattuta la prima guerra razziale della storia, vincendola. Ma non si voluto capire né vedere, troppo presi da vecchie strategie politiche, che la guerra del razzismo stava continuando.

Gradirei che tu ricordassi in sintesi il contributo degli ebrei italiani alla Resistenza...

Non c’è bisogno di sintesi né di arrivare alla Resistenza se le prime vittime del nazifascismo furono i fratelli Rosselli i fondatori di Giustizia e Libertà… E poi Enzo Sereni, il fratello di Emilio, che poteva vivere tranquillo in uno dei primi kibbutz da lui fondato in Israele e invece preferì farsi paracadutare in Italia finendo nelle braccia dei nazisti che dalla Linea Gotica lo spedirono a Dachau. Ho girato un film su Enzo Sereni. Se ne trovano notizie sul mio sito che tu prima hai segnalato. Enzo Sereni era un uomo del dialogo, con gli arabi non girava armato e in Italia venne per organizzare la Resistenza insieme alla Brigata Ebraica. Ma della Brigata Ebraica ormai non si può più parlare, ormai la parola è tutta e solo dei filopalestinesi che cacciano via la Brigata Ebraica da ogni manifestazione del 25 aprile, dimenticando che all’epoca tanti loro genitori erano alleati e collaborazionisti con i nazisti. E questa si può chiamare storia? E questa si può chiamare giustizia nella Memoria? E allora è giusto riflettere sul titolo del nostro libro “Hitler non è mai esistito” e sulle conseguenze che viviamo ormai ogni giorno.
…………………………….

Furio Colombo
Vittorio Pavoncello
Hitler non è mai esistito
Pagine 128, Euro 10.00
Celid


Giovanni Dal Monte


Esisteva un tempo, molti ma molti anni fa, a RadioRai una trasmissione chiamata (se non ricordo male) “Nuova ribalta musicale” in cui erano presentati compositori, sia di classica sia di leggera, già professionisti, che non avevano ricevuto ancora l’attenzione che meritavano a parere di un critico, sempre diverso di volta in volta, chiamato a proporne l’opera.
La trasmissione fu chiusa a metà degli anni ’70 e mai più ripresa nonostante proposta ai programmisti di Viale Mazzini da vari collaboratori della radio pubblica.
Peccato. Perché esistono realtà creative che andrebbero incoraggiate presentandone i profili espressivi talvolta non noti quanto sarebbe giusto lo fossero.

Ecco oggi un musicista che, pur vantando un curriculum eccellente e plurali riconoscimenti, a mio avviso vede la scena musicale in debito con lui.
Il suo nome Giovanni Dal Monte (in foto) aka La Jovenc. Vive a Bologna.

Traggo sue note biografiche dall’ottimo Rockit che gli ha dedicato spazi.
Dal Monte ha iniziato la sua attività negli anni ottanta, collaborando con artisti di sperimentazione e avanguardia. Negli anni novanta ha iniziato la sua produzione solista, concentrandosi inizialmente su colonne sonore per cinema e televisione, oltre a ideazioni musicali ispirate a classici film del cinema muto.
Ha portato nei teatri con sue composizioni originali, nel 1998, "Nosferatu" di F.W.Murnau e, nel 2005, "Lulù, il vaso di Pandora" di G.W.Pabst due film del cinema espressionista.
Nel 2006 ha vinto il PAI (Premio Avanguardia Italiana) e nel 2007 ha vinto Live!Ixem (Musica elettronica sperimentale italiana).
Ha suonato con Murcof, Kangding Ray, Scanner e altri artisti internazionali di musica elettronica in festival come Storung a Barcellona, Ixmae a San Francisco, Arspolis in Svizzera. Da sempre attento all’arte visiva, al cinema, al teatro e alla danza contemporanea, questo suo interesse per l’intercodice si è inverato in numerosi contributi musicali per installazioni, performances ed esibizioni in diversi musei e gallerie (a Milano a Il Cubo e all'Archivolto, al Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, al Centro Arte Contemporanea del Ticino, al Museo Zauli-Faenza, fino all’ISEA2014 a Dubai) con artisti visivi e performers quali Devis Venturelli, Sara Nesti, Al Fadhil, Pier Giorgio De Pinto, Bertozzi e Casoni, Nedo Merendi, Cesare Reggiani, Olimpia Lalli.
Ha composto musiche per teatro e danza, ad esempio: per Jader Giraldi, Iris Dance Company, Loom Company.
Sia per la Rai sia per Sky si sono avute sue colonne sonore ed è stato autore di composizioni anche per la pubblicità. Nel cinema, tra le varie collaborazioni, sue sono le musiche di tre pellicole ("Otto or up with dead people", "L.A.Zombie" e "Offing Jack") del regista icona canadese Bruce LaBruce, a fianco di musicisti quali Anthony and the Johnsons e Cocorosie, film presentati ai Festival del cinema di Berlino, Toronto, Locarno, Cannes, Sundance Festival.
Tra gli incontri creativi, si segnala una felice collaborazione con la cantante dei Massive Attack, Nicolette.
Non sono mancati apprezzamenti del suo lavoro da fonti professionali di rilevo, dagli Art Ensemble of Chicago che hanno apprezzato le sue rielaborazioni dei loro classici, a John Zorn a Barry Adamson (il musicista prediletto di David Lynch) che ha definito la sua musica “superba”.
Tra le riviste che hanno recensito il suo lavoro «Blow Up», «il Mucchio Selvaggio», «Beautiful Freaks», "24/7 magazine", "Is this music magazine", "Soundblab", la già citata Rockit.

QUI propongo l’ascolto di alcuni suoi brani e con un CLIC ne raggiungerete altri.
Nuovo CLIC per sue dichiarazioni.
Aldilà di valori espressivi autonomi, sono musiche che hanno un ampio ventaglio di occasioni che vanno dai documentari agli sceneggiati alle sonorizzazioni ambientali in interni o in esterni.

Buon ascolto.


Lorenza Amadasi


È l’autrice di Il fiore e le cento stelle, fiaba verbovisiva per grandi e piccini.
Verbovisiva perché scandita da immagini ideate da Mario Lodi.

Lorenza Amadasi – come si legge in un suo profilo – “è nata nel 1961 e da allora fino a oggi con estenuante fatica continua ad adattarsi al mondo, rivendicando il diritto di respirare pulito e immaginando un pianeta dove si possa ancora bere l’acqua dei fiumi. Ha realizzato alcune pubblicazioni tra le quali una in collaborazione con Oliver Sacks per la casa editrice Pulcinoelefante.
Il suo desiderio a fasi alterne la porta a trascorrere molto tempo in Grecia e in Francia”.

Mario Lodi (1922 – 2014): pedagogista, scrittore e insegnante. QUI sue notizie biografiche.

Scrive Andrea Canevaro nella Premessa: Una storia delicata è accompagnata da illustrazioni delicate. Forse abbiamo perso di vista la delicatezza. Se così fosse, domandiamoci cosa rischiamo di perdere. Come tutte le parole, anche delicatezza è polisemica, ha cioè significati diversi, secondo le intenzioni di chi la usa, secondo la collocazione che ha, secondo le circostanze in cui si trova. Una delicatezza in un incontro esige entrambe le parti siano… delicate: una narrazione delicata, e illustrazioni delicate.
Chi leggerà e ammirerà potrà valutare l’esito dell’incontro
.

Il volumetto (40 pagine, s.i.p.) è edito da FUOCOfuochino in numero di 100 esemplari.


Frammenti di un discorso interrotto

Ha scritto Julian Barnes in un libro dedicato alla moglie morta: “Noi non possiamo scendere negli Inferi come Orfeo. Perciò dobbiamo farlo in modo diverso, possiamo scendere nella memoria”.

L’Euridice nella vita di Neri Pozza è stata la sua compagna Lea Quaretti pensando alla quale scrive Frammenti di un discorso interrotto nel 1982, l’anno dopo la morte di lei.
Chi erano Lea e Neri?
Eccone un ritratto che ne fa l’attento curatore del libro (preziose le sue note) Angelo Colla che di Pozza è stato amico e collaboratore.
“Due personalità diverse” – scrive Colla – “delicata e sensibile quella di Lea, tesa ai problemi dello spirito, incline a credere a segreti e misteri da cui rifuggiva Neri, razionalista, positivo, amante di un’etica operativa nel segno dell’ideale umanistico. Due persone che hanno intrecciato le loro diversità in una storia d’amore durata trentacinque anni, raccontata da entrambi: da Lea nel suo diario, da Neri in una ricapitolazione-dialogo post mortem”.

Un discorso quello di Neri interrotto (come il titolo ispirato a “Frammenti di un discorso amoroso” di Roland Barthes), non concluso. Del resto, aveva fatto incidere sulla tomba di lei «Non è morta, dorme».
“Scenderemo nel gorgo muti” scrisse Pavese, e le pagine di questo libro fanno scendere il lettore dentro un gorgo di dolore descritto senza grido o pianto, ma proprio per questo ancora più straziante.
Si parla spesso di ‘elaborazione del lutto’, spero di non sbagliare nel credere che Pozza non voglia ‘elaborare’ ricordando quanto ricorda, piuttosto fissare le immagini e le parole evocate affinché esse lo accompagnino per sempre. Altrimenti significherebbe tradire.

Ho aperto questa nota con Barnes e la concludo con lui che in un’intervista cita il protagonista di “Sostiene Pereira” che parla con la fotografia della moglie morta e il direttore della clinica in cui è ricoverato gli che dice che deve imparare a vivere nel presente. A Pereira, invece, sembra un comportamento normale. Anche a Pozza. Lui è quel che è anche per il fatto di aver vissuto con Lea per trentacinque anni. Dire che qualcuno è morto non vuol dire che non esiste: si può continuare quell'esistenza, continuarla in forma di dialogo.
Forse l'altezza del dolore aumenta, finalmente diventa perenne vertigine.

Neri Pozza
Frammenti di un discorso interrotto
A cura di Angelo Colla
Pagine 120, Euro 12.50
Neri Pozza Editore


La depressione è una dea


La casa editrice il Mulino ha pubblicato un libro di estremo interesse che si avvale di una scrittura piena di riferimenti e citazioni che, però, mai taglia fuori dalla lettura chi non è uno specialista della materia trattata perché si svolge su di un piano di chiarezza che non solo spiega quei riferimenti e quelle citazioni ma riesce a coinvolgere
chi legge in un’appassionante indagine.
Titolo La depressione è una dea I Romani e il male oscuro.
L’autrice è Donatella Puliga.
Insegna Civiltà e Lingua e Letteratura latina all'Università di Siena. Oltre ad articoli di carattere scientifico e a testi scolastici, ha pubblicato “Percorsi della cultura latina” (Carocci, 2003), “Ospitare Dio” (Il Nuovo Melangolo 2010).
Insieme con Silvia Panichi, ha scritto per Einaudi “In Grecia. Racconti dal mito, dall'arte e dalla memoria” (seconda edizione 2016); “Un'altra Grecia. Le colonie d'Occidente tra mito, arte e memoria” (Einaudi, 2005); “Roma. Monumenti. Miti. Storie della città eterna” (2012).

A Donatella Puliga, ho rivolto alcune domande.
Com’è nato questo libro?

Il libro nasce da un mio particolare interesse per le sfumature della psiche, proprio a partire dall’ambito contemporaneo. I temi legati alla sfera della mente, delle emozioni, di ciò che non si vede ma che vive prepotentemente dentro ciascuno di noi, e di noi determina anche le scelte quotidiane, mi hanno sempre appassionato. Ma poiché sono una classicista, non ho potuto non chiedermi se e in che modo l’ambito della psiche venisse percepito dagli antichi, sia Greci che Romani, che in un certo senso sono stati i primi a descriverlo, con tutta la fatica che si para davanti a chi deve addirittura fondare un linguaggio per dire l’indicibile. In concreto, poi, l’occasione che mi ha dato il “ la” per la scrittura di questo saggio è stato un fecondo incontro con alcuni psichiatri e psicologi, con i quali abbiamo discusso di temi legati alla mente e ai suoi fantasmi. Anche io ho voluto portare il mio contributo che può sembrare periferico - quello di un’antichista - ad una riflessione che sembra essere esclusivamente moderna e contemporanea, ma in realtà ha radici remote, la cui conoscenza ci può aiutare molto a comprendere il nostro presente.

I Greci attribuivano al male oscuro – come Giuseppe Berto definì la depressione – al corpo, alla “bile nera”. I Romani la estesero all’animo. Il perché due differenti visioni

Più che di visioni differenti parlerei di visioni complementari, che ben si sono integrate nel corso dei secoli. I Greci partono da una concezione scientifica, di tipo medico e organicistico: quella che noi chiamiamo “depressione” era da loro identificata con un eccesso di “ bile nera”, cioè da una prevalenza anomala del liquido che costituiva uno dei quattro “umori” che secondo la medicina ippocratica erano alla base della fisiologia umana. Se questi quattro umori erano presenti in egual misura nell’organismo, allora si dava la condizione di salute; ma se uno di questi quattro fosse stato prevalente, ecco allora l’insorgere di una disarmonia e – nel caso di prevalenza della bile nera – ecco l’affiorare della malinconia (parola che, etimologicamente, significa appunto” bile nera”).
I Romani, per parte loro, hanno ben presente questa spiegazione “fisiologica”, ma sentono il bisogno di estenderla fino a farle comprendere una dimensione più propriamente legata alla sfera dell’anima. Ma è chiaro che la lezione dei medici greci non viene messa da parte dai Romani: soltanto che mentre le testimonianze degli autori latini sono in prevalenza testimonianze letterarie e filosofiche , quindi più inerenti all’ambito della psiche, il mondo greco è stato per noi più generoso - in questo caso - di testi medici e scientifici che ci hanno illuminato maggiormente sulle concezioni fisiche e corporee.

È possibile, oppure no, paragonare la depressione così come la intendiamo oggi con quella del mondo dei Romani?

Il paragone è comunque lecito, ma si deve porre molta attenzione a non sovrapporre delle concezioni che comunque restano molto diverse soprattutto per quanto riguarda i modi, le parole, le metafore usate per definire il “ male oscuro”: in questo senso la grande lezione dell’antropologia storica (che si può applicare anche allo studio del mondo antico) è quella di considerare ogni cultura come una realtà che fa sistema in se stessa, e che non va spiegata con elementi che provengono da un’altra cultura. È meglio in questo caso cogliere le differenze piuttosto che le analogie, perché è proprio la “alterità” la cifra che deve caratterizzare il nostro interesse per il mondo antico. È chiaro, d’altra parte che - per tenere sempre a mente la sapienza del Qoèlet - per alcuni tratti dell’animo umano possiamo osservare che “niente di nuovo c’è sotto il sole”: gli antichi sentivano il disagio del vivere anche se non lo esprimevano con i termini in cui lo esprimiamo noi. Si tratta di un disagio connaturato alla civiltà, ad ogni latitudine del tempo.

Quali gli scrittori latini nei quali meglio si legge quel mal d’animo?

C’è un filo rosso che lega autori anche distanti tra loro nel tempo e nella visione del mondo. Così Lucrezio descrive con toni incredibilmente “moderni”- potremmo dire - quello che oggi si definisce “disturbo d’ansia generalizzato” , ma la sua descrizione è ripresa con altrettanta icasticità da Seneca, un autore cronologicamente molto lontano da lui, che pure osserva negli uomini del proprio tempo - soprattutto quelli legati al potere e alle ricchezze - tratti analoghi a quelli che oggi sarebbero indicatori della “depressione ansiosa”. Per non dire di Orazio, il grande poeta solo apparentemente campione di equilibrio e di moderazione: lui è il primo a parlare della propria depressione, di quello stato d’animo di totale demotivazione che porta al desiderio di non vivere.

Murcia, dea della depressione, a quale epoca appartiene e qual è il suo profilo nel pantheon romano?

Di Murcia non abbiamo molte notizie, ma ne abbiamo quante ne bastano a capire che era una delle divinità che i Romani definivano “dèi minuti”, legati a specifici momenti della vita umana, ad aspetti specifici dell’esistenza. I Romani avevano una divinità per ogni cosa, per ogni emozione. Ma questo non sono loro a raccontarcelo. Piuttosto, ce lo raccontano i detrattori, i critici della loro religione: in particolare S. Agostino, che ci fa un regalo straordinario dal punto di vista conoscitivo. Ci elenca proprio tutte queste “divinità dell’attimo”, e tra queste anche Murcia, che rendeva l’uomo estremamente pigro e inattivo (murcidus, in latino): depresso, diremmo oggi. Comunque dell’esistenza di un luogo sacro dedicato a Murcia ci parlano anche autori del periodo classico, ad esempio Livio, nonché Servio, il grande commentatore di Virgilio. Certo, Murcia non apparteneva al pantheon tradizionale dei dodici grandi dèi, ma questo non significa che non avesse una importanza “interstiziale”, proprio perché riguardava un lato oscuro dell’animo umano.

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Donatella Puliga
La depressione è una dea
Nota introduttiva di Angelo Cerù
Pagine 238 con ill., Euro 20.00
il Mulino


Teatri d'amore (1)


Quante case abbiamo attraversato non solo per via di necessità (o talvolta peregrinazioni) personali ma anche da lettori o spettatori in letteratura, nei film, nelle arti visive. Da case di marzapane come in Hansel e Gretel all’angosciosa casa degli Usher; da Totò che cerca casa attraversandone di tutti i tipi a quella avveniristica d’Iron Man; dalla sensuale dimora dell’Efebo a Pompei alle tristi stanze a Brooklyn di Hopper… case, caverne, capanne, rifugi, tutti ambienti che hanno contenuto esistenze e memorie.
Impossibile contenerle tutte, anche se un soccorso ci proviene da Gaston Bachelard che in “La poetica dello spazio" cataloga in 10 capitoli le emozioni provocate da varie strutture domestiche e dai loro arredi.
C’è chi sul tema della casa si è misurato partendo dai suoi abitatori, molti famosi altri meno, coppie che hanno nella città di Roma fra il ‘700 e il ‘900 vissuto felicità e disgrazie e ne è venuto fuori un libro di affascinante lettura.
Lo ha pubblicato nottetempo ed è intitolato Teatri d’amore. L’autore è Luca Scarlini.
Saggista, drammaturgo, storyteller in scena, spesso insieme a cantanti, attori e anche in veste d’interprete. Insegna all'Accademia di Brera e in altre istituzioni italiane e straniere; collabora con numerosi teatri e festival in Italia e all'estero.
Non lasciatevi ingannare dalla parola “narrativa” che compare in copertina, qui, per fortuna, niente romanzi, Scarlini si è mosso su rigorose ricerche e documentazioni riuscendo a fare un saggio scattante (al più una pagina e mezzo) su di una serie di personaggi che ha raggruppato in 14 ripartizioni: Animalisti, Arrovellati, Avanguardisti, Collezionisti, Complici, Filosofi, Fuggitivi, Infelici, Mistici, Mondani, Morituri, Simbiotici, Teatranti, Visionari.
Una sfarzosa sfilata fatta d’illuminazioni interpretative delle donne e degli uomini evocati mai rinunciando – da valente scrittore di teatro qual è – al colpo di scena, spesso divertente, quando, ad esempio, per citare un solo episodio, Luigi Serra pittore si rivolge alla marmorea ma sensualissima Santa Teresa del Bernini custodita nella cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria confessandole i suoi turbamenti.
Le pagine si avvalgono dei disegni di Alvise Bittente
QUI il sito web dell’autore.

Dalla presentazione editoriale.
«Le case raccontate sono quelle in cui hanno abitato coppie, di artisti, intellettuali, teatranti, persone del cinema e della moda. Stanze tutte per sé, quindi, in cui scrivere e creare in pace, ma anche tempestosi rifugi per vite in burrasca: pareti che hanno vegliato su poesie e romanzi, che hanno custodito quadri e ritratti, in strade che spesso recano il nome di coloro che furono ospiti di quei luoghi. Si sentiranno risuonare quindi, per esempio, i litigi tra Giacomo Leopardi e Antonio Ranieri, le disquisizioni teologiche di Cristina Campo ed Elémire Zolla, gli affondi dionisiaci di Friedrich Nietzsche e Lou Andreas-Salomé».

Segue ora un incontro con Luca Scarlini.


Teatri d'amore (2)


A Luca Scarlini (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro?

Per anni, in passato sono stato speaker di Radio3 suite, in agosto. Momento ideale per vedere Roma, girando in biciletta, frequentando i moltissimi musei cosiddetti minori, le case-museo, o anche zigzagando in cerca di lapidi, spesso scritte in modo bizzarro, che raccontano il passaggio di persone illustri, che talvolta lo erano assai più all'epoca loro. Da un'osservazione, legata a programmi radiofonici, negli anni ho raccolto, spesso per volontà, altre volte per serendipity, storie romane curiose. Ho deciso quindi di metterle insieme, creando una sequenza di teatrini, con persone che hanno soggiornato nell'urbe per un giorno o per la vita, incrociandosi con la città e con i suoi abitanti. Sempre raccontando rigorosamente coppie, di persone, con animali, presenze allegoriche e mitologiche.

Come hai scelto di far parlare nelle coppie ora lui ora lei?

Tutte le storie, scritte in modi assai diversi, sono tratte da materiali documentari, quindi la voce maschile o femminile è quella che in quel momento della storia assume il sopravvento sull'altra, sia che si tratti di eventi drammatici, che di momenti di una ordinata vita domestica.

“Una casa è una macchina per abitare”, diceva Le Corbusier.
“Una casa è un palcoscenico”, dice Mendini.
Tu come la pensi
?

Un palcoscenico senz'altro, Le Corbusier mi è simpatico, ma non vorrei abitare in una sua machine à abiter. Nell'ipotesi dell'assurdo esistenziale, preferirei di gran lunga una dimora di Carlo Mollino, tra neoliberty estremo e postsurrealismo, ma accadrà solo in sogno.
In ogni caso in nessuna città come a Roma, dove le case sono così stratificate, adattate all'estremo, segnate dal tempo fin nelle loro viscere, ogni casa è un teatro, dove quotidianamente, si va in scena.

Luca Scarlini
Teatri d’amore
Disegni di Alvise Bittente
Pagine 312, Euro 17.00
Nottetempo


I diari di Raqqa

La città siriana Raqqa è stata il quartier generale e la capitale del sedicente Stato Islamico dal gennaio 2014 sino al 17 ottobre 2017 quando è stata riconquistata dalle forze curde armate e addestrate dagli Usa con lo scopo di dare un colpo definitivo al califfato di al-Baghdadi. Tutto questo dopo che gli americani avevano commesso gravi errori politico-militari che avevano favorito, in funzione anti Assad, proprio al-Baghdadi.
Le Edizioni Mimesis hanno pubblicato un libro che testimonia in modo secco, senza orpelli letterari, la situazione di chi ha vissuto quasi quattro anni in un’atmosfera di terrore.
Il volume s’intitola I diari di Raqqa Vita quotidiana sotto l’Isis e lo ha scritto un giovane di 24 anni: Samer. Questo nome è uno pseudonimo. Fuggito da Raqqa, oggi vive in un campo profughi nel nord della Siria.
Fu un inviato della BBC, Mike Thomson, che avendo contattato un gruppo anti-Isis, trovò chi, mettendo a rischio la propria vita, accettò di scrivere un diario di quei giorni infernali.
Per proteggere Samer, i suoi messaggi venivano criptati e spediti verso un altro paese prima di essere passati alla BBC.

Come si viveva sotto l’Isis? Ecco qualche passaggio scritto da Samer: “Una donna è accovacciata in una fossa, chiesi che cosa stava succedendo. Prima che qualcuno mi rispondesse, un uomo alto con una maschera proclamò: «Questa donna è colpevole di adulterio e la sua punizione è la lapidazione a morte».
E ancora: “Passando in una piazza, mi trovo in mezzo a una folla. Non voglio unirmi alla gente, perché è probabile stia per assistere a una decapitazione. Grazie a Dio, però, stavolta è solo una fustigazione di un omosessuale”.
Tempi da incubo. La vendita di televisori è stata proibita, indossare pantaloni della lunghezza sbagliata è reato e utilizzare un telefono cellulare è considerato un crimine imperdonabile. I giornalisti non sono ammessi e la punizione per chi parla con i media occidentali è la decapitazione.

Leggendo quelle pagine è invitabile pensare a quanti, anche nella Sinistra italiana, affermano che l’islamismo non è la religione feroce praticata dall’Isis. Ma il fatto è che ogni monoteismo contiene in sé la serpe velenosa dell’odio che può degenerare in violenza. Poi, i libri sacri dicono sempre tutto e il contrario di tutto perciò li si può leggere, in buona o mala fede, ciascuno a modo suo.
Ancora una cosa, il libro si avvale di disegni monocromatici a firma di Scott Coello che usa un tratto volutamente infantile, ne viene fuori una galleria d’immagini drammatiche perché di orrori visti da un bambino.

Dalla presentazione editoriale.
«Da quando è stata occupata dall’Isis, la città di Raqqa, in Siria orientale, è diventata una delle città più isolate e terrorizzate sulla terra. Nonostante questo, attraverso mesi di conversazioni nervose e spesso interrotte, la BBC è riuscita a entrare in contatto con un piccolo gruppo di attivisti, Al-Sharqiya 24. Alla fine, uno dei membri ha coraggiosamente accettato di scrivere un diario delle sue esperienze. Dopo aver visto massacrare amici e parenti, ridurre in pezzi la vita della sua comunità e rovinare l’economia locale da questi estremisti nutriti solo di odio, Samer ha reagito nell’unico modo possibile: raccontando al mondo quello che accade nella sua amata città. Ecco la storia di Samer».

Samer
I diari di Raqqa
A cura di Giampaolo Cadalanu
Traduzione di
Giampaolo Cadalanu – Serena Grassia
Con una nota di Mike Thomson
Illustrazioni di Scott Coello
Pagine 114, Euro 15.00
Mimesis


Jean Cocteau


Da pochi giorni è in libreria, edito da Odoya un nuovo libro di Pascal Schembri (in foto) intitolato Jean Cocteau La squisitezza del mondo.

Cocteau: poeta, romanziere, drammaturgo, pittore, regista.
Nacque il 5 giugno 1889, a Maisons-Laffitte, morirà a Milly-la For nel 1963.
Nei primi anni giovanili già si afferma come poeta, conoscerà e sarà apprezzato dagli ambienti cubisti e da nomi quali Apollinaire, Stravinskji, Diaghilev, Erik Satie. Proprio con questo musicista e con Picasso nel 1917 nasce, suscitando furibonde polemiche, il balletto "Parade" che oggi definiremmo "intercodice" perché conteneva disegno, poesia e prosa. A chi lo insulta, risponde: "Io sono una menzogna che dice la verità".
Il romanzo suo più famoso è “I ragazzi terribili” (1929) documento intenso della disperazione moderna; notevole il film autobiografico “Il sangue del poeta” (1931) considerato l'ultimo frutto dell'avanguardia cinematografica surrealista.


Dalla presentazione editoriale.
«Artista eclettico, collettore di avanguardie, dandy: Jean Cocteau è stato tutto questo.
Di origini nobiliari, le sue sostanze non gli impedirono di partecipare alla prima guerra mondiale. L’eclettico artista che si districò bene tra poesia, pittura, stesura di saggi e romanzi, regia e sceneggiatura eccelse anche nel ruolo di trait d’union tra i vari artisti dell’avanguardia parigina. Marcel Proust lo stimava come saggista, collaborò con Picasso e Satie all’opera Parade, si fece promotore di movimenti come “Lira e tavolozza” (Lyre et palette) e di ensemble come il Gruppo dei Sei, Cocteau era dietro l’obiettivo delle migliori foto ai tavoli della Rotonde quando a stazionarvi ⎼ e a scambiarsi impressioni sull’arte e sulla vita ⎼ erano tra gli altri Modigliani, Picasso, Jacob, Cendrars, la modella Pâquerette o il pittore cileno di Ortiz de Zárate. Imparò la naturalezza della sue pulsioni omoerotiche da Oscar Wilde, fu amico di Max Jacob e amante di Raymond Radiguet. Ma ebbe anche sincere amicizie con la piccola Edith Piaf e la scandalosa Kiki de Montparnasse. Il suo memoir Oppio, diario della dipendenza, lo avvicina ulteriormente al paragone con Andy Warhol: artista e catalizzatore in uno spazio/tempo unico per fervore artistico. Pascal Schembri restituisce un ritratto vivido e ragionato di un artista che con la sua produzione a tutto tondo ricorda le attitudini rinascimentali: un personaggio da riscoprire».

Pascal Schembri
Jean Cocteau
Introduzione di Marco Ongaro
Pagine 256, Euro 16.00
Volume illustrato
Odoya


L'infanzia dei dittatori


Non conosco il nome del grafico che ha curato un libro pubblicato da Baldini+Catoldi, meritava una citazione. L’ideazione di quell’Hitler neonato con il ciucciotto in bocca è assolutamente perfetto per L’infanzia dei dittatori Dieci uomini che hanno contribuito a disegnare il mondo come lo conosciamo di Véronique Chalmet, scrittrice specializzata in criminologia e psicologia.
Anche baffetto a spazzolino fu infante, nonostante solo pochi a vederne le immagini che sappiamno lo riportino a quell’età. Quanti vedendo bambini lui o Stalin, Bokassa o Pol Pot
ne intuirono quella cosa chiamata Male che avrebbero prodotto?
Quel Male che nei secoli è stato visto secondo differenti cause e nature.
Scrive Guido Brunetti (di cui il genetista Edoardo Boncinelli dice che è "uno dei pochi autori capace di scrivere un libro sul cervello, la mente e la coscienza"): «Sono state le religioni, la filosofia e la teologia ad aver iniziato ad indagare il mistero del Male. Il pensiero antico, già con Omero, Esiodo e Sofocle, rivela una coscienza molto intensa dell’angosciosa presenza del male nel mondo. Platone, Aristotele e sant’Agostino considerano il male metafisico come il “non-essere”. L’uomo, per Hegel, è cattivo per natura. D’accordo con Hegel, Kant parla del Male come “un’inclinazione naturale, innata, dell’essere umano” (…) Venendo alla nostra epoca, c’è da dire che molti autori esprimono il profondo bisogno di una rinnovata filosofia dei valori. La filosofia, nata con Socrate per tradurre in conoscenza l’esperienza dei valori, ha dato – afferma Roberta De Monticelli – ‘le dimissioni da questo suo compito’. Un ragionamento che richiama La banalità del male, un libro scritto da H. Arendt, nel quale la malvagità dell’uomo è considerata come espressione della ‘spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male’».

Il luciferino, insomma, si nasconde anche dietro una incolore creatura come Eichmann.
Véronique Chalmet ha il grande merito di far sfilare 10 figure (nell’ordine dell’Indice: Pol Pot – Idi Amin Dada – Stalin – Gheddafi – Hitler – Franco – Mao – Mussolini – Saddam Hussein – Bokassa) descrivendone le infanzie con grande abilità narrativa pur attenendosi rigorosamente a documenti e testimonianze, senza cioè abbandonarsi a fantasie romanzesche. Tutti sono accomunati da una puerizia vissuta in modo duro, talvolta drammatico e l’autrice cita numerosi episodi in tal senso che rendono appassionante la lettura. Hitler, Stalin, Mussolini venivano picchiati dai loro padri ubriaconi. Saddam Hussein aveva un patrigno che lo trattava da schiavo, Franco fu ossessionato dalle continue scappatelle del padre, Pol Pot ebbe esperienze sessuali traumatiche, Amin Dada aveva una madre strega che preparava elisir con dei feti… ma basta un’infanzia infelice per diventare tiranni?
Jean-Pierre Vrignaud nella prefazione scrive: “… ma non tutti i bambini maltrattati diventano assassini, non tutti i figli di criminali sono privi di compassione, non tutte le vittime di abusi infantili cercano vendetta su un popolo intero. Per quanto terribili, le prime esperienze di vita dei grandi dittatori non bastano a giustificarne i crimini”.
E allora? Allora va riconosciuto anche qualcosa che sta al di qua della psicologia. Perché se è vero che c’è una scimmia assassina in tutti noi, è pur vero che l’evoluzione non è un interruttore che dà luce raggiungendo tutti alla stesso momento; è un processo lentissimo e non desta troppa meraviglia che parte degli umani indossino ancora un sistema nervoso centrale più vicino a quel primate sanguinario.

Véronique Chalmet
L’infanzia dei dittatori
Prefazione di Jean-Pierre Vrignaud
Traduzione di Marco Lapenna
Pagine 176, Euro 17.00
Baldini+Castoldi


L'evoluzione biologica di una lacrima (1)


Due libri sono usciti di recente sul cinema di Alberto Grifi (29.5.1938 – 22.4.2007), autore maiuscolo del nostro cinema sperimentale. Espressione che, sia pur corretta, è riduttiva perché la sua voluminosa opera contiene innovazioni di linguaggio che ne fanno un nome che va a iscriversi nella più vasta dizione di Cinema.
Per una sua biografia e altre documentazioni, cliccate QUI.
Due libri, dicevo: una monografia di Annamaria Licciardello per le edizioni Falsopiano e L’evoluzione biologica di una lacrima Il cinema di Alberto Grifi pubblicato da Timía Edizioni. Questo libro, con foto e ricchi apparati, trae il titolo da un film di Grifi: "L'occhio è per così dire l'evoluzione biologica di una lacrima & Autoritratto Auschwitz", 2007 (prima versione 1965-70).
Ne è autrice Stefania Rossi.
Si legge in un suo profilo: «Nata a Saronno nel 1980, artista, videomaker, documentarista.
Diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera con laurea specialistica in Cinema e video al dipartimento di Nuove tecnologie per l’arte. Nel suo percorso artistico mediato dal rapporto delle nuove tecnologie ha collaborato a numerosi progetti tra i quali il documentario collettivo “Milano 55,1. Cronaca di una settimana di passioni” presentato a Locarno Film Festival; al Bellaria Film Festival è stato proiettato il suo cortometraggio “Derivazioni”. Collabora con l’Ass. Alberto Grifi per la creazione di un archivio dedicato all’artista».

Ha scritto un libro costruito con tecnica documentaristica alternando sapientemente interviste, documenti, foto, testimonianze, riuscendo a dare attraverso una lunga conversazione che ebbe con Grifi un ritratto di lui in 3D che permette di conoscerne il suo pensiero sul cinema, il suo modo d’intenderlo e farlo, il suo ingegnoso artigianato, la sua vibrante presenza nell’antagonismo sociale.
Libro splendido del quale dovranno tenerne conto quanti in futuro vorranno misurarsi nell’analisi di un artista che ha riunito in sé innocente entusiasmo e alto professionismo, cose queste che di solito mal si accordano, un uomo che riusciva ad essere indolente e operoso al tempo stesso.
Lo so bene perché l’ho conosciuto in anni lontani, poi molto tempo dopo quando dirigevo con Pinotto Fava uno spazio di programmi sperimentali a RadioRai lo invitai a produrre una versione radiofonica della famosa “Verifica incerta”. Nacque così “Se ci fosse una porta busserei” (battuta tratta proprio dalla “Verifica incerta”): un monologo scritto da Alberto intercalato da brani della colonna sonora del film; andò in onda su Radio1 nel contenitore “Fonosfera” – il primo gennaio 1981.
……………………………………………………

Dalla presentazione editoriale del libro.
«Alberto Grifi, il più significativo cineasta sperimentale italiano, l’autore del cult movie Anna, si racconta in una lunga intervista. Ma non solo. È un libro corale. Attraverso i ricordi di quanti, attori, registi, operatori, artisti e critici hanno condiviso con lui una stagione creativa e di radicali innovazioni, ci fa rivivere i tumultuosi anni Settanta con la loro carica di passioni; un viaggio non solo nella vita e nell’opera di un “pioniere” del rinnovamento artistico ma anche nella visione sociale e politica di un’epoca cruciale della nostra storia».
……………………………………………………

Segue ora un incontro con Stefania Rossi.


L'evoluzione biologica di una lacrima (2)

A Stefania Rossi (nella foto) ho rivolto alcune domande.

Com’è nato questo libro?

Il libro nasce dal desiderio di ricordare e far conoscere a chi non ne ha avuto la possibilità, la storia di un artista, di un cinematografaro, di uomo del Novecento, un tentativo di offrire una visione d’insieme del lavoro e del pensiero di Alberto Grifi.
Il libro si stratifica nel tempo proprio come i film di Alberto e si divide in due parti che rappresentano anche due momenti particolari ed opposti; presenta una lunga intervista al regista di Anna (cult movie indiscusso del cinema underground italiano) che testimonia il nostro primo vero incontro, scambio e confronto, al di là dei convenevoli che le buone maniere impongono a due sconosciuti, era il 2004. C’è poi una biografia con filmografia ragionata, ragionata nei termini del possibile, sulla quale iniziai a lavorare dopo la scomparsa del regista. Per realizzarla ho contattato personalmente alcune persone che ho ritenuto fondamentali per attraversare la vita dell’autore. Ne sono nate numerose videointerviste tra il 2011 e il 2015, a partire da l’incontro con la sorella e con gli autori con i quali spesso Grifi condivideva la regia dei suoi film. Un totale di 18 h di girato. La mia è stata una scelta di montaggio, ho dato ampio respiro ai dattiloscritti di Grifi, e scelto di raccontare per immagini, come fosse un film.

Qual è la singolarità di Grifi nello scenario del cinema sperimentale? In che cosa la identifichi?

Lo scenario del cinema sperimentale italiano si basa sulla netta distinzione tra la riflessione sulla forma e sul linguaggio da una parte e la componente politica militante del cinema, che si occupa del sociale e del pubblico dall’altra. Due mondi a sé. La magia di Grifi sta nel farle convivere, con il risultato che il sapore dei suoi film è unico.

Quali sono state le correnti estetiche che ritieni abbiano avuto su Grifi le principali influenze?

Sicuramente il Dadaismo, un riconoscimento alla grandezza di Marcel Duchamp è esplicito in “La Verifica Incerta”; c’è poi il Surrealismo, la grande amicizia con Giordano Falzoni ne sottolinea una grande intesa; l’Espressionismo di Van Gogh credo sia stato fondamentale in gioventù così come a seguire il Situazionismo di Guy Debord. Ma Grifi era perfettamente consapevole di tutte le categorie estetiche che hanno attraversato il Novecento e oltre.

Una delle caratteristiche del lavoro di Alberto è stata quella di tornare a lavorare su suoi film già fatti inserendovi nuove scene, nuovi sonori.
Hai una tua spiegazione di questa sua modalità
?

Per Grifi l’idea di cinema è un corpo organico che muta nel tempo, i suoi film spesso sono il risultato di fusioni e stratificazioni di e con altri film. Ci sono alcuni punti da tenere in considerazione per comprendere questo modus operandi: da una parte l’opera in sé risulta meno importante del processo che la crea, di conseguenza il contesto assume più significato e valore. La scomparsa del ruolo vincolante dell’autore lascia spazio a una visione autoriale disseminata. Potremmo definire il cinema di Grifi un cinema espanso.

………………………………………….
Stefania Rossi
L’evoluzione biologica di una lacrima
Pagine 216, Euro 14
Edizioni Timía


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