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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Il cinema laboratorio di Alberto Grifi (1)


Il nome di Alberto Grifi (Roma 1938 – 2007) non è noto al grande pubblico, ma è notissimo a studiosi di cinema, organizzatori di festival, giornalisti fuori del mainstream. È stato, infatti, un protagonista della scena underground internazionale e, a differenza di altri autori di quella stessa scena, un professionista del cinema avendo prestato – assai spesso malvolentieri ma costretto da varie necessità – la sua opera a documentari, pubblicità, filmati per la tv.
Nel cinema lo troviamo anche inventore. Ha ideato il vidigrafo, un sistema per trasferire le immagini dal tape alla pellicola, nonché il lavanastri, un macchinario specificatamente progettato per restaurare videonastri incisi negli anni '60-'70; la macchina, unica nel suo genere, è ospitata dal parco scientifico di Tortona.
In questi ultimi anni si sono intensificati gli studi intorno alla sua figura, ne sono testimonianza anche due libri che ne hanno esaminato il profilo intellettuale e le opere.
Su questo sito mi sono già occupato di L'evoluzione biologica di una lacrima di Stefania Rossi e oggi consiglio anche la lettura di Il cinema laboratorio di Alberto Grifi. Ne è autrice Annamaria Licciardello.
Nata a Catania nel 1975, ha conseguito il dottorato di ricerca presso l'Università Roma Tre nel 2004. Si occupa principalmente di cinema sperimentale e indipendente. Ha curato con Sergio Toffetti il volume “Paolo Gioli. Un cinema dell'impronta”, ha pubblicato saggi e articoli su riviste specializzate e libri. Ha collaborato con il Tekfestival, la Festa del Cinema di Roma e con la Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro.
Attualmente lavora presso il Centro Sperimentale di Cinematografia - Cineteca Nazionale.

Recente è proprio quest’ottimo saggio che prende in esame ogni opera della sterminata produzione di Grifi dopo averne contestualizzata, in una ragionata introduzione, la figura che vive “gli anni della cosiddetta Neoavanguardia, definizione-ombrello che riconosce nelle nuove pratiche una spinta in avanti e un’attualizzazione di elementi e di modalità dell’avanguardia degli anni Dieci e Venti. In questo contesto tutti i campi dell’arte, letteratura, pittura, teatro, musica e cinema, manifestano un forte dinamismo, la propensione verso la sperimentazione come modalità per confrontarsi con un contesto magmatico e prepotentemente incombente, la rottura dei confini e delle specificità delle singole arti per una loro confusione/commistione”.

"Grifi è il nostro Griffith" sostiene Adriano Aprà che in una prefazione così intitolata, scrive fra l’altro. “Questo bellissimo libro di Annamaria Licciardello penetra nell’”officina” Grifi con disinvoltura e sapienza. Mai saccente nonostante l’origine universitaria del testo: una tesi di dottorato qui molto rielaborata – mi ha insegnato cose che ignoravo (…) Ma questo non è solo un libro su Grifi, sull’avanguardia cinematografica e su quella culturale di certi anni. È anche una riflessione sul cinema e sul video, e su come questi mezzi sono stati trasformati, ‘inventati’, da artisti che volevano superare le impasses del cinema commerciale”.

Segue ora un incontro con Annamaria Licciardello.


Il cinema laboratorio di Alberto Grifi (2)

A Annamaria Licciardello (in foto) ho rivolto alcune domande.

In apertura del tuo libro scrivi che “Il cinema di Alberto Grifi è per me indissolubilmente legato al suo archivio”. Che cosa ti ha portato a quell’affermazione?

In questa affermazione confluiscono elementi differenti ma fondamentali. In primis un dato personale, all’inizio per motivi di studio e poi lavorativi la mia conoscenza di Alberto Grifi e del suo cinema si è costruita all’interno del suo archivio, proprio in mezzo agli scatoloni e gli scaffali. Ho avuto modo di vedere (e di partecipare) da un lato la gestione molto personale dell’archivio, come venisse “vissuto” dal suo proprietario più che semplicemente organizzato e conservato, e dall’altro il lavorio che da esso traeva origine. Fino alla fine Grifi ha, infatti, rilavorato, rimontato, riutilizzato i suoi film del passato e in generale i materiali del suo archivio sia per creare nuove versioni di film esistenti che delle nuove opere. L’archivio, insomma, e ciò che vi è conservato non sono definitivamente fissi e rivolti al passato, ma vivi e in continuo dialogo con il presente. Per Grifi procedere in avanti presuppone un tornare sui propri passi, lo fa, però, senza nostalgia al contrario con l’ironia che solo il distacco sa dare.

In Grifi coesistono sia gli ardori del ’68 sia quelli del ’77, anticipando spesso sia i primi sia i secondi. Com’è avvenuta questa convivenza in lui di due culture confinanti ma diverse?

Grifi non partecipa né assiste al movimento del ’68 a causa dell’arresto per droga che lo costringe a due anni di detenzione. Vive però tutto il periodo precedente con grande intensità sia a livello personale che artistico: sono gli anni della neoavanguardia e della controcultura. Su questa base si innesta subito dopo e grazie al ’68 la sua conoscenza dei testi dei situazionisti che tanto lo hanno segnato nel decennio settanta. Direi che in questa prospettiva il filo rosso che tiene insieme i vari momenti è la spinta antiautoritaria, che è uno degli elementi fondanti del movimento studentesco del ’68, e un’idea di rivoluzione che coinvolge anche la vita quotidiana e non soltanto i rapporti di classe, che caratterizza il “Vogliamo tutto” dei movimenti giovanili della seconda metà degli anni settanta.

Esiste un Grifi che tiene corsi e seminari: Dams, la scuola di cinema di Marco Muller.
Vuoi dirci qualcosa sul suo metodo didattico
?

Il metodo di Grifi ha radici lontane perché mi sembra riproduca la sua maniera di lavorare con il padre durante l’infanzia. In quel periodo infatti il piccolo Alberto collaborava con il resto della famiglia al lavoro paterno, mischiandolo al gioco e quindi al piacere del fare e del saper fare. L’insegnamento si realizza, quindi, attraverso il portare avanti un progetto congiunto o lo sperimentare fattivamente una certa tecnica di ripresa. La comprensione e l’apprendimento di elementi teorici ma anche pratici si raggiungono attraverso l’azione, la partecipazione, la condivisione. Durante i vari corsi che ha tenuto al DAMS di Bologna, nella scuola di cinema di Barbarano Romano o altrove, Grifi ha spesso coinvolto gli studenti nel rimontaggio o nelle riprese aggiuntive da inserire nei suoi vecchi film, perennemente aperti e in fieri. Il coinvolgimento diretto degli allievi è centrale, il film di Grifi diventa il progetto di tutti, il piacere di realizzarlo la spinta verso l’apprendimento.

Quando invitai Alberto a produrre un’edizione radiofonica della “Verifica incerta”, lui aveva avuto qualche esperienza a Radio 2, ma la forma sperimentale del contenitore “Fonosfera” lo coinvolse fino a produrne un piccolo gioiello: un suo monologo intercalato da brani della colonna sonora del film. Successivamente collaborò a lungo con Pinotto Fava realizzando parecchi programmi. Chi è Alberto alla radio?

La radio è stata per Alberto Grifi un porto franco in un periodo – gli anni ottanta – in cui ogni altra strada di agibilità e sperimentazione gli era preclusa. E qui ha portato il suo modus operandi che trova nell’archivio il suo radicamento. I lavori radiofonici di Grifi germinano dal suo cinema (Verifica incerta o Anna), o da alcuni temi cari e costanti, il carcere, la falsificazione nella “società dello spettacolo”, i telespettatori-consumatori, che trovano però una originale messa in forma attraverso il montaggio di elementi sonori eterogenei. Grazie alla libertà d’azione che la radio e soprattutto i contenitori come Fonosfera e Audiobox permettevano, Grifi ha avuto modo di riflettere e rilavorare i materiali passati in una maniera nuova che successivamente è confluita nelle sue ultime produzioni audiovisive.

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Annamaria Licciardello
Il cinema laboratorio di Alberto Grifi
Prefazione di Adriano Aprà
Nota editoriale di Fabio Francione
Pagine 200, Euro 20.00
Falsopiano


La mezzaluna e la Luna dimezzata (1)


Molte volte questo sito si è occupato del Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze), ma se, com’è largamente possibile, qualcuno capitasse qui per la prima volta e volesse saperne di più su quell’organizzazione, basta un CLIC.

Il Cicap – Presidente Alberto Angela, Segretario nazionale Massimo Polidoro – è presente in tutte le regioni italiane e promuove conferenze, convegni ed altri eventi pubblici, inoltre dispone di una radio, della rivista online Query, e di un’editrice: I Quaderni del Cicap. Sono chiamati quaderni, ma, in realtà, per quantità di pagine sono veri e propri libri.
I Quaderni – diretti da Massimo Polidoro – si avvalgono del coordinamento redazionale di Elena Iorio e della supervisione scientifica di Marco Ciardi (lo ricordo ospite di questo sito quando pubblicò Il mistero degli antichi astronauti e prossimamente in queste pagine web presenterà “Frankenstein” scritto con Pierluigi Gaspa).

Nei Quaderni Cicap è uscito un libro che illumina un territorio religioso che da molti anni a questa parte, per fatti bellici o terroristici, occupa le prime pagine dei quotidiani: l’Islam.
Titolo del volume: La mezzaluna e la Luna dimezzata Islam, pseudoscienza e paranormale; sulla copertina uno squillo eloquente: “Pseudoscienze e bufale non sono un’esclusiva del mondo occidentale”.
Autore: Stefano Bigliardi.
È assistent professor di Filosofia all’AUI (Università Al AkhAwayn di Ifrane) in Marocco.
Dopo il dottorato in Filosofia a Bologna, si è specializzato nel dibattito contemporaneo su scienza e religione, con particolare attenzione all’Islam, ma anche alle nuove religioni e ai loro rapporti con le pseudoscienze.
Ha lavorato quale ricercatore e docente presso diverse istituzioni universitarie in Germania, Svezia, Messico, Svizzera.
È autore di “Islam and the Quest for Modern Science” (SRII, 2014) e di numerosi articoli sia accademici sia divulgativi, in italiano e in inglese.
Cliccare QUI per saperne di più sul suo lavoro.

“La mezzaluna e la Luna dimezzata” è il primo libro in italiano che discute sistematicamente le molte pseudoscienze e teorie antiscientifiche e cospirazioniste che caratterizzano il mondo musulmano, evidenziandone le somiglianze e le sovrapposizioni con quelle occidentali.
Di solito, nelle segnalazioni librarie si usa dire spesso presentando un titolo che è “un libro per tutti”. Questo non lo è, ma è un libro per molti. Perché la lettura, oltre all’illustrazione di tic, tabù e bufale dell’universo esaminato, aiuta a comprendere il perché e il come i musulmani agiscano – sia pure fra loro differenziandosi – in un modo che è all’origine di tanti successivi comportamenti, anche quelli estremi.
Un libro che dovrebbero leggere i tanti giornalisti della carta stampata, delle radiotv, del web; docenti e discenti applicati sul tema Islam. E, naturalmente, chi è interessato allo studio delle religioni e delle astrusità con le quali è arredato il cervello di chi crede, specialmente nelle religioni monoteiste.

Dalla presentazione editoriale.
«Quanto conosciamo davvero il mondo islamico e che cosa sappiamo delle sue credenze e superstizioni? Se le pseudoscienze diffuse nel mondo “occidentale” sono da tempo oggetto di studio, non si può dire lo stesso di quelle del mondo musulmano, inteso sia geograficamente che culturalmente; un mondo estremamente variegato, tanto che gli studiosi preferiscono parlare “degli Islam”, al plurale. Forme di pseudoscienza, antiscienza e cospirazionismo sono piuttosto ricorrenti al suo interno, come dimostrano la medicina coranica o il motivo folklorico del “grande convertito”. Attraverso l’analisi sistematica di tali narrazioni, l’autore ci accompagna in un viaggio tra le credenze del mondo musulmano aiutandoci a sfatare molti degli stereotipi più diffusi e a ricostruire uno sguardo globale sulle teorie pseudo e antiscientifiche».

Segue ora un incontro con Stefano Bigliardi.


La mezzaluna e la Luna dimezzata (2)

A Stefano Bigliardi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Com’è nato questo libro?

Viene da relativamente lontano, nel tempo e nello spazio, e da più direzioni. Mi sono laureato in Filosofia a Bologna e tra Bologna e la Germania mi sono addottorato in Filosofia della Scienza. A questa formazione si deve l’interesse per le questioni di interpretazione testuale, l’analisi dei concetti, la storia delle idee, lo studio dei metodi delle scienze naturali. Per la mia ricerca post-dottorale, con una scelta che all’epoca mi è costata un certo ostracismo, perché “deviante” rispetto al percorso precedente e comunque insolita, ho deciso di studiare il dibattito contemporaneo su Islam e scienza. Non la storia della scienza nel mondo musulmano, bensì il modo in cui autori musulmani contemporanei tengono insieme scienza e fede. La scelta era dovuta al desiderio di rendere professionale un interesse che avevo sempre nutrito, parallelamente agli studi, rispetto al mondo arabo-islamico, ma anche di studiare idee con più “impatto” e diffusione tra le persone comuni di quelle di cui mi ero occupato nella tesi dottorale, molto astratta. Mi sono accorto di quanta pseudoscienza ci fosse in quella che veniva presentata come armonizzazione di scienza e religione. Infine, amo l’insegnamento; ho lavorato in una scuola a Città del Messico con studenti adolescenti. Da un lato mi piace la sfida di spiegare idee e teorie in termini comprensibili ai non specialisti. Dall’altro, insegnando a giovanissimi, mi sono reso conto di quanto certe teorie o idee (per esempio sulle malattie, ma anche su politica e società) portino a comportamenti dannosi. E allora non le puoi studiare e insegnare rimanendo neutrale. Nel libro c’è tutto questo: uno studio e una critica della pseudoscienza nel mondo musulmano, spiegati ai non specialisti. Il CICAP era ovviamente un supporto e un veicolo perfetto per questo lavoro. L’idea ha preso forma dopo una conferenza CICAP su questi temi tenuta a Torino a dicembre 2016. Ci tengo ad aggiungere che, dopo molte peregrinazioni accademiche (Germania, Svezia, Messico, Svizzera) al momento, come hai detto presentandomi, sono professore di Filosofia in un’università statale marocchina, la AUI.
Il contatto con il mondo musulmano, costante e diretto, ha molto favorito la nascita del libro.

Qual è la principale differenza fra la Bibbia e il Corano?

Il Corano risale a quattordici secoli fa. È ritenuto la parola di Dio, fedelmente trascritta e trasmessa. Non è solo un testo “ispirato” né tantomeno “scritto” dal Profeta. Il suo messaggio teologico è uno stretto monoteismo (Dio è una persona sola e non ha “figli”). Contiene una serie di prescrizioni adempiendo alle quali si merita un aldilà di delizie. Contiene anche narrazioni riferite a personaggi o episodi che in parte o in tutto si sovrappongono a quelli biblici (Gesù, per esempio; però per l’Islam è solo un profeta). A una prima lettura da parte di un non esperto può dare un’impressione di confusione, o di una maggior frammentarietà rispetto alla Bibbia. Per esempio, la creazione non è oggetto di una narrazione fluida e dettagliata come nella Genesi (relativamente fluida, dovrei dire, visto che la Genesi ha i suoi problemi di coerenza...).

Di fronte a condotte feroci laddove sono protagonisti musulmani (si pensi all’Isis, ad esempio), c’è sempre chi dice che quei comportamenti non sono da “veri musulmani”. Esiste tanta ambiguità nelle pagine del Corano da permettere interpretazioni tanto lontane fra loro?

Come in vari testi sacri a me noti, sì.

Il tuo libro, come ho detto prima, oltre ad essere uno studio eccellente sulla religione islamica, pone, a mio avviso un evidente, più generale, interrogativo. Quale meccanismo psicologico induce a reputare per vere cose impossibili?

Parli di “meccanismi psicologici”. Per una risposta scientifica e accurata dovresti chiedere a uno psicologo, o a uno scienziato cognitivo. Sappiamo quanto il CICAP sia sensibile agli “sconfinamenti” disciplinari e alle questioni di metodo, e lo sono anche io! Permettimi però una risposta terra terra: per quello che vale. Tendo a pensare che l’impossibilità stia nell’occhio di chi guarda e nel contesto, inteso sia come “cornice” entro cui si trova la credenza in qualcosa di “impossibile”, sia come le altre credenze (o speranze) che quella si porta dietro. Inoltre, la valutazione dell’impossibilità può non dipendere direttamente dal grado di istruzione. Prendiamo il modulo narrativo: “Qualcuno incontra un essere soprannaturale che gli dona una cura miracolosa per una malattia notoriamente inguaribile”. Se un insegnante si sente dire da uno studente “Prof, non ho fatto i compiti perché mi è apparsa la Divinità Tale su una tigre alata, e mi ha regalato un elisir per la malattia Talaltra”, ebbene, con ogni probabilità l’insegnante scrollerà le spalle e darà un cinque al fantasioso studente. Se però la narrazione relativa all’apparizione della Divinità Tale è riferita a una figura profetica del passato, è trasmessa in un testo tradizionale, riverito nell’ambiente in cui il professore (persona di buona cultura e senso critico) è cresciuto, se l’idea di possedere l’elisir alimenta una sensazione di superiorità per la cultura che rispetta tale tradizione religiosa, e se, infine, l’insegnante, o una persona che gli sta a cuore, soffre di quella malattia, ecco che il racconto tenderà a essere creduto, e magari pure difeso con veemenza se attaccato criticamente da altri. Attenzione: non dico che l’impossibilità sia intrinsecamente ed esclusivamente culturale… Mi riferisco solo alla sua valutazione intuitiva. E allora: possiamo trovare un accordo interculturale rispetto ai “fatti” delle scienze senza intaccare troppo credenze tradizionali e questioni di identità e orgoglio? A detta di alcuni scienziati musulmani impegnati contro la pseudoscienza, che menziono nel libro, sì.
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Stefano Bigliardi
La mezzaluna e la Luna dimezzata
Pagine 192, Euro 9.90
I Quaderni del Cicap


Festa per la Liberazione


“Lo spirito che animava le donne e gli uomini della Resistenza fu una attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e autoironia sulla stessa propria fierezza guerriera, il senso di incarnare la vera autorità legale e di autoironia sulla situazione in cui ci si trovava a incarnarla, un piglio talora un po’ gradasso e truculento ma sempre animato da generosità, ansioso di far propria ogni causa generosa.
A distanza di tanti anni, devo dire che questo spirito, che permise ai partigiani di fare le cose meravigliose che fecero, resta ancor oggi, per muoversi nella contrastata realtà del mondo, un atteggiamento umano senza pari”.

Italo Calvino, da “La generazione degli anni difficili”, Laterza, Bari 1962.


“La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c'è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline”.

Pier Paolo Pasolini, Il caos, 1979 (postumo).


Il 25 aprile è una di quelle date che va scolorendosi sulle pagine della Storia perché chi doveva vigilare su di essa perpetuandone i valori, ha rivolto la propria attenzione a cose assai diverse. Pochissimo o nulla facendo, per evitare che vent’anni di berlusconismo (e gli anni renziani non sono stati da meno, anzi, proprio perché travestiti da Sinistra, più danni hanno fatto) ottundessero coscienze e slanci.
Ma è roba che viene da lontano.
La prima ferita inferta alla Resistenza fu l’amnistia per i repubblichini e le loro spie voluta da Togliatti, il 22 giugno ’46. Quell’amnistia fu contestata sia da parte della base del Pci, sia dal fronte democratico non comunista che videro chiaramente il pericolo, puntualmente avveratosi, di una mancata defascistizzazione del Paese. Fu, infatti, seguita da quattro amnistie – varate da governi Dc – che allargarono ulteriormente i termini temporali e la casistica dei reati commessi dai fascisti.
Ma Togliatti mica si fermò all'amnistia. Assumerà, infatti, al suo Ministero il presidente del Tribunale della Razza, Azzariti, il quale diventerà poi Presidente della Corte Costituzionale!

Ora, il 25 aprile è ricordato da alcuni uomini politici solo in quel giorno del calendario perché negli altri 364 hanno ben altro cui pensare come dimostrano le benvenute inchieste della Magistratura sulla corruzione.


Superdonne scienziate

Ancora oggi nel mondo scientifico solo un 5% dei vertici è donna, mentre è donna oltre il 60% della manovalanza e il 35% occupa ruoli di segreteria o amministrativi.
Fu uno dei principali motivi che nel 1999 determinarono la creazione nell’Unesco di un organismo per aiutare la donna a entrare nel mondo della scienza.
Eppure nonostante i molti ostacoli dovuti a tanti pregiudizi, ancora non del tutto vinti, esistono tante donne che hanno lasciato il loro nome nella storia delle Scienze.
Ne è testimonianza un ottimo libro pubblicato dalla casa editrice Salani: Storia e vite di Superdonne che hanno fatto la scienza.
L’autrice è Gabriella Greison.
Nel catalogo Salani, altri suoi volumi: Le giacche degli allenatori; L'incredibile cena dei fisici quantistici; Hotel Copenaghen.

Per entrare nel suo sito web, basta un CLIC.

Questo libro raccoglie venti storie e venti illustrazioni di donne straordinarie, eccole in ordine alfabetico così come ha voluto l’autrice disporle nelle pagine: Maria Gaetana Agnesi – Laura Bassi – Elizabeth Blackwell – Samantha Cristoforetti – Marie Curie – Rosalind Franklin – Maria Goeppert Mayer – Margherita Hack – Sofija Kovalevskaja – Rita Levi-Montalcini – Barbara McClintock – Lise Meitner – Maria Mitchell – Maria Montessori – Grace Murray Hopper – Ipazia – Ada Lovelace – Teano – Valentina Tereskova – Chien-Shiung W.

Grandi firme d’illustratori e artisti internazionali dedicano un omaggio ritrattistico alle super scienziate, tutti uomini (la cosa è voluta, non è una gaffe editoriale): Paolo Bacilieri – Peppo Bianchessi – Jean Blanchaert – Jacopo Bruno - Davide Calì – Ivan Canu – Andrea Cavallini – Aldo Damioli Gianni De Conno – Manuele Fior – Peppe Giacobbe – Neil Gower – Federico Maggioni – pierre Mornet – Fabian Negrin – Lorenzo Pietrantoni – Davide Pizzigoni – Vadimir Radunsky – Guido Scarabottolo – Stephan Walter.

In apertura dicevo di un organismo creato dall’Unesco per favorire l’ingresso delle donne nell’universo scientifico. A quello strumento fu dato il nome Ipazia.
Perché Ipazia? Perché Ipazia (370 - 415 d.C.), erede della Scuola Alessandrina, fu filosofa, matematica, astronoma, antesignana della scienza sperimentale; studiò e realizzò l’astrolabio, l’idroscopio e l’aerometro.
Ne ebbe gioie? Mica tanto. Aizzati dal vescovo Cirillo nel marzo del 415 un pio gruppo di uomini di fede cristiana, guidati dal lettore Pietro, la sorprese mentre ritornava a casa, la tirò giù dalla lettiga, la trascinò nella chiesa costruita sul Cesareion e la uccise brutalmente, scorticandola fino alle ossa (secondo alcune fonti utilizzando “ostrakois” - letteralmente "gusci di ostriche"), e trascinando i resti in un luogo detto Cinarion, dove, giusto per andare sul sicuro, bruciarono quei resti.
Cirillo d’Alessandria? Fu fatto santo.
Del resto, che vogliamo aspettarci da quella parte se un Dottore della Chiesa qual è San Tommaso d’Aquino così scrive “La donna è fisicamente e spiritualmente inferiore (…) Essa è addirittura un errore di natura, una sorta di maschio mutilato, sbagliato, mal riuscito”.
Va ricordato che anche alla matematica Teano (circa il 500 a.C.) non andò meglio, fu uccisa da un gruppo di uomini inferocito perché non credeva ai suoi insegnamenti e, soprattutto, riteneva disdicevole che una donna si occupasse di scienza.
Sia a Teano sia a Ipazia sono dedicati capitoli del libro di Gabriella Greison.
Sul rapporto donne e scienza, così scrive Rita Levi-Montalcini: "Geneticamente uomo e donna sono identici. Non lo sono dal punto di vista epigenetico, di formazione cioè, perché lo sviluppo della donna è stato volontariamente bloccato".

Di questo libro il genetista Edoardo Boncinelli ha scritto: «Le Superdonne esistono e sono vicine a noi, basta saperle riconoscere. Con questo libro Greison fa vedere a tutti da che parte guardare per capire di chi siamo eredi. Un libro fondamentale, consiglio una storia ogni sera, come favola della buonanotte o augurio del buon risveglio».

Gabriella Greison
Storia e vite di Superdonne che hanno fatto la scienza
Pagine 128, Euro 16.90
Salani Editore


Il caso Roatta (1)


Se le Edizioni Odradek non esistessero, bisognerebbe fondarle.
Possiamo, però, risparmiarci la fatica perché fortunatamente esistono, lo dice uno come me che è lontano politicamente da parte di quel catalogo, ma che ne ammira un’altra parte, peraltro cospicua, che affronta temi storici – specie dall’angolatura antifascista – con libri che altrove non spesso si trovano. Ciò è dovuto a Claudio Del Bello che la dirige, intellettuale lucidissimo; mi fa rabbia non pensarla come lui e spero (invano) che anche a lui faccia rabbia non pensarla come me.
Anche quella parte di catalogo che mi vede lontano da certi titoli, va detto che sono libri condotti da autori di grande onestà intellettuale. Non è cosa di tutti i giorni.
Altro merito di Odradek è dare spazio ad autori di giovane età che – a dispetto dei parrucconi i quali parlano malissimo di tutti, proprio tutti, i giovani – dimostrano d’essere capaci di studi serissimi.
È il caso dell’autrice della quale Cosmotaxi si occupa oggi: Laura Bordoni.
Nata a Sondrio nel 1991, alunna del collegio Ghislieri e dello IUSS di Pavia, è laureata in Storia d’Europa all’Università pavese degli Studi.
Attualmente dottoranda di ricerca presso la stessa Università.
Pubblicato da Odradek, ha scritto un libro eccellente che consiglio di leggere: Il caso Roatta.
Sottotitolo già promettente ed eloquente: Londra e i crimini di guerra italiani: dalle accuse all’impunità (1943 – ’48).
Si tratta di un volume condotto con grande rigorosità, niente romanzerie, ma esibizione di date, fatti e, soprattutto, documenti riprodotti perfino fotograficamente.
Italiani brava gente? Mica tanto. La Bordoni cita trame e stragi di cui dovremmo vergognarci. Inoltre, illustra come il servizio segreto italiano (allora Sim, ‘Servizio Informazioni Militare’, così chiamato dal 1925 al 1945) invece di essere al servizio dello Stato come sarebbe stato suo dovere, si fosse posto esclusivamente al servizio di un Partito, quello fascista, diventando in tal modo “deviato” in tutto il suo organismo con – questo lo aggiungo io – conseguenze che si ripercuoteranno fino ai nostri anni.
Dopo il Sim, venne il Sifar e il Sid, allegria!
Il libro spiega pure le origini della guerra fredda, in un gioco diplomatico fra Stati replicato con schemi simili infinite volte dopo la seconda guerra mondiale.
Attraverso la tenebrosa figura di Roatta, Bordoni fa il ritratto di un’epoca con i suoi intrighi, complicità, depistaggi.
Le pagine si concludono con un’accurata bibliografia e un’attenta sitografia nonché (abitudine che, purtroppo, chissà perché va rarefacendosi nella nostra editoria) un Indice dei nomi.

Nella prefazione, scrive Davide Conti: “… il lavoro di Laura Bordoni assume un valore di particolare significato in quanto riformula e rappresenta lo scenario italiano attraverso la lente d’ingrandimento e gli occhi del governo di Londra ovvero della cancelleria che più di ogni altra, in seno allo schieramento alleato, si occupò e preoccupò del caso Roatta”.

Dalla presentazione editoriale
«Mario Roatta, militare di carriera, capo del servizio segreto del SIM, generale del regio esercito, in fuga da Roma l'8 settembre 1943, accusato di crimini di guerra in Jugoslavia. Grazie alla ricerca d'archivio sulle fonti inglesi del Foreign Office l'autrice ricostruisce lo sguardo particolarmente attento e interessato del governo e dell'opinione pubblica inglese che si occuparono e preoccuparono di questo personaggio tanto rilevante ma che repentinamente passarono da una ferma volontà di punizione ad una più lasca indulgenza poggiante sulle necessità della “ragion di Stato”.
Una vicenda fatta di segreti militari, rapporti politico-diplomatici inconfessabili, fughe».

Segue ora un incontro con Laura Bordoni.


Il caso Roatta (2)

A Laura Bordoni (in foto) ho rivolto alcune domande.

Dei tanti misfatti nazifascisti sui quali potevi indagare, da quale principale ragione la tua attenzione è stata attratta proprio dalla figura di Roatta?

Ho scelto di occuparmi di Mario Roatta perché Roatta fu uno dei più grandi criminali di guerra italiani, rispetto al quale la Jugoslavia fece le maggiori pressioni per ottenere giustizia. Egli però non fu soltanto un criminale di guerra; fu anche, e da molto prima, un fascista di primo piano, implicato in operazioni segrete e in scandali di regime, con ruoli decisivi, prima, nel quadro della politica militaristica mussoliniana – uno su tutti, il comando del SIM – e, poi, dopo l’8 settembre, all’interno del governo Badoglio, al servizio degli Alleati. Da questa complessità di elementi è derivato l’interesse a ricostruirne il “caso”, che si configura assolutamente emblematico sia per la vicenda dei crimini di guerra italiani sia per la tematica della “continuità dello Stato” indagata da Claudio Pavone.

Quali le responsabilità dirette avute da Roatta?

Roatta, assunto nel 1942 il comando della Seconda Armata in Slovenia e in Dalmazia, fu l’estensore della famigerata Circolare 3C, un pamphlet in cui si delineava una strategia di controguerriglia contro partigiani e civili jugoslavi durissima, basata su deportazioni, internamenti, fucilazioni e rappresaglie. Complessivamente, è stato calcolato che durante l’occupazione fascista della Jugoslavia Roatta si fosse reso responsabile della distruzione di 800 villaggi, della deportazione forzata di 35000 persone nei campi di concentramento in Italia, della morte per inedia di 4500 ostaggi nei campi italiani in Jugoslavia e della fucilazione di 1000 ostaggi in mano italiana.

Quali i motivi che determinarono, da parte soprattutto inglese, in un primo tempo severità verso Roatta e altri criminali di guerra italiani per poi favorirne l’impunità?

Gli inglesi garantirono l’impunità a Roatta per un motivo essenzialmente politico: Roatta fu uno degli ufficiali firmatari e garanti delle clausole armistiziali e, dunque, essi capirono che permetterne l’estradizione e conseguentemente il processo avrebbe potuto influire negativamente sugli equilibri politici anglo-italiani, compromettendo non solo l’andamento della guerra contro i tedeschi ma anche il raggiungimento di un preciso obiettivo politico a lungo termine, cioè la salvaguardia dell’influenza britannica sull’area mediterranea. Rispetto agli altri criminali di guerra italiani, invece, l’atteggiamento inglese subì una significativa evoluzione: in una prima fase, tra il settembre del ’43 e il ’45, la Gran Bretagna si dichiarò disposta a processare i colpevoli e, in alcuni casi, effettivamente procedette; successivamente, però, tra il ‘46 e il ‘47, con la progressiva delineazione della Guerra Fredda e la necessità di consolidare la posizione dell’Italia all’interno del blocco occidentale, divenne chiaro che non era conveniente da un punto di vista politico rispondere alle richieste di estradizione avanzate da un paese comunista quale era la Jugoslavia e, pertanto, fu premura del governo britannico abbandonare la questione, lasciandola interamente nelle mani italiane.

Perché non c’è stata una Norimberga italiana? E, anzi, perfino amnistie per i repubblichini da quella di Togliatti (contestata da parte della base e da altri movimenti antifascisti) ai successivi ampliamenti di quella legge varati da governi Dc?

Non c’è stata una Norimberga italiana perché celebrare i processi contro i nazisti che avevano commesso crimini di guerra in Italia avrebbe comportato per le autorità italiane l’imbarazzante rischio di vedere perseguiti i propri criminali di guerra e quindi di dare dell’Italia l’immagine di un paese vinto. Tale immagine avrebbe minato i tentativi di ottenere, in virtù della cobelligeranza, un trattamento di favore alle trattative di pace di Parigi; così le autorità italiane preferirono un “baratto della giustizia”: rinunciarono a far luce sui crimini perpetrati dai nazisti per non dovere far luce sui crimini perpetrati dagli italiani.
Per quanto riguarda l’amnistia Togliatti, essa nacque da un’effettiva esigenza di pacificazione e di normalizzazione avvertita diffusamente nel Paese, ma venne applicata dalla Cassazione in maniera totalmente indiscriminata: ciò garantì la riabilitazione di quasi tutti gli ex-repubblichini, compresi quanti avevano ricoperto ruoli dirigenziali all’interno della RSI.

Come ho accennato in apertura, il tuo libro è benvenuto in un momento storico in cui si assiste ad una recrudescenza del neonazismo e dell’antisemitismo. A chi attribuire le maggiori colpe nel non avere previsto e prevenuto quanto oggi assistiamo?

Il problema principale è che l’Italia non ha mai fatto i conti col fascismo: l’impunità garantita ai criminali di guerra italiani ne è un esempio emblematico, l’amnistia concessa a coloro che avevano commesso crimini di collaborazionismo altrettanto. A causa di una grande mancata operazione di giustizia si è assistito, nei decenni, al rafforzamento del mito del “bono italiano”, il quale ha contribuito a creare, assieme ad una certa storiografia revisionista, un’immagine complessivamente edulcorata della politica di occupazione fascista e del regime in generale.
Alla luce di tutto questo, credo allora che lo studio della questione dei criminali di guerra italiani e delle ragioni che furono alla base della loro impunità, anche da un punto di vista esterno come quello inglese, possa servire a combattere contro quel falso mito e a riappropriarci di una pagina di storia nazionale che purtroppo per molto tempo è stata volutamente rimossa.

…………………………….

Laura Bordoni
Il caso Roatta
Con documenti fotografici
Pagine 164, Euro 16.00
Odradek Edizioni


Variazioni su Space Invaders


Settimane fa questo sito ha pubblicato nella sez. Nadir uno degli esperimenti del musicista Michele Zaccagnini (in foto).

Oggi due suoi nuovi video. Per presentarli passo a Zaccagnini la parola.

I due video "Variazioni su Space Invader” fanno parte di un pezzo per due violoncelli, elettronica e video che verrà eseguito a Denver, Colorado, il 27 Aprile dall’ensemble “Nebula”. Il pezzo si basa su un’analisi “microscopica” di suoni di violoncello: ho analizzato lo spettro di suoni pre-registrati di violoncello (pizzicato, sul ponticello, ordinario ecc); successivamente ho creato delle matrici in cui ho salvato i parametri dei suoni. Infine ho utilizzato le matrici per in due modi diversi: come parametri per una ri-sintesi del suono stesso attraverso oscillatori digitali (un modo per creare effetti pseudo-acustici con suoni digitali) e come coordinate spazio-temporali per una visualizzazione 3d dei suoni stessi.

Video 1

Video 2

I brani presentati nei precedenti links costituiscono la parte audio e video della parte elettronica a cui si aggiungeranno i violoncelli “reali” fornendo un complemento acustico.



Nuovo libro di Peres

Nato a Milano nel 1945 ma residente a Roma dalla nascita, Ennio Peres è uno dei più autorevoli esperti di giochi della mente in Italia. E non solo in Italia.
Pochi sanno, però, che è stato anche un astronauta. Ricordo, infatti, che anni fa compì sulla taverna da me aperta sull’Enterprise di Star Trek un viaggio spaziale.
Provate ad affacciarvi su quella conversazione e sentirete il giocologo Peres (giocologo è il suo modo di autodefinirsi) discutere di storia, di letteratura, di Einstein e Prigogine.
Ex professore di Informatica e di Matematica, è autore di oltre quaranta libri di argomento ludico e scientifico, nonché ideatore di giochi in scatola e radiotelevisivi. Collabora con molte testate quotidiane e periodiche; in particolare, su linus cura dal 1995 la rubrica "Scherzi da Peres". Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra i quali:
- 1990: Premio Ancora d’argento, come autore del libro Rebus (Stampa Alternativa)
- 1998: Premio Gradara Ludens, come personaggio extraludico dell’anno.
- 2006: Premio Personalità ludica dell’anno 2005;
- 2008: Trofeo ARI (Associazione Rebussistica Italiana), per la duplice immagine di autore e divulgatore dell'arte del Rebus.

Ora è nelle librerie un suo nuovo libro: Corso di enigmistica Tecniche e segreti per ideare e risolvere rebus, anagrammi, cruciverba e altri giochi di parole.
Come l’attività fisica è fondamentale per tenere in forma il corpo, così un’adeguata ginnastica cerebrale è indispensabile per mantenere sveglia e agile la mente. I giochi enigmistici possiedono la caratteristica peculiare di stimolare il ragionamento e di offrire perciò un proficuo addestramento cerebrale. Sono inoltre estremamente funzionali, perché il divertimento e la soddisfazione che procurano a chi li risolve inducono una forte motivazione a continuare a esercitarsi. Questo libro fornisce le nozioni basilari per acquistare confidenza con i più significativi giochi di parole enigmistici (oltre ad alcuni prettamente linguistici), non solo per cominciare a praticarli con disinvoltura, ma anche per cimentarsi nella loro ideazione.
Si legge con interesse, e con divertimento.

Ennio Peres
Corso di Enigmistica
Pagine 180, Euro 19.00
Carocci



Maga


Ma*Ga è l’acronimo di Museo Arte Gallarate, già conosciuto dal 1966 come locale Civica Galleria d'Arte Moderna. È gestito dal 2009 dalla Fondazione Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea Silvio Zanella che vede quali soci fondatori il Ministero per i Beni e le Attività Culturali con il Comune di Gallarate, e come partner istituzionali la Regione Lombardia con la Provincia di Varese.
Per una storia del Museo, diretto dal 2001 da Emma Zanella, CLIC.
Da tempo è un’importante ribalta delle arti visive presentando mostre di qualità internazionale, tra i suoi meriti c’è anche avere allestito e sostenuto con grande cura un Dipartimento educativo che “E' una ricchezza irrinunciabile per il museo" – afferma Zanella – “le attività che sono state organizzate e che ancora saranno proposte, rappresentano la spina dorsale di questa istituzione, il vero punto di dialogo e d’incontro con il pubblico”.

Il Dipartimento è guidato da Lorena Giuranna; l’organigramma completo è composto di Marika Brocca, Elena Scandroglio (Infanzia e famiglie), Francesca Chiara (Adulti), Alessandro Castiglioni (Progetti di ricerca e web).
Il Dipartimento quest’anno ne compie 20, per festeggiarli ha chiesto a Riccardo Arena di realizzare, in collaborazione con Silvia Porro dell’Associazione AUSER, con Islay Dunlop e studenti dell’I.S.S. Falcone di Gallarate, un video che mostra gli ambiti di ricerca artistica e pedagogica più significativi trattati nei due decenni di attività. Il video è visibile, dal 21 marzo, sia sul sito del Museo sia QUI.

Dal comunicato stampa
«Gli ambiti di ricerca che il video attraversa con flash visivi e associazioni di immagini riguardano l’impegno con le scuole, dal nido alle secondarie di primo grado, i progetti per il pubblico degli adolescenti, le numerosissime collaborazioni con gli artisti, la formazione di adulti e insegnanti, gli eventi dedicati alle famiglie e i progetti sull’accessibilità.
Anche per il 2018, il Dipartimento sta realizzando diversi nuovi progetti, come i workshop con lo stesso Arena, Valerio Rocco Orlando e Lorenzo Conti, i laboratori e le conferenze specialistiche ideati per la mostra “Kerouac. Beat painting”, il laboratorio di tessitura permanente per tutte le età e il progetto dedicato agli orti didattici in collaborazione con l’azienda Ricola».

MAGA
Info: 0331 - 70 60 11
Via De Magri 1
Gallarate (Varese)


Gli eroi di Via Fani (1)


Nel quarantennale del rapimento di Moro e del massacro della sua scorta, la tv si è prodotta in molte trasmissioni.
Ne ho seguite parecchie e mi pare che la qualità media fosse buona.
La storia, dal secolo scorso, più che con la penna si scrive con l’audiovisivo, giusto, quindi, raccogliere testimonianze anche prevedendo (ma chiarendolo in onda) che alcune ricostruzioni delle Br sono probabilmente false e concordate con chissà chi.
Qualcuno di loro ha perfino delirato meritandosi la risposta di Maria Fida Moro
Di quelle trasmissioni, una cosa a molti – io sono fra quelli – è apparsa stonata. A parlare è stato soprattutto chi ha ucciso. Sarebbe stato opportuno dedicare spazi anche ai cinque caduti della scorta dimenticati da troppi.
Per fortuna, però, in questi giorni c’è chi li ha ricordati in sede libraria.
Da Longanesi, infatti, è stato pubblicato Gli eroi di Via Fani I cinque agenti della scorta di Moro: chi erano e perché vivono ancora.
L’autore è il giornalista Filippo Boni (1980) laureato in Scienze Politiche all’Università di Firenze con una tesi sui massacri nazisti in Toscana. Studioso del Novecento e degli anni di piombo, ha pubblicato saggi sulla Resistenza e sull’età contemporanea.


“Gli eroi di Via Fani” è un libro attraverso il quale dovrà passare chi vorrà in futuro ricostruire la vicenda di quel giovedì 16 marzo 1978 non solo in modo investigativo, ma in maniera complessiva, con gli aspetti umani – talvolta fatalmente singolari – degli uomini coinvolti in quella tragedia.
Il volume ha il pregio di non abbandonarsi a romanzerie, ma è il frutto di una rigorosa ricerca fatta presso le fonti – prima di tutte i familiari delle cinque vittime – e consultando i documenti in grado di tracciare la storia di quegli uomini che un cattivo destino ha voluto unire nel loro ultimo giorno.
Due carabinieri: Oreste Leonardi e Domenico Ricci; tre della P.S.: Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, solo da poco sono ricordati da una lapide (oltraggiata recentemente da scritte di brigatisti e poi da neonazisti) sul luogo della strage. Come sentirete fra poco dalle parole di Filippo Boni, ci sono voluti vent’anni affinché una legge dello Stato riconoscesse loro alcuni benefici. Sembra incredibile: vent’anni!
Mario Calabresi firma la prefazione dalla quale estraggo alcune righe: Filippo Boni è stato capace di scavare, con grande pazienza e delicatezza, nei ricordi e nelle sofferenze, e ha ricomposto un mosaico storico di grande valore. Testimonianze inedite che ci permettono di dare un volto a quei nomi che tutti hanno sentito ripetere nei telegiornali o durante le commemorazioni, perché erano esseri umani, non solo nomi e nemmeno simboli. Quando chiuderete le pagine di questo libro potrete dire di conoscerli, quei cinque uomini cammineranno con voi e non potrete più dimenticarli. È questo il compito della memoria, restituire alla comunità il valore di una vita e la forza di un esempio.

Per sfogliare pagine del libro: CLIC

Segue ora un incontro con Filippo Boni.


Gli eroi di Via Fani (2)

A Filippo Boni (in foto) ho rivolto alcune domande.

Com’è nato questo libro?

È nato come il mantenimento di una promessa, come un cerchio da chiudere. Da sempre mi occupo di storia contemporanea e di progetti atti alla conservazione della memoria, ma “Gli Eroi di Via Fani” è sorto in fondo ad una vecchia scatola di biscotti Lazzaroni, nella quale i miei genitori accumulavano molti oggetti relativi alla propria esistenza. Lettere, braccialetti, vecchie foto in disordine, appunti, biglietti. Nella metà degli anni duemila, frugando in quella scatola alla ricerca di distrazione e vecchi ricordi, trovai una moneta appiccicata ad un biglietto con un appunto di mio padre. "Estate '77 - 16.03.1978, per non dimenticarti, per non dimenticarli". Gli chiesi molte volte quale fosse la sua origine, ma solo pochi mesi prima di morire, nel 2009, mi rivelò che era un ricordo che lo legava alla conoscenza che aveva fatto con uno degli agenti di scorta di Aldo Moro, Franco Zizzi, che nell'estate del '77 gli aveva dato un passaggio in A1 fra Incisa e Firenze Sud, dopo che la sua auto era rimasta in panne in corsia di emergenza. Gli raccontò che si sarebbe voluto sposare l'anno successivo con una ragazza di nome Valeria, di Latina. Quando giunsero al casello di Firenze sud, mio padre si ricordò di aver dimenticato il portafoglio nel cruscotto della sua 126 in A1. Così Franco gli offrì dei gettoni ed alcuni spicci per telefonare da una cabina. Memore di quel gesto di generosità mise da parte una di quelle monete con il biglietto dell'A1, che per decenni sono rimasti in fondo a quella scatola. Inutile dire che il matrimonio di Franco non avvenne mai. Mio padre il 16 marzo 1978 guardando il telegiornale riconobbe tra gli agenti trucidati dalle Br in Via Fani proprio quel ragazzo che gli aveva dato un passaggio in A1 l'estate precedente. Ricercò quel biglietto ed appuntò la frase che ritrovai alcuni decenni dopo. Nel 2016, sette anni dopo la morte di mio padre, partii con la mia auto per chiudere quella promessa e per non perdere le vite dei cinque agenti di scorta di Aldo Moro, nel frattempo finite nel dimenticatoio della storia. Dopo quasi 5000 chilometri percorsi in solitaria, posso dire di avercela fatta a mantenere quella promessa. Ecco come è nato “Gli eroi di Via Fani”.

Nella stesura del testo qual è la prima cosa che hai ritenuto necessario praticare e quale la prima assolutamente da evitare?

La stesura del testo è composta da flashback. Il lettore viaggia nel tempo tra la seconda metà del '900 ed il presente in ripetuti salti che gli permettono di riscoprire la storia e la vita di quei cinque uomini massacrati in Via Fani e nel contempo le vicende che hanno segnato il secolo breve in Italia. La prima cosa dunque da tenere di conto è stata il rigore storico attraverso la ricerca e la lettura di fonti edite ed inedite che è durata anni. Senza il rigore storico un libro del genere sarebbe impossibile da scrivere. Ecco che dunque la prima cosa da evitare è stata l'improvvisazione e la superficialità. Senza lo studio delle fonti nulla è possibile.

Quale la principale difficoltà che hai dovuto affrontare in questo tuo lavoro?

Le difficoltà sono state molte, soprattutto quelle logistiche. Un viaggio di oltre 4500 chilometri nei luoghi più remoti dell'Italia non è impossibile ma indubbiamente difficile da affrontare. Ma soprattutto la difficoltà più grande è stata far comprendere alle famiglie delle vittime il senso del progetto, le sue ragioni, e la sua linea di fondo. Solo dopo vari tentativi e vincendo varie reticenze composte da silenzi durati 40 anni in alcuni casi siamo riusciti ad andare oltre e ad impostare il lavoro come costruttivo per le nuove generazioni.

A parte un aiuto con un posto in banca pervenuto dalla Dc ai fratelli di Iozzino, hai notizia di aiuti venuti dallo Stato alle famiglie?

L'aiuto dei partiti, delle associazioni, dell'Arma dei Carabinieri e della Polizia di Stato alle vittime c'è stato ed a più riprese, nel corso del tempo. Gli "aiuti" da parte dello Stato possono aver avuto varie forme, nel tempo, basti pensare al sacco di balocchi che il Presidente della Repubblica Sandro Pertini fece recapitare per l'epifania del '79 a casa dei fratellini Ricci, figli di Domenico, l'autista di Moro. Ma il vero e proprio pacchetto di leggi in favore dei familiari delle vittime del terrorismo invece ha avuto un iter più lungo e complesso in parlamento. Ha preso vita alla fine degli anni novanta e si è concluso nel 2004. Queste leggi hanno previsto per le famiglie una serie di misure in campo psicologico, sociale e risarcimenti economici. Il grande gap è stato il tempo. Sono arrivate con oltre vent'anni di ritardo, ma meglio tardi che mai.

I brigatisti, sia nel periodo della loro detenzione sia dopo, hanno fatto, oppure no, pervenire ai familiari degli agenti uccisi una richiesta di perdono?

Alcuni di loro si, alla fine degli anni '80. Morucci, Bonisoli e la Faranda, dissociati, incontrarono alcuni familiari. Altri no, hanno scelto la strada dell'irriducibilità, anche oggi dopo 40 anni da quei terribili fatti .

Viste le motivazioni del libro e la sua struttura, giustamente il tuo racconto si ferma alle 9.04 del 16 marzo 1978.
Ovviamente, però, hai ben studiato quel tragico episodio. Da qui la mia domanda: secondo te erano soltanto brigatisti a sparare in Via Fani
?

Non ho voluto occuparmi volontariamente del caso Moro, proprio per non cadere nel tritacarne storico-scientifico-giallistico sorto in questi 40 anni intorno a questa turpe vicenda. L'intento di questo volume era togliere dalla prigione di Via Fani quegli spettri di cinque uomini e restituire loro una dignità ed una vita fuori da lì. Grazie a Gli eroi di Via Fani sarà possibile adesso chiamarli per nome e soprattutto sapere chi erano e come avevano vissuto. E' evidente però che ancora non sappiamo tutto sulla strage di Via Fani, ci sono molti nodi da sciogliere. Una cosa è acclarata. Quell'attentato è stata opera delle Br. Se poi, come a molti pare, all'insaputa di molti brigatisti stessi, tra di loro c'erano infiltrati da altri, questa è un'altra storia che ancora nessuno ha chiarito del tutto.

…………………………………

Filippo Boni
Gli eroi di Via Fani
Prefazione di Mario Calabresi
Pagine 304, Euro 18.80
Longanesi


Il giro del mondo in sei milioni di anni

“Se ciò che io dico risuona in te, è semplicemente perché siamo entrambi rami di uno stesso albero”, così dice lo scrittore irlandese William Butler Yeats.

“In fondo alle gambe non abbiamo radici, ma piedi: piedi di cui ci serviamo dall’alba dei tempi per il colossale viaggio che impegna l’umanità fin da quando ha mosso i primi, timidi passi sul suolo”, così dice Esumim, un personaggio immaginario creato da Guido Barbujani e Andrea Brunelli che scandisce i capitoli di un colto, scorrevole, frizzante libro pubblicato da il Mulino: Il giro del mondo in sei milioni di anni.

Barbujani ha lavorato alle Università di Padova, State of New York a Stony Brook, Londra e Bologna, e dal 1998 è professore di Genetica all’Università di Ferrara.
Ha pubblicato: “L'invenzione delle razze” (Bompiani 2006); “Europei senza se e senza ma” (Bompiani 2008); “Sono razzista ma sto tentando di smettere”, Laterza, 2008; “Lascia stare i santi” Einaudi 2014; “Contro il razzismo” (con Marco Aime, Clelia Bartoli, Federico Falloppa) Einaudi 2016; “Il gene riluttante” (con Lisa Vozza), Zanichelli 2016.
Brunelli è dottorando di ricerca in Biologia evoluzionistica ed Ecologia all’Università di Ferrara.

La prosa, limpida ed efficace, e una narrazione di felice ritmo, fanno di questo libro un esempio di come va condotta la divulgazione scientifica, una comunicazione cioè capace di raggiungere chi di una certa disciplina non ha familiarità ma interesse a conoscerla.
Nella conclusione delle pagine è scritto che l’umanità, fin dai suoi primi passi, ne ha compiuti altri fino ad oggi grazie a due caratteristiche che hanno animato anche i due autori del libro: irrequietezza e curiosità.
Dopo aver chiuso il libro, sorge una domanda fra i lettori più attenti: Come si spiega che nel XXI secolo, dopo la tragedia generata dal nazismo, dopo le tante scoperte scientifiche della biologia, esistano scienziati che giustificano l’antievoluzionismo o addirittura se ne fanno propugnatori?
Rivolsi questa domanda a Barbujani quando lo intervistai su questo sito in occasione di un’altra sua pubblicazione. E lui così mi rispose: Si spiega, si spiega. Fra il concetto di razza umana, che lo studio dell’evoluzione e della genetica hanno messo in crisi, e il razzismo, c’è un rapporto solo etimologico. Le ossessioni e le paranoie che generano atteggiamenti discriminatori, xenofobi e razzisti, nascono nell’insicurezza economica, nell’ignoranza, nella solitudine dei ghetti urbani. Hanno poco o niente a che vedere con la nostra natura biologica, e molto invece con la struttura sempre più squilibrata delle nostre società, con i fondamentalismi religiosi e con le ormai abissali disuguaglianze economiche.

Dalla presentazione editoriale di “Il giro del mondo in sei milioni di anni”.
«A volergli credere, Esumim avrebbe partecipato a tutte le grandi migrazioni dell’umanità: “ci siamo divertiti” - ripete sempre – “non si stava mai fermi!”. È l’immaginario testimone di un viaggio iniziato sei milioni di anni fa, il cui primo passo - quello di scendere dagli alberi - ha dato avvio alla lunga catena di migrazioni attraverso la quale i nostri antenati hanno colonizzato il pianeta. Quante umanità diverse - dagli Austrolopiteci a Neandertal, a Homo sapiens - si sono succedute e incrociate sulla Terra? Quali percorsi hanno seguito, dalla loro prima uscita dall’Africa fino alla diffusione in tutto il pianeta? Nella genetica, la guida per ricostruire una diaspora mai conclusa, espressione del nostro ancestrale nomadismo».

Guido Barbujani – Andea Brunelli
ll giro del mondo in sei milioni di anni
Pagine 200, Euro 15.00
il Mulino


Emone


Emone, così si chiama un personaggio della mitologia greca, figlio di Euridice e di Creonte, il re di Tebe.
Svolge un ruolo importante in Antigone di Sofocle, tragedia rappresentata per la prima volta ad Atene alle Grandi Dionisie del 442 a.C.
Il grande drammaturgo greco, scrisse cento ventitré tragedie seguite da un’ultima recitata da lui stesso quando in un pomeriggio morì, secondo un’aneddotica non provata, strozzato da un acino d’uva.
Il drammaturgo napoletano Antonio Piccolo ha rivisitato l’Antigone di Sofocle vista dagli occhi del figlio di Creonte (per l’appunto Emone), usando una lingua di nuovo conio portata ai nostri tempi. Ha vinto la prima edizione del “Premio Platea per la Nuova Drammaturgia” con la seguente motivazione: “Antonio Piccolo ha scritto un’originalissima riproposta del mito di Antigone, rappresentato dal punto di vista di Emone, figlio di Creonte, cugino e promesso sposo dell’eroina sofoclea. Il testo attraversa tutti i generi teatrali, dalla commedia alla farsa, alla tragedia, sul ritmo di un fantasioso e affascinante dialetto napoletano che mescola alto e basso, registri letterari e popolari, lirismo e comicità. Il mito rivive così nella sua sostanza più autentica, specchio antico e rinnovato per parlare allo spettatore di oggi d’amore, di politica, di rapporti tra padri e figli. Un testo che sfida i parametri consueti del teatro contemporaneo riuscendo a sorprendere, divertire e commuovere”.
Un’originale riscrittura in cui il mito rivive sul ritmo di una lingua quasi inventata, un dialetto napoletano che mescola alto e basso, registri letterari e popolari, nella messinscena di Raffaele Di Florio, su produzione del Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino –Teatro Nazionale, in collaborazione con P.L.A.TEA. Fondazione per l’Arte Teatrale.
Emone La traggedia de Antigone seconno lo cunto de lo innamorato, è rappresentata con regia, scene, costumi e disegno luci di Raffaele Di Florio; musiche di Salvio Vassallo.
Danno vita ai personaggi: Paolo Cresta (Creonte), Gino De Luca (Guardia), Valentina Gaudini (Antigone), Anna Mallamaci (Ismene), Marcello Manzella (Emone).

Le parole di questo dramma – dice Antonio Piccolovanno lette tutte per intero, senza troncamenti, aferesi o elisioni, tranne dove indicato con l’apostrofo. Richiedono, insomma, che si leggano non come parla il napoletano contemporaneo, bensì come si usa fare con la lingua di Giovan Battista Basile, che è il principale – ma non unico – inarrivabile maestro a cui questo testo si ispira. Le libertà linguistiche restano comunque tante e tali perché si è giocato, in maniera presepiale e volutamente naïf, con vocaboli e codici dalle derivazioni più disparate, compresi quelli provenienti direttamente dalla fantasia dell’autore.

Il regista Raffaele Di Florio: Ciò che colpisce maggiormente del testo di Piccolo è la diversa angolazione dalla quale viene raccontata la storia della ‘disubbidienza’ di Antigone (inscritta nella cosiddetta saga dei Labdacidi, ossia nelle vicende di Laio, di Edipo e dei suoi discendenti). L’invito dell’autore, infatti, è quello di osservare i fatti attraverso gli occhi del cugino/promesso sposo Emone, uno di quei personaggi apparentemente minori, ma che invece contribuiscono a fare la Storia. Un punto di vista ‘decentrato’ che mi ha fatto pensare alle Folk Songs di Luciano Berio, il ciclo di canti popolari provenienti dalla tradizione orale di vari paesi: uno sguardo sulla Storia attraverso comunità diverse che ‘fanno la Storia’ pur non essendo protagoniste.

Ufficio Stampa Teatro di Roma:
Amelia Realino
tel. 06. 684 000 308 -- 345.4465117; e_mail: ufficiostampa@teatrodiroma.net

Emone
di Antonio Piccolo
Regìa di Raffaele Di Florio
Teatro India
Lungotevere Vittorio Gassman 1, Roma
Info: 06 - 877 52 210
Dal 10 al 15 aprile


Il postumano realizzato


Dalla seconda metà del XX secolo si sono avuti i primi segnali, oggi visibili a occhio nudo, su come Il futuro abbia cambiato natura. Dapprima fisicamente rappresentato, adesso si è dematerializzato e lancia le prime occhiate sul postumano.
Da Nick Bostrom a Max More, a Ray Kurzweil con la sua Teoria della Singolarità (presente negli studi all'Università da lui fondata con i finanziamenti della Nasa e di Google), la genetica, le nanotecnologie, la robotica cognitiva, vanno a formare un futuro non più affidato al dinamismo dell’immaginazione ma a laboratori dove sono in corso ricerche – alcune più avanzate , altre meno – che cambieranno non soltanto la società e le sue regole, le psicologie di gruppo e il pensiero politico, ma la stessa creatura umana (se così ancora la si potrà definire, e in parecchi ne dubitano) sempre più derivata dall’ibridazione Uomo-Macchina.
Kevin Warwick, infatti, studia l'integrazione Uomo-Macchina innestando chips nel proprio corpo e pensa a nuove tappe del Cyborg Project dall'Università di Reading; secondo alcuni studiosi in un tempo meno lontano di quanto s'immagini impareremo codici capaci di svelare nuovi segreti della natura, passeremo la barriera dell'infinitamente piccolo, si dilaterà la concezione di Spazio, saremo capaci di percepire nuovi stati e livelli di esistenza, la nostra coscienza-mente-identità sarà più vasta e ne saremo consapevoli.
Molti studiosi sono divisi nel giudicare le prospettive del futuro di noi umani.
Al pessimismo, ad esempio, di Katherine Hayles (“Come siamo diventati post-umani”), o di Bill Joy, scienziato della Sun Microsystems, il quale sostiene che “il futuro non ha bisogno di noi uomini”, s’oppongono, per citarne alcuni, Chris Meyer e Stan Davis che nel libro “Bioeconomia” sostengono che la futura complessità non sarà incomprensibile e offrirà molti vantaggi; oppure Andy Clark, docente di scienze cognitive all’Università dell’Indiana, autore di “Natural-Born Cyborgs”: “Nel futuro continueremo a innamorarci, a desiderare di correre più veloci, di pensare più efficacemente… crescerà però l’abilità di creare sempre nuovi strumenti che espandono la mente”.

Ecco perché è di grande interesse la pubblicazione del numero 159 della rivista “Nuova corrente” – edita da Interlinea – dedicato a Il postumano realizzato Orizzonti di possibilità e sfide per il nostro tempo a cura di Alfredo Pirni.
Oltre a interventi del curatore, saggi di Fiorella Battaglia – Antonio Carnevale – Filippo Cavallo – Raffaele Esposito – Eduard Fosch Villaronga – Barbara Henry – Beste Özcan – Erica Palmerini – Gabriele Scardovi – Davide Sisto.

È scritto nella presentazione editoriale.
«Le possibilità e le sfide aperte dai risultati bio-tecnologici che rubrichiamo come postumano costituiscono uno dei “fenomeni sociali totali” più problematici del nostro tempo. Questo fascicolo di “Nuova corrente” si pone l’obiettivo di monitorare e indagare criticamente alcune tendenze in corso, che trovano nel concetto di ibridazione tra uomo e macchina il loro fulcro prospettico. Si affronta così l’”ibridazione immaginata”, innanzitutto attraverso un percorso nella letteratura fantascientifica e fumettistica; i tentativi di “ibridazione regolata”, attraverso le lenti dell’etica e del diritto; l”’ibridazione costruita”, indirizzando l’analisi critica verso concrete realizzazioni prototipali o già disponibili sul mercato».

Oltre che su carta la rivista è disponibile anche in versione digitale su www.torrossa.it

Nuova corrente
Numero 159
Pagine 176, Euro 22
Edizioni Interlinea


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