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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Il ritorno di Casanova


Il bellissimo racconto “Il ritorno di Casanova” è scritto nel 1918 dall'austriaco di famiglia ebraica Arthur Schnitzler (Vienna, 15 maggio 1862 – 21 ottobre 1931), autore che anticipa, con la sua lucidità e la sua rottura con la tradizione, il tema della “finis Austriae” della letteratura fra le due guerre.
Introduce nella letteratura tedesca il monologo interiore e questo fa tanto pensare alla sua originaria professione di medico (smessa poi per dedicarsi allo scrivere) molto interessato al mondo della profondità psichica che lo rese amico e corrispondente di Freud.
“Il ritorno di Casanova” fu scritto quando Schnitzler aveva terminato di leggere due anni prima i Memoires dell’avventuriero veneziano e nel 1915, anno d’inizio della composizione del racconto, Arthur Schnitzler aveva 53 anni, la stessa età di Giacomo Casanova immaginato e descritto nella narrazione.
Nel grande seduttore “andava spegnendosi” – scrive Schnitzler – “il fulgore intimo non meno di quello esteriore", e questo introduce il tema del disfacimento caro a Schnitzler che già in “Anatol” (1893), opera d’esordio, raffigura personaggi i quali cercano di eludere il decadimento che li affligge e, più marcatamente, questo tema apparirà in “Morire” (1895) dov’è descritto il progressivo dissolversi delle facoltà psichiche e fisiche di un moribondo.
“Gli indistinti confini tra realtà e bugia, il relativismo etico, l’illusione del libero arbitrio”, è stato scritto “sono le idee motrici dello scrittore”.
La sua idea sull’arte la possiamo conoscere da un suo aforisma: I tre criteri dell'opera d'arte: coerenza, intensità, continuità.
Terribili gli ultimi anni della vita di Schnitzler. Il 26 luglio del 1928 la figlia Lili si uccide.
Lui tre anni dopo morirà per un ictus.

Da “Il ritorno di Casanova” nel 1992 è stato tratto in Francia un film di Édouard Niermans con Alain Delon nel ruolo del seduttore veneziano, ed Elsa Lunghini, nel ruolo di Marcolina.
C’è stato un adattamento televisivo con la regia di Pasquale Festa Campanile e uno radiofonico, nel 1985, con la regia di Aldo Sarullo, protagonista Ennio Balbo.
Sempre per RadioRai, nel 1981, nel contenitore “Il Girasole”, andò in onda una sintesi di quel racconto con la mia regìa e le voci di Dario Penne (Casanova), Angiolina Quinterno (Mirandolina).

Adesso, per l’annuale appuntamento di primavera al Museo del Bargello, Federico Tiezzi propone quest’anno, con l’interpretazione di Sandro Lombardi, in scena con Corso Pellegrini, una riscrittura originale del racconto di Arthur Schnitzler.

In foto: Sandro Lombardi (a sinistra) e Corso Pellegrini

Lo spettacolo è pensato e realizzato come un melologo. Quest’arte a cavallo tra musica e teatro, nasce e si sviluppa nel XVIII secolo, proprio il periodo in cui Arthur Schnitzler situa l'ultima avventura amorosa di Casanova.
Sandro Lombardi, insieme con due percussionisti e con un violoncellista, creano una narrazione teatrale in cui gli accenti drammatici del testo di Schnitzler sono sottolineati dalle trascrizioni contemporanee della musica di Antonio Vivaldi.
Musiche eseguite dal vivo in collaborazione con il Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze.

Nell’avventuriero veneziano, ormai giunto a 53 anni, stanco di avventure erotiche e nauseato dal suo passato di diplomatico da strapazzo, ha un solo desiderio: tornare nell’amata Venezia ma, proprio quando sembra che il suo sogno stia per realizzarsi, un vecchio amico lo trascina in una sua casa di campagna nei pressi di Mantova, dove Casanova incontra la giovane Mirandolina, che riaccende il suo desiderio.
Lo sguardo che la donna gli rivolge, freddo e indifferente, lo getta però nella disperazione: si sente vecchio e ormai incapace di esercitare fascino. L’amaro sapore della sconfitta lo spinge a un estremo quanto folle tentativo: sospettando che la giovane sia in realtà l’amante di un bellimbusto, il sottotenente Lorenzi, fa di tutto per scoprire la verità e, avuta conferma dei suoi sospetti, una notte si sostituisce con l’inganno a Lorenzi. Avrà così il corpo della bella Marcolina ma, dopo un sogno misterioso, al risveglio, la situazione precipita.
In questo meraviglioso racconto - che Tiezzi riduce ad opera teatrale attraverso l’artificio di far parlare Casanova in prima persona - si rivela la tragicommedia della coscienza moderna, sganciata dai valori della tradizione, attenta ai propri istinti e alle proprie falsità, minacciata dal trascorrere del tempo, per cui ogni avventura è il tentativo di sfuggire alla vecchiaia e alla morte. Il cuore del testo è quindi un freudiano scontro fra Amore e Morte, segnato dall’angoscia della fine di un’epoca “felice”.
Torna dunque da un’angolazione ancora diversa, l’indagine sul mistero dell’amore, al quale Tiezzi e Lombardi hanno già dedicato “Un amore di Swann” di Marcel Proust, rappresentato con successo nel 2012 e nel 2013, e “Non si sa come” di Luigi Pirandello, spettacolo molto apprezzato da pubblico e critica nel corso dell’ultima stagione.

Ufficio Stampa: Simona Carlucci, tel. 0765 – 24 182; 335 – 59 52 789
info.carlucci@libero.it

Il ritorno di Casanova
di Arthur Schnitzler
regìa di Federico Tiezzi
con Sandro Lombardi e Corso Pellegrini
Firenze - Cortile del Museo Nazionale del Bargello
info e prenotazioni: tel. 055 – 600 218; 055 – 60 94 50 / info@lombarditiezzi.it
Da giovedì 29 maggio fino al 15 giugno ‘14


Musica per l'abisso (1)

Che l’antisemitismo sia in un’allarmante crescita lo dimostra anche il sanguinoso attentato a Bruxelles proprio mentre l'altro ieri gli europei andavano alle urne per eleggere gli eurodeputati.
Lo stesso giorno a Parigi, due ebrei sono stati aggrediti e picchiati fuori della sinagoga.
Gli stadi ogni domenica sono pieni di manifestazioni razziste con striscioni e cori insultanti; appena poco tempo fa, alla vigilia del giorno della Memoria, Berlusconi – allora presidente del Consiglio – raccontava barzellette atroci sui prigionieri nei lager.
Più che mai necessaria, quindi, un’azione culturale (non disgiunta da un’altra necessariamente repressiva) che illumini sulle aberrazioni dei nazisti e sui loro alleati palesi e occulti di ieri e di oggi.

In foto: La forca nel campo di Terezin

Nello scenario dei campi di sterminio, quello di Terezin (in tedesco Theresienstadt), in territorio ceco, ebbe la particolarità di ospitare molti intellettuali e artisti ebrei che pur nelle condizioni in cui si trovavano espressero la loro attività nelle arti visive, in letteratura, in musica. Ciò servì alla propaganda tedesca per fare credere come i lager fossero rispettosi dei prigionieri. Tristemente famosa resta una visita della Croce Rossa a Terezin – 23 giugno 1944 – dove per l’occasione le SS obbligarono gli internati a “piantare alberi, piante e fiori, ad allestire giardini e un campo sportivo, a pulire strade, piazzole e viali, a riparare e ridipingere baraccamenti e alloggi”. La tragica messa in scena, purtroppo, riuscì.
Il virgolettato l’ho tratto da un imperdibile libro pubblicato recentemente da Mimesis intitolato Musica per l’abisso La via di Terezin. Un’indagine storica ed estetica 1933 - 1945.
Ne sono autori Leonardo V. DistasoRuggero Taradel.

Leonardo V. Distaso è docente e ricercatore di Estetica presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Napoli Federico II. Le sue ricerche si sono concentrate sull’estetica dell’idealismo tedesco, sulla fenomenologia francese e sul pensiero estetico di Wittgenstein. Già docente di Estetica musicale negli ultimi anni i suoi lavori hanno avuto per oggetto la relazione tra filosofia e musica con particolare riferimento alla filosofia ebraica. Tra i suoi libri e saggi in varie lingue: Estetica e differenza in Wittgenstein (1999); Lo sguardo dell'essere (2002); The Paradox of Existence (2004); Da Dioniso al Sinai (2011). Ha curato la più recente edizione italiana de “Il bello musicale” (2002) di Eduard Hanslick.

Ruggero Taradel è docente presso la Division of French and Italian Studies e il Dipartimento di Comparative History of Ideas della University of Washington. I suoi campi di studio e di ricerca sono i rapporti ebraico-cristiani, la storia dell’antisemitismo e il razzismo e la xenofobia moderni e contemporanei. Tra i suoi libri e saggi più importanti: L'accusa del sangue. Storia di un mito antisemita; Antisemitismo, islamofobia e razzismo di guerra (2004); Jacques Maritain e il mistero d'Israele (2006); Il Vaticano e le leggi razziali in Italia e in Europa (2013). Con Barbara Raggi è autore del libro: La segregazione amchevole (2000).

Il fatto che Terezin avesse delle particolarità rispetto ad altri lager non inganni, la sua funzione omicida fu pienamente rispettata. Degli ebrei lì deportati, scrivono Distaso e Taradel “… 33.000 morirono di fame, stenti, malattie, esecuzioni e maltrattamenti; 88.000 internati finirono ad Auschwitz e lì uccisi; dei 15.000 bambini e ragazzi di età inferiore ai 15 anni, ne sopravvisse solo poco più di un decimo”.
Musica per l’abisso è un libro che con una felicissima struttura (dapprima un’ampia prefazione, poi un saggio di Distaso seguito da un altro di Taradel, infine una conclusione a due voci fra gli autori in una sorta di reciproca intervista) merita d’essere letto sia per la ricostruzione storica del singolare lager di Terezin sia per l’approfondito studio estetico della produzione artistica che nacque in quel campo di sterminio.

Segue ora un incontro con Leonardo V. Distaso.


Musica per l'abisso (2)


A Leonardo V. Distaso ho rivolto alcune domande.
Da quale occasione nasce questo libro?

Una quindicina di anni fa mi trovavo a Parigi per studio e mi capitò di sfogliare in libreria un testo che raccontava l'esperienza musicale di Terezin. Io non ne sapevo nulla e nulla c'era in Italia sull'argomento, così mi incuriosii e cercai di approfondire ma non trovai materiali bibliografici al mio ritorno in Italia. Col tempo venni a conoscenza di un'ampia letteratura, soprattutto in lingua inglese, e così avviai le ricerche. Poi tempo fa ne parlai al mio amico e collega Ruggero Taradel e così iniziammo a pensare di scrivere questo libro con l'intento di colmare una lacuna nel panorama storiografico e critico italiano.

Perché Terezin, sia pure con la sua particolarità, come scrivete, era parte organica e funzionale dei campi di sterminio nazisti?

Terezin era un campo di transito per prigionieri destinati ai campi di concentramento e di sterminio a Est del Governatorato. Ma era anche, e soprattutto, un ghetto di concentramento di intellettuali e artisti, perlopiù ebrei praghesi, che si ritrovarono lì insieme e insieme decisero di lavorare e produrre, data la relativa libertà d'azione che avevano all'interno del ghetto.

Che ne è della produzione artistica, specie musicale che allora ebbe grande parte, dopo la guerra fino ai giorni nostri?

Fortunatamente la grande maggioranza della produzione artistica (principalmente disegni) e musicale (le partiture originali) ci è pervenuta a testimonianza di una qualità artistica elevatissima. Si tratta di un patrimonio musicale molto importante: compositori del calibro di Viktor Ullmann e Pavel Haas, Hans Krasa e Gideon Klein sarebbero quasi del tutto dimenticati se non avessero avuto l'opportunità di scrivere musica a Terezin di tale qualità e nelle condizioni in cui si trovavano. Bisogna tenere conto che oggi tutte le opere prodotte a Terezin sono state incise e possiamo ascoltarle, consapevoli che provengono dall'abisso di un ghetto di concentramento nazista.

L’arte prodotta a Terezin, tenete a sottolineare, non fu ricreativo-consolatoria.
Quali elementi vi portano a questa conclusione?

Da un certo punto di vista l'arte prodotta a Terezin è una reazione alla condizione di vita del ghetto e, nello stesso tempo, è una testimonianza e un dare voce a quella condizione. Tuttavia non può essere considerata semplicemente arte consolatoria o arte riconciliativa perché queste categorie utilizzate per pensare l'esperienza artistica provengono dalla tradizione estetica condivisibile dagli stessi carnefici. L'arte che edifica una cultura e si fa patrimonio di quella cultura si definisce nello spazio della stessa Kultur ideologica che ha portato ai campi di sterminio. Di conseguenza non basta considerare l'arte di Terezin come il frutto di una riconciliazione con la vita perché in questo modo reificheremo a posteriori gli schemi ideologici che hanno prodotto la barbarie e la catastrofe. Naturalmente nel nostro testo questa analisi viene svolta con una puntualità che qui, in sintesi, non si può dare.

Hanna Arendt, specialmente in seguito al reportage sul processo ad Eichmann, ebbe accuse dure verso il consiglio ebraico di Terezin.
Voi condividete oppure no quelle critiche?

Non le condividiamo perché quelle critiche sono insufficienti a spiegare la realtà di quella che Primo Levi ha definito la "zona grigia", una realtà complessa, contraddittoria ma nello stesso tempo fondamentale per comprendere l'insieme dell'esperienza concentrazionaria. Le analisi della Arendt lasciano del tutto inevase le domande sulla "zona grigia", che invece sono decisive per un'interpretazione della Shoah che rifiuti sia il risentimento sia la monumentalizzazione.

Qui termina l’incontro con Leonardo Distaso.
Segnalo che esiste in Rete anche un’intervista audiovisiva di 20’30” ai due autori realizzata da Paolo Zefferi.
Per accedervi: CLIC!

Leonardo V. Distaso – Ruggero Taradel
Musica per l’abisso
Pagine 140, Euro 16.00
Mimesis Edizioni


Il pollo di Newton

“A differenza di altri peccati capitali” – scrive Philippe Delerm – “la Gola è sempre stata trattata, nella sua duplice forma di eccesso e moderazione, con estrema attenzione sui piani religiosi, sociali, filosofici”.
E a chi può apparire bizzarro accostare la filosofia alla cucina, un’autorevole smentita viene dal filosofo Nicola Perullo che intervistai tempo fa. Gli chiesi il motivo dell’accostamento da lui fatto tra filosofia e alimentazione. Così mi fu risposto: “Mi sembra un avvicinamento naturale, quello tra gastronomia e filosofia. Negli Stati Uniti, peraltro, i rapporti tra “food and philosophy” sono oggetto di attenzione da qualche tempo; qui da noi, in Italia, invece, è più difficile. La complessità proposta dai problemi del cibo è enorme: il piacere, la fame, la cultura, l’industria, l’artigianato, la natura, la scienza”.
La scienza. Ed ecco un libro, pubblicato da Guanda, che brillantemente proprio di questo tema si occupa: Il pollo di Newton La scienza in cucina.
Ne è autore Massimiano Bucchi. Insegna Scienza, Tecnologia e Società all’Università di Trento ed è stato visiting professor in numerose istituzioni accademiche in Asia, Europa e Nord America. Tra i suoi libri più recenti “Scientisti e antiscientisti. Perché scienza e società non si capiscono” (2010, premio internazionale Calabria); “Scienza e società” (2010, pubblicato anche in inglese), “Scegliere il mondo che vogliamo. Cittadini, politica, tecnoscienza” (2006, pubblicato anche in inglese e cinese).
Ha ideato e curato l’Annuario Scienza e Società edito dal Mulino. Collabora alle pagine culturali di Repubblica e a Tuttoscienze – La Stampa.

A quando si può fare ascendere un’attenzione tecnica sofisticata e degna di conoscenza scientifica nella preparazione del cibo? “Sin dall’inizio del XVII secolo” – risponde Bucchi – “ma è soprattutto tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento che si assiste a un impetuoso fiorire di pubblicazioni che promettono di portare e di rivelare la chimica del cucinare e del pulire”.
Già, a metà del secolo, ad esempio, era nato l’estratto di carne – per affermarsi una decina d’anni dopo – del chimico Justus Liebig.
L’autore, galoppando attraverso il tempo, illustra gli sviluppi, non sempre facili, tra scienza e cucina: dalla controversia sul caffè (con dibattiti d’involontaria comicità sui suoi effetti sul sesso, da alcune mogli ritenuti depressivi e da altre no) al contrasto con medici e farmacisti di Liebig.
Il libro, oltre ai suoi meriti storici, ha il pregio d’illustrare un’infinità di aneddoti e le pagine possiedono una verve spesso umoristica che rendono godibilissima la lettura.
Come dicevo in apertura le pagine giungono fino ai giorni nostri, fino alla cucina molecolare alla quale è dato giustamente largo spazio essendo il più recente argomento di dibattito tra sostenitori e detrattori. Il fatto è che specialmente la chimica è vista da molti con sospetto in cucina e in tanti (semmai senza averlo letto) citano lodando l’Artusi. Già, ma il titolo completo dell’opera (1891) di quel famoso gastronomo è “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene”.
Oggi i catastrofisti di professione, si chiedono sgomenti “quale sarà il cibo di domani?” immaginandolo farmaceutico. Affermare che il cibo futuro sarà fatto di pillole voluttuosamente ingerite da cyborg, a mio avviso, è cosa risibilmente innocente.
Il futuro? Lascio la parola a Hervé This, considerato il padre della gastronomia molecolare: “Il costruttivismo culinario sembra una tendenza promettente: si tratta di costruire le vivande in modo da realizzare effetti gustativi prestabiliti. Non è più necessario riprendere le idee tradizionali, ma concepire da zero la vivanda in ogni sua parte, basandosi sulle leggi fisiologiche, le abitudini culturali, e così via. La costruzione deve riguardare le forme, i colori, gli odori, i sapori, le temperature, ecc, ogni aspetto delle vivande… Con lo scopo di rendere felici, perché questo è un obiettivo degno degli sforzi dei cuochi!”.

Massimiano Bucchi
Il pollo di Newton
Pagine 184, Euro 16.50
Guanda


Videoex


Giunto alla sua sedicesima edizione, il Festival svizzero Videoex, diretto da Patrick Huber, dedica largo spazio al cinema sperimentale italiano proiettandone alcuni classici che, specialmente negli anni Sessanta e Settanta, affermarono un modo di produrre cinema totalmente nuovo per temi e stili.
Di Carmelo Bene sarà presentato Nostra Signora dei Turchi, seguiranno di Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi (In foto) “La verifica incerta”, La rabbia di Pier Paolo Pasolini, estratti da Cinico Tv di Ciprì e Maresco, film di Bruno Munari e Marcello Piccardo.
Eccellente anche la scelta di dedicare spazio alle prime opere di Tinto Brass che, a mio avviso, aldilà delle sue scelte (che poi tanto “scelte” non sono perché il mondo della produzione lo ha obbligato a farle respingendo i suoi progetti che erano sulla linea di “Chi lavora è perduto” o “L’urlo”) resta uno dei maggiori registi italiani.

Non ci saranno solo visioni di film, perché REWINDItalia, gruppo di ricerca dell’Università di Dundee, si impegna in un programma che ha come obiettivo la conservazione e la valorizzazione del materiale video italiano, e la diffusione delle informazioni attraverso una tavola rotonda per discutere, confrontarsi e studiare i problemi di gestione d’archivi legati alle immagini in movimento.

Il Festival si svolgerà a Zurigo da sabato 24 maggio a domenica 1 giugno.

Per tutte le altre informazion: CLIC sul sito web di Videoex.


Enrico Piva


Enrico Piva (1956-2002), di Rezzate, in provincia di Brescia, è stato uno dei più originali sperimentatori nel panorama della musica indipendente nell’Italia degli anni Ottanta. Operando tra musica concreta e concettuale, field recording, minimalismo elettronico e rumorismo post-industrial, ha pubblicato tra il 1981 e il 1990 una ventina di audiocassette per varie etichette italiane e internazionali. Ha prodotto anche disegni, litografie e video, oltre a singolari epistolari e testi letterari, tra cui l’inedito esperimento Piscine sommerse ed altre immersioni (1989-1991).

Nel marzo 2013, da uno scambio di email tra Vittore Baroni ed Edoardo Bertoletti, è nata l’idea di ricordare il comune amico Enrico Piva (alias Amok), musicista e artista visivo fuori degli schemi, precocemente scomparso nel 2002.
Grazie al sostegno e alla collaborazione di Daniele Poletti e di [dia.foria, atipico progetto di ricerca letteraria a 360° (pubblicazioni cartacee, blog, eventi live, ed altro ancora), il tributo ha preso la forma di un ebook di 72 pagine – “Piscine sommerse ed altre immersioni” - pubblicazione integrale di un lungo e singolare scritto sperimentale composto da Piva tra il 1989 e il 1991, fino ad ora inedito.
Il testo originale, ri-digitalizzato per l’occasione, è stato integrato da una nastro-discografia completa e da apparati critici di estimatori e collaboratori di Piva, che hanno così dato vita ad un gruppo di lavoro di cui fanno parte anche Luca Miti, Simon Balestrazzi, Nicola Catalano. Il volume ospita inoltre una dettagliata introduzione di Vittore Baroni, una postfazione del musicista Giancarlo Toniutti più, in appendice, frammenti di un carteggio epistolare forniti da Walter Rovere.
La fase successiva del progetto sarà l’ulteriore studio della produzione sonora di Piva allestendo, se possibile, una corposa antologia.
Il libro Piscine sommerse ed altre immersioni – con una presentazione di Daniele Poletti – è disponibile online, assieme ad alcuni esempi della produzione foto/grafica e audio di Enrico Piva, visionabile e/o scaricabile gratuitamente in formato pdf all’interno di floema (è una sezione di >[dia.foria, per un flash sul profilo di floema: CLIC).

QUI per leggere e ascoltare.

Scrivere a vittorebaroni@alice.it per ulteriori informazioni.


Maladolescenza

Dice Alda Merini: “Ci sono adolescenze che si innescano a novant’anni”.
Come saranno gli adolescenti di oggi quando avranno quell’età? Chissà.
Il fatto è che se è vero che non tutti i novantenni sono uguali, è ancora più vero che non tutti gli adolescenti s’assomigliano. Non solo per condizioni sociali, fisiche, economiche ma per un incrocio tra l’organicistico e il cognitivo che fa d’ogni adolescenza un mondo a parte, simile talvolta a un altro, però mai uguale.
“Il cammino dall’infanzia all’età adulta non è unico e specifico, appare piuttosto flessibile, variabile, differente da individuo a individuo”, così saggiamente, infatti, si apre l’Introduzione di Maladolescenza Quello che i figli non dicono – pubblicato dalle Edizioni Piemme – di Maria Rita Parsi (ci crediate o no, fu cosmonauta tempo fa sulla mia Enterprise, cliccare per verificare) scritto con l’importante apporto del giornalista Mario Campanella collaboratore di Rcs periodici ed Endemol; è stato anche capo ufficio stampa alla Commissione Parlamentare per l’Infanzia.
Parsi è una delle più note e apprezzate psicopedagogiste e psicoterapeute non solo in Italia e conta al suo attivo più di cinquanta pubblicazioni.
Per una biografia estesa, basta un CLIC sul suo sito web.

“Maladolescenza” raccoglie le storie di quindici adolescenti italiani, d’entrambi i sessi, di piccole e grandi città, dal nord al sud del Paese (fra loro non ci sono assassini, teppisti, malfattori), rappresentano una moltitudine solitaria di fronte ad un’estraneità al tempo stesso reclamata e imposta.
Ad ogni dichiarazione dei ragazzi segue un commento che interpreta non solo il personaggio ma lo scenario psichico che si propone. La Parsi, come spesso fa nei suoi libri, spazia nei suoi ragionamenti fra letteratura, cinema, canzoni, videogames di oggi che contribuiscono efficacemente a tracciare il territorio dell’indagine.
L’adolescenza è sempre stata un’ora difficile dell’esistenza, ma immaginarla uguale a ieri – ci raccomandano le pagine – è un errore micidiale. Sono, infatti, intervenute nuove “agenzie comunicative” (oltre alla scuola e alla famiglia già peraltro trasformate), prima fra tutte la nascita di una nuova generazione di comunicazione che “ha significativamente e irrevocabilmente modificato il tessuto culturale e sociale in cui le nuove generazioni nascono e crescono”. Intendiamoci, nessuna criminalizzazione dei nuovi mezzi – non solo il presente, ma il futuro li vedrà sempre più protagonisti – quindi liquidare tutto con “ai miei tempi non era così”, oltre ad essere un’ovvietà, non aiuta a capire.
E poi (aggiungo io) chiediamoci pure quale esempio noi adulti diamo a questi giovani per avere, prima ancora che l’autorità, la capacità psicologica e morale d’aiutarli a crescere.
Immoralità dei governanti, un Parlamento con decine d’inquisiti, lo stravolgimento delle leggi, l’incitamento al più sfrenato agonismo sociale, la volgarità verbale e fisica di cui è permeata la società, quiescenza verso la violenza contro donne, immigrati, barboni, la ricchezza come riconoscimento di valore, viene proprio dagli adulti. Pronti poi a dare la colpa alla tv (ma non la fanno proprio loro?), oppure alle chat o ai videogiochi.

“Maladolescenza” è un libro utile, necessario, che consiglio a quanti – genitori, insegnanti, studiosi delle dinamiche giovanili – hanno a cuore il futuro.
Ho aperto questa nota con le parole di Alda Merini, la chiudo con l’aspro inizio di “Aden d’Arabia” di Paul Nizan: “Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è della vita l’età più bella”.

Maria Rita Parsi
Con Mario Campanella
Maladolescenza
Pagine 196, Euro 14.50
E.Book 9.99
Edizioni Piemme



Nostra Signora di Fátima

Scrive D. Artusi: “Il più autorevole mariologo vivente, padre René Laurentin, ha contato circa 1800 apparizioni mariane, affermando che però quelle che la Chiesa Cattolica ritiene autentiche sono solamente 12, mentre sulle altre sono in corso indagini […] Dallo studio di questi fenomeni, appare evidente che l'unico modo in cui si può giustificare il credo delle apparizioni Mariane è accettando i credi distintamente cattolici, non biblici, su Maria”.
Insomma, ci vuole solo fede e neppure un pizzico di ragione.
Chi da anni si batte – e non è un ateo – con articoli e libri contro discutibili miracoli e allucinate apparizioni è un autore che siamo in molti a stimare: Renato Pierri.
Nei suoi libri, attraverso l'analisi del Vangelo, della storia, biografie e documenti concernenti santi e momenti della Chiesa cattolica, sostiene l’abissale distanza esistente fra il Dio di quella Chiesa e il Dio del Vangelo.
Nato a Genova nel 1936, vive a Roma; studioso di scienze religiose ha insegnato religione cattolica nelle scuole medie superiori.
Con Kaos Edizioni ha pubblicato nel 2001 La sposa di Gesù crocifisso; nel 2003 Il quarto segreto di Fatima; con Francesco Coniglio Editore, nel 2007, Sesso, diavolo e santità; con Mind Edizioni nel 2012 Nostra Signora di Lourdes e poi il libro che segnalo oggi: Nostra Signora di Fátima La Madonna di un falso cristianesimo.

Il volume ha un inizio folgorante: La Chiesa, a scapito della centralità del Cristo, ha dato alla Madonna un’importanza che le Scritture non le conferiscono.
Segue un attento studio dei Vangeli in cui si dimostra come la figura di Maria sia pressappoco ancillare rispetto al Cristo e alla sua storia.
Si passa poi alla famosa apparizione del 13 maggio 1917 quando in una località portoghese detta Cova da Iria, poco distante da Fátima, i pastorelli Lucia, di dieci anni, e i suoi cuginetti Francesco, di nove anni, e Giacinta, di sette, dopo un paio di lampi videro, o sembrò loro di vedere, su di un’elce, come in un effetto speciale in 3D, la Signora.
Questo l’inizio di una storia che il libro percorre, illustrando l'ambiente storico in cui maturarono i fatti, in modo tanto incalzante e appassionante (senza mai concedersi romanzerie ma attenendosi scrupolosamente a documenti esistenti) da trascinare il lettore in un vortice di episodi che vedono al centro i tre bambini intimoriti, perfino minacciati di strappo della lingua o d’immersione in olio bollente.
Francesco e Giacinta morirono giovanissimi portati via dall’epidemia di “spagnola” (a Giacinta soprattutto toccò una fine fra atroci sofferenze), mentre Lucia, monacatasi, morì quasi a 98 anni, nel 2005.
A lei si devono numerosi scritti (ampi stralci nel volume di Pierri) che andarono sempre più a configurare una Madonna aspramente anticomunista (e fin qui la cosa è comprensibile), ma che mai parla del nazismo eppure, come giustamente nota Pierri “nel cristianesimo Hitler vedeva la continuazione dell’ebraismo; un’invenzione dell’ebreo Paolo; e la morale cristiana era in netta antitesi con la sua concezione dell’uomo. Egli si considerava chiamato a distruggere tanto la Chiesa cattolica, quanto l’ebraismo e il bolscevismo, che reputava come tre diverse espressioni di una sola e medesima cosa”.
La Madonna di Fátima, inoltre, nel prevedere disastri e stragi (a questo mondo chi non riesce a prevedere scannamenti fra gli umani?) e nel farle in trasparenza ricadere sulla Russia comunista, mai ce la fa a prevedere i lager hitleriani.

Ho aperto questa nota con le prime righe del libro di Pierri (consigliabile sia ai credenti sia agli agnostici) e la concludo con le ultime righe, altrettanto memorabili: Giovanni Paolo II, nel discorso del 13 maggio 2000 a Fátima, si mostrò persuaso che la bontà del Signore si fosse manifestata salvando lui dall’attentato di Piazza San Pietro e facendo morire Giacinta tra le più atroci sofferenze, nonché del fatto che i sacrifici della pastorella fossero andati a suo beneficio.
Senza questo falso cristianesimo, non sarebbe stato possibile creare Nostra Signora di Fátima
.

Renato Pierri
Nostra signora di Fátima
Pagine 184, euro 15.00
Mind Edizioni


SorsiCorti


Si è concluso ieri, a Palermo, il Festival SorsiCorti giunto alla sua ottava edizione.
Avrei voluto dedicare a questi sorsi di vino e di frame uno spazio degno della loro originalità alcolica ed elettronica, ma per varie ragioni non è stato possibile, sono i difetti dell’esistenza.
Poiché questa rassegna merita attenzione, Cosmotaxi v’invita a sfogliare QUI il catalogo di SorsiCorti che si avvale della direzione artistica di Gabriele Ajello.


Axel Hütte. Fantasmi e Realtà


“Sono qualcosa oltre un viaggiatore nel tempo e nello spazio. Solo il viaggio mi dà concentrazione e lucidità. Anni fa, mi sono accorto che ho viaggiato per 3500 km soltanto per ottenere l'immagine desiderata. Una volta che mi trovo nel luogo prescelto, mi chiedo quali immagini mi sono familiari, perché sono proprio quelle che non voglio fotografare. Una delle motivazioni che mi spinge a scattare una foto è che nell’inquadratura deve esserci qualcosa d’insolito, di strano ".

Queste sono parole contenute in un’intervista che Axel Hütte (nato a Essen nel 1951) rilasciò nel 2006.
Se ne ritrovano risonanze nella mostra in corso Fantasmi e realtà promossa a Modena da Fondazione Fotografia e Fondazione Cassa di Risparmio, con il sostegno di UniCredit.
L’esposizione presenta una selezione di 20 opere di grande formato del fotografo tedesco, annoverato, con Thomas Ruff, Thomas Struth, Andreas Gursky e Candida Höfer, tra i maestri della Scuola di Düsseldorf, e si colloca a sedici anni di distanza dalla personale dedicata a quest’autore in Italia.
Il percorso, a cura di Filippo Maggia, affianca opere già esposte in àmbito internazionale, dalle serie Glaciers (1997 - 2002), Water Reflections (1998 - 2007) e Caves (2008), a nuovi lavori del ciclo New Mountains (2011 - 2013). Tra questi ultimi, in particolare, rientrano le fotografie realizzate tra il 2012 e il 2013 durante una residenza d’artista nell’area dell’Appennino modenese, finora mai esposte.

Alcuni passaggi dal comunicato stampa: “Il mistero è un tema portante nell’opera di Hütte che affonda le radici nel Romanticismo tedesco, secondo il quale la natura si rivela attraverso l’immaginazione. Tale approccio, rafforzato dalla passione per i viaggi, ha condotto il fotografo tedesco in luoghi lontani, dalle Hawaii all’Alaska, alla ricerca di ciò che non è mai stato fotografato prima.
Nelle immagini della serie ‘Glaciers’ l’artista coglie paesaggi distanti e irreali, dominati dal bagliore bluastro dei ghiacciai, dalla trasparenza delle lastre perenni e dalla luce bianca degli orizzonti del Nord.
Le fotografie della serie ‘Water Reflections’ sono state accostate alle celebri ninfee di Monet perché, così come nei quadri dell’impressionista francese, in esse non è possibile distinguere tra la realtà ed il suo riflesso.
Le immagini ‘Underworld’ (vedi foto), appartenenti alla serie Caves, per la loro affinità con la pittura informale e in particolare per il gioco tra campi di colore opposti, richiamano i quadri di Mark Rothko, che rappresentavano un paesaggio culturale piuttosto che reale.
La selezione di fotografie in mostra a Modena consentirà al pubblico di avere un’idea complessiva dell’opera di Axel Hütte, e, data l’ampiezza dei formati, troverà piena valorizzazione nei grandi spazi del Foro Boario, dove Fondazione Fotografia trasloca temporaneamente, dopo cinque anni di allestimenti all’ex ospedale Sant’Agostino, in vista dell’apertura del cantiere di riqualificazione del complesso settecentesco, destinato a trasformarsi in un Polo Culturale”.

La mostra è in collaborazione con la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, istituzione per la quale Axel Hütte ha realizzato una serie di 18 opere che hanno per soggetto i palazzi veneziani e che saranno esposte in occasione della Biennale Architettura di Venezia, dal 5 giugno al 5 ottobre 2014.

In occasione dell’esposizione, è stato pubblicato il volume Axel Hütte. Fantasmi e Realtà, edito da Skira e contenente le due serie complete di lavori realizzati durante le residenze italiane, a Venezia e nell’Appennino modenese.

Ufficio stampa: Cecilia Lazzeretti, press@fondazionefotografia.org

Fondazione Fotografia
Axel Hütte
Fantasmi e Realtà
Modena, Foro Boario
Fino al 29 giugno 2014


L'uomo che inventò il marketing culturale

È stata una figura centrale nel rinnovamento culturale italiano tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Parlo di Gianni Sassi (in foto) che è ricordato ora in un libro, pubblicato da Castelvecchi, intitolato Gianni Sassi. Fuori di testa L’uomo che inventò il marketing culturale.

Ne è autore Maurizio Marino: Figlio di un'epoca di grande fermento ma attivo in un periodo che si prestava particolarmente all'innovazione, alla trasgressione delle regole, alla creatività finalmente libera e protagonista, Sassi seppe esprimere il suo incontenibile talento in una molteplicità di campi, meritando il titolo di comunicatore multimediale ante litteram. Grafico di notevole inventiva, letterato, grande appassionato di musica e di arti visive, fu abile osservatore dei fermenti politici e culturali che agitavano violentemente la società italiana dei primi anni Settanta.
Il libro è prezioso sul piano biografico e si avvale di una ricca serie d’incontri con amici di Sassi e di collaboratori alle sue imprese.
Risulta, invece, carente per ciò che il sottotitolo promette. Peccato, perché quello d’inventore del marketing culturale fu un aspetto molto importante della figura di Sassi.

Mi piace ricordare un altro recente titolo Alter Ego Alias (Editore Guaraldi), una raccolta di saggi – uno di questi è dedicato a Gianni Sassi – dei quali è autrice Silvia Veroli.
N’estraggo un passaggio: Grafico, certo, e discografico, imprenditore, o meglio intraprenditore, editore, promotore culturale e organizzatore di eventi. Per vent’anni le sue trovate geniali e i suoi progetti artistici eversivi, hanno imperversato su piazze, giornali, manifesti pubblicitari, riviste specializzate (anche di sua creazione), sale convegni, copertine di lp […] Non è un caso che sia stato Sassi a promuovere in Italia il fenomeno artistico trasversale e internazionale di Fluxus, le cui origini vengono rintracciate in Duchamp, nel dadaismo, nel teatro futurista, e che nel suo scorrere anarchico e vitale si proponeva di instaurare e rintracciare forti relazioni tra arte e vita quotidiana.

Ho conosciuto Gianni Sassi alla fine degli anni ’70 quando progettava “Alfabeta” (da alcuni anni felicemente rinato) che sarà poi da sùbito un mensile culturale di primo piano raccogliendo tanti e tanti nomi delle avanguardie europee. Lo avrò negli anni successivi più volte ospite di mie trasmissioni a Radiorai dove annunciò la fondazione del mensile “La Gola”, la prima rivista italiana sul cibo e sulle tecniche di vita materiale indagando il gusto sotto il profilo sociologico e storico.
Gianni è scomparso nel 1993, aveva 55 anni. Ci manca.

Maurizio Marino
Gianni Sassi. Fuori di testa.
Pagine 131, Euro 18.00
Editore Castelvecchi


Ambiente Dickinson

Questo il titolo di un libro, in cui concorrono plurali linguaggi espressivi, di Daniela Fargione con opere visive di Matilde Domestico e un saggio di Barbara Lanati.

In foto: “Matilde Domestico, “Portami il tramonto in una tazza”.


Scrive Daniela Fargione (docente in lingua e letterature angloamericane; per il suo imponente numero di pubblicazioni CLIC): “Ambiente Dickinson”, frutto di diverse collaborazioni e intrecci artistici (critica letteraria, poesia, scultura, fotografia), è innanzitutto l’indagine dei vari ambienti in cui visse e operò il mito di Amherst, primo dei quali la Homestead paterna, un’enorme casa di mattoni rossi circondata da un ampio giardino. È lì che tra il 1830 e il 1886 si consumò un’esistenza complessa ed enigmatica, capace ancora oggi di generare interrogativi sulle relazioni tra dimora umana, ruoli di genere, natura e scrittura femminile. Tali relazioni, qui affrontate con un approccio ecocritico, intendono dimostrare come la dissacrante poesia di Emily Dickinson fosse un potente veicolo di sovversione della predominante ideologia della domesticità e al contempo sonoro controcanto della retorica del dominio. Ne consegue che, al fine di valutare il suo apporto al discorso sulle interrelazioni tra la natura e la cultura americana del diciannovesimo secolo, occorre collocare la sua opera in una prospettiva di netto contrasto con la tradizione del tempo. Pur non dimostrando mai una piena consapevolezza ecologica, e dunque raramente considerata “nature poet” a tutti gli effetti, Emily Dickinson offrì (come tutti gli ecopoeti secondo le indicazioni fornite da J. Scott Bryson) “una visione del mondo che riconosce il valore dell’interrelazione tra due […] desideri interdipendenti, entrambi tentativi di rispondere all’attuale divorzio tra l’umanità e il mondo più-che-umano”, mondo che la poetessa esplorò dai suoi personalissimi osservatori (le colline e i boschi circostanti, il giardino di casa, la stanza al primo piano) per approdare alla moderna conclusione che tale “conoscibilità” ha limiti che né il patriarcato, né la Chiesa e nemmeno la scienza sono in grado di superare.

Il libro è pubblicato dalle Edizioni Prinp, una piattaforma innovativa di editoria cross mediale (cross-media publishing) specializzata in arte.
Si tratta di un progetto web-located basato sulla ridefinizione gli attuali modelli di produzione editoriale, avvalendosi degli strumenti messi a disposizione dal web 2.0 e dalle nuove tecnologie per pubblicare, stampare, vendere, condividere e distribuire opere librarie in formato sia cartaceo sia digitale.

Daniela Fargione
Ambiente Dickinson
con opere di Matilde Domestico
e un saggio di di Barbara Lanati
Pagine 104, Euro 25.00
Edizioni Prinp


Cinquanta chili d'oro (1)


È questo il titolo di un volume destinato ad essere un documento che servirà agli storici di lingua italiana ora e negli anni che verranno senza perdere anzi acquistando il suo grande valore.
Si tratta di un’opera monumentale, di grande portata storica, il cui progetto lo trovate illustrato QUI sul sito dell’editore Mattioli 1885 che ha pubblicato con il patrocinio dell'Ucei (Unione delle comunità ebraiche italiane).
Si tratta della traduzione degli atti del processo al criminale nazista Adolf Eichmann per la prima volta tradotti nella nostra lingua.
Il procedimento giudiziario cominciò nel 1961 e si concluse con la condanna alla pena capitale. Fu impiccato pochi minuti prima della mezzanotte di giovedì 31 maggio 1962 in una prigione a Ramla, in Israele. Questa è rimasta l'unica esecuzione capitale di un civile eseguita in Israele, che ha una politica generale di non impiego della pena di morte. Le sue ceneri furono disperse in acque internazionali nel Mediterraneo.

Cinquanta chili d'oro Gli ebrei, i nazisti, gli italiani, mai avrebbe visto la luce se non avesse incontrato la figura del suo traduttore che si è caricato di un lavoro, svolto con competenza e passione, che definire enorme è poco. Si tratta di Livio Crescenzi (in foto): QUI una sua essenziale biografia.
Il volume si avvale di una maiuscola introduzione di Anna Foa intervistata su questo sito in occasione dell’uscita del suo libro “Portico d’Ottavia 13”.

Segue ora un incontro con Livio Crescenzi.


Cinquanta chili d'oro (2)

A Livio Crescenzi ho rivolto alcune domande.
Quanto tempo hai impiegato per portare a termine questa traduzione?

Iniziai nella primavera del 2011 e ho finito più o meno a metà luglio del 2013, lavorando praticamente tutto il giorno.

Quali le maggiori difficoltà incontrate?

Le maggiori difficoltà le incontrai proprio agli inizi, traducendo le prime dieci udienze, quelle in cui Accusa e Difesa duellano in punta di diritto. Dunque, agli inizi è stato un po’ impegnativo familiarizzare con termini e ragionamenti giuridici da parte di una persona che, come me, è assai lontana da quell’ambito di problemi e di lessico.

Perché il processo è condotto da giudici che non sono militari?

Lo Stato d’Israele volle deliberatamente che il processo fosse condotto davanti alla Corte distrettuale di Gerusalemme proprio per sottolineare e garantire davanti al mondo il carattere “normale” al processo, con i più ampi diritti assicurati alla Difesa. D’altra parte i capi d’imputazioni furono stilati in base alla normativa israeliana denominata “Legge sui Nazisti e i collaboratori dei Nazisti (Punizione) n. 5710-1950”, la cui competenza spettava ai normali tribunali distrettuali.

L’udienza 36 è dedicata al “caso italiano” dopo che altre volte era stato solo sfiorato.
In sintesi: in che cosa consiste quel “caso”? Perché ha importanza?

Il processo si svolse secondo una base rigorosamente geografica. Paese per paese, vennero passati in rassegna i documenti che la Procura fu in grado di esibire a carico di Eichmann. Per quanto riguarda l’Italia, è assai interessante la lunga deposizione di Hulda Cassuo Campagnano, l’unica testimone italiano, che parlò con grande semplicità della situazione a Firenze. Particolarmente interessante, è poi quanto emerge dal processo: i continui ed espliciti contrasti fra Autorità militari tedesche e italiane nelle zone d’occupazione in cui vennero a trovarsi gomito a gomito (Francia meridionale, Grecia, Yugoslavia). I Tedeschi si lamentarono sempre dell’assenza di collaborazione da parte dei militari italiani, accusati di continuo di ostacolare la cattura degli Ebrei nelle zone occupate dalle nostre truppe. Il capo della Gestapo, Müller, nel 1943 fu costretto a venire a Roma per parlare con il capo della Polizia italiana proprio di questo problema. In più documenti tedeschi si afferma come “gli Italiani... stiano prendendo le parti degli Ebrei ovunque a est del Rodano”. Pur non volendo affatto avvalorare il mito degli “Italiani brava gente”, che è stucchevole come qualsiasi costruzione retorica, è però anche vero che per diverse ragioni la sorte degli Ebrei in Italia ebbe in realtà una sua specificità.

Negli ultimi tempi, qualche voce s’è levata – pur nel grande rispetto dell’opera di Hanna Arendt – per chiedersi dubbiosamente: ma è proprio sicuro che Eichmann sia la banalità del male? Il tuo pensiero al proposito…

Io credo che il concetto di base della Arendt sia stato spesso “banalizzato”. Il processo dette occasione a molti di riflettere sulla natura umana e dei movimenti del presente. Anch’io sono convinto che Eichmann fosse tutto fuorché anormale: che era poi questa la sua dote più spaventosa. Un “mostro umano” sarebbe stato meno temibile, proprio perché, in quanto tale, rendeva difficile identificarvisi. Ma quello che diceva Eichmann e il modo in cui lo diceva, non faceva altro che delineare il ritratto di un individuo che sarebbe potuto essere chiunque: basta essere senza idee, come lo era lui. Un uomo che, prima d’essere poco intelligente, era un individuo privo d’idee che non si rendeva conto (né voleva rendersi conto) di quello che faceva. Era semplicemente una persona totalmente calata nella realtà in cui viveva: indossare una divisa, svolgere un ruolo, ambire a una promozione, fare statistiche, eccetera. Più che l’intelligenza gli “mancava la capacità di immaginare cosa stesse facendo”.

Questo divorzio dalla realtà e l’assenza d’idee e dell’esercizio dello spirito critico non sono forse il requisito fondamentale della tentazione totalitaria?

Certamente. Allontana l’uomo dalla responsabilità del reale e lo rende meno di un ingranaggio di una macchina. A Norimberga, anche i maggiori criminali pensarono di difendersi invocando la logica degli “ordini superiori”, logica respinta perché, come disse la Corte di Norimberga, “agli ordini manifestamente criminali non si deve obbedire”, principio che esiste nel diritto di ogni paese. Ma come si può distinguere il crimine quando si vive nel crimine? Quando ci si trovi di fronte a un massacro organizzato da uno Stato? Nel suo libro, la Arendt si occupa della genesi del male... Nel pensiero della Arendt per un essere umano è male l'essere un inconsapevole volontario, il braccio intenzionalmente inconsapevole di qualcun altro ed è qualcosa di estremamente comune e banale, che il potere può organizzare e utilizzare in moltissime maniere. Il regime totalitario è una di quelle possibili, è ingenuo pensare che sia l'unica, banalizzando così il pensiero della Arendt.

Cinquanta chili d’oro
Atti del processo a Eichmann
Traduzione di Livio Crescenzi
Introduzione di Anna Foa
Pagine 224, Euro 19.90
Edizioni Mattioli 1885


Cracking Art fra le rondini


Il Cracking Art Group nasce nel 1993 debuttando alla mostra “Epocale” a Milano.
Fin d’allora si evidenziano le intenzioni d’intervenire nello scenario artistico con un forte impegno sociale ed ambientale utilizzando materie plastiche diverse ed evocative di un rapporto sempre più stretto tra vita naturale e realtà artificiale.
Il loro progetto ora in svolgimento si chiama Rigeneramento.
È l’arte che rigenera l’arte, il nuovo corso del gruppo Cracking Art, inaugurato nell’ottobre 2012 fra le guglie del Duomo di Milano, per sostenere con fondi nuovi il restauro della guglia maggiore, che sorregge la Madonnina. Operazione proseguita la primavera successiva (aprile 2013), con una spettacolare invasione di migliaia di rane colorate di varie dimensioni nelle acque del Naviglio, fino alla Darsena, con la finalità di contribuire al recupero delle chiuse leonardesche alla Conca dell’Incoronata, in San Marco a Milano.
Adesso, ancora un’invasione di arte contemporanea nell’arte antica per rigenerare il patrimonio artistico nazionale.

Stavolta si tratta di rondini. Sono presenze monumentali, giocose, pacifiche e benefiche.
Volano o stanno ferme al Castello Sforzesco, nei suoi cortili e fossati, rondini giganti e multicolor e loro grandi uova. Il tutto nell’àmbito della Primavera milanese, rassegna culturale promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune. Ancora una volta sarà l’occasione per promuovere una raccolta fondi, questa volta a favore del restauro della statua equestre di Bernabò Visconti, custodita nei musei civici del Castello.
Quest’evento sarà realizzato con la collaborazione di Italia Nostra, che curerà la raccolta dei fondi destinati al restauro del monumento equestre, con un’apposita postazione nel cortile delle armi. Altre rondini e uova saranno messe in altri luoghi simbolo della cultura milanese, fra questi: il Museo del Risorgimento, il Museo di Storia naturale e l’Acquario civico.

Nei primi anni della sua attività il Gruppo Cracking Art fu ospite (1997) di questo sito nella sezione Nadir e rilasciarono una dichiarazione che qui riporto.
La derivazione del termine "Cracking Art" viene dal verbo inglese to crack = schioccare, scricchiolare, spaccarsi, spezzarsi, incrinarsi, cedere... Cracking è il divario dell'uomo contemporaneo, dibattuto tra naturalità originaria e un futuro sempre più artificiale… Cracking è il processo che serve a trasformare il petrolio in virgin nafta, base per migliaia di prodotti di sintesi, quali la plastica. Per gli artisti appartenenti a questa corrente, Cracking è quel processo che trasforma il naturale in artificiale, l'organico in sintetico. Un procedimento drammatico, se non è controllato, una scissione che ci mette tutti di fronte a realtà nuove.
Quest'ultima contrapposizione in particolare si riflette nella scelta dei materiali (plastica riciclata) e quindi nell'impegno sociale e ambientale del movimento
.

Per entrare nel sito web del Gruppo: CLIC!

Ufficio stampa: Lucia Crespi, Chiara Cereda
tel. 02 89415532 - 02 80401645, lucia@luciacrespi.it, chiara@luciacrespi.it

Nido di Rondini
Cracking Art
Castello Sforzesco
Milano
Fino al 30 giugno ‘14


Piero Manzoni


Figura centrale nello scenario artistico internazionale del dopoguerra, Piero Manzoni (Soncino, 1933 – Milano 1963), lo troviamo firmatario del manifesto “Per la scoperta di una zona d’immagini” (1956), poi, l’anno dopo, tra i protagonisti del “movimento nucleare” quando realizzò i suoi primi “Achrome”. Christie’s ha confermato il grande interesse di cui gode quest’artista con maiuscoli risultati anche nelle recenti aste del 2-3 aprile a Milano; un suo Achrome del 1960, infatti, è stato venduto a oltre 400mila euro; si tratta di uno dei rari esempi in polistirolo e fosforo inorganico che rende il lavoro incandescente al buio sui toni del verde.
Fondò, con Enrico Castellani, dapprima la rivista Azimuth e poi la Galleria Azimut (sì, stavolta senza la h finale).
Clamore e scandalo suscitarono le sue opere, fra tutte famosa: “Merda d’artista”, cioè le sue feci sigillate in barattoli.
L'intera canzone degli Skiantos, “Merda d'artista”, contenuta nell'album ‘Dio ci deve delle spiegazioni’ (2009), è dedicata a quell’opera.
Sono trascorsi poco più di cinquant’anni da quel 6 febbraio ’63 in cui morì e la sua figura è riconosciuta sempre più come protagonista dell’avanguardia del XX secolo.
Una biografia di grande interesse l’ha scritta Piero Cavellini (“Trilogia”, 2013) che così conclude su Manzoni (in foto): “Se penso oggi, mentre termino di scrivere le ultime note di questa vita per nulla misteriosa e totalmente umana al livello più alto, ho da poco visitato la pomposa esternazione artistica di uno di quei giovani di allora, presente in una collettiva di Azimut, traslucida ed analfabeta, osannata perché conclusa nella propria massa, senza pensiero, allora mi viene in mente anche l’ultima notte di Piero, stroncato da un infarto nel suo studio di Via Fiori Chiari, solo, senza che alcuno potesse intenderne l’emozione”.

Adesso Palazzo Reale ospita una grande mostra, a cura di Flaminio Gualdoni e Rosalia Pasqualino di Marineo, a lui dedicata promossa e prodotta dal Comune di Milano – Cultura, Palazzo Reale e Skira Editore.
È la più importante esposizione mai realizzata in città dalla sua morte, documenta il percorso di Manzoni in tutta la sua ampiezza e ricchezza problematica attraverso la presentazione di circa 120 opere che profilano la sua parabola artistica.
Genialmente radicale, viene raccontato dagli esordi in area postinformale fino a progetti come il Placentarium.
Un apparato di materiali documentari originali: manifesti, fotografie, cataloghi, lettere, integra il percorso espositivo, restituendo il clima fervido della Milano a cavallo tra anni ’50 e ’60, quando la città è già una delle autentiche capitali culturali europee.

Manzoni vive arte, pensa arte, pratica arte, sempre, a ogni ora dei suoi giorni e delle sue notti. Tutto il resto non gli importa.
Così l’ha descritto Flaminio Gualdoni, uno dei due curatori della retrospettiva che contiene gli Achromes, le opere fatte d’aria, dei palloncini gonfiati dal “fiato d’artista”. Le sculture viventi, modelle o persone del pubblico che Manzoni autografava e dotava di un attestato di autenticità. Né manca la provocazione più famosa, le scatolette di “Merda d’artista” del 1961: 90 contenitori venduti a peso d’oro, con sotto l’etichetta “Made in Italy” e dentro 30 grammi di feci ciascuno.
Attraverso una vasta selezione di opere rappresentative della geniale creatività e della vivacità inventiva di Manzoni, la monografia, pubblicata in collaborazione con la Fondazione Piero Manzoni in occasione dell’importante retrospettiva milanese, ne ricostruisce la vicenda breve e fervida in un percorso che documenta con opere primarie tutti gli aspetti della sua attività con la quale questo geniale e controverso artista del Novecento ha profondamente rinnovato l’idea stessa di arte d’avanguardia.

Catalogo Skira Editore con testi di Flaminio Gualdoni, Giorgio Zanchetti, Francesca Pola, Gaspare Luigi Marcone.

Ufficio Stampa Skira: Lucia Crespi; lucia@luciacrespi.it; 02 – 894 15 532; fax 02 89410051

La mostra sarà aperta fino al 2 giugno.


In forma di libro

Alla Biblioteca Poletti di Modena, diretta da Rita Borghi, è in corso la quattordicesima edizione della rassegna In forma di libro a cura di Mario Bertoni, dedicata stavolta, all'artista modenese Franco Guerzoni che presenta la sua produzione di libri-opera realizzati in un arco di 40 anni.
Una trentina i titoli, di cui tre multipli, che dimostrano come Guerzoni sia riuscito non solo ad estendere gli orizzonti del libro d’arista, ma anche a fare di questo particolare filone un motivo speculare della sua produzione pittorica. L’interesse per l’archeologia e i viaggi, uniti all’attrazione per il libro e per le raccolte di libri, hanno determinato questa produzione, che fin dagli inizi si è connotata per uno stretto legame con la fotografia, anche per la presenza, nella cerchia di amici, di due fotografi d’eccezione come Luigi Ghirri e Franco Vaccari.
Il libro accompagna le scelte e le svolte, in alcuni casi le anticipa, in altri le giustifica, e sembra essere talmente connaturato alla sua poetica artistica da fargli dire che i libri mai realizzati sono un serbatoio inesauribile di “immagini potenziali” che ancora lo accompagnano.
Un interesse cui si è aggiunta la ricerca di tutto ciò che si configura come immagine riprodotta, intesa quale calco a secco della realtà, o, per usare alcune espressioni care all’artista, "sinopia", o "ombra della realtà".
In occasione della mostra l'artista ha donato alla Biblioteca Poletti parte della sua corrispondenza epistolare che annovera scambi con importanti artisti, critici e letterati, e un corpus di libri-opera che va ad arricchire il già cospicuo fondo di libri d'artista dell'Istituto.

In un servizio che Cosmotaxi dedicò nel 2010 a un’edizione di “In forma di libro” chiesi a Carla Barbieri (cura con competenza e passione alla Poletti i “Fondi moderni” e ha molta parte nella nascita e nel successo di “In forma di libro”) qual è il senso di fare libri d’artista oggi. La sua risposta a due anni di distanza non ha perso, anzi ne ha acquistata di attualità. Perciò la ripropongo.

Mi occupo di libri d'artista da circa 12 anni e quasi subito, cioè dal convegno che abbiamo realizzato in biblioteca nell'aprile del 2000, mi sono interrogata sul senso che oggi può avere fare libri d'artista. In quel convegno Daniela Palazzoli fornì un bilancio del libro d'artista in Italia dagli oggetti sensuali degli anni '60 ai globuli che navigano nella rete dei sensi . Mi sembra che in questi ultimissimi anni, con l'esplosione di internet, dei social network, dell'arte digitale e quant'altro, ci sia stato, paradossalmente, un ritorno degli artisti alla tiratura limitata, non necessariamente di lusso, anzi, quasi mai. Questo fa la gioia dei collezionisti, anche se programmaticamente non cercati. C'è insieme, mi pare, desiderio di esporsi e di ritrarsi, uso del web e distribuzione ostentatamente quasi clandestina. Tutto e il contrario di tutto, contemporaneamente. Forse per reagire al rumore generale di fondo.
Una nuova ribellione nei confronti del mercato dell'arte e/o dell'editoria? Chissà?
Camilla Candida Donzella nasconde i suoi librettini, i suoi “4x”, nelle librerie, dentro i libri; li dona con amore ai lettori inconsapevoli del dono. Non mi distribuiscono? Ed io li regalo, disse alla Galleria Neon di Bologna.
Amore, disinteresse, dono e basta. Non mi sembra poco
.

In forma di libro
Franco Guerzoni
Biblioteca civica d'arte Luigi Poletti
Palazzo dei Musei
Viale Vittorio Veneto 5, Modena
Info: 059 – 20 333 72
E-mail: biblioteca.poletti@comune.modena.it
Fino al 24 maggio ‘14


Le Forbici di Manitù

“Manitù, chi era costui”? Si chiede Don Abbondio all’inizio dell’ottavo capitolo di una prima versione (poi rivista dall’autore) dei Promessi sposi. Se quel religioso avesse disposto allora di Wikipedia, avrebbe QUI appreso tutto quanto.
Perché poi, perché quel Grande Spirito sia armato di castratorie forbici, è mistero non ancora svelato dagli studiosi del Manituismo né dagli etnomusicologi giacché Le forbici di Manitù è il nome di un, per certi tratti, misterioso complesso di superiorità musicale studiato da Freud in un suo studio purtroppo andato perduto.

Un comunicato così sforbicia:
A quattro anni dall'album di studio L'Isola (Snowdonia) basato su un racconto noir-horror della scrittrice Alda Teodorani e a tre dallo scioccante cd-singolo techno-hc Preti Pedofili (etichetta discografica: Sussidiaria), Le Forbici di Manitù ripercorrono tre decadi di eclettico attivismo ai margini della scena musicale italiana - dal post-punk al noise, passando per prog rock, ambient, lounge e liscio romagnolo - in una Automitoantologia che raccoglie rari brani da singoli e compilation più varie tracce inedite, demo per progetti mai realizzati, sigle radiofoniche, cover (da Mogol ai Pil) ed altri curiosi "ritagli" d'archivio.
Convinti che la crisi del mercato discografico si possa fronteggiare oggi solo giocando al rialzo, con pregiate confezioni da collezione ricche anche dal punto di vista tattile, non abbiamo badato a spese. L'album, compilato e profusamente annotato da Vittore Baroni e Manitù Rossi, re/mixato e prodotto da Manitù presso il Rasoio di Occam Studio, è dunque ospitato in un lussuoso box cartonato assieme ad un libro a colori di 72 pagine che include, oltre ad una completa nastro-discografia illustrata e ai testi dei brani, una prefazione critica di Walter Rovere e una lunga intervista a Manitù Rossi di Alessandro Achilli. In 50 copie scelte a caso del cofanetto, prodotto in tiratura limitata di 500 copie, è stato inoltre inserito a mo' di Easter egg un secondo bonus cd con la versione integrale (48' 35") dell'inedito Aria Dura. Il lavoro è dedicato dalle Forbici col massimo affetto a Massimo Pavarini ed Enrico Fontanelli. In preparazione, con uscita prevista a fine 2014, un nuovo doppio concept album di studio molto particolare delle Forbici & Friends, più altre ristampe d'archivio: la storia continua
.

Nel comunicato è citato il nome di Elena De Santi che ha curato “originale grafica e impaginazione”, ma io ho estratto quel passaggio per evidenziarlo qui perché si tratta di un lavoro splendido che merita d’essere particolarmente elogiato… Augh!

Le forbici di Manitù
Automitoantologia
1983-2013: 30 anni di ritagli, rarità, inediti
cd album + libro 72 pagine in box cartonato
Per ordinare una copia: invia Euro 15,00 (spese postali incluse) con PayPal
a vittorebaroni@alice.it
o invia Euro 15,00 con vaglia postale pagabile a Vittore Baroni, via C.Battisti 339,
55049 Viareggio (LU)


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