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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

L'attore in primo piano (1)

Con la nota che segue, Cosmotaxi, come ogni anno il 22 dicembre, chiude per ferie e riaprirà a gennaio con recensioni e interviste

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Charlie Chaplin: “I bambini e i cani sono i migliori attori di cinema”.

Sono stati scritti tanti libri sull’attore cinematografico da scoraggiare qualunque storico o critico del cinema, ma non Cristina Jandelli che è riuscita a trovare un’angolazione finora non esaminata di quel mestiere perché lo esplora in un modo che vede insieme storia, critica e tecnica.
Così abbiamo, edito da Marsilio, L’attore in primo piano Nascita della recitazione cinematografica.
Un volume in cui accanto alla storia di una professione studiata nel suo nascere, scorrono, su paralleli cursori, indagine sui primi set e tecnica di ripresa, semantica dell’immagine, riflessioni sulla percezione.
È un libro che consiglio agli addetti ai lavori, ma non esclude altri lettori sia perché è scritto senza rinchiudersi in gerghi o in sussiegosità accademiche, sia perché illustra una maniera di osservare il cinema e, inoltre, guida alla visione specialmente delle sue produzioni d’origine.

Cristina Jandelli è professoressa associata presso il Dipartimento SAGAS (Storia, Archeologia, Geografia, Arte, Spettacolo) dell’Università degli Studi di Firenze, dove insegna Storia del cinema e Forme del cinema moderno e contemporaneo.
Ha scritto I ruoli nel teatro italiano fra Otto e Novecento (Le Lettere, 2002; CUE Press, 2016), La scena pensante. Cesare Zavattini fra teatro e cinema (Bulzoni, 2002), Le dive italiane del cinema muto (L’Epos, 2006).
Per Marsilio ha pubblicato Breve storia del divismo cinematografico (2007) e I protagonisti (2013).

Dalla presentazione editoriale.
“Oggi gli attori cinematografici recitano, siamo in grado di riconoscere diversi stili nelle performance dei protagonisti dei film che amiamo, ma non è sempre stato così. Quando il cinema era appena nato iniziò a prosperare grazie ad attori e attrici ma senza che loro potessero parlare. All’epoca, quando la recitazione era appannaggio dei soli interpreti teatrali, non aveva alcun senso immaginare un gesto artistico nel lavoro di scritturati che si limitavano a posare: infatti si parlava al massimo di esibizione e i personaggi cinematografici cominciavano appena a comparire. Il libro vuole spiegare due cose: come sia avvenuto il passaggio dalla casualità con cui i primi volti del cinema, posti davanti alla macchina da presa, hanno emozionato generazioni di spettatori e la nascita di una nuova professione artistica. Gli attori, affacciati dal grande schermo, hanno raccontato personaggi chiave delle nostre vite e lo hanno fatto recitando. Come bambini diventati adulti, prima li abbiamo amati, poi compresi.
Il presente volume tenta di mostrare come e perché”.

Ho cominciato questa nota con parole di Chaplin, voglio concluderla con altre di Buster Keaton: “Un commediante fa cose divertenti; un buon commediante fa divertenti le cose.”

Segue ora un incontro con Cristina Jandelli.


L'attore in primo piano (2)

A Cristina Jandelli (nella foto) ho rivolto alcune domande.

Maurizio Grande, a proposito della figura dell'attore, aldilà del suo esercizio nel cinema e nel teatro, si chiese: "Ma chi è l'attore: un corpo promosso a figura? Una maschera promossa a persona? Un sostituto promosso a originale?".
Tu come risponderesti a quelle domande?

Vengo da una formazione storica, risponderei solo a patto di calare queste domande all’interno di singoli contesti. Senz’altro l’attore delle origini è un corpo promosso a figura ma non una maschera. Questo avviene intorno al 1910 con la nascita del cinema comico europeo e in seguito con lo slapstick americano, quando Chaplin, Keaton, e ancor prima Linder e i comici francesi con i loro film in serie inventano maschere universali come il borghese salottiero (Linder), il vagabondo (Chaplin), l’imperturbabile (Keaton) e via dicendo. Quanto al “sostituto” mi pare evidente che Grande si riferisca a un aspetto teorico che accomuna tutti gli attori cinematografici che vedono le loro performance traslate su uno schermo mentre mi pare non si possa mai dire dell’attore teatrale che agisce in presenza di un pubblico in una performance che è sempre unica ed originale di sera in sera, anche quando l’attore interpreta lo stesso personaggio. Invito, in sintesi, a contestualizzare i discorsi sull’attore altrimenti sempre troppo generici.

Veniamo più precisamente al tuo libro.
Nell'Introduzione avverti il lettore che si troverà di fronte a «un doppio senso che nasce da due esigenze». Puoi spiegare in sintesi queste duplicità?

Il titolo “L’attore in primo piano” richiama la necessità di inserire, partendo dalle origini del cinema, l’attore e la recitazione al centro di una ricerca storica rimasta finora ai margini degli studi di settore. La seconda esigenza consiste nell’avviare una ricognizione sull’inquadratura più dibattuta del linguaggio del film, il primo piano, analizzandola da una prospettiva trascurata dalle teorie, quella dell’interprete che, fin dalla nascita del cinema, presta il proprio volto all’indagine ravvicinata della macchina da presa.
L’arco cronologico di riferimento comprende il momento aurorale della storia del cinema, dalle origini ai primi anni Trenta, il percorso cioè si arresta prima che l’introduzione del sonoro ridefinisca sia il mestiere dell’attore che la recitazione cinematografica. È anche il periodo in cui il primo piano riesce ad esprimere con evidente ricchezza e differenza di stili l’inesauribile varietà con cui gli attori possono trasferire nei personaggi sentimenti ed emozioni e perfino pensieri reconditi che il protagonista del racconto vuol rivelare solo allo spettatore in una sorta di assolo visivo di straordinaria forza comunicativa
.

Riprendendo una frase dalle tue pagine, ti chiedo: l'attore alle origini del cinema si esibisce o recita?

L’attore cinematografico, alle origini del cinema, si fregia della stessa qualifica di chi, negli stessi anni, calcava i palcoscenici grazie a una voce possente, una severa disciplina organizzata attorno alla corretta dizione, l’arte oratoria prestata ai copioni teatrali, portata di città in città con la fatica e il peso delle repliche, dei digiuni imposti dal viaggiare. Ma il cinema registrava solo immagini, non suoni, e non aveva bisogno di queste competenze. L’attore cinematografico veniva assoldato per poche pose in studio, prendeva i soldi e poi scappava chissà dove. La sua “effigie mobile” viaggiava per lui senza voce.
Una schiera di dilettanti, muti ma denominati “attori” come i professionisti teatrali, all’inizio del Novecento si accalcava davanti ai teatri di posa, chiedeva pane e un costume da indossare: questo racconta Pirandello ne “I quaderni di Serafino Gubbio operatore” e la storia è quella seriale dei primi piani di attori inconsapevoli girati da mani che muovevano febbrilmente manovelle in centri produttivi improvvisati, sparsi in ogni dove. La fama arriva dopo alcuni decenni, ma investe solo chi sa ragionare davanti all’occhio imperscrutabile del cineoperatore, chi si sa imporre al suo dominio, alla dittatura del meccanico scrutare dell’obiettivo, un modo per comunicare le insondabili profondità dell’essere umano (minaccia, paura, oscenità, orrore, amore, pietà)
.

Un capitolo che ritengo particolarmente importante del volume lo hai intitolato "Volti cinematografici degli anni venti".
Che cosa succede a quel tempo quando – come scrivi – «la cultura visiva si fa concettuale», e si pongono le premesse per sviluppi che arrivano oggi fino alla net art?

L’ultimo capitolo, che è anche il più breve dei quattro, è dedicato ai tardi anni venti e ai primi anni trenta, cioè il periodo che precede l’introduzione del sonoro. E’ l’epoca in cui il primo piano si erige in tutto il suo splendore per soggiogare le platee, per far risuonare corpo, mente e sensibilità dello spettatore all’unisono con il personaggio interpretato dall’attore per suscitarne forti emozioni. Ma è anche l’epoca in cui il melodramma ha come protagoniste donne che soffrono per non aver trovato il loro ruolo nella società e tenta di mostrare come le ideologie, in quest’epoca che termina con il “film parlante”, la crisi economica e le dittature, siano relativamente capaci di disciplinare il potere soggiogante del primo e del primissimo piano “lirico”. La recitazione diventa un’arte mentre montaggio, regia e produzione iniziano a dominare e sottomettere il lavoro dell’interprete e si sta per dissolvere l’esperienza maturata in tanti modi diversi per esprimere i sentimenti dell’animo umano dicendo, ma non a parole. Oggi questi primi e primissimi piani rivivono nella net art, in particolare nelle GIF animate, quelle create attraverso il prelievo di pochi frame di film volti ad esaltare una star o un’icona, al cui studio mi sto attualmente dedicando.

Non potevano mancare e, infatti, non mancano nel tuo studio riferimenti a Charlie Chaplin e Buster Keaton. Che cosa li accomuna? Che cosa li differenzia?

Li accomuna una recitazione basata essenzialmente sulle azioni fisiche. Sono i loro corpi, infatti, assai più dei volti-maschera cui accennavo in precedenza, i protagonisti assoluti delle gag. L’integrità delle loro performance è straordinaria perché non necessita di “ingrandimenti” sul volto per muovere al riso gli spettatori. Sono le loro azioni paradossali, l’uso spregiudicato e modernissimo dei loro corpi a disegnare le traiettorie visive dei film. Poi certamente le maschere di Chaplin e Keaton rimandano a tipi antropologici assai diversi, ma entrambi sono in lotta contro la società, contro gli oggetti, contro tutti coloro che tentano di “normalizzare” e “riportare all’ordine” i loro comportamenti anarchici. Sfidano continuamente la morte e la vincono, per questo li amiamo e non ci stanchiamo mai di vederli in azione.

Cristina Jandelli
L’attore in primo piano
Pagine 190, Euro 12.50
Marsilio12.50


Carteggi inediti della Deledda


Sono trascorsi 80 anni dalla morte della scrittrice Grazia Deledda (Nuoro, 28 settembre 1871 - Roma,15 agosto 1936) e 90 dal Nobel che le fu assegnato .
Potete ascoltare qui il discorso da lei tenuto in quell’occasione.
Questa piccola donna sarda, alta 1 metro e 54, ha lasciato un ponderoso complesso di opere: 32 romanzi, 250 racconti, 2 drammi teatrali, alcuni versi, 1 libretto d’opera, una raccolta di tradizioni popolari sarde e la sceneggiatura per il film muto tratto dal suo romanzo “Cenere”, film girato nel 1916, l'unica interpretazione cinematografica di Eleonora Duse.
Fu donna tenace nel credere in se stessa e nelle sue capacità, "Lo si evince chiaramente" - come scrive Cristina Muntoni - "in una delle innumerevoli lettere al suo amore non ricambiato, Stanis Manca: «Ho il sogno continuo e tormentoso della celebrità. Perciò mi attacco quasi inconsapevolmente, a chi mi promette di aiutarmi a farmi un nome».
Il suo arrivismo, tuttavia, resta un tabù. Nonostante sia una caratteristica non solo accettata, ma persino esaltata in altri scrittori suoi contemporanei come Gabriele D’Annunzio. Della tenace azione volta a ottenere pubblicazioni e consensi di Deledda, invece, non si parla, come se gestire in modo manageriale il proprio talento sia cosa intollerabile in una donna. Si preferisce dare della scrittrice solo l’immagine rassicurante di moglie e madre dedita alla scrittura e circondata da un alone di rigore e compostezza morale".

Ora disponiamo di una nuova biografia della scrittrice, tracciata attraverso un prezioso ritrovamento di carteggi finora inediti con interlocutori stranieri.
L’ha pubblicata l’editore Avagliano nella collana La memoria e l’immagine, il volume è intitolato Grazia Deledda I luoghi gli amori le opere.
Ne è autrice Rossana Dedola nata a Sassari.
Ricercatrice alla Scuola Normale Superiore di Pisa, è analista didatta, supervisore e docente presso l’International School of Analythical Psychology di Zurigo. e l’Istituto C.G. Jung. Ha pubblicato, tra gli altri, “Pinocchio e Collodi” (Bruno Mondadori, 2002), “La valigia delle Indie e altri bagagli” (Bruno Mondadori, 2006), “Introduzione a Vivian Lamarque – Poesie” (Mondadori, 2002), “Giuseppe Pontiggia. La letteratura e le cose essenziali che ci riguardano”, (Avagliano, 2014), “Roberto Innocenti. La mia vita in una fiaba” (Della Porta, 2014), uscito in traduzione francese da Gallimard e di prossima pubblicazione in traduzione spagnola e portoghese.
Qui il sito web di Rossana Dedola.

Il libro contiene la selezione di 86 lettere e cartoline postali inedite di Grazia Deledda, ritrovate presso alcune biblioteche europee, e apre una nuova prospettiva sulla sua biografia, mostrando l'intenso rapporto con intellettuali entusiasti di scoprire la Sardegna, e i vari momenti della sua esistenza: dal difficile rapporto con Luigi Pirandello, all’amore di Emilio Cecchi, all’amicizia per Marino Moretti e il giovanile innamoramento per Stanis Manca, che le lasciò in ricordo una profonda ferita, fino all’incontro con Palmiro Madesani che diventerà suo marito (morirà dieci anni dopo di lei) e, in un certo senso, il suo agente letterario.
Queste corrispondenze raccontano anche un contesto famigliare (lettere ai figli Sardus e Franz), gli amori paesaggistici (la Sardegna, il Po della Bassa, le dune dell’Adriatico di Cervia, le distese scandinave e la Roma del primo Novecento) l’interesse storico (la prima guerra mondiale, l’avvento di Mussolini), quello artistico e culturale che si anima di molti altri personaggi: il traduttore francese Hèrelle, Giovanni Cena e Sibilla Aleramo, Angelo Celli e sua moglie, De Pisis, Balla, Boccioni, Biasi e altri ancora.
La ritrovata vicinanza con la famiglia di origine, è messa in luce da un’altra scoperta: la biblioteca delle sorelle Deledda, rimasta pressoché intatta sino ai nostri giorni nella casa delle nipoti, che rivela quanto Grazia Deledda fosse attenta lettrice dei grandi romanzi europei.

In questo video Rossana Dedola traccia una sintetica biografia di Grazia Deledda e racconta come ha condotto le ricerche in varie città europee per scrivere questo libro.

Ufficio stampa: Anna Maria Riva - 3290974433 - riva.amb@gmail.com

Rossana Dedola
“Grazia Deledda”
Pagine 396, Euro 22.00
Avagliano Editore


Scienziati in erba


Come informa Elena Dusi in una nota su Repubblica “I campioni europei della scienza hanno ricevuto i loro premi. L’European Research Council ha selezionato in questo 2016 i 314 migliori ricercatori del continente (su 2.274 candidati) e gli ha fornito 605 milioni di euro per portare avanti i loro progetti. Si chiamano "consolidator grants", sono fondi erogati a giovani scienziati che hanno fra 7 e 12 anni di esperienza a partire dal conseguimento del dottorato.
Fra i vincitori del "primo premio" (il finanziamento da 2 milioni, il massimo possibile), c'è anche una giovane ricercatrice italiana, Laura Cancedda, dell'Istituto Italiano di Tecnologia, che spera di cancellare i sintomi neurologici della sindrome di Down con un intervento di ingegneria genetica mentre il bimbo è ancora nel grembo della madre.
Di nazionalità italiana sono 38 vincitori su 314 (prima di noi c'è solo la Germania con 50). Ma solo 14 "campioni" giocano in patria”.
Gli altri lavorano all’estero, perché da noi non hanno trovato possibilità d’inserimento… risultati che i nostri governi ottengono fra un jobs act e una buona scuola.
Prodotti delle invenzioni nati da cervelli italiani, un giorno saremo costretti a comprarli, semmai a caro prezzo, all’estero mentre ce li avevamo in casa. Ma, si sa, come disse un ministro buontempone: “Con la cultura non si mangia”.

Chissà quanti ragazzi oggi in Italia sognano di diventare scienziati.
Sarà che non vedo tinto di rosa il futuro italiano, ma consiglierei loro di emigrare.
Sia per chi come me la pensa, sia per chi è ottimista circa gli anni futuri, è possibile che in comune si abbia il problemino di che cosa mettere sotto l’albero di Natale per i più piccoli specie se manifestano interesse per la scienza.
Un consiglio ce l’ho: Il Superlibro degli scienziati in erba pubblicato da Editoriale Scienza.
L’autrice, Véronique Schwab, conduce i suoi lettori attraverso pagine, illustrate da un gruppo di eccellenti disegnatori, che trascorrono attraverso più campi: dall’astronomia alla biologia, dalla chimica al corpo umano, dall’ecologia all’energia, dalla matematica alla fisica, dall’ottica al suono.
Com’è nella linea di Editoriale Scienza, i libri propongono assai spesso esperimenti da fare con semplici mezzi domestici sicché lo scritto si proietta, in modo anche ludico, inverando quanto si è letto.
Il volume è scandito da brevi biografie di famosi scienziati e illustrazioni delle loro celebri scoperte. Si va da Archimede a Galilei, da Leonardo a Darwin, da Pasteur a Fleming, da Newton a Marie Curie.

CLIC per un assaggino dall’interno.

Véronique Schwab
Il Superlibro degli Scienziati in erba
Traduzione di Caterina Grimaldi
Pagine 140 con ill., Euro 16.90
Editoriale Scienza


Il pregiudizio universale


"È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio", diceva Albert Einstein.
Gli danno ragione novanta autori che un’intelligente idea redazionale di Laterza ha raccolto intorno al tema del pregiudizio in un libro dal titolo Il pregiudizio universale Un catalogo d’autore di pregiudizi e luoghi comuni.
Titolo indovinatissimo che, come si apprende da una nota degli editori, si deve al linguista Giuseppe Antonelli che ricordo ospite di questo sito in occasione della pubblicazione del suo Ma cosa vuoi sia una canzone.
Altri suoi libri e sintetica bio: QUI.

"È nato prima il giudizio o il pregiudizio?” – si chiede Antonelli in apertura della sua brillante Introduzione – “La domanda non è banale, in realtà, perché il pregiudizio viene logicamente prima ma storicamente dopo. È solo dalla fine del Seicento, infatti, che la parola ha assunto il significato con cui è usata in questo libro. Ed è grazie alle idee illuministe importate dalla Francia che nel corso del Settecento è diventata una parola chiave del dibattito intellettuale. Ma anche una parola alla moda nel chiacchiericcio salottiero, come testimonia l’uso e l’abuso che ne fanno – all’epoca – le eroine dei romanzi d’amore e d’avventura”.

Nel volume non si trovano solo i pregiudizi più diffusi come L’abito non fa il Monaco - Non ci sono più le mezze stagioni - I politici sono tutti ladri, ma anche pregiudizi nati da travisamenti di idee corrette, però male interpretate, e poi circolate diventando perniciose certezze, diffuse e irrobustite col tempo e l’uso.
Così abbiamo luoghi comuni che affliggono ogni passo della nostra vita, dall’economia alla morale, dalle scienze alla televisione, dalla letteratura alla salute.
Come ad esempio il pregiudizio etnico che sfocia nel razzismo.
Conviene spendere qualche rigo su questo tema.
Il linguista Teun Van Dijk, lo identifica attraverso tre caratteristiche sociocognitive:
Diversità: gli immigrati sono diversi da noi, e si comportano diversamente;
Competizione: nel nostro paese, occupano i nostri spazi e si prendono le nostre risorse;
Minaccia: la costituiscono non solo per le risorse economiche e culturali, ma, a causa del loro numero, anche per la nostra stessa sicurezza e per la nostra identità culturale”.
In Il pregiudizio universale la questione, ovviamente, la troverete trattata.
In definitiva, il pregiudizio è un ragionamento sciatto, dovuta a pigrizia del pensiero, non si cercano le fonti sulle informazioni ricevute; ha dalla sua la velenosa capacità di diffondersi principalmente per il suo potere di sintesi, si esprime, difatti, in modo laconico, semplifica in modo assoluto ciò che è relativo rendendo di facile soluzione tutto quello che proprio non lo è, si presenta con l’aria di una vissuta saggezza.
Ma qual è il pregiudizio dei pregiudizi?
“Come recita un facile aforisma” – conclude Antonelli – “il pregiudizio peggiore è quello di chi crede di non avere pregiudizi”.

Novanta autori per altrettanti temi, troppi per elencarli qui, ma per conoscerli basta un CLIC.

AA. VV.
Il pregiudizio universale
Introduzione di Giuseppe Antonelli
Pagine 392, Euro 18.00
Laterza


Il cane secondo me

Quanta letteratura, quanto nelle arti visive, nel cinema, nei fumetti, nella musica, quanto nel teatro (salvo riferimenti a cattivi attori), è stato dedicato al cane?
Chissà se esiste un catalogo al proposito. Se non esistesse bisognerebbe crearlo.
Un catalogo che dal lontano Argo omerico arrivi al Whippet dei Simpson.
Due sono i cani che per primi saltano nella mia memoria: Bauschan, il cane di razza incerta di Thomas Mann di “Cane e padrone”; e Flaik, il cane di “Umberto D”.
E poi, le parole di Pablo Neruda: … e l'antica amicizia, la gioia di essere cane e di essere uomo tramutata in un solo animale che cammina muovendo sei zampe....
Ecco, in quel “sei zampe” c’è una sintesi di umano e non umano, carne e psiche che sono sicuro piace a Roberto Marchesini, autore per la casa editrice Sonda di un ragionato e appassionato volume: Il cane secondo me Vi racconto quello che ho imparato dai cani.
Marchesini è filosofo, etologo e zooantropologo, fondatore della zooantropologia, disciplina che studia la relazione tra l’essere umano e le altre specie.
Dirige il Centro Studi Filosofia Postumanista e il Siua (Istituto di Formazione Zooantropologica).
Conta oltre un centinaio di pubblicazioni nei campi della bioetica, della filosofia Postumanista e dell’etologia filosofica.
Scrive per diverse testate nazionali e tiene conferenze in tutto il mondo sul rapporto uomo-animale. Ha curato i notissimi dizionari bilingue Italiano/Cane (2010) e Italiano/Gatto (2009) che hanno dato una svolta a come comunichiamo con cani e gatti.
Suoi lavori sono tradotti in inglese, francese, spagnolo, tedesco e portoghese.
In occasione della pubblicazione del suo libro “Etologia filosofica”, una sua interessante intervista è stata condotta su questo Cosmotaxi.

Doloroso risultato della dottrina cristiana sugli animali è stato Cartesio, uno dei principali esponenti dello specismo, termine coniato dallo psicologo Peter Singer in “Le sofferenze inflitte agli animali” (1973).
Il cane, poiché facile preda dell’uomo, di quelle sofferenze ne è stata (e ancora oggi è) una straziata vittima.
Testimonianza di alcuni sperimentatori della fine del XVII secolo che mostra le conseguenze dell’aberrante pensiero cartesiano: «Somministravano bastonate ai cani con perfetta indifferenza, e deridevano chi compativa queste creature. Dicevano che gli animali erano orologi; che le grida che emettevano quando erano percossi erano soltanto il rumore di una piccola molla che era stata toccata, e che il corpo nel complesso era privo di sensibilità. Inchiodavano poveri animali a delle tavole per le quattro zampe, per vivisezionarli e osservare la circolazione del sangue, che era un grande argomento di conversazione». (Nicholas Fontaine, “Memoires”).
Trattamenti crudeli sono ancora oggi riservati ai cani (specie ai beagles) in sperimentazioni scientifiche, o pseudo tali, e ai cani addestrati per combattere.

Il libro di Marchesini è un prezioso studio che incrocia etologia e filosofia, e, al tempo stesso, è uno scritto anfibio perché è ricco anche di utili suggerimenti pratici per chi ama i cani; raccomanda pazienza e prudenza nel rapporto con loro: “… la simpatia non basta, occorre sforzarsi di pensare in modo differente, esercitando la propria capacità di decentramento. Sì, lo sforzo proiettivo non basta, è indispensabile l’empatia, vale a dire la disposizione a condividere stati che non ci riguardano in prima persona e spesso neppure ci appartengono”.
Quanto afferma l’autore, è frutto di scienza e pratica, dalle pagine apprendiamo i caratteri dei vari Maya, Toby, Pimpa, Isotta, Spino, Bianca, Belle, Filippo, dai quali l’autore ha imparato, dalla loro compagnia e in occasione delle sedute di pet therapy, a sintonizzarsi con le loro personalità e a “diventare quello che sono”.

Dalla presentazione editoriale.
“Nel corso della sua vita, Roberto Marchesini ha avuto a che fare con centinaia di cani, dalle razze e i caratteri più disparati, e non solo per «lavoro»; lo hanno accompagnato nei momenti più importanti e significativi, sono stati dei veri compagni d’avventura, che hanno contribuito, come dice lui, a «fare di me quello che sono, non meramente nel senso professionale che, in fondo, è un dettaglio e forse poco m’interessa».
Questo libro è un omaggio a tutti loro; perché i cani ci sono accanto, ma spesso non li vediamo: troppe volte ci mettiamo alla ricerca del cane nascondendone le tracce, come se queste rivelassero un nostro coinvolgimento in un affare sporco. Nel racconto delle avventure, peripezie, nel fissare pensieri e ricordi attraverso numerosi flashback, Marchesini regala ai lettori scene di vita con i cani in presa diretta. E forte della propria trentennale esperienza personale, il suo «secondo me», ci spiega come relazionarci al cane, come entrare in contatto con lui, come capirlo e come stabilire un rapporto di reciproco scambio e di crescita. Non un trattato sui cani, ma un diario ricco di emozioni e osservazioni, in cui molti lettori con un amico a quattro zampe si ritroveranno”.

Ho incominciato questo pezzo con parole di Neruda tratte dalla sua “Ode al cane”, QUI l’intera composizione con un discutibile commento musicale.

Roberto Marchesini
Il cane secondo me
Pagine 180, Euro 14.00
Edizioni Sonda


I venerdì del Petrarca (Prima Parte)


Sam: "Che fa sabato sera?".
Ragazza al museo: "Occupata, devo suicidarmi".
Sam: "Allora facciamo venerdì sera?".
(Woody Allen, in “Provaci ancora, Sam”, 1972)

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Come sanno i cinephiles, Allen, nei suoi film ha una predilezione per il venerdì e lo fa citare spesso dai suoi personaggi. Che quell tic l’abbia preso da Francesco Petrarca? Già, perché al poeta accadono (o lui fa accadere?) molti episodi della sua vita di venerdì, innanzitutto il giorno dell’apparizione e della morte dell’amata Laura.
“… nella sua vita non scritta il venerdì è anche il giorno deputato a determinati comportamenti di particolare rilevanza o portata simbolica , o al quale attribuisce, senza mai dichiararlo, Erlebnisse straordinariamente significativi…”.
Questo e molto altro si apprende da un godibilissimo libro pubblicato da Adelphi intitolato I venerdì del Petrarca di Francisco Rico seguito da «Profilo biografico del Petrarca» scritto in collaborazione con Luca Marcozzi.
QUI notizie biobibliografiche di Rico e QUI di Marcozzi.
Splendidi autori di un lavoro estremamente rigoroso che si addentra in un territorio insidioso nel quale le notizie biografiche sono in grandissima parte dello stesso Petrarca e ricche di perniciosi falsi.
In “I venerdì del Petrarca”, finalmente una biografia vera!
Come i Codici Civili e Penali prevedono pene per i colpevoli, mi piacerebbe esistesse un Codice che punisse i reati commessi in Letteratura.
Fra i più gravi, dovrebbe figurare quello di scrivere biografie… romanzate!
Me ne arrivano tante recapitate da un’incolpevole postina: dialoghi inventati, personaggi addirittura mai esistiti che fanno capolino in quelle storie, episodi tinteggiati in pomidorocolor, e altre fandonie nere come l’inchiostro.
Sono un lettore che ama le biografie, ma quelle vere. Uno dei testi più difficili da scrivere, perché lì ogni virgola fuori posto è castigata. In quei volumi, infatti, il lettore vuole (e ne ha diritto) apprendere sui fatti illustrati esattezze di date, citazioni di documenti, particolari riferiti da testimoni (e conoscerne attraverso l’autore la loro attendibilità), eccetera.
Ecco perché scrivere quella roba è faticoso: mica starsene occhi al cielo e penna in mano, a inventare panzane.
La biografia romanzata è un ibrido da perdonare, forse, giusto a Senofonte per la sua ‘Ciropedia’, e pure in quel caso ho i miei dubbi.
Schwob?... Borges? Non scherziamo, casi molto diversi. Lì si parte da una vertiginosa fantasia interpretativa per illuminare un personaggio e non da un personaggio rivisto con una modesta immaginazione che nel migliore dei casi è roba da sceneggiato tv.

Dalla presentazione editoriale.
“Di nessun altro uomo vissuto prima di Petrarca abbiamo una così vasta messe di informazioni biografiche, diceva Ernest H. Wilkins. Ma precisava che tali informazioni si fondano per lo più su lettere e altri scritti petrarcheschi. Bisognerà allora chiedersi: che cosa sappiamo di lui con certezza? La verità è che ogni scrittore mira a diventare, per usare le parole di Ortega y Gasset, «romanziere di se stesso, originale o plagiario». E, come dimostra l'affascinante indagine di Francisco Rico, Petrarca non sfugge alla regola: anzi, la incarna in sommo grado. Il che significa non solo che l'autoritratto che egli va componendo nel tempo è ispirato a exempla illustri, ma che nulla di quanto ci dice è letterale e innocente. Dietro ogni data, dietro la semplice menzione di un giorno della settimana (il venerdì, ad esempio, giorno marcato per eccellenza), si cela una fitta rete di rispondenze, una raffinata simbologia – e un audace disegno: trasformare i momenti vissuti o immaginati in frammenti di un racconto unitario capace di sottrarli alla corrosione del tempo. Ma Petrarca si spinge ancora più in là nella costruzione di un'esistenza ideale: grazie a Rico, lo vediamo infatti applicare la dispositio persino alla vita non scritta, modellarla come un testo, mettendo in atto ciò che non scrive – o, se vogliamo, facendo letteratura con le proprie azioni”.

Segue ora un incontro con Luca Marcozzi.


I venerdì del Petrarca (Seconda Parte)


A Luca Marcozzi (in foto) ho rivolto alcune domande.
Qual è stata la principale difficoltà nel tracciare il profilo biografico di Petrarca?

Non ce ne sarebbero state molte se il profilo si fosse limitato a ricalcare quanto emerge dalle biografie più recenti, che in fondo fanno tutte capo a quella di Ernst H. Wilkins uscita nel 1961: tutte indistintamente assumono come fonte della biografia lo stesso Petrarca. Lo stesso Wilkins, pur comprendendo e dichiarando la difficoltà di dover costruire una biografia partendo dalle testimonianze autobiografiche del personaggio di cui trattava, non poté farne a meno perché le fonti sulla vita di Petrarca che non provengano dal suo scrittoio sono molto scarse, e sarebbe dunque venuta meno la materia della narrazione. Questo nuovo profilo biografico, più sintetico, rinuncia a includere alcuni eventi privi di riscontri e quando non può fare a meno di accogliere quanto è Petrarca stesso a raccontare lo assume sempre con il beneficio del dubbio, cercando di farlo reagire con i documenti – se ce ne sono – o sottoponendolo a una qualche verifica sulla verosimiglianza, sulla congruenza tra le date narrate e quelle attese. Questo ha certamente rappresentato una complicazione metodologica: sarebbe stato certamente più facile narrare la vita di Petrarca come Petrarca stesso ce l’ha raccontata, attraverso lettere che descrivono eventi da un solo punto di vista, il suo, ma non sarebbe stato un lavoro di ricerca, che è quello che si chiede a uno studioso, perciò non la definirei una vera difficoltà. C’è stata invece una difficoltà reale, quella cioè relativa all’assenza di una raccolta ordinata dei documenti d’archivio relativi alla vita di Petrarca, di cui fin dagli anni Sessanta si attende invano la realizzazione. Uno studioso non si spaventa se deve andarsi a cercare i documenti in sperdute pubblicazioni locali di fine Ottocento, ma una loro raccolta gioverebbe molto a tutti, anche perché sarebbe l’occasione per una loro rilettura più attenta, tale da rendere assai manifesta la distanza tra quello che essi narrano e il racconto che Petrarca fa della propria vita.

Perché Petrarca inventa spesso un altro Petrarca?

Già sappiamo che molti degli eventi più celebri della vita di Petrarca, quelli più spesso antologizzati, sono stati inventati (la salita al Mont Ventoux, per esempio, che nella migliore delle ipotesi è retrodatata), e ora nutriamo lo stesso dubbio su molte altre occasioni (le circostanze della laurea o la rocambolesca fuga da Parma del 1345): se non sono inventate, certamente nel racconto di Petrarca sono assai romanzate; molte date sono state cambiate, molto fumo è stato gettato negli occhi dei lettori. Uno dei motivi potrebbe essere rintracciato in quanto Petrarca scrive nella cosiddetta “canzone delle metamorfosi”, la ventitreesima del canzoniere, e la più lunga e impegnativa dell’opera. Lì a un certo punto Petrarca si lamenta di essere stato «a molta gente esempio», riferendosi alla malattia d’amore che lo affliggeva. ‘Esempio’ significa, in quel caso, che il poeta si pone come figura “esemplare” di tutti gli amanti; ma in altri casi egli ambisce a essere una figura esemplare per l’umanità intera, alla quale non nasconde i propri difetti e le proprie mancanze. Per essere “esempio” è necessario creare un personaggio letterario che si spogli delle caratteristiche individuali e incarni in modo uniforme quelle di tutti noi. E, con i suoi dubbi e le sue continue oscillazioni tra la ricerca del bene e le ricadute nella passione, Petrarca ha ambito a creare un personaggio esemplare, che porta lo stesso nome del suo autore, in una ininterrotta riscrittura e in un andirivieni continuo tra letteratura e realtà.

Qual è la differenza tra Dante e Petrarca nel relazionarsi col mondo antico?

Dante crede ancora nell’universalità dell’Impero e nel potere che esso avrebbe, per diritto divino, di frenare le ambizioni e gli appetiti degli uomini, e vive in continuità con l’antico anche dal punto di vista intellettuale e poetico, oltre che giuridico. Vige per lui il principio di autorità, non è interessato alla ricerca filologica sui testi e sul modo in cui essi sono pervenuti a lui. Quanto Petrarca giunge a Roma per la prima volta nel 1337, contemplando la città dal Palatino vede un deserto di rovine, accorgendosi di quale frattura vi sia tra i tempi antichi e l’età contemporanea. Petrarca “inventa” in quell’occasione il concetto di Medio Evo, cioè di uno iato tra la perfezione dell’antichità e il disdoro del presente, vivendo da allora in uno stato di perenne nostalgia per l’antica Roma, dalla quale si sentiva in esilio. Un esilio, quello ideale di Petrarca, ben diverso da quello reale di Dante, perché vissuto non nello spazio, con la nostalgia di Firenze, ma nel tempo, nel ricordo di Roma e dell’antichità ormai sepolta da quelle rovine.

Sono in molti a sostenere che Petrarca contribuì alla fondazione di un nuovo tipo di intellettuale. Lei è d’accordo con questa tesi? Se sì oppure no, perché?

Certamente, in modo assai consapevole e proprio in relazione al discorso ora accennato relativo alla continuità e discontinuità con l’antico. Basti un solo esempio: Dante visse a Verona per molti anni, e frequentò a quanto pare la Biblioteca Capitolare; ma fu Petrarca, di passaggio in città per pochi mesi, nel 1345, a scoprirvi le epistole familiari di Cicerone. Probabilmente, Dante non era interessato alla riscoperta dell’antico negli stessi termini di restauro filologico che avrebbe manifestato Petrarca, perché per lui quella frattura di cui si è detto non c’era, o non era evidente. Ma dalla piena consapevolezza della discontinuità tra antichità e presente nasce l’umanesimo filologico, che è alle radici della scienza moderna. È questo, per noi posteri, il più grande lascito di Petrarca, ben più importante e duraturo della sua poesia.

Francisco Rico
I venerdì del Petrarca
con
Profilo biografico del Petrarca
in collaborazione con Luca Marcozzi
Pagine 219, Euro 14.00
Adelphi


Passar la lunga sera sulla terra


Tante le cattive notizie che ci pervengono, eccone una che di sicuro non è la più grave, ma altrettanto certamente la sua perniciosità ce l’ha: in Italia si pubblicano circa 40 romanzi al giorno.
Sfugge ai radar la cifra dei libri di poesia perché qui l’autoproduzione è assai elevata e dallo stampatore di paese alla tipografia di città sono messi in giro librini e libretti, spessissimo, di furibonda bassezza.
Il guaio è l’ispirazione.
Impulso creativo da molti vissuto con funesto approdo volando tre metri sopra il cielo andando dove li porta il cuore.

Ben venga, quindi, una corrente letteraria quale l’Oulipo con le sue severe regole giocose. Una mia grande amica, Brunella Eruli, che purtroppo non c’è più, nel suo "Dal Futurismo alla Patafisica", Pacini Editore, riflettendo brillantemente su Queneau, così dice ": "…il tragico greco che scrive i suoi versi obbedendo a regole che conosce perfettamente è più libero del poeta il quale scrive quello che gli passa per la testa ed è schiavo di regole che ignora".
Gemello dell’Oulipo è in Italia l’Oplepo fondato a Capri, nel novembre 1990, da Ruggero Campagnoli, Domenico D’Oria, Raffaele Aragona. Proprio a quest’ultimo (a proposito, nel novembre 2000, ci crediate o no, lui ed io fummo protagonisti di un volo spaziale), a lui, alla sua inesausta attività si deve una serie di convegni e pubblicazioni che in Italia sono all’avanguardia della ludolinguistica. Che come tutte le cose ludiche è cosa serissima incrociando semantica, matematica, enigmografia, poesia verbovisiva.
Interessante, ad esempio, la pubblicazione uscita nell’ottobre scorso, numero 41 della Biblioteca Oplepiana intitolato Passar la lunga sera sulla terra, un verso che fa parte di un divertissement di Umberto Eco. Il primo dei tre versi con i quali trasformò lipogrammaticamente (in “o”) quelli di Salvatore Quasimodo (Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito sera).
“Una trascrizione” – scrisse Eco – “che capovolgendo la lettera della poesia non ne tradisce, spero, la nota del dolore metafisico. Semplicemente un solare poeta siculo diventa un opalescente iperboreo, e l’amarezza per la morte che incombe si trasforma nell’orrore per la vita che continua”.
I testi contenuti nella pubblicazione oplepiana sono dedicati ad Eco e tutti scritti nel rispetto di una specifica regola (“contrainte”), così com’è nell’uso nel gruppo Oplepo.

Gli autori: Elena Addòmine, Raffaele Aragona, Michèle Audin, Laura Brignoli, Jacques Jouet, Daniel Levin Becker, Valerio Magrelli, Jacopo Narros, Piergiorgio Odifreddi, GeorgeOrrimbe Paolo Pergola, Astrid Poier-Bernhard, Olivier Salon, Aldo Spinelli, Giuseppe Varaldo.

Una lettura divertente quanto intelligente: una festa delle pagine.

AA. VV.
Passar la lunga sera sulla terra
Biblioteca Oplepiana N. 41
Edizioni Oplepo
Sip


Da Gelli a Renzi

Sia per chi ha votato “Sì” sia per chi ha votato “No”, è da leggere questo libro edito da Ponte alle Grazie intitolato Da Gelli a Renzi passando per Berlusconi firmato da Aldo Giannuli.
Un suo sintetico profilo: ricercatore in Storia Contemporanea all’Università degli Studi di Milano. Già consulente delle Procure di Bari, Milano (strage di piazza Fontana), Pavia, Brescia (strage di Piazza della Loggia), Roma e Palermo, dal 1994 al 2001 ha collaborato con la Commissione Stragi, contribuendo alla scoperta dei documenti non catalogati dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, nascosti in quello che poi è stato definito come l’«archivio della via Appia».
Per Ponte alle Grazie ha pubblicato: “Come funzionano i servizi segreti” (2009); “La grande crisi” (2010); “Come i servizi segreti usano i media” (2012); “Uscire dalla crisi è possibile” (2012). Ricordiamo, inoltre, l’inchiesta “Papa Francesco fra religione e politica” (2013), “Guerra all’Isis” (2016).
Breve: è uno dei migliori giornalisti investigativi italiani, e non solo italiani.

Perché consiglio la lettura a entrambi gli appartenenti ai due opposti schieramenti duellanti nel referendum? Perché è un libro che attraverso una rigorosa documentazione svela l’intima essenza dell’ideazione gelliana. Nelle pagine, infatti, il testo integrale del Piano di rinascita democratica e lo Schema “R”, in 54 punti, abbozzo preparatorio al Piano che contiene un paragrafo che è utile riportare: Il presente schema non prelude ad un colpo di Stato (notare la prudenza dello scritto che para eventuali rischi derivanti da una possibile inchiesta qualora il documento fosse finito nelle mani di un giudice, prudenza conservata anche nel Piano nella sua forma estesa allorché si afferma che “il piano esclude ogni movente od intenzione anche occulta di rovesciamento del sistema”) ma ha solo valore indicativo in merito all’adozione di alcuni provvedimenti che si ritengono essere l’unica soluzione, purché applicati con la massima immediatezza, in grado di scongiurare una guerra civile di allontanare dall’Italia il pericolo di un Governo dittatoriale di ispirazione comunista o fascista. Tutto questo scritto da chi si muoveva soltanto contro le sinistre.
Il titolo può far pensare a un volume che contenga rivelazioni sul grande complotto che quarant’anni fa circa nacque in Italia (oppure oltreoceano), no, niente di tutto questo e come l’autore dichiara: “… in questo libro non troverete scoop relativi alla vicenda della P2, all’azione di Gelli dopo il suo ritorno in Italia, o tantomeno alla folgorante carriera di Matteo Renzi, altro nome citato nel titolo, passato in soli quattro anni dalla poltrona di serie C del comune di Firenze alla poltrona di Palazzo Chigi […] ciò di cui più ci preme parlare è la formazione di un’egemonia culturale che ha finito per imporsi anche a sinistra […] della collocazione storica della loggia fra vecchio e nuovo anti-parlamentarismo”.
Proprio quella cultura ha favorito il formarsi di concrezioni mentali e di comportamenti (specie nei media) che si sono inverati in tappe legislative che hanno (in tempi diversi e molti più lunghi da quanto previsto dal piano massonico, da qui l’erroneo giudizio di una sconfitta della P2) assecondato il Piano di rinascita democratica, fino al divisivo referendum che aldilà del suo risultato recherà negli anni la lacerazione prodotta da Renzi.
Tra i meriti del libro c’è lo sfatare il mito della P2 come un nucleo d’acciaio in cui tutti i membri erano sodali. Frequenti furono i conflitti, anche vistosi, fra i componenti della Loggia. “Tanto per fare un esempio, nonostante alla P2 aderissero sia Federico Umberto D’Amato e altri funzionari dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, sia Gianadelio Maletti, Vito Miceli e altri dirigenti di massimo livello del Sid, le inimicizie furibonde tra i due organismi proseguirono ininterrotte con continua, reciproche aggressioni anche fra appartenenti alla medesima intelligence: ad esempio, gli stessi Maletti e Miceli; e come non ricordare che Miceli durante il processo di Catanzaro, fece condannare il «fratello» Saverio Malizia per falsa testimonianza?”.
Molti altri gli episodi di feroci lotte nella P2 riportati dal libro che si sofferma, come promesso nelle sue prime pagine, sulla cultura del piano massonico e la vera storia della sua realizzazione fino ai giorni nostri.
E Renzi?
A lui è dedicato il capitolo più lungo del volume, poco meno di 70 pagine.
“Sul piano caratteriale, Renzi presenta spiccate somiglianze con Gelli: ricco di senso pratico, ma poco portato a teorizzare, di un agire politico più nutrito di astuzie che di visioni strategiche, con una sconfinata autostima, non è l’innovatore che ama mostrarsi, e se citare Plutarco non fosse eccessivo, parleremmo di «vite parallele».

Seguono pagine ricche di una vertiginosa analisi che mostra il pericolo corso qualora avesse prevalso il “Sì” al referendum, atto politico che segnava un’ulteriore tappa realizzativa del piano gelliano.

Dalla presentazione editoriale.
Licio Gelli, capo indiscusso della P2, la più potente e controversa loggia massonica italiana, non è stato semplicemente un grande cospiratore, appartenente a un’epoca ormai superata. Al contrario, le idee promosse dal «maestro venerabile» sono progressivamente confluite nella cultura politica dei partiti che avrebbero governo l’Italia dagli anni Ottanta in poi. In questo saggio-inchiesta, che ricostruisce la parabola della P2 al di là del mero piano giudiziario o cronachistico, si mettono a nudo – attraverso un’accurata analisi della sostanza del programma gelliano – i tanti elementi di continuità con la situazione attuale. Ne emerge un quadro sconvolgente: il famigerato Piano di Rinascita Democratica, sequestrato nel 1985, appare oggi come una sorta di prontuario delle «riforme» che sarebbero state attuate nel trentennio successivo, e insieme un documento profetico in grado di descrivere i processi degenerativi avvenuti nello stesso periodo sul piano sociale, culturale e dell’informazione; una lenta e inesorabile discesa verso forme di autoritarismo «dolce», che dal piduismo (attraverso il lungo intermezzo dominato dalla figura di Silvio Berlusconi) conduce a Matteo Renzi e in particolare al suo disegno di riforma della Costituzione, lasciando presagire nuovi e infausti sviluppi.

Aldo Giannuli
Da Gelli a Renzi
Pagine 240, Euro14.00
Ponte alle Grazie


Auschwitz (1)


“Le epoche di fervorose certezze eccellono in imprese sanguinarie”, diceva Elias Canetti.
Un’ondata di quelle certezze fu tra le cause dell’Olocausto.
Invece di consegnare alla storia universale dell’infamia quei tragici avvenimenti, assistiamo da più parti all’avanzare di tenebrosi revisionismi oppure a stanche ritualità commemorative che di certo non aiutano a capire e interpretare quei fatti.
La data per la “Giornata della Memoria” che si celebra il 27 gennaio, ricorda la data in cui le truppe dell'Armata Rossa nel 1945, durante l'offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la città polacca di Oświecim (nota con il nome tedesco di Auschwitz).
Lì scoprirono l’atroce campo di concentramento e liberarono i superstiti. La scoperta d’Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l'orrore del genocidio nazista, della Shoah. Shoah, in ebraico significa “annientamento”; indica lo sterminio di oltre sei milioni d’ebrei ed è da preferire questo termine a “olocausto” per eliminare qualunque idea di perniciosa, e sviante, religiosità insita in quest’ultimo vocabolo.
Recarsi ad Auschwitz non è ovviamente da intendersi come turismo né come pellegrinaggio, bensì come un viaggio nella storia che per farlo compiutamente necessita di strumenti di conoscenza.
A questo provvede in modo magistrale un libro pubblicato da Marsilio intitolato Auschwitz Guida alla visita dell’ex campo di concentramento e del sito memoriale.
Ne sono autori Carlo Saletti e Frediano Sessi.
Di Saletti, QUI sue note biografiche e un video girato mentre fa da guida ad una scolaresca in visita a Auschwitz.
Di Sessi, la biobibliografia si trova sul suo sito in Rete.

Dalla presentazione editoriale.
“Ogni anno, dall’Italia, migliaia di visitatori raggiungono il lager di Auschwitz; per lo più gruppi di studenti e di insegnanti, ma anche famiglie e singole persone. Dal 1959 il loro numero cresce continuamente, nonostante sia trascorso ormai più di mezzo secolo dalla sua liberazione. Chi si reca a Oświęcim (Polonia), visita il lager di Auschwitz, che ha sede nel campo base, e poi raggiunge Birkenau, il campo poco distante, spesso non riesce a capire come funzionava questo immenso centro di sterminio e di afflizione. Intorno a questo luogo memoriale immerso in un grande e profondo silenzio che lascia esterrefatti, la vita scorre e la città come i suoi abitanti cercano di mostrarsi per quello che sono oggi, senza riuscire a risolvere (ma si potrà mai?) il conflitto tra il presente e un passato che non passa. Per capire occorre arrivare a Oświęcim preparati e informati, ma poi, sul luogo che tra il 1940 e il 1945 vide morire più di un milione di ebrei e fu il lager del martirio di un’Europa soggiogata dalla scure nazista, gli occhi guardano ciò che rimane senza troppo comprendere. Auschwitz è una guida ricca di informazioni, fotografie e mappe, di suggerimenti puntuali per aiutare il visitatore a entrare in ciò che resta oggi di questo terribile passato, un utile strumento per cominciare a ricostruire la storia del complesso concentrazionario e a rivivere con l’immaginazione i frammenti di vita quotidiana di molti dei deportati ebrei e non che vissero in questo luogo i loro ultimi giorni”.

Segue ora un incontro con Frediano Sessi.


Auschwitz (2)


A Frediano Sessi (in foto) ho rivolto alcune domande.
Quando e su quale richiesta nacque il campo di Auschwitz?

Il lager di Auschwitz venne istituito dai nazisti nel 1940, a pochi mesi dall'invasione della Polonia, con lo scopo di internarvi uomini e donne polacchi ostili al regime, per rieducarli. Successivamente, verso la fine del 1941, si allargò, per essere insieme campo di lavoro coatto (Auschwitz-Monowitz) e lager di quarantena per prigionieri di guerra sovietici (Auschwitz-Birkenau), pensato poco dopo l'invasione dell'URSS da parte delle truppe naziste, per 120.000 prigionieri di guerra da spedire in Germania a lavorare. Verso la fine del 1942, cambierà orientamento, diventando il campo di raccolta e sterminio degli ebrei d'Europa. Birkenau verrà dotato dal 1943 di 4 grandi istallazioni di crematori con annesse camere a gas. Ad Auschwitz, così, moriranno 960.000 ebrei sterminati per lo più con il gas. Alla fine, fu un sistema di campi che doveva servire da modello per dare vita ad altre "regioni" concentrazionarie.

Credi che l’atrocità di quel luogo sia compreso dalle più giovani generazioni che visitano quel campo? Te lo chiedo non perché li ritenga insensibili, ma perché davanti a loro oggi c’è il rischio d’assuefazione all’orrore: le immagini dell’attentato alle Torri, dei crimini Isis, delle stragi quotidiane di migranti...

Le atrocità commesse ad Auschwitz, nel complesso di campi che caratterizzarono quel luogo (tre principali e 42 sotto campi di lavoro) possono essere comprese solo se la scuola prepara alla conoscenza della storia e alimenta la memoria con un sapere non solo emotivo, ma fondato su dati, resoconti, documenti e, in breve, su una conoscenza approfondita dei fatti.
I giovani che incontro, sono assai sensibili e disponibili a sapere e conoscere.
Basta fornire loro gli strumenti adatti e allora capiscono subito come sia importante questa storia, di cui noi e loro sono figli
.

A chi riferire le principali colpe del risorgere del neonazismo e dell’antisemitismo ai quali oggi assistiamo?

Innanzitutto alla scarsa conoscenza della storia passata. A parte uno sparuto gruppo di nostalgici dei vecchi regimi totalitari, lo strato più profondo che alimenta antisemitismo e nazismo è l'ingoranza dei fatti e della storia. Questo se si esclude il nuovo antisemitismo arabo-islamico, volto all'eliminazione della stato di Israele, che ha preso piede anche in alcune contrade dell'Europa, in particolare, in Francia, in Belgio e in parte della sinistra italiana.
Ancora una volta, però, questa espressione dell'odio contro gli ebrei è ben alimentata dall'ignoranza e dalla superficialità che sembrano essere una caratteristica di buona parte della cultura di massa dei nostri tempi
.

Immagina che per un dizionario tu debba comporre una sintetica nota per connotare due parole: “negazionismo” e “revisionismo”.
Come scriveresti nel primo caso? e nel secondo?

Negazionismo, movimento di pensiero e di azione politica che nega l'esistenza e il funzionamento delle camere a gas e di conseguenza lo sterminio deliberato di milioni di ebrei, oltre a migliaia di sinti e rom, omosessuali, esseri umani considerati di razza inferiore all'ariano. Ha radici, all'inizio nei paesi di lingua anglosassone, già a partire dagli stessi nazisti che nascosero e negarono i loro crimini; poi si è spostato in Francia, con le teorie di Faurisson e ora, è attivo anche in Italia, trovando spazio persino in qualche università statale.
Il revisionismo, invece è una corrente storiografica che fonda la ricerca della verità sui documenti e che modifica le narrazioni storiche in base a nuove scoperte.
Quindi è una corrente di pensiero molto seria, anche se in Italia l'accusa di revisionismo viene attribuita più spesso a quei giornalisti o a quegli storici che, negando l'evidenza dei fatti, gettano fango sulla Resistenza e sui partigiani, o cercano di dare valore e onore ai combattenti del fascismo e della repubblica sociale, utilizzando la categoria "vincitori e vinti". La parola ai vinti (i fascisti) sarebbe per loro un diritto, così come la ricostruzione a loro vantaggio dei fatti storici.
Negazionismo e revisionismo sono due correnti alimentate dalla scarsa conoscenza e dal pregiudizio politico che pensa che la storia debba servire agli schieramenti politici presenti nel paese, più che a leggere il presente con la conoscenza del passato
.

Carlo Saletti - Frediano Sessi
Auschwitz
Pagine 168, con 90 ill. b/n
Euro 15.00
Marsilio


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