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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

La brevità della vita


Nel catalogo della casa editrice Sabinae si trova un testo che s’impone all’attenzione sia per il nome famoso dell’autore sia per il tema che credo interessi tutti noi umani già esplicitato nel titolo: La brevità della vita (nell'originale De brevitate vitae).
Lo ha scritto Lucio Anneo Seneca filosofo e scrittore latino nato a Cordova nel 4 a. C., morto, costretto al suicidio, nel 65 d.C.
Albert Samain (1858 – 1900) avanza l’ipotesi che nacque sotto un cattivo presagio cioè mentre il sole tramontava, ma vatti a fidare di quel poeta francese! Ammiratore entusiasta di Marcel Schwob (1867 – 1905) autore di “Vite immaginarie”. Racconti pieni di folgoranti precisazioni inventate e da Samain definiti “puro hashish… danno fuoco all’immaginazione,” Dice pure che Seneca non pianse come fanno tutti i pargoli venuti alla luce, poco manca che ci dica anche il nome della levatrice, dei vicini di casa e la marca delle fasce in cui fu avvolto il neonato.
Notizie certe di Seneca, però, ne abbiamo. Ebbe una vita non proprio tranquilla.
Provocò le ire di Caligola che gli voleva fare la pelle, poi anche Claudio si stufò di lui e dando ascolto a quella bambinaccia di Messalina che detestava Seneca lo esiliò in Corsica. Le cose parvero mettersi al meglio quando andò a genio ad Agrippina che lo volle educatore di Domizio (meglio noto alle cronache storiche e mondane col nome di Nerone).
Coinvolto da innocente o partecipante – mai è stato chiarito – alla congiura di Pisone, Nerone gli pose una condizione ultimativa in ogni senso: o ti uccidi oppure mando miei uomini a tirarti il collo.
Seneca, da stoico qual era, scelse di suicidarsi tagliandosi le vene, e poiché non riusciva a morire, per andare veloce, s’immerse in un bagno caldo (e qui Samain manca d’informarci di quanti gradi fosse quell’acqua calda). Sarà, però, il ben più attendibile Tacito a fare la cronaca di quel suicidio in preziose e belle pagine nei suoi “Annales” che raccontano avvenimenti dal 14 al 68 d.C.
Seneca stoico. Già. Appartenne a quella corrente filosofica che registra anche i nomi di Cleante, Crisippo, Catone Uticense, Marco Giunio Bruto, Plinio il vecchio, Persio, tutti importanti esponenti di quel pensiero al quale s’ispirò anche Cicerone.
Tra quei nomi spicca quello di Seneca.
Il vero saggio, sosteneva, deve raggiungere infatti l’apatheia, apatia, che non va confusa col significato odierno di abulia o indifferenza, ma con l'imperturbabilità che lo rende impassibile di fronte ai casi della sorte posti dalla vita. Non si limitava ad affermarlo nei discorsi e negli scritti, ma con l’esempio dato da lui stesso.
Viveva in modo austero. Dicono che rinunciò al vino (questo mi fa pensare che io non avrei fatto parte dei suoi discepoli), ai profumi, ai cibi succulenti, ai letti morbidi, alle terme, e che inaugurasse ogni nuovo anno – anticipando di duemila anni Mister Ok – con un tuffo nel Tevere.

Il trattato pubblicato da Sabinae… a proposito, scorrevolissima la traduzione, non cito nomi perché non riportati nella pubblicazione, ma lodi a chi l’ha fatta... è, come detto in apertura, “La brevità della vita”, decimo dei “Dialoghi”, dedicato a Pompeo Paolino, uomo politico e padre della moglie.
La vita è troppo breve? No, sostiene Seneca, ciò appare alla maggior parte dell’umanità perché spreca il suo tempo mentre il saggio riesce a viverlo. Sono gli indaffarati, attenti a rincorrere i beni materiali, ad arricchirsi, a volere prevalere sugli altri, che si lamentano della brevità dell’esistenza. La vita sfugge loro perché credono di viverla e, impegnati nell’agonismo sociale, non s’accorgono che le ore, i giorni, gli anni corrono via.
I veri valori risiedono nella meditazione, nell’attenzione alla propria interiorità.
Naturalmente non pochi avversarono quello scritto.
La vita è breve? La vita è lunga?
Chiudo questa nota con le parole del mio amato Celine: “È il nascere che non ci voleva”.

Dalla presentazione editoriale.

«Uno tra i più famosi trattati dell’antichità, capace di indicarci ancora oggi la via per raggiungere la felicità e la pienezza del vivere. Il senso della fuga del tempo e della caducità delle cose percorre tutta l’opera di Seneca. A questa realtà egli oppone una problematica saggezza, che invita a liberare lo spazio breve dell’esistenza dalle futili tensioni che lo consumano, vanificandone la potenziale ricchezza. Il tempo è il bene più prezioso dell’uomo, ma è anche quello più facilmente dissipato».

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Lucio Annea Seneca
La brevità della vita
con illustrazioni in b/n
Pagine 80, Euro 8.00
EdizioniSabinae


Breve storia dell'ombra


Ridotto all’ombra di sé stesso, essere come l’ombra di Banco, avere paura della propria ombra, dare ombra, dare noia anche all’ombra, vivere all’ombra di qualcuno, seguire uno come un’ombra, dar corpo alle ombre… l’ombra, nelle locuzioni popolari ricorre sempre con un tono dispregiativo o poco rassicurante. Nei testi di psicologia, poi, l'ombra rappresenta l'opposto complementare della coscienza, ciò che rifiutiamo di riconoscere come parte di noi stessi.
È necessario trasferirsi in àmbito scientifico o artistico per dare a quella parola solo significati tecnici e sottrarre quelli inquietanti. Nell’astronomia, infatti, è la parte più scura di una macchia solare e nel disegno, nell'incisione, nella pittura, l’ombra – come la definisce il dizionario – è “quel tono scuro che riproduce le zone non esposte alla luce, serve a conferire rilievo alle immagini”. Immagini che a volte sono inquietanti, ma questo è un altro discorso.
Un classico in letteratura sull’ombra, lo scrisse (1813) Adelbert Von Chamisso raccontando le vicende umane del povero Peter Schlemihl, che accetta un patto col diavolo barattando la propria ombra in cambio di una borsa piena di monete d'oro. L’avesse mai fatto! Da quel momento cominciano i suoi guai: le persone sono spaventate da quest'uomo cui manca l'ombra, e lo rifiutano in quanto è diverso e strano.

Un ragionamento sull’importanza dell’ombra nell’arte visiva e incursioni in altre arti lo si trova nel catalogo della casa editrice il Saggiatore.
Titolo Breve storia dell’ombra Dalle origini della pittura alla Pop Art.
Ne è autore Victor I. Stoichita (Bucarest, 1949).
Professore emerito di Storia dell’arte moderna all’Università di Friburgo e membro dell’Accademia dei Lincei.
Il Saggiatore di Stoichita ha pubblicato L’ultimo carnevale (2002), L’effetto Pigmalione (2006), L’invenzione del quadro (2013), Effetto Sherlock (2017).
Stoichita afferma: "Non mi interessa solamente l'immagine fine a se stessa, mi interessano i suoi legami con l'umana esistenza, individuale o collettiva, i suoi contenuti di vita e pensiero". Nell'introduzione a “Breve Storia dell'ombra” scrive: "La storia dell'ombra non è la storia del nulla. E' una delle vie attraverso le quali accedere … alla storia della rappresentazione occidentale".

Dalla presentazione editoriale.

«Da quando esiste l’arte esiste l’ombra. Questo credevano gli antichi, secondo i quali la pittura nacque nel momento in cui una fanciulla tracciò il contorno della figura dell’amato proiettata su un muro. Da quel giorno ombra e raffigurazione pittorica hanno seguito un unico percorso: in origine semplice strumento per riprodurre fedelmente la realtà e dare il senso della profondità e della luce, l’ombra ha nel tempo acquisito una valenza allegorica sempre più complessa ed è diventata la base feconda da cui molti artisti sono partiti per costruire la propria opera.
In “Breve storia dell’ombra” Victor I. Stoichita disegna un profilo composito e coinvolgente dell’ombra nell’arte e dei diversi valori attribuiti alla sua rappresentazione, da sempre fra le sfide più delicate che un pittore debba affrontare davanti alla tela, tanto dal punto di vista tecnico quanto da quello simbolico. Dalle ombre proiettate sulla parete della caverna nel mito di Platone alla sagoma di Monet che fotografa le sue ninfee a Giverny, dalle ombre incontrate da Dante nel suo viaggio ultraterreno a quella che Wendy deve ricucire addosso a Peter Pan, sino ovviamente all’infinita riproducibilità dell’ombra nell’epoca della fotografia, Stoichita rielabora gli spunti più diversi in una storia che è anche un manifesto critico, e ci porta a sconvolgere ogni preconcetto sulla metà oscura che ovunque ci accompagna».

Victor I. Stoichita
Breve storia dell’ombra
Traduzione di Benedetta Sforza
Pagine 256, Euro 22.00
Il Saggiatore



La canzone collettiva


Giorni fa su Sky Arte c’è stata una trasmissione ben fatta sulla canzone italiana impegnata sui temi civili. Mi ha ricordato che nel catalogo dell’Editrice Zona c’è un interessante libro che illumina un tracciato storico importante della canzone italiana.
È intitolato: L'utopia è rimasta. La gente è cambiata Indagine sulla canzone collettiva
L'autrice è Cecilia Rivoli.

Nel secondo dopoguerra, mentre gran parte della cultura adotta uno sguardo realistico sulla società italiana (sono gli anni del Neorealismo al cinema, in letteratura, nell’arte), la canzone non è realistica, anzi, fugge dalla realtà.
Da questo quadro di fuga e vanità nasce, come risposta di emergenza, la canzone collettiva, che invita la gente a fare i conti con la vita vera e a non risparmiare la denuncia di soprusi e ingiustizie. Due esperienze sono emblematiche, in questo senso: Cantacronache e Nuovo Canzoniere Italiano. Passando dalla successiva epopea della canzone d’autore, c’è un fil rouge che lega quei primi collettivi musicali e intellettuali ad alcuni artisti e gruppi di oggi che raccontano l’Italia reale. Cecilia Rivoli ne sceglie quattro.

Dalla presentazione editoriale.

«L’indagine di Cecilia Rivoli riguarda la “canzone collettiva” – né solo “politica”, né solo “di protesta”, “popolare” o “impegnata” – quella cioè capace di descrivere l’Italia più problematica, inquieta, in/sofferente, combattiva, fuori da rassicuranti chiché. Lo fa a partire da due grandi esperienze del 1958 e del 1963, Cantacronache e Nuovo Canzoniere Italiano: questi primi “politici con la chitarra” inserirono nei loro testi il paese di allora, operaio, contadino, emigrato, in contrapposizione netta con la tradizione romantica e melodrammatica in voga. C’è qualcuno, negli anni Duemila, che sta scrivendo canzoni che tra cinquant’anni potranno raccontare l’Italia di oggi? Scandagliando il panorama indipendente, analizzando i brani del presente – lingua, metrica, arrangiamenti, scelte discografiche, copertine, video musicali, interviste – l’autrice si concentra su quattro realtà: I Ministri, The Zen Circus, Alessandro Mannarino e Modena City Ramblers. Per approdare alla conclusione che, nonostante l’ideologia collettiva si sia esaurita, esiste ancora oggi un modo diverso di proporre un’idea di collettività attraverso la canzone: che è personale e non più universale, verticale e non più orizzontale».


Con la rabbia agli occhi (1)

La casa editrice Bietti ha pubblicato Con la rabbia agli occhi Itinerari psicologici del cinema criminale italiano.
L’autore è Fabrizio Fogliato che questo sito ha già incontrato QUI in occasione del suo precedente saggio (scritto con Fabio Francione): “Jacopetti Files”.
Nato a Torino nel 1974, è critico cinematografico e storico del cinema.
Coordinatore didattico e docente presso l’I.S. Starting Work di Como, è ideatore e curatore di festival e cineforum sul territorio lombardo, autore di saggi su Ferrara, Haneke, Jacopetti. Ha partecipato a lavori collettanei su Roger Vadim e Pupi Avati, collaborato a «INLAND. Quaderni di cinema» (Bietti) con saggi su Bido, Soavi e Lustig.
Conduce in Rete questo sito web.

Nell’Introduzione, Fogliato tra l’altro scrive: “… Dal Secondo dopoguerra fino agli anni Ottanta – mediante un processo storico tumultuoso in cui non c’è stata alcuna corrispondenza tra cambiamenti sperati, auspicati ed effettivamente attuati – in Italia si è assistito alla fine delle illusioni e delle ambizioni di trasformazione sociale. Gli anni Settanta sono un “decennio mancato” – incastonato tra un prima causale e un dopo di riflusso – all’interno di un processo di secolarizzazione che sfocia in un conclamato individualismo e nella torsione particolare della violenza come atteggiamento quotidiano, stile di vita, unique selling proposition.
Il cinema del periodo dà visibilità e cittadinanza a tutto ciò che è negativo e lascia nel fuori campo le riforme di più grande portata: divorzio, aborto, legge Basaglia, Statuto dei lavoratori, Servizio sanitario nazionale, voto ai diciottenni, liberalizzazione dell’accesso all’università, ordinamento regionale. Nell’immaginario filmico, la Storia italiana è declinata sul versante criminale che attraversa trasversalmente generi e autori, film popolari e film problematici, rendendo necessaria un’interpretazione psicologica della società per potere comprendere il contenuto filmico e viceversa”.

Dalla presentazione editoriale

«Il cinema criminale è un incrocio di letteratura (Gadda, Pasolini, Albinati), storia (Piazza Fontana, i “golpi bianchi”, la P2), cronaca nera (“la Banda della Magliana”, il massacro del Circeo). Matura e prende forma nel conflitto tra cittadini e delinquenti che squarcia la società italiana dal Secondo dopoguerra e genera sperequazione, fame, delatori, profittatori e parassiti.
Lo stato criminale di Sciascia, il sentire mafioso, la dimensione occulta del Potere imbrattano la celluloide e travolgono il Belpaese a suon di complotti, intrighi, logge massoniche, raffiche di mitra, “stragi di Stato”, stupri collettivi, rapine a mano armata, pallottole vaganti e vittime innocenti: da tutto questo il cinema italiano trae linfa vitale per oltre mezzo secolo mostrando sullo schermo la psicologia di massa di un Paese che agisce come una belva… con la rabbia agli occhi.
Prendendo in considerazione oltre 200 film e 85 opere letterarie, e accumulando trame, battute di sceneggiatura, stralci di romanzi o verbali della polizia, resoconti psicanalitici, dichiarazioni di giudici e commissari, Fogliato, con la benedizione di Romolo Guerrieri che firma la prefazione, assembla un tomo definitivo e caleidoscopico sulla Storia del nostro Paese, così come si è originato da una “scena primaria” felice e insidiosa: il boom del benessere ha creato mostri che ancora imperversano».

Imponenti ed esaustivi gli apparati: Bibliografia, Filmografia ragionata, Indice dei film, dei Nomi, delle Opere.

QUI il Booktrailer

Segue ora un incontro con Fabrizio Fogliato.


Con la rabbia agli occhi (2)

A Fabrizio Fogliato (in foto) ho rivolto alcune domande

Quale la principale motivazione che ti ha fatto compiere questo lavoro?

La risposta è semplice: ho scritto il libro che avrei sempre voluto leggere sull’argomento. Ovvero la rabbia e l’odio che tracimano dal cinema criminale (giallo, poliziesco, nero…) non sono il frutto del caso o di una spregiudicata messa in scena ad effetto: certo c’è anche questo, ma oltre c’è la cartina di tornasole di un paese che vive la frustrazione di essere perennemente “mancato” e ad un “ultimo atto” su cui il sipario non cala mai.

Nel trattare il tema di questo volume qual è stata la cosa che hai deciso fosse assolutamente necessaria fare per prima e quale assolutamente necessaria per prima da evitare?

Le prime cose, assolutamente indispensabili sono state: la ricerca della chiave più efficace – sia dal punto di vista del contenuto sia dello stile e della lingua – per affrontare l’argomento come ricerca di studio e con un approccio “popolare” (raggiungere un pubblico più ampio possibile); fare analisi e sintesi a livello multidisciplinare per trovare temi, argomenti, suggestioni, azzardi capaci tanto di coinvolgere il lettore quanto di sorprenderlo.
La cosa più importante da evitare – quella che non avrai mai sopportato – essere didascalico, autoreferenziale e saccente.

La società italiana oggi non è meno violenta di un tempo, trame oscure, affari illeciti, attentati malavitosi non mancano, ma i “poliziotteschi” non ci sono più. Perché a tuo avviso si è estinto quel genere?

Il “poliziottesco”, termine spregiativo a cui preferisco il “poliziesco italiano”, ha rappresentato una stagione irripetibile in quanto i suoi film sono stati sia veicolo sia agente di Storia. Le sue “tesi inaccettabili” hanno rappresentato la valvola di sfogo della rabbia e l’esorcismo della paura che si annidavano nella platea della società italiana. Terminata la stagione i suoi addentellati si sono sparsi e mimetizzati nella serialità e fiction televisiva senza mai raggiungere le punte di alto artigianato dell’epoca d’oro. Poi, in seconda battuta, fino ad un certo punto – grazie all’ingegno, al coraggio, e all’avventurosità del cinema italiano – c’è stata una competizione con l’azione d’oltreoceano, ma – a partire dagli anni ’80 – la partita è stata francamente impari.

Riprendo il tuo accenno di poco fa alla serialità tv per chiederti: nelle odierne serie tv sulla criminalità italiana sono rintracciabili segni della cinematografia da te esaminata in “Con la rabbia agli occhi”. Se sì, oppure no, perché?

No, è un altro mondo: omologato, standardizzato, calato su modelli estetici e stilistici ripetitivi, privi di pathos e imprevedibilità (anche quella dozzinale e “caciarona”). Quella di oggi è una serialità finalizzata a intrattenere e non colpire, a non turbare lo spettatore a mostrare un Male finto, apparente, “rassicurante”; tutta costruita sulle sensazioni immediate usa e getta e, anche quando sembra raccontare vicende reali, in realtà parla d’altro attraverso l’effetto, lo spettacolo costruito a tavolino… altro che prendere la m.d.p. non chiedere i permessi e lanciarsi in folli corse (seppur successivamente accelerate) per le vie di Genova facendo inseguire le finte volanti della Polizia da vere volanti chiamate da un ignaro cittadino convinto di aver assistito ad una vera rapina. (“Il cittadino si ribella” (1974) di Enzo G. Castellari).
«Altri tempi… e altri uomini… », citazione da “Luca, il contrabbandiere” (1980) di Lucio Fulci.

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Fabrizio Fogliato
Con la rabbia agli occhi
Prefazione di Romolo Guerrieri
Pagine 766, Euro 24.00
Casa Editrice Bietti


25 Aprile

Come sanno i lettori di queste mie pagine web, il sabato, la domenica, e altri festivi, Nybramedia non va on line.
Perciò anticipo ad oggi una nota destinata alla data che si festeggia domani.


Il 25 aprile (QUI il portale dell’ANPI) è una di quelle date che va scolorendosi sulle pagine della Storia nonostante l’amore e l’odio suscitati allora ancora ribollino sotto la pelle dei nostri giorni.
Si dice, giustamente, che anni democristiani, craxiani e poi berlusconiani e renziani abbiano ottuso coscienze e slanci, ma il primo colpo tirato alla Resistenza, a mio avviso, risale all’amnistia del 22 giugno 1946 promulgata da Palmiro Togliatti (allora Ministro di Grazia e Giustizia) che avrà suo collaboratore al Ministero Gaetano Azzariti Presidente del Tribunale della Razza!).
Decisioni che produssero il primo affronto ai combattenti per la libertà che videro uscire dalle galere fior di repubblichini, un “liberi tutti” di cui ancora oggi si risentono le conseguenze.
Quell’amnistia fu contestata sia da parte della base del Pci, sia dalle associazioni partigiane e anche dal fronte democratico non comunista che videro chiaramente il pericolo, puntualmente avveratosi, di una mancata defascistizzazione del Paese. Fu, infatti, seguita da quattro successive amnistie – varate da governi Dc – che allargarono ulteriormente i termini temporali e la casistica dei reati commessi dai fascisti.

«Lo spirito che animava le donne e gli uomini della Resistenza fu una attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e autoironia sulla stessa propria fierezza guerriera, il senso di incarnare la vera autorità legale e di autoironia sulla situazione in cui ci si trovava a incarnarla, un piglio talora un po’ gradasso e truculento ma sempre animato da generosità, ansioso di far propria ogni causa generosa.
A distanza di tanti anni, devo dire che questo spirito, che permise ai partigiani di fare le cose meravigliose che fecero, resta ancor oggi, per muoversi nella contrastata realtà del mondo, un atteggiamento umano senza pari».

Italo Calvino, da “La generazione degli anni difficili”, Laterza, Bari 1962.

«La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c'è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline».

Pier Paolo Pasolini, Il caos, Editori Riuniti, 1979.


La ceramica di Melotti


A Lucca, alla Fondazione Ragghianti ben diretta da Paolo Volpagni a più di settant’anni dal primo incontro fra Carlo Ludovico Ragghianti (Lucca, 18.3.1910 – Firenze, 3.8.1987) e Fausto Melotti (Rovereto, 8.6.1901 – Milano, 22.6.1986) e a vent’anni dalla pubblicazione del Catalogo Generale della ceramica dell’artista, una mostra - a cura di Ilaria Bernardi - racconta e approfondisce questa produzione, a torto considerata secondaria, di uno dei protagonisti della trasformazione dell’arte italiana del Novecento
Nel 1948 Carlo Ludovico Ragghianti scrive un saggio nel catalogo della mostra “Handicraft as a fine art in Italy” a cura di Bruno Munari, ospitata alla “House of Italian Handicraft” a New York. Tra le opere esposte anche i vasi in ceramica di Fausto Melotti, che insieme con opere di Afro, Casorati, Consagra, de Pisis, Fontana, Fornasetti, Guttuso, Morandi, volevano dimostrare come in Italia la produzione delle cosiddette ‘arti applicate’ fosse da considerarsi a tutti gli effetti ‘fine art’.

L’attuale mostra è realizzata in collaborazione con la Fondazione Melotti e il MIC in Faenza con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, il patrocinio della Regione Toscana e della Provincia e del Comune di Lucca.
L’esposizione è sviluppata in quattro sezioni.
La prima inserisce e storicizza la produzione ceramica di Melotti all’interno della sua vita e della sua attività, attraverso una cronologia illustrata che dalla nascita nel 1901 giunge alla sua scomparsa nel 1986. La cronologia sarà accompagnata da teche per accogliere importanti documenti del suo archivio legati specificatamente alla produzione in ceramica, tra cui tre suoi quaderni mai esposti finora.
La seconda sezione sarà dedicata alle più note tipologie di sculture in ceramica concepite dall’artista: dalle ceramiche a carattere sacro ai bassorilievi, dagli animali alle figure femminili, dai cosiddetti Onu fino ai Teatrini. Tra le opere esposte anche la preziosa Lettera a Fontana (1944), esposta nel 1950 alla Biennale di Venezia.
Nella terza sezione il video “In prima persona. Pittori In e scultori. Fausto Melotti” (1984), di Antonia Mulas, include l’unica intervista in cui l’artista, analizzando il proprio percorso e la sua concezione dell’arte, parli della ceramica.
L’ultima parte della mostra include differenti tipologie di ceramiche – coppe, tazzine, lampade, piatti – che, anche se ispirate a oggetti d’uso quotidiano, sono state concepite dall’artista svincolandole dalla loro funzione e rendendole vere e proprie sculture.
Accanto alle opere di Melotti saranno esposte quelle di importanti artisti e designer con cui direttamente o indirettamente ebbe contatti, concesse in prestito dal MIC di Faenza, che conserva la raccolta di arte ceramica più grande al mondo: da Giacomo Balla a Lucio Fontana, da Leoncillo ad Arturo Martini, da Enzo Mari a Bruno Munari, e ancora Gio Ponti, Emilio Scanavino, Ettore Sottsass e molti altri.
La mostra sarà accompagnata da un libro-catalogo pubblicato dalle Edizioni Fondazione Ragghianti Studi sull’arte, con le riproduzioni di tutte le opere esposte, documenti e materiali d’epoca, i saggi di Ilaria Bernardi, curatrice della mostra; Edoardo Gnemmi, direttore della Fondazione Fausto Melotti; Claudia Casali, direttrice del MIC - Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza.
Prefazione del direttore della Fondazione Ragghianti, Paolo Bolpagni.

Per informazioni: T. +39 0583 467205 | info@fondazioneragghianti.it

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Ufficio Stampa
Fondazione Ragghianti | Comunicazione istituzionale
Elena Fiori, +39 0583 467205 * elena.fiori@fondazioneragghianti.it
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Lara Facco > P&C > T. +39 02 36565133 * press@larafacco.com
Martina Fornasaro | M. +39 338 623 3915 | martina@larafacco.com
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Fausto Melotti - La ceramica
A cura di Ilaria Bernardi
Fondazione Ragghianti
Complesso monumentale di San Micheletto
Via San Micheletto 3, Lucca
25 marzo - 25 giugno 2023


Miti e riti nella fantascienza e nel fantasy


Segnalo un’interessante pubblicazione nel catalogo delle Edizioni Quasar di Severino Tognon.
Si tratta di un’opera in due volumi a cura di: Igor Baglioni, Ilaria Biano, Chiara Crosignani.
Titolo: “Religioni fantastiche e dove trovarle. Divinità, miti e riti nella fantascienza e nel fantasy”

Il primo volume: 200 pagine, euro 25
Il secondo: 164 pagine, euro 25

Dalla presentazione editoriale
«Gli articoli qui raccolti indagano la rappresentazione delle religioni nella produzione artistica ascritta convenzionalmente ai generi della fantascienza e del fantasy. In ciascun contributo sono poste in evidenza le motivazioni autoriali, di genere, sociali e storiche alla base di specifiche raffigurazioni e se, come, perché, quando e dove queste abbiano avuto un impatto tale sull'immaginario collettivo da divenire uno dei fattori in grado di condizionare il comportamento, la spiritualità e la visione dell'essere e del mondo di una società o di parte di essa».

Sommario del I Volume

Prefazione
Introduzione
Igor Baglioni, Alle radici della fantasia.Il fantastico contemporaneo come documento storico
Percorsi del Fantastico della Fine dell'Ottocento agli Anni Settanta del Novecento
Ubaldo Lugli, La morte non esiste. Riti funerari e miti escatologici nel “ciclo di Ayesha”
Alberto Cecon, Il messia malato. Passione, morte e putrefazione nell’anti-modernateologia lovecraftiana
Davide Burgio, La questione della salvezza dei pagani nell’universo finzionale tolkieniano: il Dibattito di Finrod e Andreth
Sebastian Schwibach, Contatto tra mondi: cosmologia e figure divine nella trilogia fantateologica di Lewis
Pascal Lemaire, Byzantine Theology in Alternate History: Having Fun with a Serious Matter
Fernanda Rossini, “Eppur si muove!” Le conoscenze scientifiche come forme di superstizione religiosa nel romanzo Orfani del cielo di Robert A. Heinlein (1941)
Lottie Brown, Wonder Woman. A Consideration of her Roman Antecedents
Eleonora D’Agostino, Religioni e fantascienza negli Stati Uniti dagli anni ’50 a oggi. Un caso di studio
Giuseppe M. C.scito, La paleoastronautica tra fantascienza e religione
Gianni F. Trapletti, Il bokononismo: da religione fittizia nel romanzo Ghiaccio-nove di K. Vonnegut a sistema spirituale plausibile?
Jim Clarke, The Dharma of Dune. Frank Herbert and Zen Buddhism
Nicola Martellozzo, Come gli uomini diventano deva. Rappresentazioni e funzione delle religioni in Lord of Light
Francesca Boldrer, D.i e miti virgiliani nella fantascienza di Italo Calvino. Riletture di Proteo e Euridice dalle Georgiche alle Cosmicomiche
Mattia Cravero, “Una furtiva occhiata d’allarme”. Primo Levi, Prometeo e il Golem

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Sommario del II Volume

Percorsi del Fantastico dagli anni Ottanta del Novecento ai Nostri Giorni
Lucrezia Naglieri, La religione e il potere in The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood. Note iconografiche al simbolismo di Galaad
Roberta Matkovic, Dylan Dog. L’indagatore dell’incubo, gli inferi e i personaggi infernali
Chiara Crosignani, It was the Darkness between. Il dualismo (im)perfetto della Ruota del Tempo di Robert Jordan
Igor Baglioni, Benvenuto nel deserto del reale. Religioni, letteratura e filosofia in The Matrix
Angelica Aurora Montanari, Credere, uccidere e divorare. La riscrittura del sacro nei fantasy movies medievaleggianti
Barbara G.V. Lattanzi, Verso la Nuova Mecca. L’immagine dell’Islam e della religiosità nella saga di Riddick
Ilaria Biano, The Leftovers and the Lost Ones. Narrazioni postsecolari tra millenarismo e sincretismo in due casi di serialità fantasy
Krzysztof Ulanowski, Did Historical and Invented by Movie Achilles Believe in the Greek Gods?
Nicola Pannofino, Mistica dell’oscurit. e dark fantasy. L’incontro con il numinoso ne Il labirinto del fauno
Roger A. Sneed, Black Panther, Afrofuturism, and African American Religious Life
Marcos Bella-Fern.ndez - Leticia Cortina Aracil, Week-end Devotions: Religion Creation for Live-Action
Appendice
Marika Michelazzi, A Twist in the Myth. Il processo creativo di un autore


I linguaggi della gentilezza

- Ascolta Horn, prima del tuo viaggio sappi che su quel pianeta è molto apprezzata la gentilezza
- Salph che dici?... gentilezza?... e che cos’è?
- È… come dire… un comportamento… un modo di… di non dire o fare cose che possano dispiacere a chi ti sta di fronte
- Mah!... e da quando praticano questa cosa?
- Da quando la maggior parte dei viventi morirono per effetto delle Guerre Corporative che sconvolsero la Galassia Alphasar. Da allora i sopravvissuti rinunciarono alle Virtù Guerriere, perfino la Festa Gladiatoria fu abolita.

(da "Scalo fra le stelle", romanzo di Albert Higon, Urania, Luglio 1961).

È proprio necessaria una grande sciagura per farci diventare gentili?
Un tempo veniva detto che dopo un massacro bellico o una calamità naturale, ad esempio un terribile terremoto, la gente diventava più buona, più tollerante. Sarà stato vero? Ho qualche dubbio. Di sicuro questa cosa non mi pare sia avvenuta in tempi recenti. Dopo epidemie, carneficine, disastri, nel ‘900 così non è stato, né questo primo quarto del XXI secolo che pure ne ha già attraversato di tragedie mi pare prometta più gentilezza fra noi umani.
Gentilezza, ecco una parola che corre seri rischi di scomparire.
Intendiamoci, non è che solo i nostri giorni siano responsabili di quel rischio, è stata oscurata quella parola in ogni epoca, ognuna con una sua particolarità affidata a qualche speciale esercizio di brutalità.
Qualche autorevole voce che ha raccomandato gentilezza la troviamo in tempi antichissimi con Platone che raccomanda “Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre”, e in tempi di oggi con Kurt Vonnegut che scrive: “Rimani gentile… Non lasciare che il mondo ti renda insensibile. Non lasciare che la sofferenza ti lasci odiare. Non lasciare che l’amarezza rubi la tua dolcezza”.
Del resto, un proverbio popolare dice: “La gentilezza è la lingua che il sordo ascolta e il cieco vede”. Eppure, quanto poco è seguito quel motto!

La casa editrice Carocci ha pubblicato un libro che ragiona sulle buone maniere, e la loro efficacia, nelle relazioni
È intitolato I linguaggi della gentilezza Dall’empatia di Dante al galateo digitale.
Ne è autore Edoardo Bellafiore.
Insegna Linguistica e galateo digitale all’Università LUMSA e dirige la ContaminAction University. È stato presidente dell’Associazione italiana per l’orientamento scolastico e ha diretto i master dell’ELIS in Risorse umane e in Comunicazione digitale.
Tra le sue pubblicazioni: “Letteratura come arte della formazione” (Pellegrini, 2013), “Assertività e scrittura” (con Stefano Greco; FrancoAngeli, 2016), “Digitaliano” (curato con Valentina Marini; FrancoAngeli, 2019).

Bellafiore nell’Introduzione chiarisce la finalità del suo lavoro: Non esiste linguaggio più positivo della gentilezza. All’esposizione dei suoi raggi (specie se prolungata) è difficile resistere senza essere contagiati. E pensare che fa bene alla salute senza controindicazioni. Voglio subito sgombrare il campo: per gentilezza non intendo semplicemente garbo e cortesia. Mi rifaccio all’etimologia della parola: l’aggettivo “gentile” deriva dal latino “gens”, che significa “nobiltà”. La “gens” di Roma antica era la stirpe nobile. Attenzione, non ne voglio fare una storia di sangue blu e di casati, ma d’animo.

Quant’è importante la gentilezza nella comunicazione?
Nel libro rispondono a quella domanda Corrado Augias – Marino Bartoletti – Patrizia Bertini Malgarini - Paolo Di Paolo – Guido Stratta intervistati da Bellafiore.
E come stanno le cose quanto a “netiquette”, vale a dire Galateo digitale? Luogo in cui oltre a sciatteria e aggressività, trionfa la mancata conoscenza del mezzo? L’ultimo capitolo è dedicato proprio a questo tema ed è “… un agile vademecum, vuole generare consapevolezza nell’uso dello strumento digitale (…) un prontuario, un exexcursus che ci aiuta a comprendere come siamo arrivati alla scrittura digitale e, soprattutto, all’italiano digitale”.

Dalla presentazione editoriale.

«Riscoperta come uno dei fondamenti della felicità, la gentilezza è una competenza necessaria nella vita e nel lavoro. Come agire per metterla in pratica dal punto di vista linguistico? Quali sono gli scrittori del passato a cui ispirarsi? E che cosa consigliano i maestri della comunicazione di oggi? Il libro risponde a queste e molte altre domande affrontando un avvincente viaggio che parte dai classici della letteratura italiana e si conclude con un agile galateo digitale, capace di declinare i linguaggi della gentilezza nelle nostre interazioni quotidiane tra chat, e-mail e social media. Il testo è arricchito dai punti di vista di noti giornalisti, scrittori, linguisti e top manager».

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Edoardo Bellafiore
I linguaggi della gentilezza
Pagine 118 , Euro14.00
Carocci editore


Il convoglio


Le Edizioni Mimesis hanno pubblicato un libro che illumina tragici episodi e personaggi pochissimo noti (ma ben meritevoli di largo spazio) vittime della persecuzione nazifascista.
Titolo: Il convoglio Storie di italiani deportati a Mauthausen.
L’autore è Franco Meroni.
Si legge in bandella: “Milanese, classe 1957, ex informatore farmaceutico, è un appassionato di Storia. Dopo l’osservazione di una lapide in memoria di un deportato lungo la via di casa ha dato vita a queste pagine con le quali ha voluto rendere omaggio alla “generazione del Convoglio”. Grazie ai sacrifici fatti da quest’ultima, ha potuto studiare e costruire una famiglia”.

Dalla presentazione editoriale.

«Bolzano, sabato 5 agosto 1944: circa 300 persone impaurite salgono su quello che Italo Tibaldi chiama “trasporto 73”, un convoglio con destinazione Mauthausen. Franco Meroni parte da questo tragico momento storico per condurre la sua ricerca, che trasforma in memoria collettiva le singole testimonianze dirette (tratte da libri, diari, interviste, lettere) e indirette delle vicende personali dei deportati saliti sul treno.Nel volume sono raccolte le biografie degli internati, delle lavoratrici e lavoratori coatti e dei sacerdoti. Grazie al contributo fornito da alcuni familiari e alla consultazione dei fogli matricolari, queste pagine consentono di preservare la memoria anche dei volti meno noti nella bibliografia concentrazionaria, offrendo un’analisi scrupolosa e completa della composizione del “convoglio”».

A Franco Meroni ho rivolto alcune domande.

Com’è nato questo libro ?

A Milano in Via Ponte Seveso al numero 19, alla destra del portone d’ingresso, c’è una lapide sulla quale si legge: “In questa casa Carlo Ferretti pioniere della libertà visse lottando. Morì in terra tedesca rivive nel cuore degli italiani. Milano 1900 – Mauthausen 1945”. Dalla lettura di quella lapide è iniziata la ricostruzione, attraverso fonti indirette, della storia del convoglio partito sabato 5 agosto 1944 da Bolzano per Mauthausen.

Nello scrivere qual è stata la cosa che ha ritenuto da fare assolutamente per prima e quale assolutamente per prima da evitare?

Riportare i fatti per come sono accaduti e come mi sono stati raccontati.

Quali atti e quali luoghi provano le responsabilità del fascismo nella deportazione degli ebrei italiani?

Direi il Manifesto della Razza, luglio 1938, le successive leggi antiebraiche, le carceri e i campi dell'alta Italia.

Quale vita hanno vissuto coloro tornati alla vita dopo le durissime esperienze vissute?

Provati in vario modo nel fisico e nella psiche.

* Piero Gobetti: "La storia è sempre più complessa dei programmi".
“La Rivoluzione liberale”, 1924.

* Alain: "La storia è un grande presente, e mai solamente un passato".
“Le avventure del cuore”, 1945

* Elias Canetti: "Imparare dalla storia che da essa non c'è niente da imparare".
“La tortura delle mosche”, 1992.

E per Franco Meroni la storia cos’è
?

Non mi piacciono le "frasi famose" comunque direi che è l'insieme dei fatti accaduti fino ad un attimo fa.

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Franco Meroni
Il convoglio
Pagine 390, Euro 24.00
Con foto in b/n
Mimesis


Urban Roots


Wunderkammer.
Dal Dizionario: “Espressione appartenente alla lingua tedesca, usata per indicare particolari ambienti in cui, dal ‘500 al ‘700, i collezionisti erano soliti conservare raccolte di oggetti straordinari per le loro caratteristiche intrinseche ed estrinseche. Con questo termine oltre ai luoghi adibiti alla custodia di dette collezioni si indicano spesso per metonimia proprio quelle collezioni”.

E Wunderkammer è il
nome di una Galleria romana (ne esiste anche una sede milanese in Via Nerino 2); se siete in città perché vi abitate o perché siete di passaggio vi consiglio di visitare.
Mi ringrazierete.
Dal 15 marzo ospita una mostra intitolata Urban Roots.

Dal testo di Giuseppe Pizzuto che così presenta l’esposizione: «Questo percorso espositivo vuole essere un viaggio senza bussola all’interno della Street Art. Se, come suggerisce Wim Wenders, “l’America ci ha colonizzato l’inconscio”, l’hip hop ci ha colonizzato l’immaginario visivo delle città. Ognuno di noi associa qualcosa a graffiti e tag, poster e stencil, murales e sculture urbane. È sorprendente vedere quante cose vengano mixate insieme quando si prova a parlare e a ragionare sulla Street Art. Vengono in gioco i concetti di vandalismo, legalità, pubblicità, riqualificazione, arte, muralismo, marketing, comunicazione, urbanismo.. E tutto solo per degli strani segni che, a partire da un certo momento in avanti, hanno iniziato ad apparire in maniera sempre più potente e prepotente sui muri delle nostre città. Siamo ancora molto lontani dall’aver trovato una sintesi. L’unica cosa che oggi non possiamo fare è ignorare tutto ciò».

QUI un’intervista rilasciata a Nicola Gerundino.

Artisti in mostra: D*Face, JonOne, Shepard Fairey, 2501, Sten Lex, Tellas, Blek le Rat... quest'ultimo così ha scelto di chiamarsi perché Rat è anagramma di Art.

Urban Roots
Wunderkanner
Roma, via Giulia 180
Info: 06 70475247
wunderkammern@wunderkammern.net
Da martedì a sabato, 10-14, 15-19
Fino al 15 aprile 2023


Intelligenza Artificiale

Giorni fa ho recensito (QUI) un libro magnifico edito dalla casa editrice il Mulino.
È intitolato La scorciatoia Come le macchine sono diventate intelligenti senza pensare in modo umano.
Ne è autore Nello Cristianini.
Professore di Intelligenza Artificiale, all’Università di Bath, nel Regno Unito.
La sua ricerca copre la teoria statistica dell’apprendimento nelle macchine, la comprensione del linguaggio naturale, l’analisi dei contenuti dei social media, l’impatto etico e sociale delle tecnologie intelligenti.

Ora ho colto sul web un’intervista video con lui: CLIC.
Merita assolutamente i minuti che spenderete per vedere e ascoltare.
Così come merita la lettura del libro.


GAS: Giornata Anti Superstizione

- Bertrand Russell: “Mi oppongo a tutta la superstizione, sia musulmana, cristiana, ebraica o buddista”.

Il CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) oggi, venerdì 17 (non poteva esserci data più adatta) ricorda la GAS (Giornata Anti Superstizione)
CLIC per saperne di più.

- Groucho Marx: “Un gatto nero che ti attraversa la strada significa che l'animale sta andando da qualche parte”.


Solo i folli cambieranno il mondo

Non amo Chesterton, ma quel mezzo prete una cosa giusta l’ha detta: “Il pazzo è uno che ha perso tutto tranne la ragione”.
Eppure, c’è stato un tempo in cui un mezzo per far perdere la ragione c’era, ed era proprio il manicomio. Perché molti ricoverati la ragione la perdevano proprio lì.
Non deve sorprendere, quindi, se quell’istituzione sia stata una macchina repressiva prediletta dai regimi totalitari.
Ne hanno fatto uso i comunisti nell’Urss, in Cina, ma casi recenti in quei paesi (ad esempio, Natalya Kuznetsova in Russia o la testimonianza dello psichiatra cinese Ma Jinchun) dimostrano che quelle pratiche non sono state abbandonate del tutto.
Ne fecero uso, ovviamente anche i nazisti. E il fascismo.
La cosiddetta politica psichiatrica delle dittature non si esercita soltanto verso una parte dei dissidenti, ma anche su chi manifesta comportamenti che sono assolutamente contrari ai modelli sociali voluti e imposti dall’autoritarismo dei governanti.
La violenza si scatena cominciando dai più deboli, da quelli che sono personaggi poco noti, e tra questi potevano mai mancare le donne? Certamente no (si pensi a quanto delittuosamente fece lo stesso Mussolini con Ida Dalser). Durante il fascismo ogni comportamento femminile più libero (a cominciare da quello sessuale) era visto come una possibile occasione d’internamento che, talvolta, visti i costumi imperanti, era condiviso perfino dai parenti più prossimi delle vittime.
A farla corta, come molti sostengono, ed io fra questi, non deve sorprendere troppo se i sani stanno spesso in manicomio e i pazzi fuori da quelle mura. Un caso citato nel libro che sto per presentare è indicato nei No Vax ospitati perfino in tv.
Ma qual è quella chiamata “normalità”?
Ha risposto bene Basaglia: “Da vicino nessuno è normale”.

La casa editrice il Mulino ha pubblicato un saggio che sui meccanismi cerebrali, su malattia mentale e creatività, sui folli o presunti tali, contiene pagine tanto scorrevoli quanto profonde, titolo: Solo i folli cambieranno il mondo Arte e pazzia.
Ne è autore un grande uomo di scienza: Lamberto Maffei.
Già presidente dell’Accademia nazionale dei Lincei, è professore emerito di Neurobiologia alla Scuola Normale di Pisa.
Con il Mulino ha pubblicato: «La libertà di essere diversi» (2011), «Elogio della lentezza» (2014), «Elogio della ribellione» (2016) ed «Elogio della parola» (2018).

Il sito Letture.org presenta su ‘Solo i folli cambieranno il mondo’ uno scritto di Maffei sul volume. Ecco alcuni passaggi: “C’è un’ampia letteratura un po’ vaga ma affascinante, sui rapporti che possono intercorrere tra la follia e la creatività. La parola follia, in questi contesti non è riferita, in senso medico, a una diagnosi di grave malattia mentale, ma piuttosto a manifestazioni transitorie che si possono avvicinare a certe malattie neurologiche o psichiatriche. Questo avvicinamento, con sfumature di grado diverso, è vero per ognuno di noi: è «la psicopatologia della vita quotidiana» ma anche voli inaspettati in mondi inesplorati (…) La follia ha il significato di indicare persone diverse che hanno perso il comune buon senso, che Picasso aveva detto essere il limite alla creatività. Le persone che escono dal gregge delle pecore della globalizzazione del pensiero si potrebbero definire folli; si dice che gli artisti e anche gli scienziati siano tutti un po’ folli, perché hanno pensieri e vite diverse e non si curano delle consuetudini. […] Il primo psichiatra a interessarsi scientificamente del rapporto malattia mentale-creatività è stato Hans Prinzhorn (1886-1933), persona di poliedrica cultura e profondo conoscitore della storia dell’arte, il quale, dopo la laurea in medicina presso la clinica di Heidelberg, fece accurate osservazioni statistiche in proposito. Il suo nome era e resta ben noto, i suoi dati sono ancora citati tra i più validi sull’argomento. […] Nel 1921 il professor Prinzhorn comunicò i suoi risultati a Vienna nel corso di una conferenza che riscosse grande successo; ad ascoltarlo erano presenti medici e scienziati e tra gli altri anche Sigmund Freud. Prinzhorn è il fondatore della psicopatologia, le cui dinamiche sono spesso alla base di molta arte e in particolare dell’arte moderna. […] Franco Basaglia scriverà una frase sulla follia che la restituisce alla fisiologia del sistema nervoso: «La follia è una condizione umana. In noi esiste ed è presente come lo è la ragione».
Gli studiosi del cervello, come sono io stesso, sottoscrivono questa conclusione, anche alla luce delle più recenti ricerche scientifiche”.

Tanti gli artisti citati nel libro: Alda Merini, Munch, Ligabue, Corbaz, Ensor, Van Gogh Klee, Kokoschka, Schiele, Magritte, e anche letterati come, ad esempio, Joyce. Ma qual è per Maffei il più geniale dei folli? Non ha dubbi: è Mozart.

Dalla presentazione editoriale.

«Albert Einstein diceva che «solo coloro che sono abbastanza folli da poter pensare di cambiare il mondo lo cambiano davvero». La follia non è irrazionalità, la follia può essere considerata una forma di pensiero eccentrico, capace di nuove interpretazioni, nuovi modi di vedere e nuovi modi di cogliere il mondo. In questo volume, Lamberto Maffei ci accompagna nel mondo dell’arte e del cervello. Attraverso il racconto di artisti folli, ci mostra come la creatività può salvare il mondo fornendo un punto di vista diverso, ma al tempo stesso vero e diretto. In un tempo ricco di incertezze e retto dalla pressione all’omologazione delle nuove tecnologie, l’autore ci fornisce un quadro della nostra natura umana inedito, nuovo e autentico, dove non si nascondono fragilità, bellezza e paure dell’infinito e della fine, temi esistenziali propri dell’essere persone consapevoli»

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Lamberto Maffei
Solo i folli cambieranno il mondo
Pagine 126, Euro 14.00
Il Mulino


Quel pomeriggio di un giorno da Tuono

L’Accademia di Belle Arti di Bologna dedica un intero pomeriggio a Tuono Pettinato, grande fumettista e illustratore (Pisa, 1976-2021), per molti anni docente di Fumetto Umoristico; e lancia in collaborazione con Coconino Press Fandango la prima edizione della borsa di studio promossa dalla Fondazione a lui dedicata, nata su decisione dei genitori di Andrea per la tutela e la divulgazione della sua opera.

Per Tuono Pettinato pseudonimo di Andrea Paggiaro tanti i messaggi che giunsero nel tristissimo giorno della sua scomparsa, ne cito uno per tutti: quello di Natangelo su Twitter “Ci incrociavamo su mille pubblicazioni e lo leggevo sempre con piacere. Ed è strano pensare che non lo leggerò più e che sia andato via così presto. Per lui, e per tutti quelli che come me lo leggevano”.
Figura tanto centrale quanto laterale nella produzione del fumetto contemporaneo, Tuono Pettinato è stato capace, con eleganza e leggerezza, di attraversare il mondo dell’autoproduzione e quella dell’editoria mainstream, una dimensione pop e di ricerca, uno sguardo ironico ma anche lucido e a volte spietato nel leggere il nostro presente e i suoi paradossi ma anche la storia passata e recente con alcuni personaggi diventati iconici.

Dal comunicato stampa

«“Quel pomeriggio di un giorno da Tuono” è costituito da una serie di interventi, che vedranno la partecipazione di numerosi colleghi, amici ed estimatori, tra cui Cristina Francucci, (Direttrice Accademia di Belle Arti di Bologna), Emilio Varrà (docente Accademia di Belle Arti di Bologna), Lia Remorini (madre di Tuono Pettinato e Presidente della Fondazione a lui dedicata) e Guido Siliotto (avvocato, giornalista e membro del consiglio della Fondazione Tuono Pettinato), Maria Francesca Pepi (Coordinatrice Rete Bibliolandia), Alessio Trabacchini (critico, editor e curatore), Silvana Ghersetti (GRRRŽETIC Edizioni), Elettra Stamboulis, (dirigente del Liceo artistico e musicale Canova e curatrice), Virginia Tonfoni (giornalista e ricercatrice indipendente), Ratigher (Coconino Press Fandango), i fumettisti Maicol&Mirco e Lorenzo Ceccotti (LRNZ), Gianluca Costantini (fumettista e docente Accademia di Belle Arti di Bologna).

L’evento sarà anche l’occasione per lanciare, a quasi due anni dalla scomparsa di Tuono Pettinato, il bando per la prima borsa di studio istituita dalla Fondazione Tuono Pettinato, in collaborazione con l’Accademia e Coconino Press Fandango, a favore di ex-allievi e allieve dell’Accademia di Belle Arti di Bologna con l’intento di favorire una produzione di volumi a fumetti capaci di farsi portatori di uno sguardo interpretativo del presente. Questa prima edizione metterà in palio una borsa di studio di 2.000 euro offerta dalla Fondazione Tuono Pettinato e una pubblicazione del lavoro selezionato da parte di Coconino Press Fandango».
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Ufficio stampa: Irene Guzman | mail: irenegzm@gmail.com | Tel. +39 349 1250956
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Quel pomeriggio di un giorno da Tuono
Accademia di Belle Arti di Bologna
Via delle Belle Arti 54, Bologna
16 marzo, dalle ore 14.00


Elogio di sé stesso


Diceva Gesualdo Bufalino: “Quanto male è nato dal pregiudizio che il biasimo sia intelligente e l'elogio stupido”.
Se non fossi ateo, io direi: parole sante!
Si pensi all’elogio dantesco di S. Francesco nel canto XI del Paradiso, all’Elogio della Follia di Erasmo, all’Elogio degli Uccelli nelle Operette morali di Leopardi, e i tanti elogi, spesso anonimi, alla modestia, all’eroismo, alla maternità, e, perfino, alla povertà, alla miseria, alla morte… ma in quest’ultimo caso francamente mi pare che si esageri.
Né mancano ai nostri giorni (escludendo quelli fatti per servilismo su qualche foglio) altri nobili scritti: Elogio della lettura di Vargas Llosa, Elogio della letteratura di Zygmunt Bauman, Elogio dell’imperfezione di Rita Levi Montalcini, Elogio della penna stilografica di Giuseppe Neri, Elogio della Disarmonia di Gillo Dorfles… e come non ricordare Umberto Eco che elogia Il riso di Franti considerato malvagità solo perché per l’Enrico deamicisiano il Bene sta solo nell’ossequiente ordine di cui si nutre.

La casa editrice EdizioniSabinae ha pubblicato un librino che nel titolo un elogio contiene, elogio, come vedremo, un po’ particolare: Elogio di sé stesso.
Ne è autore Raffaele Aragona. Nato a Napoli, ingegnere, ha insegnato Tecnica delle Costruzioni all’Università “Federico II” di Napoli. Giornalista pubblicista, è tra i fondatori dell’Oplepo (Opificio di Letteratura Potenziale). Autore di “Una voce poco fa. Repertorio di vocaboli omonimi della lingua italiana” (Zanichelli, 1994); ha curato diversi volumi per le Edizioni Scientifiche Italiane e per Manni (2008) il volume “Italo Calvino. Percorsi potenziali”.
Con le edizioni ‘in riga’: “Enigmi e dintorni” e “Sapori della mente” (2019).
“Oplepiana. Dizionario di letteratura potenziale” (Zanichelli) è del 2002.

Quel titolo, “Elogio di sé stesso”, può sembrare un po’ sfacciato, ma è uno di quei giochi di giocosa ambiguità praticato da Aragona. Difatti, le pagine sono destinate, attraverso testimonianze e citazioni, (da Amerindo Camilli a Fausto Raso, da Aldo Gabrielli a Bruno Migliorini, da Luca Serianni a Giuseppe Antonelli) ad illustrare un quesito solo apparentemente poco significativo: è bene (se non moralmente, almeno per correttezza di scrittura) porre l’accento sul “sé” o “se” e/o sul “sé stesso” quando i casi del testo richiedono, o forse, ne supplicano, l’uso giusto.
Aragona procede con grazia settecentesca nell’esporre la questione attraversando ragioni ed esemplificazioni terminando il lavoro con un’Appendice che riporta plurali casi di grandi autori e dell’uso che hanno fatto di quell’accento che imbarazza non poche penne.
Poiché non faccio “spoiler” non dirò qui a quali conclusioni l’autore perviene, le librerie stanno lì apposta per comprare quel libro colto e gustoso.

Dalla presentazione editoriale.
«Tra il serio e il faceto un dilemma linguistico viene esposto, non soltanto attraverso percorsi logici, attenzione a regole grammaticali specifiche, riferimenti ad autori classici e all’opinione di specialisti, ma anche mediante divagazioni, forse surreali e deliranti, che alleggeriscono il libello discostandolo da quello che potrebbe apparire un pamphlet pienamente studiato e dal carattere scientifico. Ne è prova lo stesso titolo scelto, che assicura circa il tono dello scritto; uno scritto almeno apparentemente, scherzoso, quasi da essere considerato un divertissement, ma che aspira comunque a essere letto, considerato e ci si augura accettato nelle sue conclusioni».

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Raffaele Aragona
Elogio di sé stesso
Pagine 64, Euro 8.00
EdizioniSabinae


La scorciatoia

Intelligenza Artificiale: un argomento di grande attualità non solo scientifica ma anche sociale, economica, politica.
Che cosa dice al proposito quel grande libro che è il Dizionario?
Ecco: L’intelligenza artificiale (in sigla IAI) è una disciplina che studia se e in quale modo si possano realizzare sistemi informatici intelligenti in grado di simulare la capacità e il comportamento del pensiero umano.
Pur essendo tecnologia dei nostri giorni, l’Intelligenza Artificiale non è cosa nata in tempi recentissimi, come alcuni immaginano. Senza risalire, come pure è legittimo fare, a precedenti che si ravvisano perfino in sistemi filosofici e matematici di secoli lontani, per trovarne tracce contemporanee dobbiamo fare un salto all’indietro sul calendario e arrivare al 1955. Precisamente al 31 agosto di quell’anno quando Marvin Minsky e John McCarthy coniarono il termine “Intelligenza Artificiale” e annunciarono un convegno a Dartmouth che segnò un radicale mutamento nel rapporto tra l’uomo e le macchine.
Di fronte a tutte le novità tecnologiche è da sempre fatale che si formino due schieramenti composti da sostenitori e detrattori.
Finora il mondo è andato avanti vedendo vittoriosi i primi e sconfitti i secondi.
Ovviamente il progresso ha comportato anche degli inconvenienti, un filosofo qual è Paul Virilio si è particolarmente soffermato ai nostri giorni su quest’aspetto di non poco momento.
Diverso ragionamento si trova tra le file dei postumanisti, propugnano una tecnofilosofia che in un lontano (o lontanissimo) futuro – ammesso che a quel futuro si giunga – vedrebbe addirittura l’esistenza di una vita postbiologica.
Fra posizioni opposte, si fa strada anche il pensiero di quanti affermano che siamo giunti in un momento storico in cui le novità delle tecnologie (prima fra tutte l’AI) potrebbero non essere più gestibili da noi umani. Non si tratta di fantascienza, di robot che si ribellano, e altri terrori da schermo cinematografico o pagine letterarie, ma dell’approdo a possibilità prima assolutamente inconcepibili con cambiamenti sociali oggi imprevedibili.
A questo proposito, se ne volete sapere di più date uno sguardo a quanto combina Ray Kurzweil fondatore della Singularity University

Un grande contributo alla conoscenza dell’AI viene da una pubblicazione intitolata La scorciatoia Come le macchine sono diventate intelligenti senza pensare in modo umano edita dalla casa editrice il Mulino.
Ne è autore Nello Cristianini.
Professore di Intelligenza artificiale, all’Università di Bath, nel Regno Unito. La sua ricerca copre la teoria statistica dell’apprendimento nelle macchine, la comprensione del linguaggio naturale, l’analisi dei contenuti dei social media, e l’impatto etico e sociale delle tecnologie intelligenti.
Rispondendo a domande di Gabriele Beccaria, Cristianini dice: “L’intelligenza non è una qualità esclusiva degli esseri umani, non dipende dalla logica o dal linguaggio o dalla coscienza. C’era vita intelligente su questo pianeta molto prima che apparisse il primo uomo. Infatti, non richiede nemmeno un cervello, anche se questo aiuta. L’intelligenza è la capacità di perseguire un dato obiettivo in un ambiente nuovo e sconosciuto, l’abilità di decidere cosa fare quando non sappiamo che cosa fare. Ci possono essere molti modi diversi per farlo: imparando dall’esperienza, ragionando, pianificando, oppure, in certi casi, anche solamente mediante dei riflessi innati.
Siccome non c'è un solo modo di essere intelligenti, non è possibile essere superati da una macchina in generale. Ma è chiaro che una macchina può essere più intelligente di noi in certi àmbiti: abbiamo creato degli algoritmi che sono stati in grado di ottenere prestazioni ‘sovrumane’.
Quanto ai rischi, non conosciamo ancora quali rischi dell’esposizione a lungo termine ad agenti che raccomandano contenuti: c’è chi parla di dipendenza, o assuefazione, chi parla di malessere emotivo nei giovani, o di polarizzazione. La verità è che non abbiamo ancora dei dati chiari e definitivi e c'è molta ricerca ancora in corso. Dobbiamo comprendere il tipo di intelligenza con cui ci confrontiamo e la scorciatoia che l’ha creata. Dobbiamo comprendere la scorciatoia statistica che li ha creati e le sue conseguenze. E soprattutto ci servono delle leggi chiare, che insistano sulla necessità di ispezionare, o verificare, in modo da controllare quali ‘convinzioni’ la macchina ha formato durante la fase di addestramento. Questo è tecnicamente difficile al momento. Una collaborazione tra scienze umane, sociali e naturali è quindi inevitabile per questo obiettivo”.

Dalla presentazione editoriale del libro “La scorciatoia”.

«Vagliano curricula, concedono mutui, scelgono le notizie che leggiamo, le intelligenze artificiali sono entrate nelle nostre vite, ma non sono come ce le aspettavamo. Fanno molte delle cose che volevamo, e anche qualcuna in più, ma non possiamo capirle o ragionare con loro, perché il loro comportamento è in realtà guidato da relazioni statistiche ricavate da quantità sovrumane di dati. Eppure, possono essere in certi casi più potenti di noi: ci osservano continuamente e prendono decisioni al nostro posto. E allora come incorporarle nella nostra società senza rischi ed effetti collaterali?
Questo libro ci spiega come siamo arrivati fin qui. E indica il percorso che ci aspetta prima di poterci fidare di questi nuovi agenti “alieni”. La tecnologia non basta, occorre un dialogo tra le scienze naturali e quelle umane: è il passaggio cruciale per una convivenza sicura con questa nuova forma di intelligenza».

Ancora una cosa. Dove si studia in Italia l’AI?
Risposta: Il nuovo Corso di Laurea in Intelligenza Artificiale è un progetto internazionale e inter-universitario delle Università di Milano-Bicocca, Milano Statale e Pavia. Erogato interamente in inglese, il programma avrà la sua sede amministrativa a Pavia, ma le lezioni si terranno in tutti e tre i campus.

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Nello Cristianini
La scorciatoia
Pagine 216, Euro 16.00
Il Mulino


Invecchiare come problema per artisti

Sulla vecchiaia ne sono state dette tante. Pescando a caso.

“Alcuni invecchiano. Altri maturano”
(James Bond, Agente 007)

“Puoi vedere la vera bellezza di una persona soltanto quando invecchia.”
(Anouk Aimé)

“La vecchiaia, in definitiva, non è che la punizione toccataci per essere vissuti".
(Emil Cioran)

“La vecchiaia non è una battaglia, la vecchiaia è un massacro”.
(Philip Roth)

La casa editrice Adelphi ha pubblicato nella collana Microgrammi un breve testo del poeta tedesco Gottfried Benn, 1886 – 1956, (sue note biografiche QUI), dal titolo: Invecchiare come problema per artisti.

Benn meriterebbe più spazio di quanto occupa nella storia letteraria, e non solo tedesca, ma non gli ha giovato il fatto di avere provato sia pure per un breve periodo simpatia verso il nazionalsocialismo. Dapprima, nel 1933, fu chiamato dai gerarchi nazisti a dirigere la sezione di poesia dell'Accademia di Prussia, dai quali erano stati espulsi o si erano volontariamente allontanati poeti e intellettuali ostili al nuovo regime. La vicinanza fra Benn e quei gerarchi però poco durò. I nazisti, primo fra tutti Goebbels, accortosi sulle sue spiccate affinità poetiche col movimento espressionista allora definita «arte degenerata» lo sostituirono con Hans Friedrich Blunck alla direzione dell'Accademia e Benn prese ulteriori distanze dal nazismo, per sempre.

“Invecchiare come problema per artisti”, è tratto da una conferenza di Benn del 1954. Quasi settant’anni fa, che cosa può insegnarci oggi, nell’epoca degli Instagram show e degli Nft, un libretto di 60 pagine che arriva da così lontano? Si chiede Gabriele Sassone così dicendosi: “Benn, evita di dare risposte nitide. Anzi, sfuma il tema della vecchiaia con quelli dell’insicurezza, del rinnovarsi e del ripetersi, della conoscenza di sé, concludendo che «alla fine della vita si aprono allo spirito rassegnato pensieri fino allora impensabili, sono come demoni beati che si posano splendenti sulle cime del passato» (…) invecchiare è un problema per gli artisti dal momento che non è determinato da una questione organica, come il decadimento fisico, o da una questione aritmetica come l’età. Si può essere vecchi già a trent’anni, tipo Pollock, che si trova imprigionato in una tecnica e in ruolo che interpreta stancamente; oppure si può essere come Michelangelo, che alla soglia dei novant’anni realizza qualcosa di magico, di inspiegabile persino oggi: “La pietà Rondanini”, lavorata fino a tre giorni prima della morte, avvenuta il 18 febbraio del 1564. Benn ne parla quando paragona la vecchiaia a una resa dei conti, a uno spietato confronto fra sé e ciò che si è combinato nella vita”.

Dal risvolto.

«Stile tardo», «ultimo stile», sono formule correnti con cui si usa riferirsi alle opere della vecchiaia di uno scrittore, o più in generale di un artista. Ma quando comincia davvero questa fase? Esistono criteri per definirla? Le «sere della vita» sembrano ritrarsi e ingannare lo sguardo di chi vuole importunarle. Per Benn sono solo un’occasione per divagazioni... ».

Per leggere le prime pagine: CLICCLIC.

Concludo questa nota con una storiella zen.
Sul tetto della capanna dove il maestro Fa Chang, ormai molto vecchio, stava per morire uno scoiattolo squittì
“E’ questo! – disse Fa Chang rialzandosi di scatto dalla stuoia dov’era disteso – “Questo, proprio questo! E nient’altro!!

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Gottfried Benn
Invecchiare come problema per artisti
Traduzione di Luciano Zagari
Pagine 61, Euro 5.00
Adelphi


8 Marzo


Oggi, in occasione della “Giornata Internazionale della donna”, ripropongo un testo edito da Longanesi di cui già mi occupai in queste pagine web con un’intervista all’autrice Mirella Serri.
Si tratta di Mussolini ha fatto tanto per le donne! La radice fascista del maschilismo italiano.
Un libro eccellente anche perché va all’origine di molti guai della società italiana dei nostri giorni.

CLIC per leggere.


La moda giusta


In un testo di anni fa (“Vestirsi spogliarsi travestirsi”) Ernesta Cerulli scriveva: “Il messaggio dell’abbigliamento, pur nelle sue infinite varianti, è uno strumento di comunicazione leggibile e al tempo stesso ermetico; protettivo ed elusivo; identificante e ingannevole; estremamente mutevole ma culturalmente determinato. Insomma, la moda, è una radiografia sociale d’individui e società, riflette l’esistenziale, è segno politico”.
Più recentemente Patrizia Calefato in “La moda oltre la moda” ha scritto: “Nella moda si è fatta strada una rinnovata cultura della moda, che trova il suo humus soprattutto nelle pratiche sociali quotidiane che hanno al loro centro il corpo e i suoi modi di apparire e di comunicare. Il cinema e la fotografia, prima, ma poi anche la musica, le neotecnologie, gli spazi urbani, l’arte, il web, alimentano questa costellazione di segni tutti riconducibili in forme diverse a quanto chiamiamo ‘moda’, che sono però ben oltre la moda stessa”.

In una società basata sull’immagine come la nostra, la moda è un linguaggio assai rilevante. Ciò che indossiamo serve a integrarci e a differenziarci. L’atto di vestirsi mette in gioco riti, sensibilità, ruoli, aspirazioni. Ci può dare forza e coraggio. Nel nostro aspetto non c’è quasi nulla di razionale, tutto è emotivo. “Moda sostenibile” può sembrare un ossimoro, ma se mi è concessa l’espressione un po’ naif, esiste una moda buona che aiuta a far capire chi siamo senza far del male a nessuno.
Così si legge nell’Introduzione a un brillante saggio pubblicato dalla casa editrice Einaudi Intitolato La moda giusta Un invito a vestire in modo etico.
L’autrice è Marta D. Riezu.
Giornalista specializzata in comunicazione della moda, vive a Barcellona.
Ha scritto per «El País», «El Mundo», «La Vanguardia», «Marie Claire», «Purple», «Apartamento», «Vogue» e «Vanity Fair».
Ha pubblicato, inoltre, Agua y jabón (Terranova 2021).

“Una moda buona”… “senza far del male a nessuno”, già perché nell’indossare abiti, guanti, scarpe, si pensa raramente a quanti quelle stoffe o cuoi abbiano lavorato, spesso praticamente in schiavitù, esseri, anche in giovanissima età.
All’industria della moda servono i tanti con poca voce e ancor meno diritti. E oltre agli umani servono gli animali. Chi più di loro sono muti e obbedienti. Tempo fa in tv passava una indovinatissima pubblicità che mostrava modelle le quali avvolte in pellicce volteggiavano in passerella e ad ogni giravolta da quelle pellicce venivano via strisce di sangue, quel sangue costato a tanti animali uccisi per fornire quei vestimenti.
Inoltre, come ricorda Marta Riezu, il nostro comprare convulsivo produce: l’inutile affollamento degli armadi con la conseguenza che molti capi d’abbigliamento finiscono nei contenitori dei rifiuti rarefacendosi – come le statistiche dimostrano – l’abitudine di donare a reti di solidarietà quanto dismesso.
Conclusione: Imparare a comprare di meno, a interrogarci su quanto realmente ci serve, scegliere meglio.
Eccellenti gli apparati del libro con pagine dedicate a un “Glossario delle parole sospette” nonché a bibliografia, filmografia, sitografia.

Dalla presentazione editoriale

«Il titolo “La moda giusta” ha un doppio significato. Il primo si riferisce ad avere nel proprio armadio il numero giusto di vestiti, quello necessario, essenziale. Per sfuggire alla voracità dell’acquisto. Il secondo significato riguarda il modo in cui scegliamo ciò che è prodotto, avendo sempre cura di verificare che provenga da un contesto corretto. Dal momento che un abito è qualcosa di inanimato, dobbiamo essere noi a caricarlo di coscienza attraverso l’impegno a sapere meglio chi c’è dietro la produzione di quel vestito. Perché questa scelta ha delle conseguenze. Ogni nostro abito è uno strumento di comunicazione. Mostra agli altri chi siamo e a noi stessi chi vorremmo essere. Queste pagine propongono strade alternative lungo il cammino sconsiderato del consumo. L’obiettivo è quello di comprendere il sistema dall’interno: acquistare molto meno, scegliere meglio».

…………………………………………

Maria D. Riezu
La moda giusta
Traduzione di Andrea De Benedetti
Pagine 112, Euro 12.00
Ebook Euro 4.99
Einaudi



Brutti, furiosi e bestiali (1)

La casa editrice Carocci ha pubblicato un saggio che studia in modo particolare – e, mi pare, inedito finora – le caricature del mondo fascista non secondo le immagini, ma attraverso le parole, attraverso testi letterari.
Titolo: Brutti, furiosi e bestiali Le caricature letterarie nell'Italia fascista
Ne è autore Paolo Gervasi
Formatosi alla Scuola Normale Superiore di Pisa e all’Università di Pisa, è stato ricercatore in Letteratura italiana alla Scuola Normale, alla Queen Mary University di Londra e all’Università degli Studi dell’Aquila. Ha pubblicato: La forma dell’eresia (Edizioni ETS, 2012), Vita contro letteratura (Luca Sossella Editore, 2018), La voce di Dante (con Alberto Casadei; Luca Sossella Editore, 2021). Lavora come copywriter e content designer.

Dalla presentazione editoriale

«Idealmente questo libro andrebbe guardato come una galleria di ritratti, un repertorio di facce, smorfie, corpi, gesti che, visti in sequenza, compongono una paradossale e caricaturale «autobiografi a della nazione», come Piero Gobetti definiva il fascismo. Solo che qui non ci sono immagini: le caricature sono fatte di parole, e provengono da romanzi, pamphlet, diari, testi satirici. Da Gadda a Palazzeschi, da Longanesi a Morante, e poi Bassani, Brancati, D’Arrigo, Flaiano, Landolfi, Malaparte, Masino, Moravia, Parise, Soldati e altri: quando rappresenta il fascismo, la letteratura affida alla deformazione fisica un messaggio di sofferenza e disagio. Sfigurando l’immagine umana, la scrittura dà voce a un’alterazione emotiva e psichica che è una embrionale – spesso irrazionale e pre-politica – forma di resistenza. La caricatura registra le emozioni di un’epoca storica e denuncia il tentativo del regime di imbrigliare prima di tutto i corpi. Facendone affiorare ovunque di ridicoli e sgangherati, le caricature verbali rovesciano la dittatura emotiva e “biologica” del fascismo, per rivelare che dietro l’iconografia trionfale e idealizzante non si nasconde altro che una generalizzata “grande bruttezza”, leggibile nei volti e nei gesti scomposti degli uomini e delle donne».

Segue un incontro con Paolo Gervasi.


Brutti, furiosi e bestiali (2)

A Paolo Gervasi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Qual è la storia di questo libro?

Il libro nasce da una ricerca che ho svolto tra il 2017 e il 2019 alla Queen Mary University di Londra, finanziata dallo European Research Council. Questa almeno è l’occasione accademica che l’ha generato. Dal punto di vista delle traiettorie culturali, è un libro che nasce all’incrocio tra tre diversi percorsi di ricerca: i rapporti tra testi e immagini, che ho studiato alla Scuola Normale nel gruppo di ricerca coordinato da Lina Bolzoni; l’interesse per lo studio delle interazioni tra il cervello umano e i fenomeni artistici, frutto dell'insegnamento e della collaborazione con il professor Alberto Casadei; la mia esperienza di ricerca sulla letteratura del Novecento.
A un certo punto la caricatura verbale mi è sembrata un campo di risonanza di tutti questi interessi: nelle descrizioni dei corpi c’erano le parole e c’erano le immagini, c’era il cervello e il suo modo di percepire le forme, e c’era la storia del Novecento.

… la principale ragione per scrivere “Brutti, furiosi e bestiali”?

Al di là dell’occasione accademica, la ragione profonda della ricerca viene dall’idea di poter “dimostrare” l’esistenza di un fenomeno che non era stato esplorato dalla critica: la caricatura letteraria. Ovvero un equivalente scritto della caricatura visiva, spesso ispirato dalla caricatura visiva, altre volte “in concorrenza” con le immagini, che poteva essere in qualche modo estratto dal testo e incorniciato all’interno di una specie di galleria. Col procedere della ricerca, poi, l’altro elemento di grande interesse mi sembrava mostrare l’esistenza di un legame tra questi ritratti e la rappresentazione delle emozioni umane. Volevo capire se, come dice il caricaturista GEC, davvero nelle caricature, nella deformazione dei corpi e dei volti, è registrata una specie di storia implicita, segreta, delle reazioni emotive che i contesti sociali e politici generano negli esseri umani.

Nell’accingersi a questo suo lavoro quale cosa ha deciso di fare assolutamente per prima e quale assolutamente per prima da evitare?

La cosa da fare assolutamente era esplorare più testi possibili, senza restare vincolati a un genere, a un autore o un’autrice, a un periodo specifico. Era una sfida rischiosa perché poteva portare all’esplosione del corpus, e in effetti non ci sono andato lontano… Ma volendo inseguire un fenomeno non ancora mappato, era necessario non limitarsi a cercarlo là dove più o meno era più probabile trovarlo. Ciò che di peggio può capitare a un ricercatore, dice Carlo Ginzburg, è trovare ciò che sta cercando. La cosa da evitare assolutamente, di conseguenza, era tentare di essere esaustivi. Voler coprire tutta la bibliografia primaria possibile, con relativa bibliografia secondaria. Era necessario ritagliare uno spazio, e fare in modo che quello spazio fosse una sineddoche, un campione significativo.

Esiste un connotato del fascismo che, satireggiato, ricorre più frequentemente fra autori pur tanto diversi nei testi da lei esaminati?

La risposta più facile sarebbe: l’immagine di Mussolini, la sua retorica, la sua gestualità, le caratteristiche del suo corpo. Questi elementi ritornano continuamente nelle caricature del fascismo, al punto che alcune forme e alcune situazioni, come il balcone, un uomo a cavallo, una testa pelata, possono diventare emblemi del fascismo anche laddove il fascismo e Mussolini non sono esplicitamente citati. Ma uno degli aspetti forse più interessanti della ricerca che ho fatto è quanto spesso e quanto in profondità la satira del fascismo si associa ad aspetti erotici, sessuali, di rapporto tra i generi e tra i corpi. Si potrebbe dire che, dal punto di vista della caricatura, il sesso è la metafora che più efficacemente descrive il tipo di alterazione innescata dal fascismo e impressa nei corpi e nelle menti degli uomini e delle donne.

Si legge nel suo libro: “… gli umani a contatto con i gesti del fascismo diventano ridicoli automi… “. Perché accade?

Perché il fascismo, come tutti i poteri totalitari, ambisce a imprimersi non solo nella mente delle persone, ma nei loro corpi. Quando il fascismo dice di voler creare “l’uomo nuovo”, intende proprio letteralmente di voler modificare non l’ideologia, non solo l’antropologia, ma la biologia degli italiani. Questa intenzione non può non generare reazioni, resistenze anche involontarie nei corpi delle persone: come scrivono sia Palazzeschi, sia Longanesi, i corpi degli italiani non sono fatti per camminare in quel modo, marciare in quel modo, essere perennemente “eretti”, assumere pose eroiche e statuarie. Non si può dire che non ci abbiano provato, ma il risultato è stato più comico che epico. Nel tentativo di imitare il corpo ideale, i corpi reali diventano ridicoli, inciampano, cadono, si tradiscono. Si può dire che la caricatura sia proprio lo scarto che c’è tra il corpo ideale e il corpo reale.

Qual è la differenza di segno che passa tra la caricatura in immagine e quella scritta?

La differenza è macroscopica, si tratta di due codici, due linguaggi diversi, che fanno anche riferimento a sistemi percettivi e cognitivi diversi. Io però ho lavorato più sulle sovrapposizioni, sulle analogie, sulle contiguità. E mi pare interessante notare che molto spesso le caricature visive hanno bisogno di parole, a volte anche di molte parole, per rafforzare i loro significati. L’interpretazione di un volto non è mai univoca e immediata: ha bisogno di essere orientata attraverso le parole. Accadeva così anche nei trattati di fisiognomica, dalle origini fino all’antropometria di Lombroso: per convincerci che quella è la tipica faccia di un criminale, non basta mostrare un’immagine, bisogna accompagnarla con delle parole che, in un certo senso, deformano l’immagine. La caricatura, in questo senso, contiene anche un monito che riguarda il significato sempre ambiguo, sempre duplice, delle immagini, che troppo spesso invece consideriamo oggettive. Al contrario, molto spesso sono le parole che le accompagnano, a farci vedere quello che le immagini mostrano.

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Paolo Gervasi
Brutti, furiosi e bestiali
Pagine 212, Euro 21.00
Carocci


Lost in Translation

Quante ne sono state dette sulle traduzioni! Dalle più incoraggianti alle più sconsolate.
Eccone due, scelte a caso fra grandi firme.

Jorge Luis Borges: Talvolta l’originale non è fedele alla traduzione.
Carlo Dossi: Le traduzioni delle opere letterarie, o sono fedeli e non possono essere se non cattive, oppure sono buone e non possono essere se non infedeli.

La casa editrice Adelphi nella collana Microgrammi ha pubblicato Lost in Translation di un grande traduttore:Ottavio Fatica.
Sue note biografiche QUI.
Il suo pensiero è così riportato in quarto di copertina: «Il traduttore ha come compito l’interpretazione dei segni, che sono anch’essi sogni, di quei sogni che imbastiscono parole, che le animano: che sono le parole».
E ancora nelle pagine paragona il traduttore a uno sherpa: «Pervenuti grazie a lui all’agognata vetta, si ferma, un passo indietro, e lascia allo straniero il dubbio privilegio di piantare la bandiera sulla vetta».
Il testo di Adelphi è strutturato in cinque parti che corrispondono a cinque trasmissioni commissionate a Ottavio Fatica dalla radio della Svizzera italiana.
Dopo quelle cinque parti, c’è una conclusione di grande grazia letteraria: uno straordinario, breve, densissimo saggio su Celine molto amato da Fatica. E da me con lui.

Lost in Translation è dedicato “con rabbia e gratitudine” alla gatta Calicò
In questo video un’intervista all’autore.
Per leggere le prime pagine CLIC.

………………………..

Ottavio Fatica
Lost in Translation
Pagine 61, Euro 5.00
Adelphi


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