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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Le pietre e il popolo

Nel libro delle rovine in cui è precipitato il nostro paese, specialmente negli anni berlusconiani, uno dei capitoli più amari è la mercificazione di ogni aspetto di quel che resta della vita culturale.
Tutto questo avviene in una terra dove il malcostume dilaga. Si pensi alla Calabria che vanta il triste primato di avere l’unica (almeno finora) giunta regionale della storia italiana finita interamente sotto inchiesta.
Nel rapporto 2012 di Legambiente sulle ecomafie, in quella terra sono stati commessi – riferendo, ovviamente, solo quelli accertati – 3.982 reati, ed è in Italia seconda soltanto alla Campania in testa con 5.327 infrazioni.
Fin qui solo alcuni dati parziali che insieme con comportamenti non solo dovuti alla delinquenza (ben) organizzata, ma pure a colpevole indifferenza dei cittadini stessi, fanno dell'Italia un gran brutto paese del mondo.
In questo sfacelo, il nostro patrimonio artistico nelle città si distingue per essere competentemente maltrattato a cominciare da quelli che dovrebbero difenderlo. Maltrattato, sia per bullismo politico e sia per veri e propri reati consumati da qualche funzionario.

Un importante libro sulle nostre straziate città l’ha pubblicato minimum fax; è intitolato Le pietre e il popolo Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane ed è firmato dallo storico dell’arte Tommaso Montanari.
Si tratta di una spietata quanto documentatissima requisitoria che parte da Siena infettata dalla gestione del Monte dei Paschi: “L'enorme quantità di quattrini che MPS faceva piovere sui buoni e sui cattivi ha portato a una degenerazione in cui non contavano più le qualità del progetto, o la qualità delle persone, ma l'affiliazione e la spartizione”.
Già, perché se gli uomini del Cavaliere si dimostrano degni di lui, purtroppo anche a Sinistra le cose non vanno bene.
L'autore scrive dello scandalo della Biblioteca dei Girolamini che ha visto lo stesso Montanari attivo nel denunciare, inascoltato, quanto avveniva – e, anzi, in Parlamento, attaccato da interrogazioni – e aveva tanta ragione perché è finita che il direttore della biblioteca dei Girolamini di Napoli, Marino Massimo De Caro (segretario organizzativo dell’associazione “Il Buongoverno” presieduta da Dell’Utri), è stato condannato poi a 7 anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Il libro, passa in rassegna, inoltre, le vergogne che colpiscono Venezia, L’Aquila, Firenze (città al quale è dedicato largo spazio di denuncia con il sindaco Renzi messo alla berlina).
In un’intervista rilasciata dall’autore a Silvana Marzocchi, è riassunto il pensiero che ispira il libro: "Per secoli la forma dello Stato, la forma dell'etica, si è definita e si è riconosciuta nella forma dei luoghi pubblici. Le città italiane sono sorte come specchio, e insieme come scuola, per le comunità politiche che le abitavano. Le piazze, le chiese, i palazzi civici italiani sono belli perché sono nati per essere di tutti: la loro funzione era di permettere ai cittadini di incontrarsi su un piano di parità. Oggi accade il contrario: le attività civiche vengono espulse da chiese, parchi e palazzi storici, in cui ora si entra a pagamento, mentre immobili monumentali vengono privatizzati o trasformati in attrazioni turistiche. Come in un nuovo feudalesimo, le nostre città tornano a manifestare violentemente i rapporti di forza, soprattutto economici. Tutto questo non mette a rischio solo le città di pietra, condannate ad un rapido ed irreversibile declino. Ad essere distrutta è in primo luogo la cittadinanza come condizione morale, intellettuale, politica. La quasi totalità dei nostri desideri e del nostro immaginario è asservita al mercato. Se pieghiamo a questo stesso, unico fine anche il poco che resta libero e liberante ci comportiamo esattamente come il Re Mida del mito e delle favole: ansiosi di trasformare tutto in oro, non ci rendiamo conto che ci stiamo condannando a morire di fame".

Per leggere un capitolo del libro: CLIC!

Tommaso Montanari
Le pietre e il popolo
Pagine 164, Euro 12.00
minimum fax


Neri Pozza Book Club

La casa editrice Neri Pozza – in foto il fondatore – in collaborazione con la Biblioteca Sormani, apre il Neri Pozza Book Club, che prenderà il via a maggio 2013.

Le finalità del Club sono illustrate da un comunicato stampa che ho ricevuto e qui rilancio.

Il Club comprende al suo interno dei gruppi di lettura, ma non è un Reading Group. La sua nascita dipende da una nostra profonda convinzione. Siamo certi che, per molteplici ragioni, il nostro tempo non sia già più quello dell'editoria generalista, ma dell'editoria come progetto, capace di mostrare, nelle scelte e nel programma, una propria idea della letteratura e del pensiero.
Un'editoria così fatta, come dimostrano le migliori esperienze del passato, ha bisogno di costruire attorno a sé (il nome non spaventi) una società letteraria, fatta di lettori attenti al suo catalogo, di critici in grado di analizzare le sue scelte, di scrittori che si identifichino in una certa idea della letteratura, di pensatori che condividano un determinato programma di ricerca.
Il Club, perciò, non ha alcuna finalità di marketing, ma soltanto letteraria. I gruppi di lettura leggeranno in anteprima le opere, già editate e non modificabili in alcun modo, a un solo scopo: prepararsi all'incontro con l'autore in maniera critica pertinente e contribuire, attraverso il blog del Club, alla discussione attorno alle opere e alla loro recezione. I membri del Club inoltre parteciperanno agli incontri indetti dalla casa editrice sui temi e sulle linee di ricerca della letteratura e del pensiero contemporanei, così come accadeva fino agli anni Settanta nelle grandi case editrici di cultura e nelle librerie di tendenza del tempo
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Cento ventagli

Ricordate una delle più celebri commedie di Goldoni, “Il ventaglio”? In quelle scene un ventaglio, per una serie di equivoci, passa di mano in mano per quasi tutti gli abitanti di un paesino prima di finire nelle giuste mani di Candida cui era destinato.
Sospetto che a tentare ripetutamente d’impossessarsene, determinando le avventure di quell’oggetto, sia stato Aldo Dente, uno dei più grandi collezionisti al mondo di ventagli.
Adesso a Dozza – città famosa per la Biennale dei Muri Dipinti cui Cosmotaxi dedicò un servizio nel 2011 – ospita una mostra ricca di fascino storico: Cento ventagli di corte e d’autore dalla collezione di Aldo Dente.
Dente è quello stesso da me sospettato d’aver preso parte, clandestinamente, alle avventure del ventaglio goldoniano.
E’ un collezionista di Lugo, studioso ed esperto di ventagli che, come tale, ha collaborato con importanti musei quali il Victoria & Albert Museum di Londra, il Fan Museum di Greenwich, il Museo di Arti Applicate di Milano, il Museo di Arte Medievale di Modena, i Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste.
È stato inoltre revisore editoriale dell’Enciclopedia Ventagli da collezione per la casa editrice De Agostani International.
A Dozza, la mostra è accompagnata da un catalogo-guida che vanta la presentazione di un’autorità in materia, Hélène E. Alexander-Adda (direttrice del Museo del Ventaglio di Greenwich, Londra), che afferma: “L’esposizione è una gioia per gli occhi di esperti e profani” e avverte “Non c’è bisogno di conoscere nulla sui ventagli, sulla pittura e sulla storia ma, attenzione, di sicuro ve ne innamorerete”.

Sono esposte molte versioni di quest’oggetto d’antichissime origini al quale nei secoli sono stati affidati messaggi storici, estetici, nonché simbolici divenuti dominanti rispetto alla sua funzione pratica.
L’esposizione si articola in due principali sezioni.
Una di esse è dedicata ai ventagli di corte con esemplari eccellenti come quelli appartenuti alla Regina Carlotta Mecklemburg-Strelitz (1744-1818) moglie di Giorgio III d’Inghilterra, all’Imperatrice Eugenia de Montijo (1826-1920), ultima sovrana di Francia come moglie di Napoleone III, alla corte reale di Danimarca. Fra i tanti, sono qui compresi il settecentesco e raro ventaglio da matrimonio raffigurante Luigi XVII (1785-1795) Delfino di Francia, figlio di Maria Antonietta e Luigi XVI, i ventagli nuziali della Regina Margherita di Savoia (1851-1926) e di Elisabetta di Baviera (1837-1898), l’Imperatrice d’Austria nota come Sissi. Non meno importanti i tre ventagli nobiliari inglesi appena rientrati da Londra, dove sono stati esposti in occasione delle Olimpiadi e del Giubileo della Regina Elisabetta II.
L’altra sezione della mostra riguarda i ventagli d’autore realizzati da famosi pittori alla moda da metà Ottocento, fra i quali Fontaine, Chaplin, Abbema, Lemaire, J. e M. A. Donzel, Dumas, Spreafico, Cavaleri, Acerbi, Sheringham.
Il percorso termina con una zona dedicata ai ventagli pubblicitari, alcune decine di esemplari che si aggiungono ai cento ventagli artistici.
Sono pezzi a stampa tipografica disegnati da autori quali Pal, Mario Pozzati, Morin, Redon, Regent, Cappiello, Cassandre, e altri ancora. Vi sono anche tre pezzi dedicati a grandi musicisti italiani di cui quest’anno si celebra l’anniversario: Giuseppe Verdi (200° della nascita), ricordato con la pagina dedicata dell'opera "Aida", e Pietro Mascagni (150° della nascita), con un autografo del Maestro per la "Cavalleria rusticana" e un altro sul ventaglio stampato nel 1892 a Vienna, dove Mascagni fu invitato a dirigere alcune sue composizioni.

L’esposizione – curata da Patrizia Grandi, responsabile del Museo della Rocca di Dozza, e dal già citato Aldo Dente è stata promossa dal Comune di Dozza e dalla Fondazione Dozza Città d’Arte che, dal 2006, sta portando avanti un progetto pluriennale di mostre sul collezionismo storico.

Cento ventagli di corte e d’autore
In mostra alla Rocca di Dozza
Info: 0542- 67 82 40
Fino al 30 giugno 2013


Testi per carta e schermi


Diceva Jules Renard: "Scrivere è un modo di parlare senza essere interrotti".
Saggio pensiero. Spesso, però, a molti che si esibiscono su fogli o in rete, leggendoli, viene voglia d’imporre loro con modi bruschi il silenzio.
Non solo per quello che scrivono, ma anche per come lo scrivono.
In quest’epoca delle “psicotecnologie” (copyright Derrick de Kerckhove) dove la connettività ha reso la comunicazione reticolare e planetaria lo scrivere dà a molti l’impressione che sia diventato più facile. Niente di più falso. E’ diventato più difficile per la pluralità dei pubblici ai quali ci rivolgiamo, per la necessità di essere concisi senza perdere profondità, essere amichevoli senza essere invasivi, rappresentarsi senza essere autoreferenziali.
Insomma, i problemi sono tanti, anche se pare proprio che in molti non se ne accorgano.
Per coloro che, invece, sono coscienti delle difficoltà dello scrivere bene e cercano vie per riuscire in quella difficile impresa, segnalo un prezioso libro edito da Zanichelli intitolato Lavoro, dunque scrivo! Creare testi che funzionano per carta e schermi.
Ne è autrice Luisa Carrada.
È editor freelance e svolge attività di copywriting, consulenza di comunicazione e docenza di scrittura professionale per aziende e amministrazioni.
Laureata in lettere moderne con indirizzo storico-artistico, ha iniziato come autrice e conduttrice radiofonica.
Ha pubblicato Scrivere per Internet (Lupetti, 2000). Nel 2007 ha collaborato con numerose voci all’opera “Scrivere” di De Agostini, coordinata dalla Scuola Holden. Nel 2008 Apogeo ha mandato nelle librerie Il mestiere di scrivere, titolo che già aveva l'omonimo blog da lei guidato in Rete dal 1999.
Su questo sito esiste una conversazione avvenuta nella mia taverna sull’Enterprise quando la invitai a un tour spaziale; risale a dieci anni fa, maggio 2003, e, per suo merito, è ancora d’attualità: CLIC!

Libro nuovo e utile, per usare le parole con le quali la mia amica Annamaria Testa ha chiamato il suo sito sulla creatività.
Il volume, infatti, è un’illuminata guida lungo gli scoscesi sentieri della scrittura sia su cellulosa sia per il web attraversando in quattordici capitoli problemi espositivi del testo e quei preziosi temi del paratesto tanto giustamente cari a Gérard Genette.
Potete leggere l’Indice QUI e il primo capitolo con un altro CLIC.

Un libro che non può mancare nelle redazioni della carta stampata, delle radiotv, del web, ma anche a quanti oggi – e siamo in moltissimi – si trovano ogni giorno nella necessità di comunicare.
Ho aperto questa nota ricordando un aforisma di Renard, la chiudo citandone un altro di Nicolas Boileau: “Prima di scrivere, imparate a pensare”.

Luisa Carrada
Lavoro, dunque scrivo!
Vol. unico + ebook, pagine 480
Euro 21.00
E-book, 15.20
Zanichelli


Resistere per Ri/Esistere

In un momento in cui nel nostro Paese l’imbarbarimento della vita politica sta raggiungendo (o, forse, ha già raggiunto) livelli di massiccia inciviltà, la data del 25 aprile è ricordata (e, da sinistra, nemmeno come si dovrebbe) come una sorta di cimelio storico da relegare in qualche museo che apre un solo giorno l’anno, appunto il 25 del mese di aprile.
Opportuna e lodevolissima appare, quindi, l’iniziativa di due artisti, Aurelio Fort e Alfonso Lentini che tempo fa lanciarono un invito internazionale ricevendo alcune centinaia di partecipazioni.
Oggi l’installazione è pronta e così dicono i due ideatori.

Con l’installazione urbana che realizzeremo a Belluno in occasione della Festa della Liberazione abbiamo voluto puntare l’attenzione sulla parola “Resistenza” per innescare meccanismi di risonanze e proliferazioni di senso.
Invitando artisti e cittadini di tutto il mondo a entrare a far parte del nostro progetto, abbiamo voluto dare ad esso il carattere di una “azione collettiva” grazie alla quale Belluno, che è stata protagonista nella Guerra di Liberazione, possa trasformarsi in spazio di accoglienza, collettore di idee e pluralità. Chi ha aderito al nostro progetto offrendoci la propria firma e la propria impronta digitale, ha manifestato una assunzione di responsabilità sull’idea di Resistenza e ci ha consentito di assegnare ad ogni sasso utilizzato nell’installazione quasi un’identità personale. Hanno aderito noti artisti, scrittori, poeti, architetti, musicisti, fotografi, esponenti della mailart, di Fluxus e della poesia visiva, ma anche e soprattutto semplici cittadini da tutta Italia e da più di 35 nazioni che si sono riconosciuti nella nostra idea ed hanno voluto entrare a far parte del progetto.
Resistere, dunque, per tornare ad Esistere più autenticamente, per recuperare memoria e speranza, per intraprendere, un viaggio che possa condurci, attraverso il linguaggio dell’arte, verso i territori della meraviglia e della riflessione. Perché crediamo che la Resistenza sia un simbolo universale e ancora attuale.
L’installazione durerà dal 25 al 28 aprile, ma chi vorrà potrà prelevare un sasso e portare con sé un frammento del nostro gesto. In tal modo si produrrà un’ulteriore ramificazione, una simbolica impollinazione che moltiplicherà e dislocherà all’infinito la nostra azione
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Il progetto si svolge in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Belluno - Officina della Cultura e con l’Aics, ed è sostenuto dalla Cgil-Camera del Lavoro, Spi – Cgil, Anpi, Isbrec, Istituto “T. Catullo”.

Nella giornata del 25 aprile allo sportello volante delle Poste Italiane in Piazza dei Martiri a Belluno, sarà possibile ottenere la cartolina con l’annullo filatelico figurato realizzato per l’occasione.

Per visitare il sito web dell’installazione: CLIC.

Per la pagina facebook di Aurelio Fort QUI.
Per il blog di Alfonso Lentini: QUI.

Aurelio Fort – Alfonso Lentini
Resistere per Ri/Esistere
Belluno
25 – 28 aprile 2013


Confusional Quartet


Nella seconda metà degli anni ’70, Bologna fu la capitale di un rinnovamento musicale associato alla tendenza “no wawe”. Nome che ha varie interpretazioni.
Scrive Livia Satriano “Le origini stesse della denominazione “no wawe” non sono chiare: secondo alcuni il termine fu diretta conseguenza dell'album-manifesto che gli diede fama imperitura, e cioè "No New York". Secondo altri il termine fu coniato come ironico contraltare a "new wave", il movimento musicale che si stava affermando in quegli stessi anni in Europa e America. Per altri ancora il nome deriverebbe dal magazine NO”.
Agivano in quegli anni in Italia molti gruppi e parecchi di buona qualità, il mio preferito era, però, il Confusional Quartet. Solo musica, nessuna vocalità, le sole voci affidate a momenti di repertorio documentaristico.
L’anno in cui divennero noti sulla scena nazionale fu il 1979.
Anno 1979: Italo Calvino pubblicò “Se una notte d’inverno un viaggiatore”; usciva il film “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola; Pertini ebbe l’infelice idea di affidare il governo a Craxi, né all’Inghilterra andò meglio perché salì al potere Margaret Thatcher; le Br assassinarono il militante comunista Guido Rossa; il mondo della musica perse Demetrio Stratos e in giro i più gettonati era gente del tipo Alan Sorrenti e Miguel Bosè; fu anche l’anno in cui s’affermò il termine “post-moderno” per indicare in architettura e nel design (allora, prima che quella definizione s’estendesse ad altre aree espressive) la tendenza a reagire al modernismo e all’architettura razionale.
Il 2 aprile 1979 il Confusional Quartet partecipò al Bologna Rock, un festival che si svolse al Palasport e che vide sul palco i migliori gruppi della scena italiana del rock.
Per dare un’idea della modernità di quel gruppo, prodotto allora da Oderso Rubini, ecco un video (realizzato con il fondamentale apporto di Gianni Gitti) che – a parte l’evoluzione tecnologica intervenuta dal 1980 ad oggi – per linguaggio è ancora attuale: CLIC!

Oggi i Confusional (Enrico Serotti chitarra, Lucio Ardito basso, Gianni Cuoghi batteria e Marco Bertoni tastiere), per mia gioia – e non soltanto mia, ma di molti – sono tornati con due luminosi Cd.
Un'esemplificazione la trovate in questo splendido brano.

“Ovvio che la maturità ha messo le armature della compattezza" - scrive Max Sannella - "un movimento tellurico di professionalità, un eccellente mix di jazzly, frames pubblicitari, elucubrazioni progressive e visioni allucinate con destinazione le atmosferiche energie dissonanti e pervasive, una specie d’anarchia incontrollatamente controllata, una energia che imbocca immaginifici ed intricati timbri, giri […] I CQ dipanano un fiume in piena di ritmi e intrattenibili scrosci di suoni mettendoli a disposizione di chi adora la capacità combinatoria di tantissimi materiali disparati e che producono suono restituiti poi all’ascoltatore con un atteggiamento intellettualmente pazzoide e godibilissimo”.

A Marco Bertoni ho rivolto alcune domande.
Di motivi, forse, ce n’è più di uno. Ti chiedo qual è il principale che vi ha spinto a riunirvi dopo tanto tempo?

Il caso. Ci siamo ritrovati per la prima volta dopo oltre trenta anni tutti e 4 insieme per bere qualcosa ed ascoltare una compilation antologica del Confusional Quartet appena pubblicata. Forse era nell'aria, non so, ma a un certo punto è sembrato normale che si parlasse di ritrovarsi e suonare ancora insieme. Ciò è stato fatto e le prime note uscite sono state registrate e sono finite nell'album ITALIA CALIBRO X. Poi abbiamo continuato in sala prove e abbiamo fatto i brani che compongono il nuovo album Confusional Quartet, che sono quelli che suoniamo ora dal vivo. A questa iniziale casualità si è poi unito il piacere di vivere un'esperienza unica e anche il piacere di suonare davanti a giovani stupiti e curiosi.

C’è stato un proliferare di dizioni per individuare le varie correnti del rock; ce n’è qualcuna cui vi sentite più vicini o meno lontani?

Il progetto Confusional è sempre stato un contenitore con la funzione di contenere tutto quello che suoniamo in libertà. L'alchimia tra noi 4 è la base del lavoro e anche il fatto che non cantiamo è un elemento fisso. Il genere al quale ci hanno di recente accostato e che ci fa sentire abbastanza a nostro agio è "No Wave". Una zona dove vari stilemi musicali possono essere usati a fini artistici e dove non è previsto strategicamente il salto nel mainstream.

Sting negli anni '80 disse: "Il rock è morto". Le cose non mi pare gli abbiano dato ragione. E' così? Oppure è la mia solita cappellata?

Bah… l'etichetta rock è stata via via data a varie cose per vari scopi. Credo si possa affermare che la musica in questi ultimi decenni ha perso tantissima carica culturale "alternativa".

Qual è, oggi, quella musica che quando la sentite vi viene la scarlattina?

Ci sarebbe, ma scrivere il nome dell'autore è contro la nostra religione...

Cliccare QUI per visitare il sito web del Confusional Quartet e rilevare le indicazioni sulla loro più recente produzione.


Tornare al mondo

“Non è ver che sia la morte / Il peggior di tutti i mali; / È un sollievo de' mortali / Che son stanchi di soffrir”.
Sarà pure, ma è altrettanto, e più ancora vero, che in tanti fin dall’antichità, attraverso le religioni, hanno trovato il modo di provvedersi di un biglietto di ritorno dall’aldilà. Perché?
Ecco, forse, spiegato l’arcano da un anagramma: “L’aldilà misterioso = "Assillo dei mortali".
In quell’assillo nascono parecchi dei e, per i mortali più arroganti, un dio solo.
Sul tema vita-morte-ritorno, l’editrice il Mulino ha pubblicato Tornare al mondo Resurrezioni, rinascite e doppi nella cultura antica.
È un libro splendido. Ne è autrice Stefania Rocchetta dottore di ricerca in antropologia del mondo antico presso l’Università di Siena.
Antropolologia… cultura antica… no, non crediate che sia uno di quei testi scritti con il birignao accademico che fanno ronfare già a pagina 3. Niente di tutto questo nel libro di Rocchetta. Scrittura veloce, spigliata, dotta e birichina al tempo stesso sicché accanto ai versi di Eschilo lampeggia una battuta di Woody Allen, oppure trovate Diogene Laerzio in pagine confinanti con Virginia Woolf. Temi e spunti condotti su di un rigoroso filo di studi che attraversano plurali mondi: dai pitagorici agli stoici, ai platonici.
Un libro che parlando di un lontano passato mi ha fatto pensare anche a quanto sullo stesso tema (ma lontano dal sacro), con siderale differenza, si va, oggi, profilando nelle pratiche, stavolta laiche, della crionica, della filosofia del postumanesimo e dell’immaginario Matrix del futuro.
“Tornare al mondo”: un libro che v’invito a leggere. Mi ringrazierete.
Ho aperto questa nota citando Metastasio, prima di passare ad un’intervista con l’autrice ecco un’altra citazione. La estraggo da “Il malpensante” di Gesualdo Bufalino: “E se Dio avesse inventato la morte per farsi perdonare la vita”?

A Stefania Rocchetta ho rivolto alcune domande.
Che cosa ti ha spinto a questa esplorazione antropologica?

Il tema della mia esplorazione è emerso lentamente durante il primo anno del mio dottorato di ricerca: ero profondamente interessata al tema del doppio e all’effetto perturbante che produce nei confronti dell’identità. Discutendo con il Professor Maurizio Bettini, ho focalizzato l’oggetto del mio studio: come veniva previsto nel mondo antico il ritorno di qualcuno che c’è già stato? Ho cercato, dunque, di osservare il tema del doppio in una prospettiva diacronica: non due “io” presenti contemporaneamente, ma due “io” che si ripropongono in fasi temporali distinte. È cominciata allora una faticosa, ma appassionante ricerca di frammenti e notizie che gettassero luce sull’argomento. Il tema riguarda un problema antico, ma durante il mio percorso mi sono imbattuta in flash che mi riportavano a problemi e questioni di oggi o di uno ieri appena dietro l’angolo.

Perché tutte le religioni immaginano un ritorno al mondo dopo la morte?

L’interrogativo è molto complesso ed è difficile rispondere senza banalizzare troppo. Generalmente le religioni antiche non prospettano un effettivo ritorno al mondo, ma un’esistenza umbratile nell’al di là ed il defunto appare una sorta di doppio depotenziato e flebile rispetto al vivo.
La questione di cosa aspetti l’uomo dopo la morte è cruciale per le religioni, così come la strutturazione del tempo e dei luoghi che verranno abitati, una volta finita la vita. Ogni religione ha offerto una propria risposta: in termini molto generali, le religioni si propongono di dare un senso alla vita, prospettando un poi in cui ciascuno verrà valutato per il comportamento osservato da vivo
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Perché i teologi cristiani considerano le resurrezioni del mondo che li ha preceduti, per usare le tue parole, “incompiute o dimidiate”?

I teologi cristiani hanno nei confronti della dottrina stoica dell’eterno ritorno un atteggiamento ambivalente: certamente è meno disprezzabile di altre perché offre la possibilità di immaginare il ritorno di anima e corpo congiunte insieme, così come prevede la dottrina cristiana, ma avrebbe il grave difetto di presupporre un ritorno che coinvolge tutti gli aspetti e le situazioni della vita già vissuta, niente si potrebbe modificare, è come se venisse riscritta infinite volte la stessa storia. È quindi la concezione del tempo a differire in modo radicale: per gli stoici il tempo è ciclico, mentre per i cristiani procede in modo rettilineo ed inesorabile verso la salvezza dell’umanità. Un ritorno in forme identiche è sembrata una teorizzazione incompiuta perché il riproporsi di situazioni non avrebbe alcun fine.
La reincarnazione, invece, è parsa una dottrina assolutamente inaccettabile: è una forma deteriore ed incompleta di resurrezione, perché prevede il ritorno della sola anima, che addirittura – e ciò è parso scandaloso – potrebbe penetrare in corpi animali o vegetali
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Per una scheda sul libro: CLIC!

Stefania Rocchetta
Tornare al mondo
Pagine 152, Euro 14.00
Edizioni il Mulino


Gli straccali di Manganelli (1)

“Manganelli amava i suoi poderosi straccali perché gli permettevano una camminata disinvolta, incurante dei larghi pantaloni, e per il suono che ne estraeva quando li scrocchiava a seconda dell’umore. Non imparò mai a suonare il pianoforte, ma conversando con amici faceva scattare con dita esperte i potenti elastici, e quel suono secco e robusto poteva essere un avvertimento o una torsione barocca del discorso o un minaccioso altolà”.

Ecco spiegato il titolo, Gli straccali di Manganelli – pubblicato da Sedizioni –, di un libro meraviglioso su di un meraviglioso scrittore.
Ne è autrice Viola Papetti che ha insegnato Letteratura inglese all’Università di Roma Tre ed è autrice di numerosi saggi sul teatro inglese del Sei-Settecento e su romanzieri inglesi e americani. Ha tradotto Hopkins, Sterne, Keats ed è vincitrice del Premio Nazionale per la traduzione del 2002.
Delle sue monografie si ricordano Arlecchino a Londra; La commedia da Shakespeare a Sheridan.
Cura inoltre gli scritti di anglistica di Giorgio Manganelli (in foto).

Il volume raccoglie scritti della Papetti editi su riviste e quotidiani, più qualche inedito. Gli articoli non sono disposti in ordine cronologico, sicché diventano più che un libro su Manganelli, più probabilmente “il” libro su Manganelli percorrendone l’opera in un continuo rimando dai libri del Manga ad angoli vissuti e interpretati della sua vita.
A questo si aggiunga che le pagine della Papetti propongono un vertiginoso e puntualissimo italiano – al quale ci hanno disabituato gazzettieri della carta stampata e della radiotv – che ricorda come la nostra sia una lingua capace di restituire al lettore voli tra nuvole e vite abissali.

L’incipit intitolato ‘Necessario introdursi’.
“Per tentare di accostarlo, è opportuno chiedergli il permesso. Come in un romanzo, Manganelli può aver progettato un decesso postdatato, un decesso rato ma non consumato, un decesso scaduto, e comparire vivo e vispo in un angolo del quartiere africano o di Prati, o seduto al suo ristorante preferito a Porta Pia, alle sette e un quarto di sera, in impaziente attesa del cameriere. O nelle librerie che frequentava prima del cinema o della cena: Tombolini, Feltrinelli, Herder, mentre ti rivolge un sorrisetto ironico e continua a palpeggiare il libro che ha sottomano. Oggi non mi è facile ripercorrere la distanza dalla sua morte, afferrare la sua realtà quale che fu. Mi occorre un permesso esplicito per avanzare in questo dominio della memoria che non mi appartiene del tutto. Il suo velato silenzio non è ostile, ma certamente intimorisce. Si narra che una volta un giovanissimo italianista gli si accostasse mentre entrambi annusavano avidamente le ultime novità librarie, e garbatamente gli sussurrasse >Professore, ho recensito il suo ultimo libro>. E Manganelli, che era già il Manga, avesse risposto "Chi le ha dato il permesso>?”.

Segue ora un incontro con l’autrice.


Gli straccali di Manganelli (2)

A Viola Papetti ho rivolto alcune domande.
A quando risale il suo incontro con Manganelli e quale fu l’occasione?

Ho conosciuto Giorgio Manganelli negli anni Sessanta in casa del mio professore Salvatore Rosati, romano di sette generazioni e esperto del Belli, che abitava a Trastevere o nei dintorni. Ogni domenica pomeriggio riceveva gli amici letterati, jazzisti, gente della Rai e qualche studente, tra i quali c’ero anch’io. Manganelli veniva in genere con l’amico Alfredo Giuliani. Si parlava di libri, traduzioni, fino alle otto circa e qualche volta si andava a cena insieme o in via della Luce o sotto la casa di Mario Praz , a Largo Ricci. Manganelli in quegli anni lavorava da Garzanti e stava traducendo “Il cane giallo” di O. Henry. Mi propose di tradurre un libro di Dom Moraes, “Gone away” che fu pubblicato da Garzanti nel 1963 col titolo “L’India”, nella collana Saper Tutto, corredato di foto e vari apparati informativi. Fu una utile guida per i viaggiatori italiani in India, interessante anche oggi. Poi Manganelli divenne assistente volontario dell’altro mio professore Gabriele Baldini, di cui ero assistente anch’io, e divenimmo colleghi.

Qual è la cifra stilistica che rende Manganelli il grande autore che è?

Difficile individuare una ‘unica’ cifra stilistica di Manganelli. Che è stata definita di volta in volta barocca, manierista, sperimentale… Manganelli è stato avvicinato a scrittori come Gadda, Borges, De Quincey, Henry James, Lezama Lima… e quando tentavo di stanarlo, di fargli dichiarare una qualche affinità o ascendenza, rimaneva ostinatamente muto. Ma la sua risposta la conoscevo: "O capisci o è inutile spiegare". Oltre al Manganelli, grande e lussuoso retore, che s’infiltra pericolosamente tra le parole e scandaglia i limiti del dicibile, c’è anche un Manganelli ironico, sardonico, in apparenza affabile, un tardo ma felice imitatore della selvaggia satira di Swift che ammirava molto, e del sincopato umorismo di buona marca anglosassone, di Wodehouse, Jerome Jerome, Thurber.

Un famoso aforisma: “Lo scrittore sceglie in primo luogo di essere inutile”.
Perché così diceva Manganelli?

“Lo scrittore sceglie in primo luogo di essere inutile” perché così sceglie la libertà assoluta, anzi la non esistenza che è il massimo di libertà godibile in vita. Solo questa sua nuda inabilità rispetto alle parole, lo rende adatto ad esserne investito, travolto, infine detto dalla parole libere di significare altro da quello che un eventuale ingenuo autore vorrebbe che dicessero. 'Le parole non sono antropocentriche, nessuno le scrive non vogliono dire nulla, non hanno nulla da dire. Come l’universo sono inutili'. Difficile tenere testa al nichilismo di Manganelli, e tentare di estrarne un significato.

C’è un libro del Manga, o altri scritti, cui lei è particolarmente legata? Se sì, perché?

Non sono legata a nessun libro in particolare, sebbene il racconto "Congedo", bellissimo per la sua forse involontaria carezza, per il gesto consolatorio che intimamente contiene e libera, mi sembra eccezionale. Sto rileggendo Pinocchio: un libro parallelo dove c’è un preludio sulla potenza delle parole. L’immaginazione di Manganelli non è dialettica, ma è in incessante movimento dall’uno all’altro, dal sé alla realtà fenomenica, un riconoscimento felice che gli apre porte ad libitum. "Il libro si dilata, è tendenzialmente infinito. Eppure non è mai fittizio. Un grande libro genererà infiniti libri, e così a loro volta questi ultimi: né vi sarà mai l’ultimo".

Viola Papetti
Gli straccali di Manganelli
Pagine 128, Euro 18.00
Sedizioni


8° Premio di Scrittura Zanichelli

Parecchie case editrici bandiscono concorsi letterari per ragazzi delle scuole, ma di solito si tratta di un invito a comporre poesie, diari, racconti. Li giudico dei veri e propri campi d’addestramento per terroristi, perché instilla in quelle candide anime il veleno della poetitudine o della romanzitudine trasformando quei giovani e giovanissimi in aspiranti poeti o romanzieri (cioè gli attentatori di domani).
Costringeranno la povera marchesa ad uscire ancora alle cinque. E la poverina non sa più da chi andare: le sue amiche sono morte da tempo, i parenti pure, l’età non le consente amanti, ma niente!... I romanzieri, si sa, sono implacabili!
Perché si crede che scrivere poetando o narrando (sia pure intorno a un tema) liberi la fantasia. Erore, direbbe Petrolini.
Il tragico greco che scrive i suoi versi obbedendo a regole ferree che conosce perfettamente è più libero del poeta che scrive quello che gli passa per la testa, schiavo com’è di regole che ignora; è un pensiero di Raymond Queneau, e mi trova entusiasticamente d’accordo.

Ecco perché ho massima stima del Premio di Scrittura voluto da Zanichelli che giunge quest’anno alla sua ottava edizione consecutiva.
E’, infatti, un concorso che usando una sorta di contrainte oulipiana obbliga gli scriventi a misurarsi con precise norme. Ad esempio, comporre un elaborato ispirato a 50 parole con riferimento al mondo della scienza e in particolare di Darwin, presenti nel Dizionario Zingarelli. Oppure comporre acrostici con le iniziali delle lettere che formano la parola alfabeto. E così via.
Ideatrice di questi mai abbastanza lodati concorsi è Laura Lisci – guida l’Ufficio Stampa della Zanichelli – che riesce con intelligenza e competenza professionale a coniugare sontuosamente le esigenze creative con quelle promozionali.
Finora ai concorsi hanno partecipato decine di migliaia di studenti d'ogni parte d’Italia.
Quest’anno è la volta della musica e di aspirati parolieri; la casa editrice, infatti, ha dedicato spazio a cataloghi e studi sul mondo delle note, dal Dizionario del Pop Rock a Scrivere una canzone (testo edito nella nuova collana “Scritture creative”, cui Cosmotaxi dedicò una presentazione).
Proprio “Scrivere una canzone” – autori: Alfredo Rapetti Mogol (Cheope) e Giuseppe Anastasi – è lo spunto per l’ottavo Premio di Scrittura Zanichelli 2013, riservato alle ragazze e ai ragazzi delle scuole medie e superiori.
La nuova edizione si chiamerà, visto il tema: Parole in musica.
È necessario ascoltare e scaricare una traccia musicale e sostituire le parole in finto inglese con un testo in italiano. Su cosa? Quello che si vuole… con un’unica regola: inserire nello scritto 5 parole tratte da un elenco di 40. Si tratta di voci selezionate dallo Zingarelli 2013. Da bullismo a sudoku, da reality show a internauta, un elenco di parole figlie degli anni 2000. Entrate nel vocabolario negli ultimi dieci anni, sono state scelte dagli insegnanti di tutta Italia che hanno aderito all’iniziativa “Dite La Vostra!” votando le parole del decennio.

Partecipare a “Parole in musica” è semplice, per saperlo: CLIC!


Il Gruppo '63 (1)


Cinquant’anni fa nasceva il Gruppo '63 (in foto alcuni dei fondatori) che fece gridare alla scandalo i parrucconi dell’epoca.
Evidentemente a qualcuno dà ancora fastidio quel Gruppo nonostante si sia sciolto nel 1969; quell’episodio della vita letteraria italiana tuttora suscita stizza, da sempre senile, su giornalini e giornaloni.
Ad esempio, Eugenio Scalfari, abbandonato per una mezz’ora il compito d’ufficio stampa di Monti (senza, mi pare, alla luce dei risultati elettorali raggiungere traguardi memorabili in quella funzione), ha trovato il tempo d’azzannare con tagliente dentiera quel Gruppo.
Era stato preceduto qualche giorno prima da Giuseppe Conte sul “Giornale” berlusconiano che manifestava schiumante rabbia per quella lontana stagione esaltando il ritorno odierno della letteratura all’età del cucco.
Di questi tratti d’inchiostro involontariamente comici se ne trovano tracce riportate sul sito della casa editrice Odradek che ha il merito d’aver pubblicato un nuovo, acutissimo, saggio di Francesco Muzzioli intitolato: Il Gruppo ‘63 Istruzioni per la lettura .
E’ questo un libro per il quale oggi bisogna, e in futuro bisognerà, assolutamente passare per capire origini e approdi di quel famoso Gruppo e conoscere i ritratti ragionati di scrittori e critici di quegli anni, sia interni e sia esterni al Gruppo stesso: da Sanguineti a Pagliarani, da Arbasino a Spatola, da Lombardi alla Vasio, da Malerba a Balestrini, da Giuliani a Porta, da Pignotti a Manganelli, da Rosselli a Niccolai, da Barilli, a Guglielmi, a Curi a Eco.

Muzzioli (Roma, 1949) insegna Critica letteraria presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Si è occupato principalmente degli autori del Novecento e delle linee di ricerca dell’avanguardia e dello sperimentalismo; nell’ambito della teoria letteraria si è interessato al dibattito delle tendenze e dei metodi. Tra i suoi volumi più recenti: Letteratura come produzione (Guida, 2010); Come smettere di scrivere poesia (Lithos, 2011); L’analisi del testo letterario (Empiria, 2012); Verbigerazioni catamoderne (Tracce, 2012). Per Odradek, Qui si vende storia (con Nevio Gambula, 2010). Con Mario Lunetta, ha diretto gli Almanacchi Odradekdal 2003 al 2007.
Segnalo anche un libro del 2007 che con gli anni va acquistando attualità: Scritture della catastrofe.
C’è poi, di Muzzioli, tutto un versante di narratore e autore teatrale che stimo e mi è caro, citerò solo qualche esempio: L'urbana nettezza e Alla Corte del Corto.

Segue ora un incontro con l’autore del volume che sto presentando oggi.


Il Gruppo '63 (2)


A Francesco Muzzioli ho rivolto alcune domande.
Che cosa significò l’arrivo del Gruppo ’63 nell’Italia letteraria di quel tempo?

L’apparizione del Gruppo ’63, anticipata di poco dall’antologia dei “Novissimi”, ha costituito un forte sconvolgimento del panorama letterario italiano di allora. Bisogna pensare che la società stava facendo un balzo in avanti verso la piena modernità, e quindi era lecito supporre che il cambiamento della realtà portasse con sé un cambiamento radicale del linguaggio. Così molti intellettuali e scrittori temettero davvero di essere scavalcati e rimanere indietro, tanto che molti tentarono di aggiungere un po’ di sale sperimentale alle proprie vecchie ricette. Il senso di quella scossa si percepisce nel fatto che ancora adesso, ad ogni anniversario, c’è sempre qualcuno che si mette a deprecare la neoavanguardia: è il segno che lo sconcerto non è stato ancora del tutto smaltito.

In quel famoso Gruppo ci fu anche un largo esercizio di una critica propositiva e non solo distruttiva, come ricordi era costume delle avanguardie precedenti.
Perché avvenne quel fenomeno?

Rispetto alle avanguardie storiche, negli anni Sessanta avviene un cambio d’orizzonte. Il mito del “nuovo” esiste ancora, ma viene gestito in modalità meno enfatiche e più attente alla formazione del testo. L’importante non è più il manifesto, ma la tendenziosità insita nella scrittura. Quindi è necessario discutere di come e quanto i testi siano effettivamente contestativi. Ecco la necessità della presenza della critica e del suo aggiornamento alle metodologie europee (strutturalismo, psicoanalisi, eccetera). Qualcuno vide in questo una perdita dello spirito avventuroso delle avanguardie precedenti e una sorta di arroccamento accademico (Sanguineti e Eco erano già professori). Ma il punto è che la figura romantica dello scrittore outsider veniva sostituita dal lavoro in laboratorio. Si passava dal platonismo della ispirazione imperscrutabile alla logica della semiotica.

Rintracci, oggi, dell'eco di quel movimento? Se sì, da quale parte?

È molto difficile rintracciare simili echi. Infatti, ai margini del sistema editoriale, ci sono forse più sperimentatori di quanto si immagini, ma sono non solo separati tra loro, sono anche per forza di cose sostanzialmente invisibili ai mezzi di comunicazione. E c’è di peggio: è stato sottratto al pubblico ogni strumento per riconoscerli come “alternativi”. Per questo ho sottotitolato il mio libro ‘Istruzioni per la lettura’. Bisogna ripartire da qui, tornare a imparare a leggere l’avanguardia. A chi si lamentasse che si fa fatica e che le istruzioni sono noiose, obietto che vi facciamo spesso ricorso: se sono necessarie per avviare un computer e per montare un mobile dell’Ikea, perché dobbiamo rifiutarle per leggere una poesia?

Perché la parola “avanguardia” da tanti adesso è considerata una parolaccia?

Curiosamente il postmoderno, che ammetteva qualsiasi riscrittura a piacere, escludeva però la possibilità dell’avanguardia. L’avanguardia non piace, è chiaro, perché mette in discussione le nostre maniere consolidate di avvicinarci alla letteratura e all’arte, costringe ad andare al di là delle attese, ci fa vedere che è possibile osare anche ben oltre alle direttive del mercato. In questo qualcuno vede un atteggiamento aggressivo e ricorda che il termine “avanguardia” ha un etimo militare. Faccio tuttavia notare che anche il pacifismo e il femminismo, se vogliono cambiare profondamente atteggiamenti radicati nei millenni, devono avere una pars destruens, una punta polemicamente combattiva. E non faccio questi esempi a caso: perché oggi abbiamo davanti la ricerca di identità solide, cui il mercato (anche letterario) tiene il sacco; l’avanguardia è al contrario una decostruzione delle identità, che arriva fino alla fondamentale autocritica del soggetto.

Francesco Muzzioli
Il Gruppo ‘63
Pagine 222, Euro 18.00
Odradek Edizioni


La tempesta perfetta


Il titolo non inganni.
No, non si tratta di un catastrofico evento meteorologico ma di una rassegna di cinema così intitolata riferendosi a non meno catastrofici eventi vissuti attraverso vecchi e nuovi film.
Mi occupo raramente di rassegne cinematografiche perché, spesso, hanno il difetto di rassomigliarsi fra loro girando intorno a temi simili, ma questa che si svolge a Siena ha il pregio dell’originalità trattando, inoltre, un argomento di grande e sofferta attualità: corruzione e potere.
Tale è, infatti, il tema della rassegna.

Per il secondo anno consecutivo il Siena Film Festival affronta, quindi, temi di pressante attualità: nel 2012 fu la crisi finanziaria a motivare la rassegna, quest’anno, in un momento particolare in cui Siena è all’attenzione delle cronache nazionali, la città diventa luogo ideale per una riflessione sull’attuale crisi economica e morale che investe l’intera società.
Da qui il titolo della rassegna: “La tempesta perfetta”, la stessa che sembra incombere su Siena.
Corruzione e potere raccontati dal cinema, con proiezioni, dibattiti e tavole rotonde presso l’Aula Magna del Rettorato dell’Università senese e al Cinema Nuovo Pendola.

Curata da Claudio Carabba e da Giovanni Maria Rossi, la manifestazione è promossa dall’Associazione di Cultura Cinematografica Campo&Controcampo, presieduta da Antonio Sclavi, ex docente di Economia dell’Università di Siena.
Tra gli ospiti: Roberto Andò, Marco Risi, Valerio Caprara, Beniamino Deidda, Giuseppe Ferrara, Daniele Protti, Sandro Provvisionato, Andrea Purgatori, Luca Verzichelli, Roberto Barzanti.

Per il programma: CLIC!

Ufficio Stampa: Agenzia Freelance; info@agfreelance.it
Sonia Corsi 335 -19 79 765; Elena Giovenco 331 – 53 53 540

La tempesta perfetta
Rassegna cinematografica
Siena
Info: info@campoecontrocampo.it
Dal 18 al 20 aprile


Dalla parte del nemico (1)

Nonostante le tantissime pubblicazioni sul periodo che va dal 1943 al 1945 in Italia, esistono angoli di quella storia scarsamente esplorate, specie dalla Sinistra.
E’ il caso delle donne che aderirono alla Repubblica Sociale Italiana.

Nella foto: reclutamento di ausiliarie fasciste, Torino 1944.

C’è una discretamente ampia memorialistica di marca fascista sull’argomento (pur sempre inferiore per numero di pubblicazioni e qualità delle stesse rispetto a quanto dedicato da vecchie e nuove penne di Destra ai maschi repubblichini), ma, tranne qualche titolo, pochissimo è stato scritto su quel fenomeno da storiche e storici d’area democratica.
Ora va a riempire quei vasti spazi vuoti uno straordinario libro di Roberta Cairoli pubblicato da Mimesis e intitolato Dalla parte del nemico Ausiliarie, delatrici e spie nella Repubblica sociale italiana (1943-1945).
La giovane autrice ha conseguito il dottorato di ricerca in “Società europea e vita internazionale nell’età moderna e contemporanea” presso l’Università degli Studi di Milano. Si occupa prevalentemente di storia delle donne, delle differenze di genere e di storia politica. Invitata a diversi convegni nazionali e internazionali, ha scritto Nessuno mi ha fermata. Antifascismo e Resistenza nell’esperienza delle donne del Comasco 1922-1945 (2006), e altri saggi. Attualmente è membro del direttivo dell’Istituto di storia contemporanea Pier Amato Perretta di Como, ricercatrice del CentroLumina di Milano e socia della Società Italiana delle Storiche.

Libro straordinario, dicevo, che oltre a interpretare motivazioni (non sempre nobilissime) che portarono alcune migliaia di donne a collaborare, clandestinamente o apertamente, con la Rsi, oltre a indagare sulle strutture, militari e paramilitari, nelle quali furono inquadrati i reparti femminili di Salò, documenta in modo particolareggiato – attraverso una rigorosa ricerca negli archivi giudiziari – su come furono giudicate dalla giustizia italiana, dopo il ’45, le collaborazioniste.
Qui si apre un capitolo della nostra storia che non riguarda soltanto le donne fasciste, ma anche tantissimi uomini. Perché l'amnistia del 22 giugno 1946 promulgata da Togliatti (allora Ministro di Grazia e Giustizia) produsse un “liberi tutti” di cui ancora oggi si risentono le conseguenze.
Quell’amnistia fu contestata sia da parte della base del Pci, sia dalle associazioni partigiane e anche dal fronte democratico non comunista che vide chiaramente il pericolo, puntualmente avveratosi, di una mancata defascistizzazione del Paese.
Fu, infatti, seguita da quattro ulteriori amnistie – varate da governi Dc – che allargarono ulteriormente i termini temporali e la casistica dei reati commessi.
Cairoli, coerentemente al tema scelto, riferisce con meticolosa puntualità il percorso e l’esito di tanti processi che videro alla sbarra donne repubblichine alle quali andò di lusso anche quando si erano rese responsabili di gravi reati non contemplati da quell’amnistia voluta da Togliatti (insieme con la maggioranza dei dirigenti del Pci d’allora).
Il volume si avvale di accuratissimi apparati: fonti archivistiche, elenco delle sigle, indice dei nomi e una sterminata bibliografia prevalentemente riferita ad articoli e documenti perché, come già detto, libri specificamente dedicati alla presenza femminili a Salò sono in discreto numero (e riportati dalla Cairoli) di Destra e pochini quelli di Sinistra.

Segue ora un incontro con l’autrice.


Dalla parte del nemico (2)


A Roberta Cairoli ho rivolto alcune domande
Perché nella saggistica storica è stato carente lo studio sul collaborazionismo femminile con il fascismo di Salò e i nazisti del tempo?

Per ragioni diverse: la frammentarietà delle fonti; il “policentrismo” della Repubblica Sociale Italiana; la scomparsa o il silenzio delle protagoniste di quel periodo e, non ultima, la reticenza degli storici a trattare un fenomeno ritenuto, a torto, marginale unita alla difficoltà di decifrare un microcosmo femminile così complesso. Va detto, inoltre, che per lungo tempo, la storiografia ha espulso i fascisti di Salò dalla storia d’Italia persuasa, come ha sottolineato Claudio Pavone, che la Rsi andasse combattuta ed eliminata “ut sic”, in blocco, senza preoccuparsi di indagare a fondo le differenze esistenti nel corpo del nemico e i margini di consenso di cui poteva aver goduto.

La presenza delle donne collaborazioniste si esplica prevalentemente nel ruolo di delatrici piuttosto che di combattenti?

Sì. Dalla documentazione d’archivio appare evidente come le collaborazioniste abbiano agito prevalentemente come delatrici e spie, responsabili dell’arresto, della tortura e dell’uccisione di partigiani e civili. Ho inquadrato le delatrici in tre categorie: quelle che aderirono alla Rsi, iscrivendosi al Pfr (Partito fascista repubblicano) o militando nel Servizio ausiliario femminile (Saf) o nei Fasci femminili repubblicani; donne “comuni”, spinte ad agire da moventi diversi e, infine, le donne vicine al movimento partigiano che, una volta arrestate, cedettero per paura o sotto il peso di un ricatto. Certamente, l’apporto informativo più prezioso fu fornito da soggetti organicamente inseriti in strutture deputate a svolgere attività di spionaggio politico e militare e di controspionaggio, come, ad esempio, le agenti degli Upi (Uffici politici investigativi) della Gnr o dell’Sd (‘Sicherheitsdienst’), il servizio di informazione e di spionaggio delle SS. D’altra parte, al lavoro informativo potevano aggiungersi compiti operativi: operazioni di rastrellamento contro i partigiani, armi in pugno, identificazione delle vittime da destinare alla fucilazione, o partecipazione agli interrogatori e alle torture.

Qual è, invece, la principale caratteristica dell’ausiliaria repubblichina?

Non sempre, nei fatti, è possibile distinguere le ausiliarie dalle collaborazioniste. Il Saf era un corpo militarizzato, istituito ufficialmente il 18 aprile 1944 da impiegare nei servizi sanitari, amministrativi, di assistenza e di sussistenza. Le ausiliarie, in base al regolamento, erano adibite a tutti i servizi sussidiari, in sostituzione del personale maschile, ma erano escluse dagli enti militari prettamente operativi. La pubblicistica di Salò e la successiva memorialistica hanno fatto dell’ausiliaria un modello femminile ideale di militante fascista: una donne giovane, dalla moralità ineccepibile e dall’ardente fede patriottica, non armata, non violenta. Il materiale d’archivio, in particolare, le carte processuali e quelle dell’OSS (Office of Strategic Services), consente, invece, di decostruire questa immagine, svelando la presenza e il ruolo per nulla secondario svolto dalle ausiliarie negli apparati informativi e repressivi fascisti e tedeschi. Pensiamo, per esempio, che il Saf costituì il principale serbatoio di reclutamento delle “agenti segrete” arruolate e addestrate dai tedeschi per compiere missioni di spionaggio, sabotaggio e controspionaggio nel territorio italiano occupato dagli Alleati.

La mancanza di rigore, che talvolta sfiora la complicità, di tanti tribunali riguardo alle donne fasciste a che cosa è principalmente da attribuire?

Va senz’altro attribuito all’incapacità delle Corti di andare oltre le rappresentazioni culturali e sociali del comportamento femminile. Scorrendo, infatti, le sentenze si coglie una tendenza generale a ridimensionare e a sminuire le responsabilità femminili, attribuendo alle donne una minore capacità di giudizio. È pur vero che le donne furono sottoposte a una sorta di “doppio processo”: il riferimento alla dubbia condotta morale e alla trasgressione sessuale delle collaborazioniste fu una costante, costituendo spesso un’aggravante all’accusa. Tuttavia, il giudizio sulla moralità finì, in qualche caso per offuscare o sottovalutare la gravità dei crimini commessi.

L’amnistia Togliatti quanto ha pesato nella liberazione di tante collaborazioniste che si erano macchiate di colpe da ritenersi non comprese in quell’atto di clemenza?

L’«amnistia Togliatti» , o meglio, la sua interpretazione estensiva da parte dei giudici, spalancò di fatto le porte del carcere a molte fasciste condannate dalle Corti d’assise straordinarie che già si erano viste ridurre notevolmente la pena dalla Corte di Cassazione. Nei processi celebrati in primo grado o finiti in Cassazione dopo l’entrata in vigore dell’amnistia, la maggior parte delle donne coinvolte anche in gravi fatti di delazione verranno amnistiate, a meno che non fosse provato lo scopo di lucro. Tra riduzioni e condoni furono pochissimi comunque gli anni di carcere.

Roberta Cairoli
Dalla parte del nemico
Pagine 264, Euro 17.00
Mimesis Edizioni


Frammenti di vita


Si chiamava Ivo Livi, ma il mondo lo conosce come Yves Montand.
Ora disponiamo d’un prezioso librino intitolato Frammenti di vita, a cura di Antonio Castronuovo, con ricordi del grande attore e cantante, nato a Monsummano Terme il 13 ottobre 1921, che ha segnato col suo talento, i suoi amori, le sue battaglie civili, una lunga stagione del Novecento.

Ultimo di tre fratelli, figlio di un perseguitato dal fascismo, emigrò nel maggio del ’24 in Francia. Quel nome d’arte, preso al suo debutto sulle scene a 17 anni, si deve alla francesizzazione del grido con accento toscano con cui la madre all’ora di pranzo gli gridava “Ivo, monta!”, cioè ”Sali in casa!”.
La sua esistenza è stata segnata dalle lotte antifasciste e dalla passione per le donne; celebre il lungo legame con Simone Signoret, la breve ma intensa relazione con la Monroe, più tante altre storie accreditategli.
Ecco tre passaggi estratti dal volumetto (che s’avvale anche d’una nota di Carole Amiel ultima compagna della sua vita) che bene illustrano il suo essere.

Ricordi d’adolescente.
Ero comunista di nascita, nato in una famiglia comunista. Mio padre a Marsiglia era responsabile degli antifascisti italiani che lottavano contro Mussolini. Spesso, nel vicolo in cui abitavamo, arrivava un compagno di passaggio, cui mio padre dava rifugio per qualche tempo. Gli stendevamo un materasso per terra. Io gli portavo una zuppa e un pezzo di pane.

Prime emozioni sul femminile
Avevo 13 anni quando mia sorella Lydia mi assunse nel suo salone di parrucchiera. Ciò che per me era conturbante ed eccitante, era il rilassamento totale di una donna mentre le lavavo i capelli… Massaggiavo la nuca, palpavo le spalle, accarezzavo il cuoio capelluto. Avevo una vista diretta sul seno, soprattutto in estate, quando l’abito leggero si socchiudeva… Ma il momento più terribile e più favoloso era quando dovevo raccogliere le spille da terra. Mi intrufolavo a quattro zampe tra le gambe sollevate delle clienti mentre leggevano sotto il casco asciugacapelli.

Disillusione.
Il film “La confessione” è il mio atto di rottura col sentimentalismo generoso di quella sinistra cieca di fronte ai propri delitti, che coltiva una forma di messianismo, o pretende di attuare la felicità degli uomini massacrandoli se necessario. Beninteso, siccome io ci avevo creduto, c’era in quel che m’infliggevo un pizzico di espiazione. Un’interiore purificazione, che passava per la sofferenza fisica. Ma non esageriamo: non era la Siberia!”.

Montand proseguirà il suo impegno nella sinistra, ma allontanandosi dall’ideologia comunista partecipando a una lotta estesamente antitotalitaria.
Morirà a settant’anni il 9 novembre 1991.
Non dimenticando l’esilio imposto un tempo alla famiglia, ha sempre rifiutato la cittadinanza onoraria che il Comune di Monsummano Terme a più riprese gli ha offerto.
A parere dell’estensore di questa nota, ha fatto benissimo.

Yves Montand
Frammenti di vita
A cura di Antonio Castronuovo
Con una nota di Carole Amiel
Pagine 36, Euro 4.00
Edizioni Via del Vento


Meret Oppenheim

La storia e il valore artistico di Meret Oppenheim (Charlottenburg, 1913 - Basilea 1985), viene fuori in un ottimo saggio pubblicato da Carocci : Meret Oppenheim Idee, sperimentazioni, visioni.
L’autrice è Maria Giuseppina Di Monte, dottore di ricerca in Storia dell’arte contemporanea all’Università di Basilea e storica dell’arte della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. S’interessa prevalentemente di arte del XX secolo, di teoria dell’immagine e museologia. Diversi sono i suoi contributi in raccolte di saggi. Tra le pubblicazioni più recenti si segnala la curatela della traduzione italiana di Gottfried Boehm, La svolta iconica (con M. Di Monte, Meltemi 2009) e la curatela, con altri autori, di Meyer Schapiro e i metodi della storia dell’arte (Mimesis 2010); è autrice della monografia Ellsworth Kelly. La forma e il contenuto (De Luca 2010).
Della Meret ha tradotto Poesie e disegni.

Cosmotaxi ha il piacere di ospitarla oggi.
Qual è il tuo principale motivo d’interesse per il lavoro della Oppenheim?

E' un'artista che ho iniziato a studiare quando facevo l'Università e l'ho scoperta attraverso la letteratura tedesca, essendo Meret Oppenheim un'appassionata lettrice di opere del Romanticismo, una romantica post litteram. Nel libro è pubblicata, in traduzione italiana, la lettera che Meret Oppenheim ha inviato alla sua amica e biografa Bice Curiger. In essa Meret ha descritto e commentato con molta competenza il carteggio Guenderrode-Brentano. All'epoca studiavo letteratura tedesca e mi imbattei nei due dipinti "Fuer Karoline" e "Fuer Bettine" che la Oppenheim aveva dedicato, pochi anni prima della sua morte, alle poetesse romantiche e sono partita da lì. Durante il periodo della mia borsa di studio all'Università di Basilea ho continuato a lavorare su di lei, ho visto le sue opere nei musei di Basilea, Berna, Solothurn e anche nelle case di alcuni suoi amici e collezionisti. Ho parlato con le persone che le furono vicine, con suo fratello, che ora è morto, e con sua nipote e il mondo di "Meretlein" (come veniva chiamata in famiglia) è affiorato in tutta la sua fantasia e originalità.

Dapprima partecipe del surrealismo, poi allontanatasi, in che cosa è surrealista?

Quando parliamo di un'artista siamo in qualche modo costretti a classificare anche se poi le nostre definizioni finiscono per trasformarsi in gabbie, mostrando i loro limiti. E' chiaro che è necessario per noi storici creare delle categorie per comprendere affinità e differenze ma questo approccio può generare anche confusione precludendo l'esatta comprensione delle opere e dei loro autori. Come ha detto André Breton nel Primo Manifesto del Surrealismo del 1924 “Sade è surrealista nel sadismo, Chateaubriand è surrealista nell’esotismo. Hugo è surrealista quando non è stupido... " e così via. Il movimento surrealista non presenta un'uniformità stilistica forte come è accaduto per altri fenomeni d'avanguardie, perciò se la Oppenheim può dirsi surrealista, il suo surrealismo sta nel desiderio di conoscenza e nella volontà di affermare il principio della libertà.

Come ho prima ricordato, sei stata traduttrice delle poesie della Oppenheim, quindi, nessuno meglio di te può dirci se esiste, oppure, no una contiguità fra l’opera letteraria e quella visiva dell’artista…

Io credo di sì. Evidentemente ciò che si esprime verbalmente può essere difficilmente paragonato a ciò che si crea attraverso le immagini; come ho detto nell'introduzione alle poesie, sono due media che non si possono sovrapporre, eppure leggendo le poesie e guardando i lavori dell'artista è possibile ritrovare più che una continuità stilistica, che non è pensabile fra procedimenti così diversi, un'atmosfera, una Stimmung: qualcosa che rimanda ad un'esperienza sovrasensibile, qualcosa che si riferisce alla personalità, alle idee, alle scelte, alla soggettività. E' naturale che sia così perché gli artisti, come tutti noi e forse di più, sono mossi dal desiderio di comunicare la propria esperienza interiore, la propria spiritualità.

Il libro si avvale di consistenti apparati: Interviste alla Oppenheim, sue lettere, nota biografica dell'artista, cronologia delle mostre personali e collettive, bibliografia.

Maria Giuseppina Di Monte
Meret Oppenheim
Pagine 120, Euro 18.00
Carocci Editore


Sai cos'è?

Da Elena Grossi, responsabile della comunicazione Pearson, ricevo notizia di una nuova collana e-book di Bruno Mondadori.
Si tratta di pubblicazioni tese a capire il presente.
Saranno disponibili da domani, martedì 9 aprile, sui principali e-book store i primi sei titoli di questa collana chiamata Sai cos’è?
Testi molto brevi, circa 50.000 caratteri (meno di 30 pagine), disponibili solo in formato e-book. Il prezzo è di € 1,99.
Ciascun libro inquadra e spiega un concetto, un fenomeno, un termine legato alla cultura contemporanea o all'attualità.

Tutto, nella collana – recita un comunicato – è pensato per essere cercato, scaricato, diffuso, fruito sul web; la copertina, semplice e solo grafica, è stata progettata come un’icona di formato 2x3 cm. La struttura dei testi è stata costruita per approfondimenti successivi, e pensata per una consultazione on-line o su device mobili (gli e-book possono essere scaricati su computer, tablet, smartphone, e-book reader): in apertura, il tema viene riassunto in due-tre pagine; a seguire si trovano la definizione del concetto; la sua storia; lo stato dell’arte del dibattito; dati numeri e tabelle; discussione e nuove prospettive; bibliografia; sitografia.
Il progetto si rivolge a chi cerca abitualmente informazione online, proponendo un'introduzione ai temi trattati alternativa a quella, qualitativamente discontinua e talvolta troppo sintetica, reperibile su Wikipedia o altri siti simili.
Succede a molti di fare ricerche su Internet su un argomento specifico: quello di cui c’è bisogno è giungere velocemente al nucleo del tema e farsi un’idea precisa - anche se non approfondita - delle principali questioni sul tappeto. Quasi sempre il punto di partenza è Wikipedia, ma la qualità delle voci non è uniforme e la trattazione spesso insufficiente. “Sai cos’è?” colma questo vuoto: in uno spazio limitato fornisce tutto quello che è necessario sapere, e dà in maniera chiara le indicazioni utili a continuare la ricerca.
L’insieme dei “Sai cos’è?” dovrebbe costituire una ideale enciclopedia elettronica della cultura contemporanea, le cui voci sono i libri stessi. Il progetto al momento prevede di raggiungere le cento voci. Entro il 2013 saranno pubblicate le prime venti. Le aree all’interno delle quali sono raggruppate le voci sono: Economia; Nuovi media; Cittadinanza; Ecostile; Lavoro; Comunicazione; Scienze cognitive; Memoria.
Queste aree tematiche sono state scelte con una precisa attenzione all’evolvere del mondo contemporaneo; successivamente ne saranno introdotte altre.
In contemporanea al lancio, sarà aperta una pagina Facebook dedicata alla collana, dove verranno postate informazioni aggiuntive, aggiornamenti, approfondimenti legati sia ai testi, sia all’attività degli autori, tutti specialisti riconosciuti del tema trattato
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Titoli in uscita domani: Identità, di Marco Aime; Non profit, di Riccardo Bonacina; Felicità, di Leonardo Becchetti; Nativi digitali, di Paolo Ferri; Decrescita, di Maurizio Pallante; Elezioni, di Fabrizio Tonello.

Il 14 maggio avremo: Green economy, di Emanuele Campiglio; Spazio, di Franco Farinelli; Lavoro, di Andrea Fumagalli.

L’11 giugno: Teoria dei giochi, di Daniele Lucchetti; Social media, di Fausto Colombo.

Il 10 settembre: Giornalismo digitale, di Marco Pratellesi; Moneta locale, di Massimo Amato; Beni comuni, di Ugo Mattei; Disabilità, di Matteo Schinachi.


Nam June Paik in Italia


Dedicata al pioniere della video arte è in corso alla Galleria civica di Modena una splendida mostra: Nam June Paik in Italia.
Come il titolo annuncia, l’esposizione esplora i fitti rapporti che l’artista coreano ebbe con il nostro paese.
La mostra è a cura di Silvia Ferrari, Serena Goldoni, Marco Pierini.
Nam June Paik (Seoul, 1932 – Miami, 2006) ha espresso la sua alta cifra artistica all’interno del Gruppo Fluxus di cui fu un protagonista.

In foto: “Sacro e Profano”, 1993.

Alcuni momenti centrali della sua vita.
Come ricorda il catalogo “La registrazione del traffico newyorchese durante la visita di Paolo VI il 4 ottobre 1965, presentata lo stesso giorno delle riprese al celebre Café au Go Go nel Greenwich Village è ritenuta il primo video d’arte della storia, anche se la vicenda del filmato, oggi perduto, contiene alcuni elementi rimasti oscuri […] Nel 1984 lavora al primo progetto di comunicazione globale basato sulla tecnologia satellitare: “Good Morning, Mr. Orwell”, una trasmissione intercontinentale in diretta televisiva realizzata via satellite il giorno di capodanno dal Centre Pompidou di Parigi e dal Museum of Modern Art di New York che coinvolge personaggi come Laurie Anderson, Peter Gabriel, John Cage, Merce Cunningham, Salvador Dalì, Joseph Beuys che raggiunse oltre dieci milioni di persone”.
Né va dimenticato un incontro. Quello che ebbe nel 1964, quando conosce la violoncellista Charlotte Moorman (1933 - 2001), protagonista della scena sperimentale di quegli anni e direttrice del New York Avant Garde Festival, con la quale instaura una collaborazione che li porterà ad una notorietà internazionale.

Nel catalogo scrive Marco Pierini: Fra gli artisti che hanno maggiormente incarnato i concetti di nomadismo, internazionalismo, rottura dei confini geografici e culturali della seconda metà del Novecento, il coreano Nam June Paik occupa un ruolo di rilievo assoluto, non soltanto per alcuni spiccati tratti della poetica e della pratica artistica (come non ricordare “Good Morning Mr. Orwell”, prima opera satellitare della storia).
Nato a Seoul, Paik ha studiato storia dell’arte e musica all’Università di Tokio, è approdato in seguito in Germania, dove ha intrapreso i primi passi della carriera artistica, e infine si è stabilito negli Stati Uniti. Eppure c’è un altro paese che dobbiamo aggiungere tra quelli che hanno segnato l’arte e la vita di Paik: il nostro. Il legame dell’artista con l’Italia comincia negli anni della giovinezza quando, studente di musica, si appassiona all’opera lirica
.

Dalle stesse pagine gli fa eco Henry Martin: Fluxus ha trovato la sua affermazione principalmente nel mondo dell’arte visiva, ma in realtà non è in questo modo che le cose sono iniziate. Il famoso festival al Museo Civico di Wiesbaden nel 1962, che ha più o meno dato i natali al gruppo, è stato presentato, dopo tutto, come il “Fluxus Festspiele Neuster Musik” e la formazione dei vari partecipanti, come di tutti gli artisti Fluxus, ha origine tanto nella musica quanto in qualsiasi altro ambito. Alcuni di essi avevano suonato in orchestre sinfoniche, altri avevano un passato nel jazz, altri erano compositori, e continuavano a considerarsi tali. Inoltre, molti degli artisti Fluxus si erano incontrati come studenti nel corso di composizione musicale che John Cage aveva tenuto nel 1959 alla New School for Social Research a New York. E Cage, nonostante la scelta di un percorso che lo ha portato ad apprezzare soprattutto il valore del silenzio, è stato studente di Arnold Schönberg. Anche Nam June Paik ha avuto una formazione musicale, come performer e come compositore, e sembrerebbe aver sperimentato e promosso la sua scoperta/invenzione della video arte come estensione del proprio coinvolgimento con la musica.

Il catalogo – con dovizia di apparati (note biografiche, bibliografia, cronologia delle opere e delle esposizioni) è a cura di Silvia Ferrari, Serena Goldoni, Marco Pierini, traduzioni di Caterina Gualco – è stampato da Silvana Editoriale con ricchissima iconografia a colori e in b/n.

Ufficio Stampa: Cristiana Minelli, galcivmo@comune.modena.it

Nam June Paik in Italia
Galleria civica di Modena
Fino al 2 giugno 2013


Daniela Barra

Fra le attrici-cantanti italiane va sempre più affermandosi Daniela Barra che già vanta un cospicuo curriculum artistico avendo fatto parte della Compagnia della Luna diretta da Nicola Piovani.
Possiede grande padronanza su più media: dalla radio (“La Storia in giallo”, “Storyville”, “Tory Amos”; Rai-RadioTre) alla televisione (per Mediaset “Carabinieri”; per RaiTre “La squadra”, Un posto al sole”), dal cinema (Doc, regìa di Luca Zingaretti) al doppiaggio (Chi l’ha visto, Geo & Geo, Alle falde del Kilimangiaro, Discovery Channel, e molti altri impegni) al teatro potendo vantare spettacoli in Australia, America Latina, Russia, Stati Uniti, e, inoltre, un elenco di lunghezza dissuasiva ad elencarli tutti di recital di poesia e prosa.
Per una più estesa conoscenza di Daniela Barra, c’è in Rete il suo sito web.

Ora si produce in uno spettacolo (In foto la locandina) diretto da Nicola Pistoia che ne ha curato il testo liberamente ispirato all’autobiografia di Édith Piaf (1915 – 1963): La mia vita.
La grande cantante francese, icona sia per gli intellettuali dell’epoca sia per il più largo pubblico suo contemporaneo e delle generazioni successive, si descrisse in un suo famoso aforisma: “Tutto quello che ho fatto per tutta la mia vita è disobbedire”.
Dalla strada, dai bordelli di Pigalle al successo planetario in un susseguirsi di avvenimenti tragici, di dipendenze, malattie, lutti, amori sfortunati, senza mai perdere la voglia di cantare, di emozionare, ebbe una vita segnata anche da incontri fortunati, di amicizie importanti (Marlene Dietrich, Jean Cocteau, Yves Montand, Charlie Chaplin). Antidiva per vocazione, con il suo stile sobrio e la sua “gola piena di tragedia”, come fu detto di lei, conquistò le platee di tutto il mondo.
Ora, Barra, a 50 anni dalla morte della Piaf avvenuta l’11 ottobre 1963 ne interpreta la figura al Teatro Stanze Segrete di Roma diretto da Ennio Coltorti.
È affiancata da Ciro Scalera con la direzione musicale di Giovanni Monti al pianoforte.

Eco il trailer dello spettacolo girato da Patrizio Trecca.

Daniela Barra
In “La vie en rose”
Teatro Stanze Segrete
Via della Penitenza 3, Roma
Info: info@stanzesegrete.it
06 – 6872690; 388.9246033
Fino al 21 aprile ‘13


Breath


Breath è un doppio CD che documenta due fasi, diverse e complementari, dell’attività di Roberto Laneri (in foto).
Il primo CD è la registrazione di un solo recital tenuto a Roma nel 2010 presso il Museo Casa Scelsi. L’intera performance, comprendente pezzi per voce (nella modalità “canto armonico”), sax soprano, didjeridoo ed elettronica (sotto forma di basi preregistrate), è come un lungo respiro, punto di partenza e di arrivo di suoni che attraversano l’universo sonoro secondo coordinate spazio-temporali del tutto personali. Così i due movimenti dalla “Partita BWW 1013” per flauto solo di Bach, vengono trattati come, secondo l’autore, avrebbero potuto suonarli alcuni dei suoi jazzisti preferiti. Invece “Spiritual”, un famoso pezzo di John Coltrane, viene interpretato per voce come un raga indiano nel quale gli armonici vocali prescelti sono soltanto quelli che coincidono con le note del tema.

Il secondo CD è un’altra registrazione live, questa volta del gruppo di canto armonico In forma di cristalli, fondato da Roberto Laneri e comprendente vocalisti di Roma e di Firenze. Ad essi si aggiunge la voce dell’attrice Ilaria Drago, che interpreta brani tratti da
“Il sogno 101”, un importante testo del compositore Giacinto Scelsi, cuciti drammaturgicamente in un percorso armonico-vocale che comprende sia brani originali, sia riscritture di pezzi preesistenti, tra cui “Tel Rit” di Guillaume de Machaut, una ninna-nanna pigmea e ancora “Spiritual” di John Coltrane. La connessione con Giacinto Scelsi, con il quale Roberto Laneri intrattenne un forte rapporto personale e musicale, appare come una visione comune del suono come veicolo di stati di coscienza profondi. Il concerto è stato registrato al Goethe-Institut di Roma, nel quadro del Festival Scelsi del 2005.


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