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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Il profumo della letteratura


(Con questa nota Cosmotaxi sospende le pubblicazioni che riprenderanno giovedì 8 gennaio 2015)


Lo senti l'odore ?... napalm figliuolo, non c'è nient’altro al mondo che odori così… mi piace l’odore del napalm di mattina…”.
Il Colonnello Kilgor (Robert Duvall) al Capitano Willard (Martin Sheen).
Da “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola, 1979.

Per fortuna, non tutti sono come il Colonnello Kilgor.
Vi presento oggi un colto e delizioso libro sugli odori a cura di Daniela Ciani Forza e Simone Francescato: Il profumo della letteratura.
È in libreria edito da Skira e realizzato grazie al contributo dell’Università Ca’ Foscari e Cosmetica Italia.

Daniela Ciani Forza è professore associato di Lingua e letteratura anglo-americana all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha svolto studi e ricerche sulla poesia modernista e contemporanea, sulla retorica dei Puritani e sulle letterature diasporiche in inglese negli Stati Uniti. Fra le sue pubblicazioni più recenti sono i volumi: “America Periferica. Letteratura Cubano-Americana” (2003); “Quale America? Soglie e culture di un continente” (2007); “Sguardi Obliqui: Migrazioni tra identità americane” (2012).

Simone Francescato insegna Letteratura e Storia della cultura anglo-americana all’Università Ca’ Foscari. Si occupa soprattutto di letteratura statunitense tra ‘800 e ‘900. Fra le sue pubblicazioni, il volume “Collecting and Appreciating: Henry James and the Transformation of Aesthetics in the Age of Consumption” (2010) e l’edizione critica del romanzo “Rosalba: The Story of Her Development” di Grant Allen (2012).

I due curatori hanno chiamato a raccolta un folto, e qualificatissimo, gruppo di specialisti che hanno tracciato una mappa dei profumi nella, e della, letteratura sia occidentale sia orientale.
Tanti i loro nomi, ma doveroso citarli: Meena Alexander - Giorgio Amitrano - Elisabetta Bartuli - Giampiero Bellingeri - Francesca Bisutti - Magda Campanini - Caterina Carpinato - Vanessa Castagna - Diego Cembrola - Carmen Concilio - Massimiliano De Villa - Pietro Gibellini - Giuseppe Goisis - Alessandra Lavagnino - Paolo Mastandrea - Irene Nasi - Sergio Perosa - Donatella Possamai - Silvana Serafin - Giorgia Tommasi - Massimo Tria - Giuseppina Turano.

Lontani i tempi in cui il tronfio assessore collegiale Kovalev di Gogol, s’accorge una mattina, specchiandosi, di aver perso il naso, ora il naso pur con le sue evoluzioni tecnologiche (come, ad esempio quello elettronico) sembra destinato soprattutto agli studi di chirurghi estetici che, però, aspettano invano l’arrivo dei pur bisognosi Cyrano e Pinocchio. Nei meandri degli odori s’aggira sospettoso Ceronetti, impareggiabile annusatore notturno di miasmi, forse mèmore di ciò che afferma Émile Cioran: “L'uomo emana un odore particolare: fra tutti gli animali soltanto lui sa di cadavere”.
Importante e necessario, quindi, questo studio sui profumi.
La caratteristica principale delle pagine è bene illustrata dai curatori di quest’eccellente libro: Il volume indaga i rapporti fra scrittura e sensazioni olfattive, intendendo queste ultime come indici significanti delle culture del mondo e delle diverse sensibilità con cui ciascuna ne esprime le sfumature. Per stile, contenuto e approccio al tema, i saggi che lo compongono presentano il caleidoscopico quadro di un universo olfattivo-letterario che si estende dall’antichità alla cultura rinascimentale, dal simbolismo e dal decadentismo della fin de siècle a fenomeni letterari postmoderni di grande risonanza mediatica.

Ho aperto questa nota con una citazione cinematografica su opinabili odori, la chiudo con una citazione letteraria su sgradevoli certezze: “Macchiffastapuzza”, si chiede un certo Gabriel uno dei personaggi di Raymond Queneau.
La prima parola del libro, la lunga e preoccupante “Doukipudonktan” – tradotta in italiano da Fortini con "Macchiffastapuzza" – è una trascrizione fonetica della frase francese D'où qu'ils puent donc tant ? ("Da dove viene così tanta puzza?").
Si conforti, Gabriel: segua il mio consiglio, vada in libreria e si consoli acquistando il libro di cui qui si è detto. Mi ringrazierà a una voce con la sua incontenibile nipote Zazie.

A cura di
Daniela Ciani Forza
Simone Francescato
Il profumo della letteratura
Pagine 384, Euro 26.00
Skira


Solo il mio silenzio


Com’è noto a quei generosi che leggono queste mie note quotidiane, questo sito non si occupa di narrativa, ma talvolta capitano occasioni – quella odierna, ad esempio – che permettono un discorso che investe e supera quel genere di scrittura sia per valori autonomi e sia per particolari spunti linguistici proposti.
È il caso di Solo il mio silenzio di Pina Ligas pubblicato da Pietro Pintore.
L’autrice è nata a Gairo in Sardegna nel 1957.
Vive con la famiglia a Torino e lavora per una nota Casa Editrice torinese.
Uno dei meriti delle sue pagine è d'usare il ritmo della lingua sarda sotteso a quello della lingua nazionale.
Di questo libro ha scritto Sebastiano Vassalli una storia, ben raccontata, ampia, articolata nel tempo.

Questo il quarto di copertina.
“Un segreto. Cinque generazioni rimangono vittime di un silenzio. E un bambino cresce con la convinzione di essere il frutto della mala fortuna. Nella Sardegna rurale offesa dai disboscamenti feroci, spesso morente per febbri malariche, pesti e carestie, la famiglia Ferrai non abbandona la speranza né l'orgoglio. Non si piega alle faide locali, protegge fino allo spasmo le proprie terre e riscopre l'intensità dei legami affettivi. "Solo il mio silenzio" è un romanzo di vite, di paesaggi e di sentimenti estremi. È il viaggio trasversale che porta alla conoscenza di una storia incredibile di forza e determinazione, affinché la speranza detti la sua legge salvifica sull'indifferenza”.

Cosmotaxi ha rivolto a Pina Ligas alcune domande.
Adriano Prosperi, nel commentare con entusiasmo il tuo lavoro, ha parlato “del racconto di una cultura speciale, quella sarda…”.
Nella stesura della tua narrazione che in Sardegna si svolge che cosa ha ti dato quella cultura speciale…?

Mi ha dato tutto, mi riferisco alla rigida educazione basata su principi morali ed etici. Persone orgogliose, integerrime, con spiccato senso dell’onore.
Questa è la cultura speciale su cui, infatti, è improntato il libro
.

Allorquando uno scrittore si trova a fare i conti con la cultura dalla quale proviene, assai spesso, si pone il rapporto con la sua lingua d’origine. Hai avvertito questo problema? Se sì, come lo hai risolto?

Il problema ce l’ho avuto eccome, a ripensarci ora direi che è stata la vera difficoltà nella stesura del romanzo dove il taglio storico-realistico passa per bocca del personaggio. Inizialmente gli inserti in lingua sarda creavano dei contrasti fra buona sintassi italica (almeno così mi sembrava) e crudo termine isolano in bocca sardofona. A una prima grezza stesura ne è seguita un’altra e un’altra ancora, fin quando sono riuscita a ottenere un linguaggio dotato di regolari cadenze e ritmi a seconda del ruolo dei personaggi nella storia. A tratti mi sono pure divertita nel sentire e vedere i miei personaggi che si destreggiavano nella storia in modo così naturale.

In questa nostra epoca dei nuovi media e delle psicotecnologie (copyright Derrick de Kerckhove) qual è per Pina Ligas l’attualità di una scrittura romanzesca?

Leggo di tutto e spesso trovo i romanzi di oggi asfissianti e centrifughi tanto sono ridotti all’osso. Pure “Solo il mio silenzio” soffre di modernità. Il mio sogno è poter scrivere un romanzo di mille pagine, a te l’interpretazione di questo sogno.

Pina Ligas
Solo il mio silenzio
Pagine 212, Euro 15.00
Pietro Pintore Editore


L'Archivio Spatola

Da anni Maurizio Spatola, in foto, (qui la sua bio ) fidando solo sulle sue forze e senza alcun aiuto privato o pubblico (e per le nostre cosiddette Istituzioni regionali o nazionali è un’altra vergogna che va ad aggiungersi ad altre), manda avanti un Archivio di poesia verbovisiva e soundpoetry che abbraccia un tempo che va dalle avanguardie storiche ai nostri giorni.
Accanto a questi materiali esiste un prezioso repertorio di riviste ormai altrove introvabili sicché per gli studiosi della letteratura d’avanguardia è obbligatorio passare per quell’Archivio onde consultare quella grande massa di documenti.

Ora quell’Archivio segnala di aver messo in Rete QUI, nella Sezione Protagonisti, la riproduzione integrale del saggio, di Adriano Spatola, fratello di Maurizio, “Verso la Poesia totale”, nella seconda edizione pubblicata da Paravia nel 1978, un documento storico che da tempo veniva richiesto di pubblicare.
Da segnalare, inoltre, che nella stessa sezione è presente da poco un ricordo di Marie-Louise Lentegre, a lungo collaboratrice della storica rivista "Tam Tam".

Archivio Spatola, via Usodimare 11/8, 16039 Sestri Levante (Genova)
tel. (39) 0185 – 43 583; mobile 333 – 39 20 501


Visioni di Daido


Pare che il fotografo più pubblicato al mondo sia il giapponese Nobuyoshi Araki, ma molto stimato è anche il suo connazionale Daido Moriyama, tra i maggiori protagonisti della fotografia contemporanea nipponica, al quale il CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea di Foligno in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e la sua Fondazione Fotografia dedica la mostra Visioni del mondo che sta accogliendo il pubblico dal 29 novembre scorso.
Curatori: Filippo Maggia e Italo Tomassoni.

In foto: Daido Moriyama, “On the Bed I”, Tokyo, 1969, courtesy artista

Dal comunicato stampa che ha lanciato la mostra: L’esposizione raccoglie una selezione di oltre 130 fotografie realizzate dagli anni sessanta fino ad oggi, che ripercorrono l’intensa carriera dell’artista evidenziandone il personale approccio col mondo e offrendo al contempo una lucida visione sulle trasformazioni che hanno segnato la storia giapponese. È una ricerca quotidiana senza fine quella che spinge Moriyama a realizzare migliaia e migliaia di scatti, per anni, per una vita. Immagini dai bianchi e neri contrastati, spesso sfocate, graffiate, sovraesposte o sgranate, che tracciano i contorni di un’esistenza priva di legami con un luogo d’origine o di vincoli dettati dalle convenzioni sociali.
Per Moriyama ogni singola cosa che si offre al suo sguardo è degna di essere fotografata: non è importante il soggetto, né chi sia l’autore, perché non c’è distinzione tra la realtà vissuta e la realtà nell’immagine – spesso fotografie di fotografie tratte da magazine, poster, pubblicità, televisione si mischiano a quelle scattate dal vivo. Ciò che conta è il frammento di esperienza, parziale e permanente, che la fotografia può trovare, quell’unica verità che esiste solo nel punto in cui il senso del tempo del fotografo e la natura frammentaria del mondo si incontrano
.

Parallelamente alla mostra, è allestita una selezione di opere video di artisti dell’Estremo Oriente dalla collezione di fotografia contemporanea della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. Sotto il titolo “Asian Contemporary”, sono presentate opere di Tabaimo, Yasumasa Morimura, Miwa Yanagi, Kimsooja, Yang Fudong.

Il catalogo di Visioni del mondo”, edito da Skira, contiene molte delle opere in mostra accompagnate da un’intervista a cura del già citato curatore Filippo Maggia, da un testo critico di Akira Hasegawa e da una biografia approfondita redatta da Francesca Lazzarini.

QUI la versione inglese del sito web di Moriyama.

Ufficio Stampa: Studio Lucia Crespi, lucia@luciacrespi.it
Chiara Cereda, tel. 02 89415532 - 02 80401645

Daido Moriyama
Visioni del mondo
a cura di Filippo Maggia e Italo Tomassoni
Ciac - Centro Italiano Arte Contemporanea
Via del Campanile 13, Foligno
Info: 0742 – 35 70 35
Fino al 25 gennaio 2015


Spegnere le luci e... (1)


Maiuscola figura della letteratura del secolo scorso, la scrittrice e saggista inglese Virginia Woolf nacque a Londra il 25 gennaio 1882 e morì suicida il 28 marzo 1941 nelle acque del fiume Ouse nei pressi di Rodmell.
Di recente, grande interesse ha suscitato la mostra "Virginia Woolf. Life and vision", conclusasi a fine ottobre scorso, curata dallo storico dell’arte Frances Spalding, dedicatale dalla National Portrait Gallery.
La Woolf è stata tradotta in circa cinquanta lingue e tra i suoi traduttori vanta Jorge Louis Borges e Marguerite Yourcenar.
Un grande contributo alla conoscenza della sua statura letteraria ci è fornita dall’editrice minimum fax che ha pubblicato Spegnere le luci e guardare il mondo di tanto in tanto Riflessione sulla scrittura a cura di Federico Sabatini.
Il curatore ha estratto dall’epistolario della Woolf una serie di citazioni: passi in cui la scrittrice racconta le difficoltà e le gioie del suo processo creativo, affronta questioni di tecnica, dà consigli ad amici scrittori impegnati nella stesura dei loro libri, esprime giudizi sull’opera di colleghi illustri (da Proust a Joyce, da Jane Austen a Dostoevskij), e riflette anche sull’importanza, per ogni artista, di distaccarsi dal proprio mestiere per rimetterlo in prospettiva (a questo allude il titolo scelto per il libro). Un compendio prezioso e illuminante non solo per gli appassionati e gli studiosi della Woolf, ma anche per gli aspiranti scrittori e gli amanti della grande letteratura.
La scelta di Sabatini – autore di un poderoso saggio introduttivo al testo – cioè quella del montaggio di brani estratti dalle lettere della scrittrice, è lavoro tra i più difficili che qui trova ampio premio a quelle fatiche perché, grazie alla sapienza tecnica (ma anche all’amore verso la scrittura della Woolf) con cui è condotto quel montaggio, si ha una composizione che riflette pienamente la dimensione lirica e tragica di un’esistenza lacerata sul piano umano e vertiginosa su quello letterario.
Sabatini non è nuovo a questo tipo d’imprese, basti ricordare Scrivere pericolosamente dedicato a Joyce e di cui si trovano ampie tracce in una conversazione – ci crediate o no – tenuta nello Spazio.
Di altre sue brillanti prove saggistiche si parla QUI.
Ne troviamo presenza pure nello scenario narrativo con il suo romanzo Segmenti di coscienza.
Nato in Umbria nel 1973, ha vissuto per sette anni a Londra dopo aver viaggiato e studiato in Germania e in Danimarca. A Londra ha lavorato presso la Tate Gallery. Attualmente vive a Torino, dove insegna Lingua e Traduzione e Lingua e Letteratura Inglese presso la Facoltà di Lettere, dopo aver conseguito un Dottorato di Ricerca in Letterature Comparate.

Segue ora un incontro con lui per approfondire il suo lavoro sulla scrittura di Virginia Woolf.


Spegnere le luci e... (2)

A Federico Sabatini, in foto, Cosmotaxi ha rivolto alcune domande.
Qual è stato il principale motivo d’interesse che ti ha portato a studiare la Woolf?

Ho scoperto Woolf al liceo quando la docente di inglese ci fece leggere il famoso brano del calzerotto marrone di “To the Lighthouse”. Ne rimasi estremamente e immediatamente affascinato. Direi proprio l’inizio di un amore senza fine. Ho poi continuato a leggere i suoi scritti sia autonomamente sia all’Università, dietro la guida eccellente del Prof. Sergio Rufini che ricordo con estremo affetto e gratitudine. La mia tesi di laurea era infatti uno studio sulla biografia e l’autobiografia in Lytton Strachey alla luce dei saggi e delle lettere di Woolf. Sono interessato a tutte le tematiche da lei affrontate: la coscienza, il momento dell’essere, i ricordi e la memoria, le vicende familiari e i sentimenti ricreati con uno stile che non è solo una lingua con cui ricamare trame ma è sempre mimetico col suo contenuto (e che come accade per la poesia è spesso, per questo, “intraducibile”). E infine ammiro da sempre la sua volontà di sperimentatrice, l’urgenza, quasi spasmodica, di creare una nuova forma romanzo che soddisfacesse le esigenze del romanziere moderno. Una sperimentazione che ora parrebbe quasi perduta in moltissima della letteratura contemporanea pubblicata. Paradossalmente.


Perché la Woolf, pur attenta lettrice di poesia, ha preferito scrivere in prosa?

Woolf stessa afferma che ‘la decisione di scrivere prosa e non poesia è stata presa proprio senza rifletterci’. Allo stesso tempo, tuttavia, leggiamo nelle lettere che la prosa, una volta scritta, non è ancora in grado di spiccare il volo; essa ha un futuro, e ‘potrebbe elevarsi’. Woolf parla infine di un suo ‘appello a favore della prosa avventurosa’, e afferma di non sapere scrivere poesia. Il fatto che la sua prosa sia poi “prosa poetica” e che dalla poesia prenda elementi fondanti come il ritmo e il fonosimblismo non fa che negare la sua stessa affermazione. Credo che abbia deciso di scrivere prosa non solo per una sua naturale inclinazione ma, soprattutto, perché insoddisfatta delle forme romanzo precedenti che non si avvicinavano alla vita vera della coscienza. Inoltre, come ben spiega Teresa Prudente nel suo libro “A Specially Tender Piece of Eternity”, era il concetto del tempo a ossessionarla, la riconfigurazione temporale dell’esperienza umana che si può ricreare solo all’interno della temporalità di un romanzo. E di un romanzo nel quale lei sentiva la necessità quasi etica di sperimentare e di tentare forme diverse.


Assai frequente è l’uso della metafora nella Woolf.
Da quali esigenze espressive deriva questa caratteristica della sua scrittura?

L’uso della metafora, specie quella animale, era molto in voga a Bloomsbury e tutti erano chiamati con soprannomi ispirati ad animali. Detto questo, nel caso di Woolf si tratta dell’esigenza di arrivare a significati più profondi, di superare i limiti del linguaggio convenzionale e di fondere due o più immagini in una unica espressione che risulti “iper-significante” e che possa essere visibile e percepibile agli occhi del lettore, aumentando il suo orizzonte interpretativo e aprendo a imprevisti significati e visualizzazioni. Includendo in queste anche l’ineffabile e l’inesprimibile.


Perché fu tanto controverso il suo rapporto con Joyce? Pur apprezzandolo – come, infatti, ricordi nell’Introduzione – di lui “scrisse spesso commenti molto negativi”?

Controverso è davvero il termine esatto. Spesso i coniugi Woolf sono stati criticati per non aver pubblicato “Ulisse”, e per anni siamo stati abituati a sentire (e ancora capita!) che Woolf provasse solo un’avversione profonda per Joyce, definito da lei stessa un “nauseabondo studente universitario che si schiaccia i brufoli”. In realtà i suoi commenti erano molto diversificati ed è un dato di fatto che apprezzasse la scrittura di Joyce. Forse a qualcuno ha fatto comodo soffermarsi solo su quell’affermazione. In realtà Woolf scrive proprio di Joyce nel fondamentale saggio “Narrativa Moderna”, sostenendo che si trattava di uno di quegli autori che vogliono ‘avvicinarsi di più alla vita’, e ‘preservare più sinceramente e più precisamente ciò che interessa loro e ciò che li commuove, anche se, per fare questo, devono rinunciare alla maggior parte delle convenzioni osservate dal romanziere’. Nelle lettere e nei diari, quando scrive di Joyce, leggiamo parole come ‘capolavoro’, ‘genio’ ed ‘essenza della mente’, oltre all’affermazione secondo cui ciò che lei stava facendo con la letteratura ‘lo stava facendo meglio il Signor Joyce’. Sicuramente non amava “l’indecenza” di Joyce, per gusto e carattere, ma nella stessa indecenza ravvisava ‘l’esito fondamentale del realismo psicologico’. Dunque il rapporto è senza dubbio controverso. Forse c’era da parte sua una certa invidia, essendo un sentimento che essa stessa ha candidamente manifestato in varie occasioni, ma non lo sapremo mai con certezza. Resta il fatto che non si trattava solo di critiche negative, anzi, l’elogio è sempre molto chiaro e lampante.

Virginia Woolf
Spegnere le luci e guardare il mondo di tanto in tanto
a cura di Federico Sabatini
Pagine 168, Euro 10.00
minimum fax


La vita non è in rima


Un gran bel libro quello pubblicato da Laterza intitolato La vita non è in rima (per quello che ne so) un’intervista con Luciano Ligabue sui testi di cui è autore.
Il volume è a cura dello storico della lingua italiana Giuseppe Antonelli.
Nato ad Arezzo nel 1970 vive a Roma. Insegna Storia della lingua italiana all’Università di Cassino, e collabora all’inserto culturale del “Sole 24 ore”. Nei suoi studi si è occupato soprattutto di romanzo settecentesco, di epistolari ottocenteschi e, con originali e apprezzati approcci, a vari aspetti dell’italiano contemporaneo. Uno di questi è proprio la lingua della canzone italiana, cui ha dedicato numerosi saggi e il volume “Ma cosa vuoi che sia una canzone” di cui Cosmotaxi ne parlò QUI con l'autore.

Luciano Ligabue, nato a Correggio il 13 marzo 1960, canta dal 1987 le canzoni che compone. È autore e interprete di oltre 130 brani, pubblicati in 17 album. Ha pubblicato due raccolte di racconti (“Fuori e dentro il borgo”, 1997, Premio Elsa Morante, e “Il rumore dei baci a vuoto”, 2012), il romanzo “La neve se ne frega” (2004, Premio Giacosa e Premio Speciale Fregene) e la raccolta di poesie “Lettere d’amore nel frigo” (2006).
Ha scritto e diretto due film: “Radiofreccia” (1998, presentato a Venezia, vincitore di tre David di Donatello, due Nastri d’argento e tre Ciak d’oro) e “Da zero a dieci” (2002, presentato al Festival di Cannes). Nel 2010 ha vinto il Premio Truffaut al Giffoni Film Festival e il Premio Vittorio De Sica per il cinema italiano.
Per una più estesa biografia: CLIC.
Per una guida in Rete su Ligabue QUI.

Cosmotaxi ha rivolto alcune domande a Giuseppe Antonelli.
Quale l’interesse del linguista Antonelli nell’area dei testi per canzoni?

Ti rispondo con le parole usate dal filosofo Maurizio Ferraris nel recensire il libro per il quotidiano la Repubblica: “Il pop fornisce il più grande repertorio di lingua contemporanea che sia mai esistito. È a questa impresa di antropologia linguistica che si dedica Giuseppe Antonelli nell’intervista a Luciano Ligabue sui testi delle sue canzoni”.

Che cosa di particolare hai trovato nei testi di Ligabue?

Come ha scritto Vincenzo Cerami, “un letterato lo definirebbe, forse, il neoesistenzialista della musica italiana… c’è sempre un fondo ambientale nelle sue canzoni, un dolente background civile, che dà spessore alle sue parole, le inquadra in una sincera quanto complessa visione del mondo”. Dentro alla scrittura di Ligabue c’è un uso delle parole che rappresenta un punto di vista sulla vita. Ma c’è soprattutto tanta musica, che trasforma e amplifica il senso di ogni parola. Perché per ogni cosa detta c'è sempre un motivo e quel motivo è spesso il modo in cui la canzone ci entra nelle vene, diventa parte di noi. Tenendo quella musica come implicita colonna sonora, questo libro mira a esplicitare il senso di quei testi. A mettere al centro la scrittura per ricostruire tutto quello che c’è dietro e intorno. A ragionare di grammatica del rock per arrivare – se esiste – alla grammatica delle emozioni che passano attraverso quelle parole e quella musica.

C’è un momento nel libro in cui Ligabue parla di dialetto e lingua straniera.
Dal tuo osservatorio di studi, ritieni che nella nostra lingua, oggi, risenta più del ritorno dei nostri dialetti o dell’inglese?

L’italiano di oggi risente di una doppia spinta. Da un lato quella delle parlate locali, che tornano a trovare spazio – alternandosi e mescolandosi alla lingua nazionale – in una comunicazione sempre più improntata all’informalità. Dall’altro, la pressione della lingua inglese; o meglio della sua versione globalizzata: l’onnipresente “globish”, che permea ormai il lessico di tutte le lingue occidentali e non solo. Stando ai dati disponibili, in questo momento la glocalizzazione linguistica pende in Italia molto più verso il locale che verso il globale. Quasi un terzo degli italiani dichiara di esprimersi sia in italiano sia in dialetto quando parla in famiglia o tra amici, e nelle ultime edizioni dei grandi dizionari italiani sono accolte molte parole di provenienza dialettale (come il siciliano ‘pizzino’ “bigliettino scritto da un mafioso”, il settentrionale ‘ciulare’ “fare sesso” o figuratamente “rubare”, il romanesco ‘sbroccare’ “perdere la testa”, il milanese ‘schiscetta’ “contenitore per il cibo”). La percentuale complessiva di parole inglesi, invece, continua a rimanere intorno al 2%; anche se rappresenta quasi la metà dei neologismi (gran parte dei quali, però, destinati a scomparire dall’uso nel giro di qualche anno).

Nel tuo recente Comunque anche Leopardi diceva le parolacce, ti opponi a chi ritiene la lingua italiana deturpata da espressioni usate in Rete e da altre modalità linguistiche correnti. Come sei arrivato a tali conclusioni?

Nel 1861, l’anno dell’unità d’Italia, l’italiano lo conosceva sì e no il 10% della popolazione e più del 70% non sapeva scrivere neanche la propria firma. Un secolo dopo, metà degli italiani non aveva la licenza elementare e un terzo parlava solo o prevalentemente in dialetto. Da un’inchiesta fatta nel 2000 risultava che le uniche forme di scrittura quotidiana erano – finita la scuola – gli appuntamenti sull’agenda e la lista della spesa. Oggi, dopo aver conquistato l’uso parlato (a scapito del dialetto), l’italiano ha conquistato anche l’uso scritto di massa (a scapito del non uso). Nel primo caso il merito è stato in buona parte della televisione; nel secondo, tutto della telematica. Grazie alle e-mail, agli sms, alle chat, ai social network, lo scritto sta diventando – per la prima volta nella storia della nostra lingua – un secondo motore del mutamento linguistico. Ovvero uno strumento per rendere l’italiano ancora più ricco, variegato, dinamico. Un motivo in più per smetterla con le lamentele, e ricominciare a guardare con ottimismo al futuro. L’italiano è vivo, viva l’e-taliano!

In questo video un incontro fra Antonelli e Ligabue.

A cura di Giuseppe Antonelli
La vita non è in rima
Luciano Ligabue
Intervista sulle parole e i testi
Pagine 192, Euro 8.50
Editori Laterza


Fotografia de los Andes

La Fondazione Fotografia Modena – diretta da Filippo Maggia – sostenuta dalla Fondazione Cassa di Risparmio della città – è diventata un polo d’attrazione didattico e di ricerca di primo piano nello scenario italiano. All’insegnamento sia teorico sia pratico, sono affiancate una serie di mostre di grandi fotografi internazionali che richiamano visitatori in numero crescente.
È il caso della mostra in corso – sponsor Unicredit, patrocinio del Consolato Generale del Perù – una collettiva dedicata alla fotografia storica andina: Fotografía de los Andes 1890-1940.

Le sessanta opere in mostra raccontano il Sudamerica d’inizio secolo attraverso il lavoro di numerosi fotografi che, tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900, lavorarono fra le città di Cusco, Arequipa e Puno.
Tra le opere presenti alla mostra – proposte dal curatore Jorge Villacorta – figurano le preziose fotografie di Martín Chambi (1891-1973), autore di un esteso lavoro di documentazione dei dintorni di Cuzco, tra siti archeologici, paesaggi e comunità indigene, per testimoniare e riscoprire la vera anima della terra peruviana.
Sono inoltre esposte opere di Max T. Vargas (1874-1959), Emilio Díaz (1870-n.d.), Carlos (1885-1979) e Miguel (1886-1976) Vargas, Enrique Masías (1898-1928), Guillermo Montesinos (1877-1925) e Luigi Domenico Gismondi (1872-1947).

In foto: Max T. Vargas, "Ritratto di Marìa Antonieta Gibson", Arequipa, 1909

Tra questi degna di un giallo è l’avventura di Max T. Vargas, un fotografo “cancellato” dalla storia, come ipotizza Villacorta.
Fu il primo fotografo di spicco in Perù, il primo a intuire le straordinarie potenzialità espressive dell'arte dei sali d'argento e il maestro delle successive generazioni di autori andini. Eppure, alla sua morte, di lui si persero inspiegabilmente le tracce, come se non fosse mai esistito.
La figura di Max Telesforo Vargas, capostipite della scuola di fotografia di Arequipa fino a poco tempo fa era avvolta nel mistero. E' stata la ricerca svolta proprio da Jorge Villacorta, a mettere in luce alcuni aspetti che ora potrebbero spiegare i motivi dell'occultamento di uno dei protagonisti della storia della fotografia peruviana.

Fu il più importante fotografo andino dal 1890 al 1920, anno in cui lasciò Arequipa per trasferirsi in Bolivia - spiega il curatore Villacorta - Dopo sette anni trascorsi a La Paz, facendo sempre il fotografo, rientrò in Perù senza però riprendere l'attività artistica. Morì poverissimo nel 1957 a Lima e il suo archivio sembrava andato irrimediabilmente disperso. Nei successivi sessant'anni, il nome di Vargas sparisce dalle cronache e dalla memoria ufficiale; Villacorta s’imbatte casualmente in lui mentre lavora alla biografia del figlio, Alberto Vargas, famoso illustratore erotico che aveva collaborato per anni con Playboy, scoprendo che il padre era stato un fotografo.
Da quel momento, Villacorta cerca di ricostruire le vicende di Max T. Vargas, inseguendo le sue tracce nei giornali dell'epoca e negli archivi delle famiglie di Arequipa. Nella mostra "Fotografía de los Andes", Villacorta è riuscito finalmente a dimostrare il ruolo centrale che Vargas ha avuto nella diffusione della fotografia in Perù. Oltre ad essere stato un grande ritrattista, è emerso come sia stato anche il maestro di numerosi fotografi importanti nel contesto peruviano: i fratelli Vargas (che, nonostante il medesimo cognome, non sono parenti di Max), l'immigrato italiano Luigi Domenico Gismondi che, trasferitosi successivamente in Bolivia, diventerà il fotografo più importante per quello stato, Enrique Masias, e soprattutto, Martin Chambi, a tutt'oggi il più celebre autore storico peruviano.
Perché allora l'opera di Max T. Vargas è stata dimenticata così a lungo? Villacorta è convinto che non si tratti di un caso, ma di una rimozione volontaria: L'alta borghesia di Arequipa, se in un primo momento aveva accolto con favore l'arte di questo fotografo, non aveva però gradito la modernità di alcuni ritratti, in cui trapelava una certa sensualità delle dame araquipene, così come il tentativo che Vargas aveva fatto di dare dignità, sempre attraverso la fotografia, alla popolazione indigena. Non si spiegherebbe altrimenti l'improvvisa decadenza di un vero imprenditore della fotografia, che aveva raggiunto fama, riconoscimento sociale ed economico e poi improvvisamente fu 'cancellato'.
Quella di Villacorta è un'ipotesi, ma rende ancora più affascinante questo capitolo della storia della fotografia peruviana, raccontata per la prima volta a Modena, nella sede espositiva di Fondazione Fotografia. In questa mostra - afferma il curatore Jorge Villacorta - siamo riusciti per la prima volta a riunire tutti i protagonisti di quell'incredibile vicenda che la fotografia visse nel sud andino peruviano agli inizi del novecento. Non ero mai riuscito a farlo nel mio paese e sono orgoglioso di esserci riuscito a Modena.

Ufficio Stampa: Cecilia Lazzeretti, 059 – 23 98 88; press@fondazionefotografia.org

Fotografía de los Andes 1890-1940
Fondazione Fotografia
Foro Boario
Modena, Via Bono da Nonantola, 2
Info: tel. 059 - 22 44 18
orari di apertura
martedì-venerdì 15-19
sabato-domenica 11-19
lunedì chiuso
Ingresso libero tutti i martedì
Fino all’11 gennaio 2015


Il ribelle gentile (1)

La prima edizione è dell’agosto dell’anno scorso e suscitò una causa degli eredi dell’artista Piero Manzoni alla casa editrice Stampa Alternativa e all’autore del libro Il ribelle gentile La vera storia di Piero Manzoni.
L’autore, Dario Biagi, è giornalista e scrittore. Ha pubblicato: Grandi vecchi; Vita scandalosa di Giuseppe Berto; Spegni la notizia; L'incantatore. Storia di Giancarlo Fusco; Il dio di carta. Vita di Erich Linder; Cagnaccio di San Pietro.

Ora la biografia in questione è stata nel frattempo assolta due volte, vincendo sia la causa del ricorso cautelare, sia quella del reclamo (una sorta d’appello) presentato successivamente dagli eredi; riconosciuta, quindi, non denigratoria in due gradi di giudizio. Nel marzo di quest’anno è avvenuta la prima ristampa aggiornata.

Piero Manzoni, figura centrale nello scenario artistico internazionale del dopoguerra – nato a Soncino il 13 luglio 1933 e morto, a trent’anni, a Milano, il 6 febbraio 1963 – lo troviamo firmatario del manifesto “Per la scoperta di una zona d’immagini” (1956), poi, l’anno dopo, tra i protagonisti del “movimento nucleare” quando realizzò i suoi primi “Achrome”. Christie’s ha confermato il grande interesse di cui gode quest’artista con maiuscoli risultati anche nelle aste milanesi del 2 e 3 aprile scorso: un suo Achrome del 1960, infatti, è stato venduto a oltre 400mila euro.
La fama – celebrata anche da una recente grande mostra antologica – è, però, venuta solo dopo la sua morte.
Clamore e scandalo suscitarono le sue opere, fra tutte famosa: “Merda d’artista”, cioè le sue feci sigillate in barattoli.
L'intera canzone degli Skiantos, “Merda d'artista”, contenuta nell'album "Dio ci deve delle spiegazioni" (2009), è dedicata a quell’opera; è citato anche dai Baustelle in "Un romantico a Milano" dove è detto: “Fra i Manzoni preferisco quello vero: Piero".

Il lavoro di Dario Biagi è splendido.
Finalmente una biografia vera, genere che in Italia è pochissimo frequentato preferendo in tanti scrivere sì biografie ma abbandonandosi a romanzerie da fiction tv.
In questo libro tutto è scrupolosamente documentato ricorrendo, con esplicazioni in nota, a documenti giornalistici, librari, radiofonici, cinematografici, e testimonianze, raccolte dall’autore fra il luglio 2012 e il febbraio 2013, intervistando chi lo ha conosciuto.
Il tutto inquadrato nello scenario della Milano del dopoguerra, tra miseria e speranze, slanci e sospetti, con il famoso bar Jamaica e la sua folla (di cui ben faceva parte Manzoni bevendo più alcol degli altri) di artisti, curiosi e qualche pazzo che dava da fare alle autoambulanze.
Pagine accuratissime che tracciando il ritratto della vita di Manzoni non trascura d’esplorare il perimetro estetico di quest’inquieto personaggio .
Un libro, insomma, imperdibile per chi voglia conoscere la breve, incandescente, parabola di un uomo che ha abbatteva gli ostacoli fino ad abbatterne il più arduo: se stesso.

Segue ora una serie di brevi passaggi estratti dal libro.


Il ribelle gentile (2)

Da Il ribelle gentile. La vera storia di Piero Manzoni di Dario Biagi.
Edizioni Stampa Alternativa


Se il giovane Schifano ha le movenze di un puma, come ha scritto Parise, Manzoni possiede la scioltezza del campagnolo che fa il bagno nelle marrane assieme all’allure del condottiero. Può ricordare Napoleone per la stempiatura precoce, i capelli corti e il viso tondeggiante, ma lo ricorda anche per sicurezza di comportamento e lungimiranza. È già delineata una natura doppia o anfibia: gran signore e gaudente che vive ogni giorno come fosse l’ultimo e stratega ambizioso che si pone obiettivi alti e non perde un colpo per conseguirli.

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Con Manzoni tutto è accelerato: ogni mese succede qualcosa, si brucia una tappa, si compie un salto di qualità. Una progressione frenetica, come la sua vita.

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Piero comincia a correre per l’Europa, ma il suo palcoscenico rimane Brera, la Montmartre milanese che ha il suo epicentro artistico-intellettuale in un piccolo caffè dai tavolini di marmo a due passi dall’Accademia: il Jamaica […] Luciano Bianciardi abita sopra il locale, al terzo piano […] “Era l’unico posto veramente caldo in quegli anni”, riconosce la compagna di Bianciardi, Maria Jatosti, “che ti accogliesse con affetto”.

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Piero ha fatto proprio il mito resistenziale – “Era caustico verso fascisti, pittori che facevano schifezze e letterati che scrivevano cavolate”, enumera Nanda Vigo (sarà l’ultima donna della sua vita e colei che per prima lo vedrà cadavere) – e una passione letteraria per marginali e derelitti alla Henry Miller, alla Giovanni Testori. Quasi sempre le sue scorribande notturne, che si concludono all’alba, contemplano una visita al Palazzo dell’Informazione, dove ama trattenersi con una guardia notturna, o poco più in là, al Gatto nero, dove conversa con i cronisti appena smontati dal lavoro. Uno di loro è Elio Pagliarani, il poeta dei novissimi che apprezza di più.

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Frequenta due storiche passeggiatrici del Parco Sempione. Una è soprannominata la corazzata Potemkin per la stazza; un’altra è la francese Jeannette […] In pieno giorno, racconta Coca Frigerio, va a trovare la Lidia di via Scaldasole. È una quarantacinquenne appariscente, chiome ricce e fulve, gonna con lo spacco, calze a rete, tacchi a spillo. In primavera esercita in viale Majno, d’inverno conduce una vineria – ambiente diroccato, quasi un rudere – al Ticinese.

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Piero si professava comunista. “Ma era più un anarchico” asserisce Uliano Lucas. “Del popolo non gli importava granché, a lui piaceva parlare con la gente”.

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Dopo le Linee, il diluvio: si aprono le cataratte della creatività. Liberatosi della pittura e del segno, Manzoni scopre e assapora l’immensa libertà del gesto e della provocazione mentale […] demitizza l’arte e mitizza – sia pure in modo ironico, quasi parodistico – l’artefice. Svaluta l’opera a favore dell’operazione.

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«Dopo la storia delle scatolette – dalla metà del '61, dunque – la famiglia lo trattava malissimo. Gli buttavano addirittura i quadri fuori di casa, sul pianerottolo. Lo ritenevano uno spostato», attesta Nanda Vigo. «Siccome Piero tornava quasi sempre ubriaco alle sei del mattino, a volte succedeva che Elena, la sorella, nemmeno gli aprisse la porta. Usciva sul balcone urlando: "Albergo! Albergo!" […] Lui non si lamentava apertamente, ma era molto addolorato per l'atteggiamento dei suoi. Non sapevano niente di quel che faceva, non andavano mai alle sue mostre, gli dicevano giusto "buon giorno" e "buona sera"».

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C’è chi nell’azzardo della merda in scatola, vede l’inizio d’una discesa agli inferi manzoniana. “Quel gesto lurido e dissacrante” sostiene Enrico Baj, “metteva in crisi ogni sua religione non solo con il mondo dell’arte, ma anche con il suo precedente candore. Divenne irrequieto: e prese a viaggiare e a bere sempre di più”.

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Di cosa morì Manzoni? La Sorensen suppone di congestione: Piero aveva bevuto e la stanza era gelata perché il cherosene della stufa era finito. Infarto, sostiene Lucas, sposando la versione familiare. La Vigo suggerisce di aggiungere un aggettivo: infarto epatico. C’è un testimone oculare del referto che potrebbe tagliare la testa al toro. Si chiama Raffaele Masperi ed è un pittore amico di Piero […] “Rimasi a lungo a vegliarlo. Sul tavolino accanto, c’era il certificato di morte. Lessi due parole: cirrosi epatica”.

Dario Biagi
Il ribelle gentile
Pagine 152, Euro15.00
Stampa Alternativa


"Totem" di Marco Cadioli

La Widget Art Gallery (WAG) è una Galleria on line ideata nel 2009 da Chiara Passa che in quest'intervista ne traccia profilo e obiettivi espressivi.

WAG, dal 16 novembre ospita Totem di Marco Cadioli.
Nato a Milano nel 1960, ha focalizzato la sua ricerca sulle immagini che si materializzano sui monitor dei computer, dove reale e virtuale sconfinano l’uno nell’altro.
Attraverso il continuo viaggiare on line è interessato ad indagare da un punto di vista estetico le nuove frontiere tra digital media e mondi virtuali. Si è segnalato come fotografo di guerra nei videogiochi e con il suo avatar, Marco Manray, ha pubblicato le sue foto di Second Life su molte riviste internazionali. Nelle più recenti opere ha utilizzato Google Earth come strumento d’indagine in cui funzionalità descrittive e aspetti rappresentativi collidono.
Insegna all’Accademia di Belle Arti Santa Giulia di Brescia e all’Accademia di Comunicazione di Milano.

"Totem" è un'installazione site-specific pensata per lo spazio della Widget Art Gallery.
È una struttura primaria post-analogica, fatta con una serie di immagini glitched della Galleria stessa che scorrono su una superficie minima posizionata al centro della stanza. Totem cattura così l'energia del luogo trasformandolo in un flusso di pixel.

Cliccando QUI appare Totem a fondo pagina.

CLIC per visitare il sito web di Cadioli.

Widget Art Gallery
Marco Cadioli
Totem
Fino al 16 dicembre ‘14


Magie della scienza


“Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato”.
Così scriveva Albert Einstein in una lettera del 4 dicembre 1926 indirizzata al fisico tedesco Max Born.
Ancora oggi il metodo scientifico, in plurali campi, è il comportamento seguito per raggiungere una certezza su quanto si è intuito in sede teorica.
Il metodo trascorre attraverso una conoscenza oggettiva, affidabile, verificabile e condivisibile; inoltre, richiede anche la ripetibilità e la riproducibilità dei fenomeni osservati da testare.
Metodo che si fa risalire a Galileo Galilei (Pisa, 15 febbraio 1564 – Arcetri, 8 gennaio 1642), ma di cui esistono tracce anche nell’antichità e nel Medio Evo.
Tanta severità d’osservazione è utile praticarla fin dall’età più verde, ma per non renderla afflittiva è necessario farla scorrere attraverso la ludo-didattica in maniera che i ragazzi nel misurarsi con la rigorosità non si annoino. Questo per due motivi: 1) perché hanno pieno diritto alla gioia del gioco, 2) perché apprendono più velocemente e meglio.

Per lettori fra i 7 e i 10 anni, tra i libri che mi sono pervenuti in questi giorni per essere recensiti (le feste di fine d’anno s’avvicinano e gli editori sperano – e va a dare loro torto! – che sotto l’albero per i più piccoli si scelga di metterci un volumetto), ne ho notati alquanti ben fatti. Oggi ne segnalo uno che mi pare particolarmente riuscito: Magie della scienza Tanti esperimenti per esplorare il mondo intorno a te, pubblicato da Editoriale Scienza.
Si tratta di una raccolta di esperimenti per giovanissimi aspiranti scienziati.
Alcuni si presentano come giochi di prestigio, niente trucchi però, è scienza al 100%.
Pini Mazza Padoa-Schioppa e Anna Davini, con le illustrazioni di Francesca Carabelli hanno montato un libro-spettacolo in cui per realizzare apparenti magie non c’è bisogno d’acquistare microscopi sofisticati, distillatori o sostanze introvabili, bastano le mani (solo talvolta con l’aiuto di un adulto), acqua, qualche barattolo, fogli di carta e uno spazio comodo, in casa o all’aperto.

"Magie della scienza" contiene 41 esperimenti, divisi in cinque categorie:
- esperimenti con l’acqua
- esperimenti con l’aria
- esperimenti in movimento
- esperimenti con gli occhi e le orecchie
- esperimenti a reazione.

Tutti gli esperimenti sono contrassegnati da simboli che indicano la durata (da meno di quindici minuti a un’ora o di più) e, come detto prima, l'eventuale necessità dell’assistenza di un adulto.

Pini Mazza Padoa-Schioppa
A cura di Anna Davini
Magie della scienza
Illustrazioni di Francesca Carabelli
Pagine 96, Euro 9.90
Editoriale Scienza


Storia dei media digitali (1)


Milioni di persone si informano e interagiscono fra loro attraverso l'uso di internet. Ognuno a suo modo partecipa alla messa in rete di notizie, ma anche alla trasformazione di questi strumenti di comunicazione e di socializzazione. Blog, wiki, social network sono – soprattutto – strumenti di relazione sociale. Il web e tanti altri oggetti di ricezione e trasmissione, costringono quindi a un profondo ripensamento dei concetti classici della sociologia della comunicazione e anche a interrogarci sulla storia degli strumenti del comunicare d'oggi.
La casa editrice Laterza ha pubblicato un ottimo libro che su questi temi riflette: Storia dei media digitali Rivoluzioni e continuità.
Ne sono autori:Gabriele Balbi e Paolo Magaudda.

Gabriele Balbi è professore assistente in Media Studies presso l’Università della Svizzera italiana di Lugano, dove insegna e svolge ricerche sulla storia e sociologia dei media. In passato ha anche studiato e lavorato presso università italiane (Torino), americane (Harvard e Columbia), olandesi (Maastricht) e inglesi (Westminster, Oxford e Northumbria). È autore di La radio prima della radio (Roma 2010), Le origini del telefono in Italia (Milano 2011); “Network Neutrality” (Berna 2014).
Paolo Magaudda è sociologo presso l’Università di Padova, dove svolge ricerche sul rapporto tra tecnologie, cultura e società, con particolare riferimento ai media e alla comunicazione. Ha pubblicato, tra l’altro, La scienza sullo schermo (2011); Oggetti da ascoltare (2012); Innovazione Pop (2012).
È segretario della Società Italiana per lo Studio della Scienza e della Tecnologia.

Scrive Peppino Ortoleva in una Prefazione che è a sua volta un saggio: … questo è un libro di storia, che interpreta un grande processo e cerca di scomporlo nelle sue componenti di diversa durata, che allontana (nel tempo e nei modelli interpretativi) una realtà fluente sotto i nostri occhi ma, o proprio per questo, la rende più nitida, facendola uscire dalla nebulosità che l’avvolge in molte analisi giornalistiche prese dall’inseguimento dell’ultima novità. Senza dimenticare che "il presente come storia" propone e ripropone in ogni caso una sfida difficile allo storico: quella di elaborare una ricostruzione abbastanza aperta da saper accogliere le novità che l’attimo successivo potrà introdurre, abbastanza multipla da riconoscerei tanti diversi processi che s’intersecano nel nostro tempo, abbastanza umile da considerare che in questa materia la realtà ci si forma e dissolve davanti di continuo, ma cercando di mantenere una linea interpretativa comunque organica. È un libro che vuole farsi leggere dai non specialisti ma anche proporre stimoli imprevisti a chi della digitalizzazione crede di aver capito tutto. Perché tutto, di un processo così inesorabile e interminabile, nessuno può dire di avere veramente capito.

Segue ora un incontro con Gabriele Balbi e Paolo Magaudda.


Storia dei media digitali (1)


Milioni di persone si informano e interagiscono fra loro attraverso l'uso di internet. Ognuno a suo modo partecipa alla messa in rete di notizie, ma anche alla trasformazione di questi strumenti di comunicazione e di socializzazione. Blog, wiki, social network sono – soprattutto – strumenti di relazione sociale. Il web e tanti altri oggetti di ricezione e trasmissione, costringono quindi a un profondo ripensamento dei concetti classici della sociologia della comunicazione e anche a interrogarci sulla storia degli strumenti del comunicare d'oggi.
La casa editrice Laterza ha pubblicato un ottimo libro che su questi temi riflette: Storia dei media digitali Rivoluzioni e continuità.
Ne sono autori:Gabriele Balbi e Paolo Magaudda.

Gabriele Balbi è professore assistente in Media Studies presso l’Università della Svizzera italiana di Lugano, dove insegna e svolge ricerche sulla storia e sociologia dei media. In passato ha anche studiato e lavorato presso università italiane (Torino), americane (Harvard e Columbia), olandesi (Maastricht) e inglesi (Westminster, Oxford e Northumbria). È autore di La radio prima della radio (Roma 2010), Le origini del telefono in Italia (Milano 2011); “Network Neutrality” (Berna 2014).
Paolo Magaudda è sociologo presso l’Università di Padova, dove svolge ricerche sul rapporto tra tecnologie, cultura e società, con particolare riferimento ai media e alla comunicazione. Ha pubblicato, tra l’altro, La scienza sullo schermo (2011); Oggetti da ascoltare (2012); Innovazione Pop (2012).
È segretario della Società Italiana per lo Studio della Scienza e della Tecnologia.

Scrive Peppino Ortoleva in una Prefazione che è a sua volta un saggio: … questo è un libro di storia, che interpreta un grande processo e cerca di scomporlo nelle sue componenti di diversa durata, che allontana (nel tempo e nei modelli interpretativi) una realtà fluente sotto i nostri occhi ma, o proprio per questo, la rende più nitida, facendola uscire dalla nebulosità che l’avvolge in molte analisi giornalistiche prese dall’inseguimento dell’ultima novità. Senza dimenticare che "il presente come storia" propone e ripropone in ogni caso una sfida difficile allo storico: quella di elaborare una ricostruzione abbastanza aperta da saper accogliere le novità che l’attimo successivo potrà introdurre, abbastanza multipla da riconoscerei tanti diversi processi che s’intersecano nel nostro tempo, abbastanza umile da considerare che in questa materia la realtà ci si forma e dissolve davanti di continuo, ma cercando di mantenere una linea interpretativa comunque organica. È un libro che vuole farsi leggere dai non specialisti ma anche proporre stimoli imprevisti a chi della digitalizzazione crede di aver capito tutto. Perché tutto, di un processo così inesorabile e interminabile, nessuno può dire di avere veramente capito.

Segue ora un incontro con Gabriele Balbi e Paolo Magaudda.


Storia dei media digitali (2)

Ai due autori, Gabriele Balbi e Paolo Magaudda, ho rivolto alcune domande.
Li sentirete rispondere con una voce sola. Prodigi della tecnologia di bordo su Cosmotaxi.
Da quali esigenze critiche nasce questo libro?

”Storia dei media digitali” nasce da almeno tre esigenze diverse.
La prima è cercare di rispondere al quesito se la cosiddetta “rivoluzione digitale” sia realmente rivoluzionaria o se contenga degli elementi di continuità con il passato mediatico Otto-Novecentesco. Nel libro si mettono in luce sia gli elementi “rivoluzionari” che quelli più in continuità, definendo quella digitale come una “rivoluzione conservativa”.
La seconda è se sia possibile fare una ‘storia’ dei media digitali che appaiono sempre attuali, presenti. In questo caso abbiamo constatato che essi vantano una storia di almeno ottant’anni, se facciamo partire – come avviene nel libro – la nascita della comunicazione digitale dall’invenzione della macchina di Turing, nel 1935.
Infine – come hai prima ricordato citando un passaggio della prefazione di Peppino Ortoleva – abbiamo avvertito l’esigenza di scrivere e fornire a studenti e studiosi di comunicazione e ad un pubblico non specialistico un libro ricco di riferimenti sociologici e storici, ma anche accessibile e di facile lettura. In un mondo sempre più digitale, tutti noi possiamo imparare qualcosa leggendo la storia di come si sono evolute le tecnologie che usiamo tutti i giorni, come internet, lo smartphone o l’iPod
.

Dopo che la cultura digitale ha visto nascere i propri miti nel mondo politico-economico, è accaduto che, riprendendo parole dal vostro libro,"essa poi li abbia riconosciuti non più in quella sfera, ma in quella del business e dell’innovazione tecnologica”.
Perché le cose sono andate in quel senso?

In effetti concludiamo il nostro libro riflettendo sulla capacità dei media digitali non solo di trasformare il nostro mondo della comunicazione, ma anche di costruire nuovi miti della società contemporanea. Il caso certamente più lampante è quello del fondatore della Apple, Steve Jobs, che è diventato un icona globale provenendo dal mondo dell’industria e in ragione del successo delle sue tecnologie. Anche questo è un aspetto su cui riflettere: mentre alcuni dei personaggi mitici del Novecento erano tratti dall’universo politico, come Che Guevara, o erano campioni dello sport, come Fausto Coppi, i miti della cultura contemporanea provengono invece dalle tecnologie digitali e ci ricordano quanto queste ultime siano centrali nella nostra esistenza quotidiana.

Questo è un sito che, prevalentemente, si occupa di spettacolo, la domanda che segue è d’obbligo.
Esiste un elemento comune di trasformazione che la digitalizzazione ha impresso sulle forme estetiche e produttive di musica, cinema, fotografia, radio, tv?

Per un verso la digitalizzazione di tutti i vecchi media ha seguito un percorso comune: ha trasformato i contenuti che circolano, ha modificato le nostre abitudini di fruizione, ha modificato il ruolo dell’artista, che oggi è sempre più anche un abile utilizzatore di social network e strumenti virali per fare conoscere il proprio lavoro. Ma per un altro verso ci sono profonde differenze che ancora oggi caratterizzano i differenti settori. La musica, per esempio oggi è soprattutto digitale, mentre gli ebook stentano ancora a convincere le persone a farsi leggere sui tablet; la Tv è stata trasformata in digitale un po’ in tutto il mondo, mentre la radio digitale per ora rimane una tecnologia che deve ancora affermarsi. Ogni settore mediale ha insomma delle peculiarità che ci indicano come il digitale non sia una forza univoca e “irresistibile”, ma anzi sia penetrato nelle culture in maniera difforme e, talvolta, fallimentare.

Credete che oggi siano le relazioni sociali a guidare le tecnologie o viceversa?

Questa è probabilmente una delle domande più complesse a cui abbiamo cercato di dare risposta con la nostra storia dei media digitali. Oggi come nel secolo passato le tecnologie mediali si sono affermate in una costante interazione tra bisogni sociali e scoperte tecniche e scientifiche. Noi descriviamo questa reciproca interazione con l’espressione “co-costruzione” tra tecnologie e società. È insomma all’incrocio tra possibilità tecniche e necessità sociali che i media, anche digitali, riescono ad imporsi oppure spariscono. In tutto questo, campagne di commercializzazione da parte delle grandi aziende e politiche degli Stati per sostenere queste possibili innovazioni sono importanti, ma non costituiscono l’unica ragione in grado di spiegare un successo. Sappiamo, d’altra parte, che l’innovazione continua è una retorica e una pratica comune dell’universo digitale, come sottolinea Peppino Ortoleva nella sua prefazione al volume, quando sostiene che questa sia una sorta di “rivoluzione interminabile”.

Gabriele Balbi
Paolo Magaudda
Storia dei media digitali
Prefazione di Peppino Ortoleva
Pagine 208, Euro 20.00
Laterza


Cioran: Sulla Francia (1)

Se è vera quella regola di lettura che da giovanissimo ascoltai da Bobi Bazlen, cioè che un testo importante lo si giudica da come inizia e come termina in maniera che sembri un logico percorso dello stesso pensiero, allora Sulla Francia di Emil Cioran pubblicato da Voland, avvalendosi della cura e della traduzione di Giovanni Rotiroti, appartiene a un importante testo.
Si apre affermando: Non credo che avrei a cuore i francesi se non si fossero tanto annoiati nel corso della loro storia. Ma la loro profonda noia è priva d’infinito. È la noia profonda della chiarezza. È la fatica delle cose comprese.
Si chiude sostenendo: Ovunque volgiamo i nostri passi, che siano sentieri o altipiani, la Francia non morirà da sola, ma noi espieremo insieme a lei il gusto insolito della caducità. E per ogni speranza che vorremmo mantenere, il peso di quest’eredità ci rigetterà, senza scampo, dal cuore dell’avvenire verso i suoi confini.

Nato a Răşinari (Romania) nel 1911, Emil M. Cioran esordisce in letteratura a ventidue anni con “Al culmine della disperazione”. Nel 1937 vince una borsa di studio grazie alla quale si reca a Parigi, dove si stabilisce definitivamente nel 1941 per consacrarsi alla scrittura, conducendo una vita modesta e tenendosi lontano dalla mondanità parigina. Frequenta pensatori e autori a lui affini come Ionesco, Beckett e Michaux e comincia a scrivere i suoi aforismi in un francese estremamente cesellato.
“Confessioni e anatemi”, uscito nel 1987, è l’ultimo suo libro pubblicato in vita.
Muore a Parigi nel 1995.
Sulla sua figura grava il peso dell’adesione giovanile alla Guardia di Ferro, errore che ancora molti anni dopo, nel 1973, in una lettera al fratello non si capacitava d’aver commesso: “L’epoca in cui ho scritto 'Trasfigurazione della Romania' è per me incredibilmente lontana. A volte mi domando se sia stato proprio io a scriverlo. In ogni caso, avrei fatto meglio ad andare a spasso nel parco di Sibiu… L’entusiasmo è una forma di delirio”.

Sulla Francia è ritratto inedito di quel paese scritto nel 1941 da quel grande amante della cultura francese qual è Cioran, filosofo, saggista e aforista tra i più importanti del XX secolo. In quelle pagine, l’autore romeno analizza con il suo stile inconfondibile le grandiosità e le meschinità di una nazione che lo affascina. Ne viene fuori un quadro al contempo feroce (Capisco bene la Francia attraverso tutto ciò che c’è di marcio in me) e pieno di ammirazione (La Francia, nella sua totalità, è più profonda di quanto sembri).

Segue ora un incontro con Giovanni Rotiroti.


Cioran: Sulla Francia (2)


Giovanni Rotiroti, in foto, già di Cioran eccellente curatore di "Lettere al culmine della disperazione" – testo con postfazione di Antonio Di Gennaro – ed esperto di letteratura rumena, è oggi ospite di Cosmotaxi.
A lui ho rivolto alcune domande.

Scrivi in prefazione che Sulla Francia “segna un rivoluzionario cambio di passo, e mutamento nella scrittura e nello stile compositivo di Cioran”.
Su tutto questo pesa l’abbandono delle posizioni filofasciste da parte dello scrittore?
Oppure c’è anche dell’altro?

È vero. C’è sempre dell’altro. Ancora più decisivo per l’abbandono delle posizioni filofasciste da parte di Cioran, è stato l’incontro con Benjamin Fondane nel 1942 in una Parigi occupata dai nazisti. Fondane, con la forza della sua parola appassionata, porterà Cioran a fare i conti con gli abbagli ideologici della propria giovinezza e, più o meno implicitamente, gli offrirà una sorta di antidoto contro il delirio ideologico attraverso l’esemplarità straordinaria del suo percorso tormentato, prima di venire orrendamente ucciso, insieme alla sorella Lina, nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau nel 1944, all’età di 46 anni. (Inutilmente Cioran aveva provato, presso le autorità francesi, a sottrarre “il suo migliore amico” a questo terribile destino di morte.) La sorte tragica di Fondane assillerà Cioran per tutta la sua vita. L’attrazione per la catastrofe, lo splendore sfolgorante della sua figura, il suo misterioso desiderio di libertà, così seducente da avvicinarlo alla lucentezza tenebrosa di Antigone durante gli anni osceni della guerra, porteranno Cioran a far cambiare di segno le sue convinzioni ideologiche.

Nella scelta di scrivere in francese, Cioran che cosa trova di più congeniale al suo pensiero in quella lingua?

Forse, dopo la cesura di Auschwitz, Cioran trova nei colori crepuscolari del francese un avvenire, un orizzonte linguistico e di pensiero rinnovato dove andare, la possibilità di desiderare ancora, come movimento di raggiungimento di una nuova lingua, in vista di una transizione finale, un altro orizzonte aperto alle nuove esigenze del pensiero a partire dall’esemplarità etica di Fondane.

Da te che sei fra i massimi esperti della scrittura di Cioran, vorrei conoscere la cosa che più ti ha interessato del suo stile…

Lo stile è l’uomo. Questo mi interessa ancora di Cioran. Lo stile di Cioran è un esercizio di adesione e di distacco, un protendersi che si ritrae in sé, pienezza e vuoto di un “quid”, come un soggetto, che fa emergere la propria irriducibile differenza in questo gioco di slancio e rovesciamento, di consunzione e rinnovamento, di catastrofe del significato e rilancio del significante di fronte all’inesistente presenza dell’altro.
Il mutamento nello stile in Cioran non è stato solo di ordine retorico-linguistico, ma ha implicato soprattutto nel tempo un radicale cambiamento del soggetto a partire da un evento straordinario della storia, cioè a partire dall’urto contingente del reale che, retroattivamente, metterà a soqquadro tutta la sua vita, abbagliata in precedenza da false certezze ideologiche. Quest’evento ha avuto luogo verso la fine del 1940, quando Cioran ha testimoniato in presa diretta sulla stampa romena la sua “rabbrividita” adesione emotiva di fronte al triste e desolante spettacolo dell’inabissamento della Francia; nel momento in cui, cioè, le armate naziste stavano per irrompere su Parigi senza colpo ferire. Questo articolo giornalistico di Cioran, che anticipa l’idea di scrivere “Sulla Francia”, registra après coup l’evento a partire dal quale avverrà, a sua insaputa, il suo cosiddetto rivoluzionario cambio di passo, e mutamento nella scrittura e nello stile compositivo:
«Parigi è ‘caduta’ perché era destinata a cadere. Si ‘è offerta’ all’occupazione. […] I tedeschi l’hanno conquistata per consacrare uno stato di fatto. […] Ciò che rappresenta un momento universale della storia l’ho avvertito solo alla vigilia della loro ingresso. In pieno giorno, dall’Arco di Trionfo e fino all’Opera, non ho incontrato anima viva. Ero solo insieme alla città di Parigi. […] Sui boulevard, nessuno. Il giorno dopo, sarebbero dovuti entrare. Non dimenticherò mai quel brivido: ‘vedevo’ la storia, la città vuota rendeva ‘visibile’ alla mente un momento universale. Con malinconica oggettività condividevo il deserto della Francia e il balzo teutonico» (Emil Cioran, “Parisul provincial”, in «Vremea», n. 581, 8 dicembre 1940, p. 3)
.

Emil Cioran
Sulla Francia
Cura e traduzione:
Giovanni Rotiroti
Pagine 112, Euro 13.00
Voland


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