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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Bella ciao

In questi giorni drammatici che stiamo attraversando, ricorrono due ricorrenze che sembrano, vicine come sono, quasi a volere ricordare che c’è sempre una luce di speranza: il 25 aprile e il Primo Maggio.
Perciò Cosmotaxi dedica la nota di oggi situandola proprio fra quelle due date, lo fa presentando un piccolo grande libro: Bella ciao Storia e fortuna di una canzone.
L’autore è Cesare Bermani (Novara 1937).
Tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino, è stato fra i primi a utilizzare criticamente le fonti orali ai fini della ricostruzione storica. È autore di molti libri tra cui “Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione economica italiana. 1937-1945” (Bollati Boringhieri, Torino 1988); “Trentacinque anni di vita del Nuovo Canzoniere Italiano/Istituto Ernesto de Martino” (Jaca Book, Milano 1997); “Pane, rose e libertà. Le canzoni che hanno fatto l’Italia” (Rizzoli, Milano 2011).
Per Interlinea ha curato “La Marchesa Colombi” (1994, con Silvia Benatti); “Le poesie in dialetto novarese di Sandro Bermani” (2001); il romanzo di Ernesto Ragazzoni “L’ultima dea” (2004); il saggio “Vieni o maggio. Canto sociale, racconti di magia e ricordi di lotta della prima metà del XX secolo”.
Vive a Orta san Giulio dove ha sede il suo archivio di registrazioni sulla tradizione orale.

Pubblicato dalla casa editrice Interlinea è un libro piccolo per numero di pagine, grande per la ricerca storica che contiene.
Perché fa luce su di una vecchia questione che assai spesso ha perniciosamente accompagnato la storia di questa canzone sulla quale sono state scritte notizie alcune false altre inesatte. C’è chi l’ha fatta risalire a un canto delle mondine, chi addirittura a un incontro di giovani comunisti a un Festival dei Popoli del dopoguerra, e via travisando.
L’autore, dopo un capitolo introduttivo dedicato a “Fischia il vento” e alla sua storia, scrive: “Se Fischia il vento fu la canzone più cantata della Resistenza, tuttavia anche Bella ciao fu cantata dalle formazioni partigiane che dal Centro Italia salirono al Nord affiancate agli Alleati. Ed è a essa, oggi identificata come la canzone della Resistenza italiana, che è toccato poi di diventare l’inno di tutti i ribelli del mondo”.
Canto dei partigiani, per giunta non comunisti, Bermani dà merito ad Alberto Maria Cirese “di essersi per primo interessato di Bella ciao e aver notato come fosse un riadattamento della canzone epico-lirica che Costantino Nigra (1828 – 1907) chiamò Fior di tomba, canto diffuso in tutta Italia, entrato stabilmente nel repertorio militare sin dalla guerra del 1915-1918”.

Sta di fatto che oggi quella canzone, da quei tempi lontani fino alle piazze riempite dalle Sardine, risuona forte e perfino nella triste America di Trump quelle note e quei versi sono diventati un canto d’opposizione e per la libertà.
Tantissimi sono stati gli artisti che l’hanno incisa, eccone un elenco, forse neppure esaustivo.

A concludere, riportato nel libro, quanto scrive Moni Ovadia: “Ho sempre pensato che la capacità di un canto di suscitare adesione, emozione e coinvolgimento sia la prova provata dell’universalità della condizione umana al di là di confini, nazioni, sistemi di governo e persino delle differenze culturali e delle lingue (…) Per questo motivo Bella ciao è universale anche nel rifiuto che genera in fascisti e reazionari sotto qualsiasi travestimento si presentino e nel fastidio che provoca in quei sedicenti moderati che non vogliono essere messi di fronte a certe scelte fondamentali”.

Dalla presentazione editoriale
«Ormai “Bella ciao” è tornata a essere una canzone dei giovani e circola anche all’estero, grazie alla serie Netflix La casa di carta e ai cori delle piazze invase dalle “sardine”. Ma le sue origini sono a lungo rimaste sconosciute, con vere e proprie fake news che negano il suo legame con la lotta partigiana. Il maggiore storico della cultura orale, Cesare Bermani, ricostruisce l’avventura di questo canto popolare «così amato da chi vuole la libertà».

Cesare Bermani
Bella ciao
Pagine 96, Euro 10
Con corredo iconografico
Interlinea


La guerra è finita

La guerre est fini, da Jacqueline Rísset, Les instants les éclair, Gallimard 2014, p. 89

“…Ancora un incontro tra le due sfere, grande e piccola (‘mondo e sogni'. n di U.T.): stesse cause, stessa epoca. Un mattino a scuola (a Felletin Creuse, 1945), queste le parole dette dalla maestra: La guerra è finita. Grida, scoppi di gioia, risate, la classe tutta in piedi, nessuno. è più al suo posto. Sento la stessa voce dire il mio nome. M'incarica di portare la notizia alla scuola dei maschi. Esco, sono fuori, in un baleno. La fierezza della missione mi fa attraversare i cortili gemelli: delle scuole dei maschi e delle femmine, come in un sogno, entrambi piantati a tigli, entrambi deserti a quell'ora. Corro portando il messaggio nel silenzio come un oggetto fragile. Anche i corridoi e le scale sono vuote. apro la porta dell'aula grande, senza bussare, senza aspettare, come mi è stato detto, e pronuncio la frase a voce alta. Esplosioni di grida, tutti si alzano e battono forte i piedi sul suolo, un frastuono d'entusiasmo. Riparto entusiasmata anche io; ma la gioia più grande, non attesa, era quella prima dell'annuncio, nel breve passaggio tra le due scuole: silenzio, profumo dei tigli, il luogo che si rivela da sé, come mai prima lo si poteva vedere, questa volta finalmente fuori del tempo stretto delle ricreazioni: fuori d:ogni tumulto: solo lui."

Un ricordo sfogliato da Umberto Todini.

«Lo spirito che animava le donne e gli uomini della Resistenza fu una attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e autoironia sulla stessa propria fierezza guerriera, il senso di incarnare la vera autorità legale e di autoironia sulla situazione in cui ci si trovava a incarnarla, un piglio talora un po’ gradasso e truculento ma sempre animato da generosità, ansioso di far propria ogni causa generosa.
A distanza di tanti anni, devo dire che questo spirito, che permise ai partigiani di fare le cose meravigliose che fecero, resta ancor oggi, per muoversi nella contrastata realtà del mondo, un atteggiamento umano senza pari».

Italo Calvino, da “La generazione degli anni difficili”, Laterza, Bari 1962.

«La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c'è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline».

Pier Paolo Pasolini, Il caos, Garzanti, Milano 2015.


AntiVirus Gallery


Il terribile tempo che stiamo vivendo impone in più campi un ripensamento del modo di essere come verbo e come sostantivo.
È necessario un nuovo modo di porre e proporre idee, istanze, progetti.
In campo artistico, la situazione è per più versi drammatica, troupe di cinema e tv ferme, lo stesso dicasi al montaggio, confuso quanto avviene al doppiaggio, sale cinematografiche, teatrali, gallerie, chiuse.
Una parziale soluzione è stata avviata da molti musei pubblici e privati con le visite internettiane, ma per quanto riguarda la produzione la faccenda è più difficile.
Eppure, c’è chi s’ingegna a trovare occasioni d’organizzazione di lavoro unita a piani di comunicazione che non solo rispondano, ma anche interpretino questi giorni tempestosi.
Ecco un esempio: l’AntiVirus Gallery, afferente allo specifico fotografico, nata da un’idea di Barbara Martusciello, critica, curatrice, storica dell’arte e di Dario Sanchez, fotografo e documentarista italo-israeliano impegnato da sempre sul tema dell’identità.
Hanno messo attorno a un tavolo virtuale competenze volutamente tra loro molto diverse.
Ed ecco gli altri protagonisti: Jonathan Sierra, CEO di una Start-Up che sta rivoluzionando i test batteriologici nell'industria alimentare; Donato Di Pelino, avvocato dello Studio Dandi, specializzato in consulenza legale, rivolta specificamente agli artisti, sul diritto d'autore; di Stefano Paolillo, psicologo dell'Informazione con all’attivo numerose pubblicazioni nel suo campo scientifico; Leonardo Rossi, giornalista alla Rai.
In redazione: Carla Milli Mattei Gentili.

A Barbara Martusciello (in foto) Cosmotaxi ha rivolto due domande.

Qual è il progetto espressivo di Antivirus Gallery?

Il progetto parte dalla consapevolezza che è necessario uscire dal confinamento a cui l'emergenza Covid-19 ha costretto i Paesi e con loro, ovviamente, le collettività, che ora si sono ritrovate ferme e domani con la necessità di ricostruire intere filiere produttive come quelle culturali, creative, turistiche, dei territori. Per uscire da questo rallentamento si deve "fare comunità", riattivare un senso di appartenenza al nostro territorio e una coscienza condivisa della sua importanza. Parlo di territorio con significato ampio, generale e con un attivismo glocal: qualsiasi luogo ma a partire da uno definito, conosciuto bene, vissuto, qualunque esso sia, per aprirlo e aprirsi al resto del mondo. Quindi, mettere insieme tutto ciò per creare un archivio fotografico che racconti i diversi territori in una narrazione articolata che guardi a singoli luoghi, alle sue specificità, siano esse criticità, siano opportunità o pura bellezza, è la spinta che muove il progetto. Si tratta di una piattaforma variegata dove questi contributi saranno ordinati e visibili a chiunque, e gratuitamente, al fine di ricreare una mappatura più ampia possibile degli spazi che abitiamo: per farli conoscere meglio e diversamente, per salvaguardarli, valorizzarli, ripensarli in senso etico e sostenibile e per ribadire quanto la Fotografia e il fotografo siano al centro della nostra Storia.
Appena potremo uscire fisicamente dal lockdown organizzeremo anche incontri, laboratori e altre attività per trattare questi argomenti, certi che le immagini, preservando la memoria, la rendano sempre viva e possano contribuire a un'idea del presente prefigurando o progettando il futuro.
Dario ed io crediamo molto in questo progetto e con noi i nostri amici e colleghi che ci affiancano e affiancheranno. Oltre, ovviamente, ai fotografi (e artisti che lavorano con il linguaggio fotografico) che stanno già aderendo in modo sostanziale.

Come si articola praticamente questo progetto?

Ogni fotografo, di qualsiasi appartenenza geografica, generazionale e formativa può inviare un portfolio con la sua serie fotografica sul tema del Territorio, indicazioni e motivazioni che la sostanziano, che l'hanno motivata, insomma che la sostengono concettualmente. C'è un apposito modulo nel sito da compilare per questo e, una volta accettata la collaborazione, tutto sarà pubblicato contestualmente alle informazioni sul tema (cioè il luogo) e sull'autore. Ogni fotografo darà una sua visione di territorio e di specifico luogo fotografato e comporrà con gli altri questa sorta di database enciclopedico in progress.
Come dicevo prima, questo lavoro resta online – nel Sito e su Instagram – a vista ma potrà anche uscirà via via fuori a seconda delle situazioni, e farà parte di questa Rete tra fotografi, tra territori – istituzioni comprese, perché no? – e altre professionalità che sul territorio producono, creano, incidono in modo interessante. Stiamo ipotizzando un contenitore e un viaggio "virtuali" che possono e potranno farsi anche "fisici", offline...


AntiVirus Gallery
Contatti: info@antivirus.gallery
cell. 339.4423786
internazionale cell. + 972 58 644 4479


Festival Algoritmi

Anche il previsto Festival Algoritmi è stato colpito dalle disposizioni derivanti dall’epidemia.
Non si è, però, piegato alle conseguenze derivanti dal Cofid-19 e coerente con le sue premesse tecnologiche – espone la nuova espressività dei linguaggi digitali – si è trasferito in Rete con The Circle che contiene appuntamenti frequentabili sul web sia attraverso social sia in realtà virtuale.

Ideatrice e curatrice del Festival è Karin Gavassa. Ricordo ai più distratti che ha curato Migration Addicts, Biennale di Venezia, 2007; Htein Lin. Serie 00235, Museo delle Carceri, e Museo diffuso della Resistenza, Torino, 2008; Take care – Il ruolo del curatore nell’arte contemporanea, Accademia Albertina di Belle Arti, Torino, 2007. Ha collaborato con il Castello di Rivoli e T1 Triennale di Torino nel 2005.
A proposito del Festival dice: “In questo momento storico gli operatori culturali sono chiamati a ragionare in termini di esperienze individuali, ma situate in un contesto di condivisione, luoghi aggregativi virtuali con contenuti altamente specialistici e profilati. Lo stesso evento dovrà essere necessariamente accessibile e inclusivo a livello di streaming, da diverse piattaforme, pensando a metodologie di partecipazione integrata e diffusa a livello mondiale, amplificando le possibilità di interazione e sperimentazione”.
Già, perché le cose non si fermano a “The Circle” ma proseguono la loro cybercorsa approdando a “The Dome” uno spazio – ma, forse, è meglio chiamarlo museo – per il quale il Festival si è avvalso di Enea Le Fons nome noto a molti per un’impresa che, se non sbaglio, al momento non ha uguali. Per conoscerla: CLIC!


Filosofia delle arti marziali (1)


Le Edizioni Mimesis hanno pubblicato un importante saggio intitolato Filosofia delle arti marziali Percorsi tra forme e discipline del combattimento.
Ne è autore Marcello Ghilardi (Milano, 1975).
Svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Padova e collabora con il Master di Studi Interculturali della stessa Università. È membro del gruppo di ricerca sull’immaginario “Orbis Tertius”, presso l’Università di Milano-Bicocca.
Tra le sue pubblicazioni: Cuore e acciaio. Estetica dell’animazione giapponese (Padova 2003); L’enigma e lo specchio. Il problema del volto nell’arte contemporanea (Padova 2006); Giochi di ruolo. Estetica e immaginario di un nuovo scenario giovanile (con Ilenia Salerno, Latina 2007).
Nel catalogo Mimesis: Una logica del vedere. Estetica ed etica nel pensiero di Nishida Kitaro (2009); Filosofia nei Manga (2010); Arte e Pensiero in Giappone(2012); Il visibile differente (2012).
È un praticante delle arti marziali.

Il volume si avvale di testi firmati dal curatore e da Francesca Antonacci – Leonardo Vittorio Arena – Krishna Del Toso – Marco Favretti – Salvatore Giammusso – Aldo Tollini – Luigi Zanini – Andrea Zhok.

Dalla prefazione editoriale

«Il lemma "arti marziali" può evocare luoghi esotici, tecniche di combattimento più o meno raffinate di provenienza cinese, coreana, thailandese o giapponese, insegnamenti elargiti da vecchi maestri che dispensano massime di saggezza. All'estremo opposto veicola immagini, talvolta brutali, di volti insanguinati e atleti muscolosi che si affrontano senza esclusione di colpi. In realtà parlare di arti marziali o di discipline di combattimento oggi coinvolge una pluralità di dimensioni e di ambiti, più numerosi e variegati rispetto alla visione oleografica di alcuni decenni fa. Una filosofia delle arti marziali andrà quindi intesa in un duplice senso: è una riflessione che pone come suo oggetto tali forme di pratica, cioè che viene condotta su di esse e le analizza; ed è al contempo una riflessione che lascia emergere il pensiero intrinseco veicolato dalle discipline stesse, come se fossero le arti marziali a essere dotate di una propria filosofia implicita».

Segue ora un incontro con Marcello Ghilardi.


Filosofia delle arti marziali (2)


A Marcello Ghilardi – in foto – ho rivolto alcune domande.
Qual è il principale intento di questo libro?

L'idea principale sottesa all'insieme dei saggi è stata quella di fornire al pubblico un'occasione per riflettere non soltanto sulle potenzialità educative di un tirocinio legato a discipline di combattimento, ma – in senso più generale – per mostrare la dimensione filosofica che è sottesa a quel tipo di pratiche. In altre parole, attraverso l'esperienza di diverse pratiche marziali si è cercato di pensare ed elaborare categorie come quelle di conflitto, forza, relazione, efficacia, vittoria e sconfitta, formazione, nel tentativo di superare o dissolvere una certa fascinazione misticheggiante di cui spesso queste arti sono state l'oggetto. Senza cadere nella promozione di atteggiamenti rozzamente superomistici da un lato né in idealizzazioni banali, i vari capitoli mostrano l'intima connessione tra aspetti tecnici ed elementi morali o in senso lato “spirituali”.

La struttura del volume è tripartita in “Tradizioni”, “Pratiche”, “Educazioni”.
Puoi, in sintesi, spiegare i contenuti che hai così raggruppati in questa composizione
?

La prima parte si apre con un'importante traduzione da parte di Aldo Tollini (la prima in assoluto in italiano) del testo giapponese, risalente agli inizi del 1600, dal titolo “Ittōsai sensei kenpōsho”; prosegue con un saggio di Krishna Del Toso sulla pratica marziale come rito nell'India antica e uno di Leonardo Vittorio Arena che riprende, commentandolo e ampliandolo, l'ultimo capitolo di un altro testo sull'arte della spada del XVII secolo, il “Gorin no sho” di Miyamoto Musashi. In questa sezione il lettore può confrontarsi dunque con alcune espressioni antiche del pensiero asiatico relativo all'esperienza del combattimento. Nella seconda sezione sono contenuti tre testi più incentrati sulla pratica, infatti sono tutti composti da studiosi e praticanti di lunga data: Marco Favretti ha scritto sull'aikido (Kobayashi-ryu), Salvatore Giammusso sul taijiquan e Luigi Zanini ha offerto una panoramica storica e tecnica sugli stili interni del ‘gongfu’ (kungfu). L'ultima parte è invece dedicata al potenziale educativo di queste discipline, con tre saggi a firma di Francesca Antonacci, Andrea Zhok e uno mio.

Esiste in occidente una forma di filosofia che possiamo ritenere se non più vicina meno lontana da quella che presiede alle arti marziali?
Se sì dove la ravvisi, se no, perché
?

Non ci può essere una risposta univoca a questa domanda, dal momento che non esiste ‘una’ filosofia che “presiede alle arti marziali”. Nel vasto universo delle arti marziali e delle pratiche di combattimento vi sono più aspetti, differenti prospettive e punti di vista, e si potrebbero individuare in Occidente diversi momenti o occasioni di incontro e confronto, se non proprio di rispecchiamento – da Eraclito a Fichte, da Machiavelli a von Clausewitz si potrebbero cogliere aspetti del pensiero che mostra la necessità e l'importanza del conflitto, come elemento cruciale della vita. Uno degli aspetti che più mi premeva evidenziare parlando di una “filosofia delle arti marziali” era la dimensione corporea che è sottesa alla loro pratica, il fatto cioè che esse mostrano la presenza di un pensiero del corpo (nel senso soggettivo e oggettivo del genitivo). In questo senso, anche se non c'entra direttamente con le arti marziali, è la fenomenologia, in particolare quella di Merleau-Ponty, che può offrire un ottimo ambito di raffronto per il pensiero che emerge dalla pratica marziale.

Quando uscì un libro del praticante di MMA Daniele Bolelli vi lessi che “…Aristotele, Platone, Cartesio hanno spianato la strada al decadimento del corpo”. In una conversazione che ebbi con lui su questo sito sostenne che quei filosofi “avevano spinto una divisione tra corpo e mente, promuovendo la superiorità del mentale sull’organico con le conseguenze che si possono vedere nel pessimo rapporto con il corpo che molte persone si vivono”. Se sei d’accordo, oppure no, perché?

Distinguerei il pensiero di Platone, di Aristotele e di Cartesio dal platonismo, dall'aristotelismo e dal cartesianesimo: se è indubbio che la storia degli effetti del loro pensiero ha impresso una curvatura particolare alle tradizioni di pensiero che ne derivano – che non sono spuntate dal nulla – e all'Occidente intero, è anche vero che il pensiero di quei filosofi è più complesso di quanto una rappresentazione manualistica o tagliata con l'accetta può offrire. Senza scendere nei dettagli di una ricostruzione filologica, potrei convenire circa il fatto che nel pensiero europeo sia stato evidenziato e rimarcato un certo dualismo tra visibile e invisibile, tra corpo e mente, mentre in molte (non in tutte!) tradizioni di pensiero asiatiche è stata sottolineata la continuità o la complementarità tra i due ambiti. Il discorso è troppo complesso per poter essere affrontato in poche righe, perché coinvolge a mio giudizio anche la retroflessione del sistema di scrittura (alfabetico piuttosto che ideografico) sul pensiero e sulla conseguente visione del mondo che ne deriva. È chiaro che la profondità di certe questioni viene senz'altro avvilita da affermazioni apodittiche e da risposte che per amore di brevità restano alla superficie delle cose, al tempo stesso la storia dei pensieri d'Oriente mostra come il corpo sia stato considerato elemento integrante nella pratica – anche nella pratica del pensiero o della meditazione, generalmente considerate in Occidente meno “fisiche”.

Poco fa hai accennato a un “pensiero del corpo”, puoi chiarire quest’espressione?

Come ho accennato prima, nella locuzione “pensiero del corpo” è bene un duplice genitivo. Si tratta cioè sia di un pensiero rivolto al corpo, che pone il corpo come oggetto di indagine e di riflessione, sia di un pensiero dettato, determinato dal corpo e dalla sua vita, dall'insieme dei suoi gesti. Ritengo infatti che si possa parlare a buon diritto di un “pensiero”, ovvero di una capacità di stare presso le cose e produrre effetti sul reale, interagendo con esso e comprendendolo, che non sia in prima istanza concettuale, o logico-argomentativo, per il fatto che siamo in primo luogo enti incarnati e letteralmente costituiti dalle strutture percettive che intramano il nostro corpo nel mondo (e viceversa).

L’arte che Bruce Lee chiamò “Jeet Kune do” fondendo più tecniche da vari tipi di combattimento, anche occidentali (scherma, boxe), è da molti ritenuta la meno ricca in spiritualità e molto ricca in efficacia? È così? E ancora: è nel “Jeet Kune do” l’origine delle MMA?

Il fascino delle pratiche, delle arti, dei riti è che possono essere riempiti di senso e si prestano ad ogni tipo di elevazione o, viceversa, di perversione. A seconda del soggetto che pratica, penso che si possa scovare un senso spirituale tanto nel Jeet kune do o nella boxe, nel biliardo o nel calcio, quanto si possa avvilire e ridurre a mera tecnica meccanica la più profonda tradizione religiosa o disciplina ascetica. Per quanto riguarda l'origine delle arti marziali miste, non è un argomento che mi appassiona particolarmente, ma anche restando solo alla classicità occidentale dovremmo risalire almeno a 2500 anni prima del Jeet kune do, cioè alla disciplina greca del “pankration”, per vedere già in opera un antenato delle arti marziali miste; e dubito che, trovandosi sprovvisto di armi, un guerriero medievale europeo o un samurai giapponese si sarebbe battuto scegliendo di usare solo i pugni, solo le proiezioni, o solo le leve articolari... Le moderne MMA, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, hanno però rinnovato le tecniche di allenamento e dato un nuovo impulso a una modalità di confronto sportivo che le arti marziali moderne, nella seconda metà del Novecento, avevano in genere ignorato o sottostimato.

Credi che la declinazione sportiva di alcune arti – il karate e il taekwondo ad esempio – abbia sottratto, come alquanti sostengono, valore filosofico a quelle discipline?

Come in parte ho detto in precedenza, penso che anche nello sport si possano trovare e sviluppare valori filosofici; l'atletica leggera può essere praticata come disciplina spirituale, e la meditazione Zen può diventare una ripetizione meccanica priva di senso. Dipende da chi pratica e da come si pratica. Detto questo, è pur vero che l'eccessiva sportivizzazione porta fatalmente a privilegiare i risultati agonistici, i circuiti professionistici e un tipo di attenzione focalizzata più sulla performance agonistica che sulla trasformazione interiore del praticante.

Come spieghi che la filosofia delle arti marziali sia usata ben fuori del tatami in corsi d’addestramento per dirigenti del mercato finanziario, della gestione aziendale, della pubblicità, insomma per fare crescere in loro valori di competitività nel business?

Bisogna stare attenti a non equivocare i termini che si usano, perché se si parla di “filosofia delle arti marziali” sia per i corsi di business administration sia per descrivere un tipo di approfondimento interiore, che nulla ha a che fare con il successo mondano o economico, si fa un pessimo servizio a entrambi gli ambiti (e alla chiarezza concettuale). Si potrebbe usare anche il pensiero di Platone o di Hegel, se si volesse, per torcerlo ai fini di una formazione manageriale; ciò non significa che quei filosofi abbiano creato dei concetti proprio per quello scopo. Se si vuol vendere un prodotto, ammantarlo di riferimenti a tradizioni esotiche ne fa salire le azioni sul mercato... Dal momento che parla di strategia, il pensiero sull'arte del combattere di Miyamoto Musashi si può applicare a mille ambiti del conflitto umano, per esempio potrebbe essere utile anche per affrontare le riunioni condominiali; ma non è questo il senso più profondamente filosofico del suo discorso.

Il libro si conclude con il tuo saggio intitolato “Educare il conflitto”. Come si riesce a educare il conflitto che è per sua natura ineducato?

Non direi che il conflitto sia per natura ineducato, direi piuttosto che la natura è spesso in se stessa conflittuale, perciò l'essere umano – per non soccombere alle istanze conflittuali di cui spesso è preda o vittima – può e forse deve dotarsi di strumenti culturali per incanalare il conflitto potenzialmente violento e renderlo creativo, fecondo, vitale. Il valore filosofico delle arti marziali risiede anche nel fatto che mettono in scena, in forma anche ritualizzata, dinamiche ancestrali e conflitti intrapsichici (il rapporto tra vita e morte, tra identità e alterità, tra forma e forza, tra maestro e allievo). Come ha messo in luce Francesca Antonacci nel suo capitolo, la rappresentazione del conflitto e dello scontro, nella dimensione performativa delle arti marziali, svolge una complessa funzione di “spostamento” delle energie distruttive. Attraverso tali discipline ci si educa ad agire la violenza in forma mediata e controllata attraverso un’esperienza corporea, mentale, affettiva, immaginativa; così facendo si trasformano azioni potenzialmente nefaste in simboli, in fenomeni da interpretare, in oggetti di cultura.
……………………………..
Marcello Ghilardi
Filosofia delle arti marziali
Pagine 216, Euro 16.00
Mimesis


Leggere uno spettacolo multimediale (1)

Edito da Dino Audino va ad arricchire l’eccellente catalogo prodotto dall’editore sulle arti dello spettacolo, un nuovo libro di Anna Maria Monteverdi.
Esperta di Digital Performance, è ricercatrice di Storia del Teatro all’Università statale di Milano e docente aggregato di Storia della scenografia. Ha insegnato Drammaturgia dei media, Digital video, Teatro multimediale in Accademie di Belle Arti e Dams.
Ha pubblicato: Memoria, maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage (Meltemi Editore 2018); Nuovi media, nuovo teatro (FrancoAngeli 2011); Rimediando il teatro con le ombre, le macchine, i new media (Edizioni Giacché 2014); con Andrea Balzola, Le arti multimediali digitali (Garzanti 2004 ).
Titolo di questo suo nuovo volume: Leggere uno spettacolo multimediale La nuova scena tra video mapping, interaction design e Intelligenza Artificiale.
Per l’ottimo sito web dell’autrice: CLIC!

Ritengo, e non sono il solo, Anna Maria Monteverdi fra le più grandi studiose che abbiamo in Italia, e non solo in Italia, della storia della multimedialità in teatro.
Tra i suoi meriti la capacità non soltanto d’informare sui tracciati storici della nuova scena multicodice, ma quello di riuscire al tempo stesso a non limitarsi ad una sia pure puntualissima cronaca, ma ad interpretare i segni che da quelle novità provengono e i segnali su ciò che potrà accadere.
E ancora: apertamente schierata dalla parte delle più avanzate ricerche tecnologiche, non si fa abbagliare dalle pur cospicue meraviglie che quei mondi propongono: «I pionieri di questo “nuovo teatro” ci hanno insegnato che il connubio con la tecnologia funziona a patto che sia l’arte a guidare, e non viceversa, e ci hanno mostrato, nella pratica e nelle teorie, come la forza della scena intrecciata coi media risieda nel progetto, nella scrittura e nelle idee, prima ancora che nella tecnica».
Del resto, Umberto Eco diceva: “Il computer non è una macchina intelligente che aiuta le persone stupide, anzi, è una macchina stupida che funziona solo nelle mani delle persone intelligenti”.

Dalla presentazione editoriale.
«Interpretare uno spettacolo tecnologico (di prosa, di danza, di lirica) significa collocarlo nella giusta cornice temporale, nel contesto di fruizione per cui è stato pensato e comprendere le potenzialità, le tematiche e le ragioni drammaturgiche dell’uso di una specifica tecnologia.
In questo libro le creazioni teatrali sono lette attraverso le teorie di Lev Manovich, Jay David Bolter, Richard Grusin e Henry Jenkins sulla “cultura convergente”, la “cultura del software” e la tendenza alla “remediation”, cioè al riutilizzo delle vecchie tecnologie.
Dopo un breve sguardo al videoteatro degli anni Ottanta e al teatro digitale degli anni Novanta, ci si concentra sul periodo che va dalle prime coreografie interattive con uso di motion capture alle ultime sperimentazioni con sistemi di Intelligenza Artificiale.
Il libro è arricchito inoltre da interventi di studiosi italiani che illustrano i nuovi formati digitali e le tecnologie di riferimento, nonché da una sezione di schede delle opere tecnoteatrali più significative».

Segue ora un incontro con Anna Maria Monteverdi.


Leggere uno spettacolo multimediale (2)


A Anna Maria Monteverdi (in foto) ho rivolto alcune domande

Sono trascorsi nove anni da quando conversammo sul tuo libro Nuovi media, nuovo teatro
Quali le motivazioni che ti hanno portato a scrivere questo nuovo saggio
?

All’epoca eravamo in pieno “furore videomapping” e in pieno entusiasmo per i nuovi software nati per l’interaction design. Ma con la tecnologia ancora in atto non sapevamo ancora quali creazioni sarebbero nate, mentre potevamo trarre una qualche conclusione sul periodo precedente. Oggi che siamo in piena folgorazione per l’Intelligenza artificiale e per la Realtà Virtuale forse possiamo tirare le somme per l’epoca che ci ha preceduto. Nell’arte la time-line è differente dalla vita reale (per esempio ci sono corsi e ricorsi tecnologici, vecchie tecnologie che ritornano protagoniste anche se obsolete) ma in linea teorica possiamo cercare di allineare ciò che accade nel mondo dell’innovazione tecnologica e in quello del teatro per capire cosa l’uno può imparare dall’altro, come l’uno può influenzare l’altro. Dice il regista tecnologico Robert Lepage (mio Maître à penser) “Artisti e scienziati viaggiano su strade parallele, il tema è quello di tenere una mente aperta alle nuove possibilità perché la loro immaginazione è il miglior strumento per espandere i limiti dei propri campi”. Quindi la motivazione è proprio individuare il punto di congiunzione tra arte e tecnologia oggi e fornire uno sguardo più esauriente possibile sulle migliori produzioni, sui protagonisti, sulle nuove modalità tecnoartistiche messe in campo.

Nell’accingerti a questo lavoro, quale cosa hai deciso era da farsi assolutamente per prima e quale assolutamente per prima da evitare?

Volevo evitare un libro per “gli addetti ai lavori” che in sostanza significa incomprensibile ai più. In questo mi ha aiutato molto l’editore. Ho ritrovato nel rapporto con Dino Audino quella relazione che dovrebbe esserci sempre tra autore (che conosce la materia) e editore (che conosce spesso la materia ma soprattutto il mercato, le dinamiche di distribuzione, il potenziale pubblico). Ho cambiato il mio modo di scrivere per renderlo godibile a un pubblico più vasto, non si tratta di banalizzare o “tagliare” ma di semplificare dei concetti; ho solo chiesto all’editore di usare molte immagini perché avrebbero aiutato nel racconto di quello che accadeva in scena e di inserire nella pagina del sito della casa editrice contributi video per meglio rendere esplicito l’argomento. Lo abbiamo reso più come un “racconto” che un saggio accademico di difficile lettura. Si intitola “Leggere uno spettacolo tecnologico” e provo a descrivere come si analizza una tipologia di teatro che usa la tecnologia a tutti senza dover essere per forza sviluppatori di software! Ho voluto poi evitare di fare l’elenco del telefono degli autori (e sicuramente qualcuno mi rimprovererà di non aver messo questo o quell’artista…): ho preferito far riferimento a opere “emblematiche”, significative per esempio del tema teatro-cinema, o del Teatro virtuale, del Teatro aumentato. Ma non ho trascurato la discussione teorica sull’Intermedialità a teatro, sul liveness (il “dal vivo”), riferendomi ai molti studi già pubblicati in ambiti specialistici.

Nell’analizzare lo sviluppo dello spettacolo tecnologico hai proposto una periodizzazione in tre fasi. Quali sono queste scansioni e come le hai nominate?

Ho proposto una periodizzazione in tre fasi del Teatro interattivo partendo dalla cronologia proposta da Emanuele Quinz e Armando Menicacci in “La scena digitale” che però si ferma al 2001. Ho strutturato le tre fasi in una selezione di data/opera dalla fine degli anni Ottanta, ovvero ho cercato un’opera o più opere significative che mi giustificassero quella precisa data e spesso la data coincideva con l’uscita sul mercato di uno strumento tecnologico o un software (Eyesweb o Isadora per esempio) che diventava importante per la gestione del lavoro teatrale o coreografico. Non significa dare più importanza allo strumento che al gesto artistico, ovviamente, ma rendere conto dell’evidenza che l’innovazione crea nuove potenzialità anche espressive oppure può semplificare le cose. La Kinect che esce nel 2010 ha messo in cantina le ingombranti tute esoscheletriche degli anni Novanta o altri sistemi di motion capture ed è diventato lo strumento fondamentale dei coreografi digitali e lo rimane anche quando esce dal mercato dei videogame qualche anno dopo. Tuttavia non sempre l’ultima tecnologia dà le migliori prestazioni in arte, lo sappiamo bene, infatti poche sono ancora per esempio, le performance legate all’Intelligenza Artificiale o alla Robotica mentre la Realtà aumentata e mista si presta benissimo. Evidentemente poi, non tutte le produzioni rientrano in questa semplificazione cronologica, alcune stanno su più “periodi”, tuttavia vedo che “funziona” bene, non volendo suddividere le produzioni sulla base delle tematiche.

Partiamo dalla prima delle periodizzazioni

Devo dire che inizialmente ero certa di avere trovato l’opera più significativa per il primo periodo e data annessa: “Biped” di Merce Cunningham con cui l’artista d’avanguardia con un gesto importantissimo, usava un software di Motion Capture “Life Forms” per realizzare le coreografie (non ancora live per ovvi motivi); poi mi è sembrata troppo “tarda” come datazione (1999) perché c’erano già state molte altre sperimentazioni di interazione uomo-macchina (soprattutto Mark Reaney con “Very nervous system”) così l’ho anticipata alla fine degli anni Ottanta. Il progetto era troppo importante per escluderlo; in questi anni fino ai primi anni 2000, entra in campo come protagonista la Motion capture e i software Isadora di Mark Coniglio e Eyesweb di Antonio Camurri nonché l’apparato esoscheletrico ideato da Marcelì Antunez Roca che è davvero l’artista di riferimento per questo primo periodo.

… circa la seconda periodizzazione?

La seconda è il regno dell’interaction design che unisce il tema della software culture di Lev Manovich al concetto di Cultura convergente di Henry Jenkins, creando degli ibridi straordinari tra mondi che non si erano mai incontrati prima, tra videogame e arte scenica per esempio. Proprio dal mondo dei videogames vengono delle soluzioni molto pratiche per la coreografia digitale: arriva a teatro la Kinect (il motion-controller della X-box) per esempio che dà una mappa della profondità dello spazio, individua la posizione degli utenti e gli elementi del corpo in real time senza complicati sistemi di tracciamento. E Adrien Mondot è sicuramente l’artista di riferimento che ha usato Kinect (e creato il software e-motion) per alcuni spettacoli di danza che hanno lasciato il segno. Ma protagonista è anche il videomapping nato anch’esso per altre esigenze, pubblicitarie e commerciali negli spazi pubblici ma che in questo universo culturale convergente entra a teatro a stravolgere la scenografia tradizionale.

… arriviamo alla terza periodizzazione

La terza unisce sia i sistemi di Realtà Virtuale, Realtà Aumentata e Realtà Mista che i mobile media. Spesso anzi sono integrati. Oggi con un App di Realtà Aumentata sul cellulare fai esperienza del nuovo teatro “aumentato” di Rimini Protokoll o Blast Theory, mentre la connessione a distanza e la condivisione di materiali in via telematica per la creazione della scenografia è alla base di molti spettacoli del gruppo catalano Konic. I sistemi di computer vision,poi, hanno prodotto alcune interessanti sperimentazioni che racconto: insomma, da Ars electronica (il celebre Festival ultratrentennale di arti tecnologiche di Linz) si approda direttamente sui palcoscenici.

Nelle pagine iniziali del libro ti riferisci anche alla “remediation”.
Un tema che, lo ricordo ai più distratti, già affrontasti in un tuo saggio del 2012: “Rimediando il teatro con le ombre, le macchine, i new media”.
Parlaci di “remediation”

L’arte che usa le tecnologie può anche guardare indietro: ci sono artisti che usano vecchie tecnologie (che sono “vecchie” solo perché non rispondono alle richieste di un mercato che vuole connessioni veloci, interattività, altissima definizione) come Giacomo Verde o William Kentridge. Il loro lavoro rientra nel tema della “remediation” (il riuso di mezzi tecnologici obsoleti) che non è certo nuova nell’arte! Avendo fatto dieci anni del mio cammino personale con un artista come Giacomo Verde conosco bene la remediation: Giacomo da sempre usa la bassa tecnologia per restituire l’idea fondamentale che la creatività non è legata all’arsenale tecnologico che metti in campo ma alle idee. Riguardavo in questi giorni alcuni suoi videofondali live di una semplicità tecnologica commuovente ma geniali e inimitabili. Quegli effetti che lui crea manualmente come un “vj teatrale” e che oggi qualunque algoritmo sembrerebbe produrre automaticamente, era abilità pura e intuizione d’artista. Qualcosa si perde nell’automatismo dei nuovi mezzi e questo non è sempre un bene. Kentridge usa la pellicola 16 mm che poi digitalizza per inserire le immagini “old style” in un complesso ambiente tecnologico, facendo convivere i due mondi, e questo per un artista che parla del Sud Africa e dell’Apartheid, diventa un argomento, una metafora.

Nel tuo libro, si trovano riflessioni sull’Intelligenza Artificiale e la Realtà Virtuale
A quali esiti s’indirizzano questi strumenti in teatro
?

Al momento limitati perché ancora non è chiaro a cosa si dovrebbero riferire. Per esempio, Wayne Mc Gregor ha prodotto un “Living Archive” su Google Arts and Culture: ha digitalizzato tutta la sua ventennale produzione, un algoritmo ha reso attraverso una sintesi visuale i movimenti, e questo fiume di informazioni è a disposizione dell’utente che può creare nuove coreografie a piacimento, collegandosi al sito e scegliendo una sequenza…. non ci sarà mai una coreografia uguale all’altra. Se questo abbia un valore artistico non saprei dire ma è un esempio interessante. L’unico che io sappia che usa intelligenza artificiale applicata espressamente alla coreografia è Daito Manabe, le danzatrici hanno un doppio “alchemico-algoritmico” che le segue avendo questo algoritmo imparato con il machine learning i passi di danza. Nel libro aggiungo anche alcune riflessioni critiche degli artisti che mettono in guardia sull’abuso di queste tecnologie: Hyto Steyerl e Trevor Paglen.

Un motto di John Cage: “Molti hanno paura dal nuovo, io sono terrorizzato dal vecchio”
Ne prendo spunto per l’ultima domanda.
Fra gli attori, registi, scenografi, cosiddetti “di tradizione”, noto, nella mia ultratrentennale militanza Enpals che mi ha impegnato nel lavoro con loro, una decisa ostilità verso le nuove tecnologie intervenute nello spettacolo.
Da dove viene quell’avversione fra categorie che pure nell’espressività agiscono
?

Conosco bene questa ritrosia di cui parli. Forse è solo indice dell’incapacità di accogliere il nuovo, di riconoscere potenzialità creative nei mezzi tecnologici (ma gli artisti stanno sperimentando questo sin dalle prime e seconde avanguardie e nel teatro lo scenografo Joseph Svoboda usava sistemi di proiezione dinamica già alla fine degli anni Cinquanta). Ostilità è certamente dovuta alla non conoscenza. Ma è anche vero che non tutta la produzione tecnologica teatrale si dimostra eccellente, spesso ci si affida all’effetto meraviglia delle proiezioni per coprire l’assenza di idee. Non esiste una ricetta ma noto che gli spettacoli funzionano laddove la tecnologia è considerata alla pari ed è inscritta nel progetto sin dall’inizio, a creare una “drammaturgia multimediale”. Ma rifiutare di avere a che fare con la tecnologa ci rende inevitabilmente anacronistici. Ricordo un giornalista ora anziano molto famoso che quando ci incontravamo alle conferenze mi diceva con un certo orgoglio che ancora scriveva con la macchina Lettera 22. E io ogni volta gli dicevo che prima o poi gli sarebbero finiti i nastri. Forse il tema non è esattamente “aggiornarsi o soccombere”, ma conoscere per non farsi sopraffare….

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Anna Maria Monteverdi
Leggere uno spettacolo multimediale
Pagine 160, Euro 19.00
Dino Audino Editore


L'allenatore ad Auschwitz


Le Olimpiadi simbolo della fratellanza, della lealtà, in una parola dello sport? Sì e no.
Leggete "Stare ai Giochi, Olimpiadi tra discriminazioni e inclusioni" del sociologo Mauro Valeri, pubblicato da Odradek, e v’accorgerete che qualche prudenza è necessaria prima di lasciarsi andare a enfatiche espressioni col rischio di cadere in retorica. “Ora, donne, neri, disabili, omosessuali e intersessuali, credenti in varie religioni ci stanno” – scrive Valeri – “ma le Olimpiadi moderne non erano per loro, nonostante la Carta olimpica proclamasse «La pratica dello sport è un diritto dell’uomo. Ogni individuo deve avere la possibilità di praticare lo sport secondo le proprie esigenze senza discriminazioni di alcun genere». Yelena Isinbayeva, Usain Bolt, Oscar Pistorius, Caster Semenya, Hassiba Boulmerka non avrebbero potuto gareggiare ad Atene 1896”.
Dalle Olimpiadi di Berlino del 1936 usate quale megafono dal nazismo per propagandare l’ideologia hitleriana manco a parlarne. Per esempio, gli atleti ebrei furono esclusi. E un Comitato per il boicottaggio di quelle Olimpiadi fallì, dimostrando quanto poco fosse avvertito il problema dai governi di mezzo mondo. Ci consoli soltanto il fatto che quel negraccio di Jesse Owens fece masticare amaro al Fürher vincendo ben quattro medaglie d’oro. Trionfi al suo rientro in patria? No. Roosevelt non lo ricevette per non inimicarsi gli elettori conservatori e Owens solo nel 1955 fu dichiarato “Ambasciatore dello Sport” dal Presidente Eisenhower.
Perché questo mio soffermarmi sulle Olimpiadi ora che sono state perfino rimandate?
Perché sto per presentare un libro che molto ha a che fare con il tema del razzismo nello sport e mi è sembrato opportuno partire proprio dalle Olimpiadi ritenute, non sempre a ragione, il simbolo della fratellanza fra donne e uomini aldilà di ogni divisione di razza e religione.

Il libro è intitolato L’allenatore ad Auschwitz Árpád Weisz: dai campi di calcio italiani al lager. L’autore è Giovanni A. Cerutti.
Storico e saggista, è direttore della Fondazione Marazza di Borgomanero e, quale direttore scientifico, ha guidato l’Istituto Storico della Resistenza di Novara.
È cultore della materia in Scienza politica all’Università degli studi di Milano.
Per l’editrice Interlinea ha curato “De Andrè il corsaro”,“Play a song for me”, “Quel Natale nella steppa”, “Cantautori a Natale”, “Ma la fortuna dei poveri dura poco”.

L’autore e la casa Interlinea vanno lodati per questa pubblicazione non solo perché ben scritta ed edita con corredo fotografico, ma anche necessaria per tre principali motivi.
Il primo. Avere riproposto la figura dell’ebreo ungherese Weisz (come Cerutti ricorda ci fu anni fa un primo squillo di Enzo Biagi, seguito da un libro di Matteo Marani) il più giovane, fino ad oggi, allenatore ad avere vinto scudetti, infatti ne vinse uno con l’Inter (1930) e due con il Bologna (1936 e 1937). Scrisse con Aldo Molinari, il manuale “Il giuoco del calcio” (1930). Introdusse nuove tecniche di allenamenti. Inventò quelli oggi chiamati “schemi”

Il secondo. Nel descrivere le traversie subite da Weisz e dalla sua famiglia, hanno ricordato che il fascismo ebbe un ruolo severissimo nella persecuzione razziale dopo la pubblicazione dei decreti della vergogna in vigore dal 5 settembre 1938. Facevano seguito al “Manifesto della Razza” firmato da 10 uomini. Di loro ha scritto Franco Cuomo nel suo libro “I dieci”: “Volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. E ci riuscirono, in prima persona. Perché lo furono”.

Il terzo. Fare riflettere su come proprio nel mondo dello sport e nel calcio in particolare esistono maiuscoli e terribili precedenti rispetto a quanto accade oggi. Razzismo nelle frasi di dirigenti, in campo fra giocatori, per finire a quanto accade sulle tribune e fuori stadio.
QUI un interessante intervento dello storico Patrick Clastres.

In questo video Giovanni Cerutti illustra l’avventura di Weisz.

Dalla presentazione editoriale
«L’ungherese Árpád Weisz, tra i più grandi allenatori degli anni Trenta, colui che introdusse per primo gli schemi nel campionato italiano, fu commissario tecnico dell’Inter (dove scoprì Giuseppe Meazza) ma anche del Novara e del Bologna, fino all’espulsione dall’Italia, in seguito alle leggi razziali, e alla tragica fine nel lager di Auschwitz. La sua vicenda ha tratti non comuni che meritano di essere approfonditi. Queste pagine illuminano il periodo italiano ricostruendo con precisione il ruolo che ebbe Weisz nello sviluppo del “sistema”, che in quegli anni stava mutando definitivamente la fisionomia del calcio sullo sfondo dell’affermazione del professionismo. Una testimonianza e una riflessione sull’eredità della shoah e sull’importanza della memoria, che coinvolge nel dramma anche lo sport».

Giovanni A. Cerutti
L’allenatore ad Auschwitz
Pagine 128, Euro 12.00
Contiene album fotografico b/n
Interlinea


Un libro prezioso (1)

Sono un sostenitore del meticciato, in ogni campo.
Anche in quello linguistico. Se di una parola straniera non esiste un equivalente significato in italiano, ben venga. Quale regista direbbe a chi monta il film “facciamo un ritorno al passato”, invece di “flashback”, via, correrebbe il rischio di trovarsi minuti dopo su di un’ambulanza diretta a un reparto psichiatrico.
Ma per parole esistenti in italiano, no, usiamo la nostra parlata.
Un popolo che rinuncia alla propria lingua, rinuncia, alla propria storia e all’esistenza futura.
Per dirne una, non c’è mostra d’arte visiva che non s’intitoli in inglese: e così abbiamo “Monsters” (ma non riferito al gallerista, al critico, e all’artista di quell’esposizione), "Bread and Cheese", “Untitled”, “Tarantella Sound”, e via via goffamente.
Sui giornali, alla radio, in tv, si è ispessito, l’itanglese che è un eccellente modo per confessare l’appartenenza alla periferia dell’Impero.
In questi tempi, ad esempio, vanno forte runners e lockdown.
Runners si può dire senza perdere in significato “podista”, “corridore”.
Lockdown significa “isolamento”, “confinamento”.
Ha, però, anche un altro significato che mi auguro sia applicato a quanti hanno colpevolmente procurato una diffusione dell’epidemia facendola scorrere come libera fontana.
Quel secondo significato di “lockdown” si riferisce all’isolamento dei detenuti nella propria cella. Ecco, sono pronto a perdonare chi userà quell’espressione se si verificasse quel benvenuto caso.

Tempo fa, segnalai un libro intitolato “Diciamolo in italiano”, dal quale poi derivò un sito, che il problema dell’itanglese affrontava. Se vi va, leggete appresso.


Un libro prezioso (2)

Ripropongo una mia nota su Diciamolo in italiano, pubblicato da Hoepli, di cui è autore Antonio Zoppetti.

Wojtyla una volta disse: “Non so se posso bene spiegarmi nella vostra... nostra lingua italiana. Se mi sbaglio mi… corrigerete”, ma nessuno osò corrigerlo.
Ma almeno quel papa che ingigantì l’organigramma celeste (fece 488 santi e 1345 beati, entrando di diritto nel Libro dei Primati, che, per chi non lo sapesse, è il libro dei record non quello delle scimmie) ci aveva provato a parlare italiano, mentre molti italiani vi rinunciano.
Proprio così, leggete che cosa scrive Annamaria Testa– una grande! –: Sta di fatto che continuo a chiedermi che cos’ha in mente il redattore che scrive “gli influencer sono trend setter by definition: per questo il loro outfit è sempre cool. O la società di telefonia mobile che mi invia il messaggio: “Il report con le tue performance di aprile è online”, per dirmi che in Rete trovo i consumi del cellulare. E così, nel nostro Paese, sempre più spesso le persone si informano, viaggiano, pagano pedaggi, bollette e tasse, lavorano, si tengono in forma, giocano e mangiano in itanglese (…) Scegliendo l’itanglese, ci stiamo perdendo per strada molte parole italiane utili a nominare concetti, oggetti e azioni della quotidianità (perché mai, raccontando e promuovendo i prodotti del territorio, scriviamo sempre più spesso food e wine invece di cibo e vino? (...) la pervasività dell’itanglese e la modesta conoscenza della lingua inglese sembrerebbero contrastanti, ma in realtà non lo sono. “A chi conosce a fondo una lingua straniera non viene nemmeno in mente di esibirla fuori tempo e luogo come faceva l’Americano di Sordi e di Carosone e come fanno troppi ignoranti", scrive Tullio De Mauro. E aggiunge che “correggere il grave, persistente analfabetismo nazionale in materia di lingue straniere, inglese compreso, è una via più lunga, ma forse più produttiva di qualche ukaz contro i mali anglismi”.

L’autore di "Diciamolo in italiano", come dicevo in apertura, è Antonio Zoppetti. Laureato in filosofia, agitatore multimediale è autore di innumerevoli progetti digitali e di libri di saggistica e manualistica. Noto in Rete con lo pseudonimo di Zop. Nel 2004 ha vinto il premio Alberto Manzi per la comunicazione educativa. Nel 1993 ha curato la conversione digitale del Devoto-Oli, il primo dizionario elettronico italiano. Suoi libri pubblicati da Hoepli: L'italiano for Dummies (2014) e SOS congiuntivo for Dummies(2016).
Fin qui una presentazione non esaustiva perché c’è di più, ad esempio: “PerQueneau?” o i suoi gialli in 160 caratteri, oppure ancora un web-film, "Delitto e Casting", girato interamente a distanza, attraverso internet, utilizzando webcam, interpretato dai blogger e da tanti cattivi soggetti del popolo della Rete… non vi basta? E allora ecco come Zop alias Zoppetti, o viceversa, immagina un famoso brano della nostra letteratura in itanglese.
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Quel ramo del lago di Como sud coast oriented, tra due catene non-stop di monti tutte curvy, a seconda dell’up-down di quelli, divien quasi a un tratto small-size e a prender un look da fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera overside; e il ponte, che ivi linka le due rive, par che renda ancor più friendly all’occhio questo effetto double face, e segni lo stop del lago e il restart dell’Adda, fino al remake del lago dove le rive, sempre più extralarge, lascian lo spread dell’acqua rallentarsi in un relax di nuovi golfi curvy.

Antonio Zoppetti
Diciamolo in italiano
Prefazione di Annamaria Testa
Pagine 200, Euro 17.90
Hoepli


Indice tv


Guardando al consumo televisivo c’è da sentirsi male


Ecco, ad esempio, i dati di mercoledì 25 marzo.
Grande Fratello Vip vincitore indiscusso della serata (con picchi di quasi il 30% di share) contro “Stanotte a Venezia” di Alberto Angela (che conquista il 12,4%).
Poco prima, Striscia la notizia ha fatto più ascolti del Tg1 il telegiornale più seguito.
Tra le emittenti digitali free, lo stesso giorno, il miglior risultato è stato raggiunto da TV2000 con il Rosario (3,8%) che ha battuto il film “Full Metal Jacket”, trasmesso da Iris (2,5%).

Il critico inglese del New York Times Clive Barnes ha scritto in una delle sue cronache “La tv è la prima cultura disponibile a tutti, voluta per tutta la gente.
La cosa più terrificante è ciò che la gente vuole dalla tv”.


Una sentenza da conoscere

Tra le tante cattive notizie di questi giorni, eccone una buona.
La Cassazione ha riconosciuto agli atei e agli agnostici il diritto di essere tali e di poterlo dire. Può sembrare un’ovvietà, in realtà fino al 18 aprile scorso non lo era.
La vicenda risale al 2013 quando l’Uaar (Unione Agnostici e Atei Razionalisti) lancia la campagna “Viviamo bene senza D” su cui campeggiava la parola "Dio", con la D in stampatello barrata e le successive lettere “io” in corsivo con sotto la scritta 10 milioni di italiani vivono bene senza D. E quando sono discriminati c'è l'Uaar al loro fianco.
Campagna che apparve su tutto il territorio nazionale tranne che a Verona, dove il Comune la censurò sostenendo che il contenuto dei manifesti fosse potenzialmente lesivo nei confronti di qualsiasi religione. La Corte Suprema, invece, ha iaccolto il ricorso presentato dall'Unione contro il Comune di Verona che gli aveva negato il diritto di affiggere quei cartelli.
Il giudice ha stabilito che gli atei e gli agnostici hanno, dunque, lo «stesso diritto paritario dei fedeli delle diverse religioni di professare il loro credo "negativo"» ed è «vietato discriminarli nella professione di tale pensiero» del quale possono fare libera propaganda, con l'unico limite - valido per tutti - di non offendere «la fede altrui».
Insomma, dopo una lunga battaglia legale di 7 anni, condotta dall’avvocato Fabio Corvaia, la Cassazione ha oggi stabilito che atei e agnostici hanno diritto di professare un credo che si traduce nel rifiuto di una qualsiasi confessione religiosa. Un diritto che è tutelato dalla libertà di coscienza sancita dall'articolo 19 della Costituzione, alla stregua del credo religioso positivo, che si sostanzia nell'adesione a una determinata confessione.
È una vittoria che non riguarda solo atei e agnostici, ma tutti, credenti e non, perché la libertà di coscienza a tutti appartiene.


Thomas Middleton (1)

Ricorre oggi la data di nascita d’un grande drammaturgo.
Difatti, il 18 aprile del 1580 nasceva a Londra Thomas Middleton.
Morirà nella stessa città, a 47 anni, quest’autore che ha più motivi per essere ricordato – dopo essere stato a lungo dimenticato – dalla storia del teatro.
Per la sua prima produzione al Piccolo e in Italia, l’inglese Declan Donnellan, maestro della regia shakespeariana, scelse proprio un testo di Middleton: “La tragedia del vendicatore”
Ecco un breve video con dichiarazioni di Donnellan e dei suoi attori.

Come saperne di più su Middleton? Please don’t panic!
L’editore Carocci ha nel suo catalogo quanto occorre.
Il libro è intitolato Thomas Middleton, drammaturgo giacomiano Il canone ritrovato; 276 pagine, 24.70 euro.

Dalla presentazione editoriale.
«Dopo alcuni importanti studi di qualche decennio fa, questa monografia è la prima in Italia dedicata all’opera di Thomas Middleton. L’attenzione è rivolta soprattutto alle “Nuove Tragedie” attribuitegli negli ultimi decenni: dalla Revenger’s Tragedy a The Bloody Banquet, dalla Yorkshire alla Lady’s Tragedy, ovvero alcuni grandi drammi del periodo (ascritti nei secoli a Shakespeare o ad altri drammaturghi) che sono ora solidamente inseriti nel suo canone. Per presentare l’autore al pubblico italiano, il volume, pur concentrandosi sulle “Nuove Tragedie”, prende in analisi tutta la sua opera, dalle city comedies (per cui è stato noto nei secoli) fino alle tragedie riconosciutegli da sempre, “Women Beware Women” e “The Changeling”, e al succès de scandale “A Game at Chess”, la satira politica che ha chiuso la sua carriera di drammaturgo nel 1624, tre anni prima della morte»

L’autrice del volume è Daniela Guardamagna.
Professore ordinario di Letteratura inglese e Storia del teatro inglese dal 2002, insegna, dal 1996, all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, dopo gli studi alla “Sapienza”, all’UCD (University College Dublin), l’insegnamento nelle Università di Pescara e di Urbino. I suoi interessi di ricerca primari sono il periodo early modern, Shakespeare, la distopia e il teatro contemporaneo.
Tra le sue pubblicazioni, “Analisi dell’incubo. L’utopia negativa da Swift alla fantascienza” (Bulzoni 1980), “La narrativa di Aldous Huxley” (Adriatica 1990), molti saggi su Middleton, sul teatro contemporaneo (in particolare Beckett) e sulla distopia.
In settembre è uscita la sua curatela Roman Shakespeare: Intersecting Times, Spaces, Languages, per i tipi di Peter Lang, con saggi di Michael Dobson, Peter Holland, Richard Wilson, Piero Boitani e altri specialisti del periodo.
Nel catalogo Carocci anche Il teatro giacomiano e carolino.

Non è la prima volta che questa saggista è ospite di Nybramedia.
Segnalo anche qui la sua presenza che nonostante sia di molti anni fa è ancora attuale proprio per merito delle risposte che dà alle mie domande.
A quell’epoca, molto più di oggi, di Middleton pochissimi sapevano, ma lei, invece l’aveva già ben studiato, scritto articoli, e, infatti, lo cita più volte.

Segue ora un incontro con Daniela Guardamagna.


Thomas Middleton (2)


A Daniela Guardamagna, in foto, ho rivolto alcune domande.

Qual è l’importanza di Thomas Middleton nella letteratura teatrale elisabettiana?

Innanzi tutto, permetti che io risponda con la mia abituale pignoleria. Thomas Middleton è un autore giacomiano, più che elisabettiano…

… ho toppato?...

No, è vero che elisabettiano si usa, in senso lato, per le opere del periodo 1577-1642, cioè dalla creazione del primo teatro pubblico, The Theatre, fino alla chiusura dei teatri. Ma io preferisco la periodizzazione che tiene conto del regno di Giacomo I: sia perché Middleton rientra esattamente in quel periodo (Giacomo regna dal 1603 al 1625; la prima opera di Middleton che ci è pervenuta, “The Phoenix”, risale a fine 1603-inizio 1604, e l’ultima, “A Game at Chess”, è del 1624). Una coincidenza quasi perfetta.
Ma non si tratta soltanto di questo: gli umori epocali del periodo giacomiano sono molto diversi da quelli più vitali, da ‘apertura d’epoca’, del regno di Elisabetta. Ho parlato altrove di “assenza del cielo”: il mondo descritto dai drammaturghi di questo periodo è una realtà materialistica, piatta, bidimensionale, concentrata sul dato economico più che sulle imprese (gloriose e non) di regnanti e grandi personaggi eroici. La critica dei drammaturghi – e di Middleton – colpisce con violenza la squallida protoborghesia del periodo, insomma.

Si legge nella sua biografia che la satira politica “A Game at Chess” chiuse la sua carriera. Che cosa conteneva di tanto scandaloso quel suo lavoro?

È un dramma che ha avuto un impressionante successo di scandalo. Nei nove giorni di repliche (prima che la censura intervenisse per bloccare le rappresentazioni) il Globe Theatre, che conteneva circa 3.000 spettatori, era sempre stracolmo. Il problema, come recita il decreto che ne ha ordinato la sospensione, era che venivano rappresentate sul palcoscenico le azioni di “monarchi viventi”. Azioni tutt’altro che edificanti, aggiungiamo. La situazione diplomatica tra Inghilterra e Spagna era assai delicata; Middleton ha avuto il pericoloso coraggio di mostrare una Corte spagnola – filtrata attraverso la metafora della partita a scacchi, dove i bianchi sono i virtuosi inglesi, i neri i corrotti cattolici spagnoli – che ricorre a ogni indecente macchinazione per sconfiggere il nemico e procurarne la rovina. Al re, che stava trattando operosamente tregue e addirittura matrimoni utili a cementare l’unione dinastica dei regni – questo non è piaciuto affatto. Che il pubblico fosse entusiasta è stato, se possibile, anche più dannoso. L’acutezza swiftiana dell’analisi di Middleton andava tacitata. E – dopo questo dramma – Middleton ha vissuto altri tre anni senza scrivere nulla, se non qualche pamphlet celebrativo per la Città di Londra. Chissà che cosa abbiamo perduto, per questo motivo.

Quali fattori hanno determinato il ritardo con cui è stato riconosciuto il suo valore fino a farlo confondere con Cyril Tourneur come a lungo si è creduto?

Middleton non era particolarmente amato dai potenti del suo periodo; le sue opere, come si diceva, sono state spesso colpite dalla censura. Inoltre, se Ben Jonson ha pensato da solo a pubblicare tutti i suoi drammi nel 1616, e due attori della compagnia di Shakespeare hanno prodotto il famoso “First Folio” shakespeariano nel 1623, nessuno ha fatto questo per Middleton. Le sue opere, quindi, sono uscite un po’ casualmente, spesso a opera di stampatori di pochi scrupoli, a decenni dalla sua morte, e spesso attribuite ad altri.
Inoltre, la censura politica è solo uno degli aspetti che ha colpito Middleton. Le sue tragedie sono ‘rischiose’ in più sensi: per la feroce satira di regnanti e nobili, certo; ma anche per la sconcertante violenza della sua scrittura. Fra i drammi che gli sono stati attribuiti recentemente ci sono stupri, assassinii (e questa è una costante del periodo) ma anche la necrofilia, nella “Lady’s Tragedy”, dove il fantasma della protagonista deve intervenire perché il suo corpo non sia profanato dagli amplessi del Tiranno; o il cannibalismo, in “The Bloody Banquet”, dove la moglie del re deve cibarsi del corpo smembrato del suo amante. Un teatro non per famiglie, e ‘gastronomico’ in sensi del tutto imprevisti.

Hai presentato “La tragedia del vendicatore” per la regìa Declan Donnellan sia al Piccolo di Milano sia all’Argentina di Roma.
Quali i pregi di quella messa in scena
?

Bellissima e coinvolgente. Innanzi tutto, Donnellan ha rispettato perfettamente una delle caratteristiche fondamentali di Middleton, come anche di Shakespeare e di altri autori del periodo: la mescolanza continua, perturbante e drammaturgicamente assai efficace di comico, tragico e grottesco. Come in molte tragedie di vendetta (tra cui dobbiamo annoverare l’Amleto) il teatro-nel-teatro ha un’importante funzione nella rappresentazione. Qui, alla fine, il “masque” di nobili travestiti diventa un tragico e frenetico balletto in cui ogni pretendente al trono uccide il suo predecessore, indossando la corona ducale per pochi secondi, per esserne immediatamente spogliato.
E poi un’altra caratteristica fondamentale. Questo è certamente teatro della crudeltà, anche se Artaud aveva applicato la sua definizione a un altro autore del periodo, il John Ford di “Peccato che sia una sgualdrina”. L’uccisione del Duca assassino – che è costretto ad assistere agli amplessi adulterini di sua moglie con il suo figliastro – ha una crudeltà rara anche in questo periodo così fortemente ispirato dalle violenze senechiane. Il protagonista Vindice e suo fratello progettano di tagliargli le palpebre, in modo che i suoi occhi “brillino, come comete, attraverso il sangue”. L’uccisione del Duca – proiettata da Donnellan attraverso telecamere, a rendere più evidente al pubblico la sua angoscia e il suo dolore – è efficacissima, e molti tra il pubblico hanno dovuto distogliere gli occhi.
Infine, Donnellan ha saputo rendere perfettamente la doppia qualità della tragedia: un dramma crudele, ma anche un paradossale balletto di morte. Alla fine, nelle tre rappresentazioni a cui ho assistito, la platea soprattutto giovanile stava in piedi, scandendo con applausi appassionati la musica (bellissima) che accompagna le vertiginose uccisioni. Middleton non avrebbe chiesto di meglio.
………………………………………………………………………..

Ed ora gran finale con musica e ballo della “Tragedia del vendicatore” nella messa in scena di Declan Donnellan.


Fellini 100 a Rimini


La mostra Fellini 100 Genio immortale è stata allestita in un modo che,come dice Leonardo Sangiorgi di Studio Azzurro, permette allo spettatore «di entrare in tanti set differenti, per vivere diverse esperienze iniziando proprio dalla cassa del cinema. Poi si prosegue varcando delle soglie di luce che segnano l’ingresso nell’immaginario cinematografico».
Il percorso attraversa luoghi felliniani come, ad esempio, il famoso cinema Fulgor dove il regista vide i primi film, ma anche il libro dei sogni completamente interattivo.
La mostra è stata costretta domenica 8 marzo alla chiusura per via del Covid-19.
È, però, possibile una visita internettiana guidata da Marco Bertozzi curatore con Anna Vìllari dell’esposizione che si avvale del progetto multimediale di Studio Azzurro.

Per la visita guidata: CLIC!

Per interviste sul futuro Museo: RICLIC!

Qui un attraversamento delle sale in un video di Studio Azzurro.


Maraini dal Teatro dell'Acqua

Estratto da un comunicato stampa.

«Restare a casa vuol dire guadagnare un tempo in più, che ci permette di leggere un bel libro che con un battito di ali ci porta lontano, col tempo dinamico dell’immaginazione, in un paesaggio sconosciuto e tutto da percorrere.
Con queste parole, Dacia Maraini, chiudeva l’articolo pubblicato su ‘Sette’ del Corriere della Sera in marzo, una riflessione sui tempi della pandemia e di quarantena forzata.
Per aiutare a riempire queste giornate e fare viaggiare la mente, ecco alcuni video-consigli di lettura della
direttrice artistica del festival Il Teatro sull’Acqua».

Di questo teatro acquatico trovate notizie su di un servizio realizzato su questo sito nel settembre dell’anno scorso.

Chi erano le “beghine”? Quando si parla di loro? E Filippo il Bello era solo Bello?
Facciamoci guidare nelle risposte proprio da Dacia.
Riguarda il libro “La notte delle beghine” di Aline Kiner. Editore Neri Pozza 2018.
Per il video consiglio: CLIC!

Successive proposte saranno pubblicate nelle prossime settimane sullo stesso link.

Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web
Ufficio stampa: Anna Maria Riva, riva@annamariariva.eu [][][] 329 - 097 44 33



Cosa hanno mai fatto gli ebrei?


Durante gli anni ’50 e fino ai primi ’60 era generalmente proibito parlare del fascismo.
La legge Scelba del ‘52, prevedeva cospicue pene per chiunque avesse tentato di ricostituire il Pnf o esaltato il vecchio regime. I fascisti propagandavano la faccenda come una forma di persecuzione nei loro riguardi, era, invece, una delle cose che più li favoriva… vuoi mettere non parlare di Gobetti, Matteotti, dei Rosselli, e di tutti gli altri crimini commessi fino al ‘45 insieme con gli uomini di Hitler?
Secondo molti il ministro promulgò quella legge onde parare gli attacchi da sinistra per le violente repressioni da lui fatte praticare, da Ministro degli Interni, contro manifestazioni sindacali e del Pci. Negli stessi anni, a partire dalla fondazione del Msi avvenuta nel dicembre 1946, ci furono attentati di marca fascista, nel 1955 manifestazioni a Roma e anche in altre città contro il decennale della Resistenza, e altri segnali di risveglio neofascista mai perseguiti come era da farsi.

Andavo a scuola in quel periodo e ben ricordo che regnava il silenzio sui decenni che ci avevano preceduto. Anche nei libri di testo ci si fermava alla prima guerra mondiale. Nonostante quella legge (mai applicata nella sua interezza e ancora oggi evasa) prevedesse all’articolo 9 addirittura concorsi per la compilazione di cronache allo scopo di far conoscere ai giovani l'attività antidemocratica del fascismo.
Nella scuola italiana mai c’è stata, neppure nell’ora di storia, uno spazio riservato ad illustrare lo squadrismo, la perdita delle libertà civili, le leggi razziali.
Insomma, si preferì censurare invece d'illustrare.
Si ebbe allora un effetto sciagurato, poiché ai giovani e giovanissimi piace ciò che è proibito, ecco che la formazione “Giovane Italia” (emanazione del Msi) s’introdusse nelle scuole in nome delle manifestazioni per Trieste italiana e da lì mostrando il fascismo quale cosa vietata (e per questo più ambita e corsara) allargherà successivamente la propria base che fu in gran parte poi riversata nella destra missina o nella parte più reazionaria della Dc..

Premessa che mi permette di presentare un libro eccellente che ai giovani si rivolge per raccontare una delle tragedie che affligge da secoli l’umanità: l’antisemitismo che nel ventennio in camicia nera vide l'Italia, addirittura con apposite leggi, partecipare a feroci persecuzioni.
Il volume, pubblicato da Einaudi è intitolato Cosa hanno mai fatto gli ebrei? Dialogo fra nonno e nipote sull’antisemitismo.
Ne è autore un grande sociologo: Roberto Finzi.
Ha insegnato nelle scuole medie inferiori e superiori, poi all’università. Insieme con la ricerca scientifica ha sempre coltivato la divulgazione, scritta e orale, e si è occupato di strumenti per la scuola. Da molto tempo si interessa di antisemitismo e i suoi scritti sono stati tradotti anche in Argentina, Belgio, Brasile, Cina, Francia, Gran Bretagna, Giappone, Spagna, Stati Uniti.
Recentemente ha pubblicato Breve storia della questione antisemita.

Dalla presentazione editoriale
«“Cosa hanno mai fatto gli ebrei? Perché tanta gente ha creduto a quello che dicevano Hitler e i nazisti? Puoi aiutarmi a capire per quale motivo in tanti li odiassero a tal punto da permettere che fossero perseguitati?” Questa la domanda che Sofia pone a suo nonno, Roberto Finzi, grande studioso e autore di libri e articoli, in Italia e all’estero. Un dialogo fittissimo, un viaggio appassionante, mano nella mano, attraverso la Storia. Alla ricerca dell’origine e del significato dell’antisemitismo, un odio irrazionale e antico, mai del tutto sopito».

Roberto Finzi
Cosa hanno mai fatto gli ebrei?
Pagine 160, Euro 10.00
Einaudi


Radio Omero


Dai futuristi fu chiamata La Radia in un manifesto del 1933.
La radio, ancora oggi nel panorama dei media vede crescere il numero degli investimenti pubblicitari e degli ascoltatori (ad eccezione di Radio Rai che nella rilevazione degli ascolti del 2019 vede le sue tre reti tutte col segno “meno” e solo Isoradio col segno “più”).
Il mezzo radiofonico ha conosciuto trasformazioni non solo sul piano tecnologico, ma anche su quello del linguaggio e ciò, in Italia, si deve anche a una piccola parte delle radio che nacquero alla metà degli anni ’70, definite ”libere” con frettolosa euforia perché presto quelle antenne divennero, nella quasi totalità, commerciali. È accaduto, infatti, che molte radio cosiddette libere abbiano preso ad imitare la sussiegosità della Rai mentre questa s’è data al goffo inseguimento del nuovo modello radiofonico giovanilistico.

Afferma il cyberpensatore De Kerckhove che questo nostro tempo – da lui definito delle “psicotecnologie” – è contrassegnato dal suono molto più di quanto si creda. Porta ad esempio il grande consumo dei files audio, il walk ascolto, il successo dell’Mp3, la telefonia mobile. Insomma, dal panegirico della cecità come inno alla radio di Arnheim alla lettura sonora del silenzio che fa Cage, dalle ricerche scientifiche contemporanee sulla psicoacustica fino all’attenzione auricolare del progetto Seti che ricerca segnali extraterrestri, il suono sembra smentire, o almeno ridimensionare, la ricorrente espressione “civiltà dell’immagine” che si usa per indicare una delle principali caratteristiche della nostra epoca.
Ci sono ai nostri giorni ulteriori conferme.
Si pensi all'ArkDes di Stoccolma che presenta la prima mostra in museo con opere ASMR: (Autonomous Sensory Meridian Response): sensazioni provocate da un impulso esterno di natura uditiva o tattile.
Oppure al recente debutto della piattaforma podcast di Artribune dedicata alle arti visive.

Esistono piccoli musei che meriterebbero più spazio sui media e maggiore frequentazione dei visitatori che passano nelle città che li ospitano.
Uno di questi è il Museo Omero di Ancora, museo assai particolare perché è stato pensato per i ciechi e gli ipovedenti e, quindi, nelle sale il percorso è realizzato in modo che la percezione artistica passi attraverso suggestioni plurisensoriali extra visive. In altre parole, a differenza di quanto accade solitamente nei musei, là non ci sono teche o barriere, le opere anzi vanno proprio toccate.
Insomma, se sarete ad Ancona, quando i viaggi saranno nuovamente possibili, non perdete l’occasione di recarvi a quel museo, offre un percorso che apre anche al visitatore vedente una prospettiva nuova del sentire l’arte: il riconoscimento dei materiali, il modello tattile, gli effetti della sinestesia.
Del resto, Anassagora diceva “L’uomo pensa perché ha le mani”.
Il Museo pubblica anche una rivista vocale on line molto ben fatta Aisthesis.
Ora lì hanno varato una nuova iniziativa: Toccare l’arte alla radio pensata in collaborazione con Slash Radio Web.
Per tre giovedì alle 15:30, appuntamento con 30’00” curati dallo staff del Museo Omero per raccontare opere d’arte e artisti.
Responsabile del progetto è Andrea Socrati al microfono con la giornalista Chiara Gargioli.
Il direttore del polo museale Aldo Grassini interverrà per condurre gli ascoltatori in un viaggio tra i musei d’Italia.

Ecco un esempio di trasmissione

Museo Omero
Ancona, Mole Vanvitelliana
Banchina Giovanni da Chio 28
Telefono 071 - 28 11 935
Prenotazioni visite: 335 - 569 69 85
Fax 071 - 28 18 35 8
e-mail: info@museoomero.it
Sito vocale al numero verde 800 20 22 20
Ingresso libero


Carmelozampa finalista


Il Bologna Prize for the Children's Publishers of the Year, lo ricordo ai più distratti, è un riconoscimento annuale volto a premiare i migliori editori del mondo in ciascuna delle seguenti aree geografiche: Africa, Asia, Europa, Centro America e America Latina, Nord America, Oceania.
Premia le case editrici che si sono distinte maggiormente per il carattere creativo e la qualità delle scelte editoriali nel corso dell’ultimo anno. Due gli obbiettivi: valorizzare il progetto editoriale, mettendo in luce le competenze professionali delle case editrici, e favorire la conoscenza reciproca e gli scambi tra i paesi e le diverse anime culturali del mondo.

Per quel premio, cinque editrici più votate in ciascuna delle prima citate aree geografiche entrano in una lista di finalisti sulla base della quale i soli editori espositori di Bologna Children’s Book Fair decreteranno i vincitori con il loro voto, entro il 23 aprile.
Tra i finalisti 2020 (Éditions Mijade, Belgio; Liels un Mazs, Lettonia; Pato Lógico Edições, Portogallo; Samokat Publishing House, Russia) c’è meritatamente un marchio italiano: Carmelozampa.

“Siamo emozionate” – dicono in casa editrice – “sorprese e grate per questo riconoscimento, per una casa ancora relativamente giovane come Camelozampa. In un momento buio come quello che stiamo vivendo, scoprirci tra i finalisti al Bologna Prize for Best Children's Publishers of the Year, insieme ai migliori editori di tutto il mondo, è un enorme incoraggiamento a proseguire il nostro lavoro editoriale. Ci commuove pensare a tutti i colleghi editori che da tutto il mondo hanno segnalato la nostra editrice come candidatura per il BOP: cercheremo di essere all'altezza di tanto affetto”.

Tra i punti di forza dell’editrice la riscoperta di capolavori internazionali mai apparsi in Italia oppure da tempo non più disponibili, titoli di autori come Quentin Blake, Anthony Browne, Michael Foreman, Crockett Johnson, Tony Ross, Jimmy Liao, Chen Jiang Hong, Marie-Aude Murail, Alki Zei, Evghenios Trivizàs e altri ancora.
A queste riscoperte s’affianca un lavoro creativo di produzione, grazie ad autori e illustratori, italiani e stranieri, uniti in un percorso tanto affascinante quanto imprevedibile qual è quello che porta alla nascita di un libro per ragazzi.

Per un’occhiata alle novità: CLIC!

Ufficio stampa Camelozampa | | info@camelozampa.com | | 338 – 720 13 13


voglio vedere dio in faccia (1)


L'Agenzia X che preferisce la dizione di laboratorio editoriale a quella di casa editrice (ben merita di essere visitato il suo catalogo), ha pubblicato voglio vedere dio in faccia framMenti della prima controcultura.
Un’antologia di scritti firmati da Gianni De Martino scelti e coordinati a cura di Tobia D’Onofrio.
De Martino è stato cofondatore del famoso “Mondo Beat” su cui Matteo Guarnaccia scrisse «... in quel giornaletto ciclostilato, venduto per strada e sottoposto a censure e sequestri da parte delle autorità, trovarono posto i primi vagiti della contestazione, citazioni buddiste, tirate antimilitariste […] obiezione di coscienza, controllo delle nascite, preoccupazioni ecologiche, dubbi sul primato dell’Occidente, rifiuto di delegare ai partiti (anche quelli di sinistra) il proprio potere di cittadini, critiche alla famiglia patriarcale».
Ma non c’è solo “Mondo Beat” fra le imprese di De Martino, infatti, ha diretto “Mandala. Quaderni d’oriente e d’occidente” e collaborato con “Pianeta Fresco”, “Alfabeta”, “Re Nudo”.
Ha pubblicato per Urra “Odori”, mentre è di Costa & Nolan “Capelloni & Ninfette”.
Sta preparando una nuova edizione del saggio sulla transe “Dallo sciamano al raver" di Georges Lapassade per la casa editrice Jouvence Mimesis Edizioni.
Considerato uno dei pensatori del movimento psichedelico, ha viaggiato a lungo in Africa e in Estremo Oriente.
QUI il suo sito web.

Scrive Tobia D’Onofrio nella Prefazione: … questo lavoro da un lato può essere considerato come una retrospettiva della lunga e variegata “esperienza” di De Martino che evidenzia gli aspetti cruciali della spiritualità insita nella controcultura hippie e post-hippie attraverso interviste e testi che fino ad oggi risultavano pressoché introvabili (…) dall’altro può senz’altro essere letto come un (profetico) sguardo bruciante sul presente, pieno di suggerimenti validi per aprirci a un futuro di maggior libertà.

Dalla presentazione editoriale.
«Di questo moto psichedelico planetario non abbiamo altro ricordo che quello dei fiori, di qualche grido d’amore universale e un ritornello dei Beatles. Abbiamo dimenticato che si trattava di uno sconvolgente movimento mistico dove, nel tentativo di spalancare le porte della percezione, si alleavano gli psichedelici, una gioia eccessiva e il nome di Dio.
Una profonda immersione nella spiritualità della prima controcultura beat/hippie mette in luce la sua influenza sul presente. Un cut-up di scritti di Gianni De Martino dagli anni Sessanta a oggi svela uno stato d’animo simile a una febbre i cui i germi provengono da lontano: dal Dioniso di Nietzsche che prometteva di trasformare la vita in un’ebbra vacanza, da Rimbaud che sognava il Natale sulla terra, forse dal giovane Siddharta o da chissà quale altro demone di passaggio. Lo sguardo acuto, poetico e implacabile dell’autore ci accompagna in una narrazione senza tempo tra una serie di problematiche sociali, antropologiche e politiche, ancora “non riconciliate”, lasciando emergere un’originale chiave di lettura del contemporaneo e una visione estatica del mondo simile a quella dei “nuovi dionisiaci” delle culture giovanili attuali.
Con interviste a Michael Crichton, Dalai Lama, William Gibson, Albert Hofmann, Georges Lapassade, Michel Maffesoli, Fernanda Pivano.
A cura di Tobia D’Onofrio».

QUI un assaggio delle pagine

Segue ora un incontro con Gianni De Martino.


voglio vedere dio in faccia (2)

A Gianni De Martino (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro e il suo titolo?

Nasce fondamentalmente dall’incontro con Tobia D’Onofrio, giovane scrittore coinvolto nella cultura rave, che si è proposto di curare un cut-up di miei articoli e interviste dal 1967 ad oggi. Il titolo è una “scossa” che nasce da una frase dei Diari di Kerouac, quando in “Un mondo sbattuto dal vento” scrive: “Dio, devo vedere il tuo volto questa mattina”. Fu questo strano desiderio ad animare i primi ricercatori della rivoluzione psichedelica, tormentati dalla trascendenza e accomunati da un certo timore per il sesso e un costante interesse per sogni e visioni. Pensavo che, nel mettere insieme i miei “pezzi” usciti, nel corso di mezzo secolo, per diversi giornali e riviste, ne sarebbe uscito un libro-patchwork, invece il tutto ha una sua coerenza, unità ed eleganza; direi che Tobia ha cucito un abito da sartoria. Se non come santi, potremmo essere ricordati perlomeno come bravi sarti.

Qual è il contrasto fra gli elementi che furono il motore della prima controcultura e quelli del ’68?

Vivevamo in un periodo magico. Ai tempi del “Mondo beat” (1966-67) , i primi “capelloni” (un termine inventato dalla stampa di regime, e che non ci piaceva) erano animati da un desiderio spontaneo di accomunamento. Non cercavano lo scontro frontale e, pagando di persona, si sottraevano alla Famiglia, alla Scuola, al Partito e all’Oratorio. Come prima avevano fatto i teddy boys, suscitarono allarme morale, in un’Italia stretta tra la Dc degasperiana e il Pci ancora in parte stalinista. Si pensava di potersi sottrarre all’ordine esistente, il cosiddetto Sistema, per trovare il significato della vita nell’esperienza soggettiva anziché nel riconoscimento oggettivo, mentre i sessantottini volevano portare l'immaginazione, la loro immaginazione, al potere. E covavano l'illusione di una Rivoluzione che si rivelò simile a uno psicodramma. Il '68 scoppiò a corto circuito, dall'incontro delle tematiche esistenziali dei beat con quelle politiche del movimento operaio e studentesco. E questa doppia anima, una esistenziale e libertaria, l’altra politica ad oltranza e piuttosto settaria, fu sempre presente nel movimento che per comodità chiamiamo il 68, anche se è durato più di dieci anni, soprattutto in Italia.

Il movimento del ’77 riuscì a fondere in sé quegli elementi prima contrapposti?

Ci provò. Per la società italiana, il ’77 fu un anno drammatico di guerriglia di strada e P38 ma anche dei fantasiosi indiani metropolitani, dei sadhu di quartiere e di una diffusa creatività giovanile e visione festiva dell’insurrezione.

Quale aspetto delle rivolte giovanili di oggi è più vicino, o meno lontano, a quello di cui si occupa “voglio vedere dio in faccia”?

Ci sono state rivolte giovanili nei paesi arabi e oggi scontri dall'Ecuador a Hong Kong . Il filo conduttore, ieri come oggi? Nessuna fiducia nella politica.

Internet in che cosa ha modificato – se ritieni che lo abbia fatto – e in quale direzione la coscienza delle nuove generazioni?

Staccarsi dal corpo e dalla fisicità e materialità del mondo. Forzando un po’ le cose, il sociologo Michel Maffesoli, una cui intervista figura nel libro, parla addirittura di “comunione dei santi”. Nello stesso tempo, si percepisce come una minaccia, quella di essere governati dalla sovranità degli algoritmi.

…………………………………

Gianni De Martino
A cura di Tobia D’Onofrio
voglio vedere dio in faccia
Pagine 232, Euro 15.00
Con corredo iconografico b/n
Agenzia X


Pierrot le Fou


In arabo Mektoub significa È scritto.
Quelle 7 lettere erano tatuate sul corpo di Pierre Carrot, noto nel secondo dopoguerra alla cronaca nera e alla polizia francese quale “Pierrot le Fou”.
Alto, robusto, capelli castani, coraggioso, rapinava dileguandosi poi come un fantasma, sparava come non riesce a nessun fantasma, rilasciava interviste spavalde, e spericolate visto ch’era un latitante, beffando ripetutamente i poliziotti che gli davano la caccia.
E ancora: tombeur de femmes (siamo in Francia, o no?... là dicono così).
E fu proprio per rincorrere l’italiana Katia, il suo grande amore, che la sua fuga finì a Parigi la sera di un caldissimo mercoledì 28 luglio 1948. Finì sui tetti dopo un tentativo di fuga attraverso un camino finendo in mutande, sporco di fuliggine tra i poliziotti capitanati da un certo Borniche che è per Pierre quello che fu Javert per Mario dei Miserabili (siamo in Francia, o no?). Arrestati con lui anche un amico di Pierre e Katia.
Mektoub.
Due giorni dopo l’arresto si fa fotografare dai giornali mentre stringe fra le mani il libro “Sputerò sulle vostre tombe” di Boris Vian. Scelta letteraria voluta? Chissà.

La storia di questo bandito che non riesce ad essere antipatico nonostante gli omicidi commessi e un comportamento non da “duro” perché negli interrogatori fece i nomi di parecchi suoi complici, è stata pubblicata da Edizioni Oltre, è intitolata Pierrot le Fou Storia del bandito che leggeva Boris Vian e della sua donna
Ne è autore Massimo Novelli.
Torinese, scrittore e giornalista, ha scritto diversi libri di storia e di letteratura.
Nella sua bibliografia: “L’uomo di Bordighera. Indagine su Guido Seborga” (Spoon River, 2003); “Corbari, Iris e gli altri. Un racconto della Resistenza” (Spoon River, 2003); “La furibonda anarchia. Vite di Renzo Novatore, poeta e Sante Pollastro”; bandito (Araba Fenice, 2007); “La cambiale dei Mille e altre storie del Risorgimento” (Interlinea, 2011); “La grande armata dei dispersi e dei visionari. Vita dello scrittore Stefano Terra” (Ediesse 2015); “Vita breve e rivoluzioni perdute di Napoleone-Luigi Bonaparte” (Aragno, 2019).

Autore che merita ogni elogio perché scrive una biografia vera (fra poco accennerò a quelle inaffidabili), scrupolosamente, serratamente, documentata riuscendo a tenere il lettore avvinto alle pagine come leggesse un giallo di cui non sa come finisce, mentre, invece, fin dalle prime righe è detto dell’arresto di Pierre, anche se nel finale un colpo di scena c’è e qui non lo rivelo sennò alle Edizioni Oltre s’incazzano.
Inoltre, non è una storia facile facile da raccontare, perché i Pierrot le Fou sono ben due e la faccenda è complicata dal fatto che Pierre Carrot (il numero 2 nel libro) ha militato nella banda di Pierre le Fou com’era chiamato per primo un truce Pierre Loutrel dapprima collaboratore della Gestapo e poi approdato (forse per salvare la pelle) nella Resistenza.
Questo e altri fitti intrighi sono narrati da Novelli in modo che tutto scorra chiaro agli occhi di chi legge. Questa sì che è una biografia vera.

Dicevo prima di quelle inaffidabili. Alla maniera del Codice Penale che prevede pene per i cittadini (o per una parte di loro, perché la Giustizia sempre giusta non è e alcuni li risparmia) mi piacerebbe esistesse un Codice (questo sì valido per tutti), che punisse i reati commessi in Letteratura.
Fra i più gravi, quello di scrivere una biografia romanzata; andrebbero comminate severe pene. Purtroppo, vanno di gran moda. Non le pene, le biografie romanzate.
Dialoghi inventati, personaggi addirittura inesistenti che fanno capolino in quelle pagine, episodi tinteggiati in pomodorocolor, e altre mascalzonate nere come l’inchiostro.
Quando ne scorgo una di quelle biografie, cerco un pusher per trovare conforto… dite che ogni scusa è buona?... credete d’essere spiritosi?...
Amo, invece, le biografie, quelle vere. Uno dei testi più difficili da scrivere, perché lì ogni virgola fuori posto viene castigata. In quel genere letterario, infatti, il lettore vuole e ha diritto d’apprendere sul personaggio illustrato dal biografo esattezze di date, citazioni di documenti, particolari riferiti da testimoni e conoscerne attraverso l’autore la valutazione della loro attendibilità, eccetera.
Specialmente se il ritratto appartiene a una persona vissuta in epoca non lontanissima dov’è possibile rinvenire tracce di documenti.
Ecco perché scrivere una biografia è faticoso: fare viaggi per conoscere bene i luoghi dove si svolsero i fatti, intervistare persone, recarsi in biblioteche, tribunali, consultare emeroteche, referti medici presso ospedali… mica starsene lì, occhi al cielo e penna in mano, a inventare fandonie.
La biografia romanzata è un ibrido da perdonare, forse, giusto a Senofonte per la sua ‘Ciropedia’, e pure in quel caso quasi quasi ho i miei dubbi.
Le opere di Schwob o Borges? Via, sono tanto immaginarie da non esserlo, e poi confonderli con certi pseudobiografi romanzieri di oggi è come confondere Janis Joplin con Iva Zanicchi.

Dalla presentazione editoriale
«Chi era Pierre Carrot, più conosciuto con il soprannome di Pierrot le Fou, considerato dalla polizia francese il nemico numero uno? Ce lo racconta in questa straordinaria e avvincente biografia, che ha nella scrittura il ritmo di una scarica di mitra, Massimo Novelli, giornalista torinese di lungo corso, autore fin qui di libri dedicati a significative figure della storia minore e della letteratura come Guido Seborga, Renzo Novatore, Sante Pollastro, Stefano Terra e altri. Pierrot le Fou è il protagonista delle cronache degli anni che vanno dal 1940 al dopo guerra con la leggenda delle sue imprese, del suo amore per la bella Katia e della sua incerta uscita di scena. Massimo Novelli ce ne fa un ritratto a tutto tondo sullo sfondo dell’epoca, quello degli esistenzialisti, delle caves, di Juliette Greco, Sartre e Boris Vian, che lui, tra una rapina e l’altra, tra un carcere, una fuga e l’altra, ha attraversato»

Massimo Novelli
Pierrot le Fou
Introduzione di Mario Quattrucci
Pagine 182, Euro 16.00
Oltre Edizioni


Bad Trip on line


Nel novembre del 2006 ci lasciò Gianluca Lerici alias Prof Bad Trip.
Era nato a La Spezia nel 1963.
Un grande poliartista perché la sua attività spazia tra fumetti, pittura, collage, musica.
Quella più nota è di fumettista, non a caso l’opera sua più famosa è l'illustrazione del Pasto nudo di William Burroughs pubblicato da Shake Edizioni.

“In lui una incredibile mescolanza di soluzioni tecniche e di culture visive” – come scrisse sul suo lavoro Crack Fumetti Dirompenti – “ascendenze hard core, deliri psichedelici, cut up, ritmi techno, allucinazioni centro americane, tutto si è fuso nelle diverse mostre e pubblicazioni: Blade Runner, Starship, Robota, Psyconautica, Il Pasto Nudo, Alter Vox, Double Dose, Bad Mutants, La Bestia. Suoi disegni sono apparsi in Primo Carnera, Stampa Alternativa, Shake, Comicland, Bizzarre, e altri.

Anni fa (non ricordo con precisione quale) gli dedicai un numero della sezione Nadir di questo sito con interventi di Vittore Baroni, Barbara Martusciello, Andrea Provinciali.
Artribune ha dato adesso notizia - con una presentazione di Valerio Veneruso - che è approdato on line Hanno paura di me un documentario, realizzato nel 2016 da Andrea Castagna e Carmine Cicchetti.
Nel video commenti su Prof Bad Trip di Vittore Baroni, Renzo Daveti (Benzo), Jena Marie Filaccio, Marco Cirillo Pedri.
Voce di Matteo Ridolfi.


Ricordo di Jacqueline Risset


Oggi 8 aprile è la data in cui 720 anni fa cominciò il famoso viaggio poetico di Dante Alighieri.
Su come si è giunti a stabilire anno, giorno e ora di quella partenza: CLIC.

All'estero tante le traduzioni delle sue opere, con tutto il rispetto per quegli attenti traduttori, va detto che, a parere degli esperti, la traduzione più luminosa sia quella in francese prodotta in otto anni di lavoro da Jacqueline Risset (in foto).
Ha scritto Yves Bonnefoy “Si deve a Jacqueline una traduzione della Divina Commedia che ha fatto epoca, e che con ogni probabilità resterà un punto di riferimento fondamentale”.
Quella mirabile riuscita si deve al fatto che oltre ad essere una grande italianista, Risset è stata una grande poetessa.
La conobbi in occasione di una trasmissione radiofonica di cui eravamo lei ed io ospiti, dopo la registrazione e scambio di recapiti ci siamo visti alcune volte e sempre per me è stato un ascolto godibilissimo di quanto diceva in modo leggero cose profonde.
L’ultima volta, anni fa, la sentii al telefono e accettò il mio invito a una conversazione nella taverna dell’Enterprise che gestisco su questo sito.
Nata a Besançon nel 1936 ci ha lasciati a Roma il 3 settembre 2014.

Il marito, il latinista Umberto Todini all’Istituto francese di Roma l’ha ricordata con parole eleganti e appassionate che v'invito a leggere.


Microgrammi


L'Adelphi ha varato un’originale iniziativa editoriale che è una proposta di sintetica lettura che, però, va oltre l’assaggio di pagine perché si tratta di un piccolo integrale testo.

Dal comunicato stampa

«Per chi li fa e chi li legge i libri sono – volendo usare il titolo di uno degli ultimi che siamo riusciti a stampare – una forma di concupiscenza. Di cui non è facile liberarsi, anche in circostanze avverse. Specie in circostanze avverse. Costretti alla clandestinità, i libri prosperano. È già accaduto non poche volte – e adesso tentiamo di farlo succedere di nuovo.

Così abbiamo deciso di farvi leggere alcuni dei testi che avremmo pubblicato in queste settimane e che usciranno in un futuro imprecisato. Più qualcosa d’altro che non era immediatamente in programma e qualcosa che non lo era affatto.

In questa serie troverete quindi racconti di vario genere, tratti da volumi più ampi, nonché brevi inediti. In un caso e nell’altro, abbiamo cercato di dare a questi minuscoli libri la forma non di un estratto, ma appunto di un libro autonomo, per quanto in miniatura. È una deformazione professionale, verosimilmente: ma ci ostiniamo a rimanerle fedeli»
.

CLIC per la vetrina dei Microgrammi


Fronde di alloro


Il titolo di questa nota lo uso per segnalare tesi di laurea dedicate alle arti visive, al cinema, alla letteratura, alla musica, al teatro.
Perché la corona d’alloro è legata alla laurea? Leggete QUI e lo saprete.

Oggi è di scena Giacomo Goslino che presso l’Università degli Studi di Genova, nel corso di Laurea Magistrale in Storia dell'Arte e Valorizzazione del patrimonio artistico si è laureato con la tesi “Presenze liguri alle Quadriennali d'Arte Nazionale di Roma”.
Relatore: prof. Matteo Fochessati. Correlatore: prof. Leo Lecci.
La ricerca è stata realizzata al fine di ordinare scientificamente la partecipazione degli artisti liguri in occasione delle prime quattro edizioni della Quadriennale d'Arte Nazionale di Roma, delineando altresì le modalità attraverso le quali la cultura artistica ligure è stata percepita “dal di fuori” nell'àmbito di una rassegna espositiva nazionale degli anni Trenta. Oltre ai profili degli artisti maggiormente presi in considerazione dalla critica dell'epoca, nel testo si accenna anche al rapporto tra la produzione artistica e la cultura ufficiale del Regime.

A Giacomo Goslino (in foto) ho rivolto alcune domande.

Quali interessi e curiosità ti hanno spinto a scegliere l’argomento della tesi?

L'arte degli anni Venti e Trenta ha costituito per me motivo di interesse dapprima in ambito universitario e in seguito è diventata oggetto di studio e approfondimento anche dal punto di vista professionale. Da alcuni anni a questa parte lavoro infatti, sotto la guida di Tito Pelizza, gallerista esperto e raffinato conoscitore della pittura e della scultura ligure e italiana dell'Ottocento e del primo Novecento, presso la Galleria Arte Casa, storica galleria d'arte di Genova, punto di riferimento per i collezionisti e gli appassionati dell'arte dell'epoca.
Movimenti quali la Metafisica, il Novecento Italiano e il Realismo Magico e, più in generale, le dinamiche artistiche relative al primo ritorno all'ordine, si caratterizzano, sia dal punto di vista formale e stilistico, sia da quello contenutistico e poetico, di elementi riconducibili all'arte di epoche passate, l'arte classica ad esempio, e al contempo permettono di comprendere la ricerca artistica di epoche successive. Mi riferisco in particolare al secondo ritorno all'ordine, che nasce intorno alla metà degli anni Settanta e si sviluppa lungo tutto il decennio Ottanta. Data la particolare connotazione estetica, l'arte degli anni venti e trenta ha veicolato le istanze sociali e politiche dei regimi totalitari e dei movimenti rivoluzionari, ma ha trovato terreno fertile anche laddove regimi non v'erano, caratterizzando così la produzione artistica di un'epoca a tutto tondo. Utile a comprendere determinati contesti storici e sociali, non è possibile l'approccio all'arte di quegli anni senza che ci si ponga interrogativi di carattere interdisciplinare sul significato dell'arte.

Per la nascita della Quadriennale molto s’impegnò Cipriano Efisio Oppo che poi ne governò le prime quattro edizioni (1931, ’35, ’39, ’43). Di fede fascista, seguì Mussolini anche nella Rsi. È riconoscibile o no l’influenza del fascismo sul piano espressivo? E quale ci fu – se ci fu – nella selezione degli artisti?

L'influenza del regime sulla produzione artistica dell'epoca è innegabile, è tuttavia necessario scendere un po' più nello specifico. La conditio sine qua non per poter partecipare alla manifestazione era l'iscrizione al Sindacato di Belle Arti, il quale organizzava rassegne espositive a livello locale e nazionale, permettendo all'artista di farsi conoscere e di poter accedere tanto alle esposizioni quanto ai concorsi. Il regime in tal modo monitorava da vicino la produzione artistica, assecondandola ma anche, in un certo senso, depotenziandola. Interessanti a tal proposito le dichiarazioni di alcuni operatori culturali impegnati nell'organizzazione della rassegna, mi riferisco in particolare a Oppo e Bottai, i quali, a proposito di come sarebbe dovuta essere l'arte fascista, non forniscono indicazioni precise, ma sottolineano l'importanza di evitare le ridondanze e gli eccessi celebrativi e retorici. Per dirla con Calvesi, «per evitare che designando un'arte fascista, le espressioni devianti fossero considerate antifasciste. Ciò avrebbe comunque generato malumore nei loro fautori così emarginati, fomentando inutili discussioni, scontentando una parte significativa del ceto intellettuale. Nulla è più difficilmente governabile dell'arte, e il regime lo sapeva».

È rintracciabile fra gli artisti liguri di quelle Quadriennali un’omogeneità di tendenza? O furono rappresentate più correnti?

Innanzitutto, è necessario determinare cosa si intende per “artisti liguri”. Come accennato nella risposta precedente la condizione necessaria per partecipare alla manifestazione era l'iscrizione al Sindacato di Belle Arti, il quale aveva sezioni cittadine, provinciali e regionali. Tutti coloro che erano iscritti al sindacato della Liguria sono da identificare come artisti liguri, e sono stati inseriti nella ricerca. Per motivi di completezza sono stati inseriti altresì artisti non liguri ma residenti in Liguria all'epoca della rassegna, o comunque legati artisticamente alla regione; Arturo Martini, Alberto Salietti, Francesco Messina, Arturo Tosi, per citarne alcuni. E sono stati considerati “liguri” anche coloro che, nati in Liguria, hanno seguito altre strade per motivi biografici: si veda ad esempio Enrico Paulucci, nato a Genova ma trasferitosi in giovane età in Piemonte e diventato poi figura di riferimento dei Sei di Torino. In linea generale è possibile parlare di un'omogeneità di tendenza, rintracciabile nella tradizione figurativa della pittura di paesaggio che a partire dalla rivoluzione tonale promossa dai pittori della Scuola Grigia, da Ernesto Rayper su tutti, passando per i marinisti Giuseppe Sacheri e Andrea Figari, i divisionisti Plinio Nomellini, Rubaldo Merello, Giuseppe Cominetti e Sexto Canegallo, giunge alle tante sfaccettature del Novecento, di cui gli artisti che hanno esposto in occasione delle prime quattro edizioni della Quadriennale sono esempio. Un discorso diverso vale invece per la scultura, i cui esponenti seguono direzioni abbastanza personali, prediligendo elementi naturalisti o simbolisti, influenzate tuttavia dalla presenza in Liguria di personalità quali Martini e Messina.

Degli artisti liguri che parteciparono alle Quadriennali da te esaminate, chi sono i nomi che riscuotono ancora oggi un interesse di critica e di mercato? E quali condizioni hanno permesso loro, a differenza di altri, di resistere oltre quegli anni lontani?

Sono numerosi gli artisti che hanno contribuito, in fatto di innovazione stilistica, alla variegata temperie artistica dell'epoca. Analizzando i documenti relativi agli acquisti, tanto pubblici quanto privati, e la rassegna stampa dell'epoca, Oscar Saccorotti, Emanuele Rambaldi, Eso Peluzzi, Arturo Martini, Luigi Bassano, Amighetto Amighetti, Francesco Messina, Paolo S. Rodocanachi, Alberto Salietti, risultano i nomi più ricorrenti. I medesimi artisti risultano inoltre riscuotere l'interesse del collezionismo privato odierno e figurano sovente nei percorsi espositivi delle mostre organizzate dai musei cittadini e nazionali. Sarebbe doveroso soffermarsi su ogni artista menzionato, ma per questioni di spazio, mi limito ad accennare alla straordinaria figura di Oscar Saccorotti, artista poliedrico e affascinante, pittore, incisore e ceramista, la cui Opera è stata di recente oggetto di un'interessante mostra antologica allestita presso la Wolfsoniana di Genova. Da sottolineare è il fatto che rispetto agli artisti citati in precedenza, il cui interesse dal punto di vista collezionistico è tanto ma è limitato alla fase storica del loro percorso, ovvero agli anni Venti e Trenta, per quanto riguarda Saccorotti prosegue nel dopoguerra e interessa l'intera parabola cronologica della sua vita. Un'opera del pittore è stata tra l'atro inserita, al fianco dei grandi nomi dell'arte italiana quali Casorati, Sironi e Funi, nel percorso espositivo della grande mostra Anni Venti in Italia. L'età dell'incertezza, curata da Matteo Fochessati e Gianni Franzone presso Palazzo Ducale a Genova.


I militari italiani nei lager nazisti (1)


La casa editrice il Mulino ha pubblicato un libro prezioso intitolato I militari italiani nei lager nazisti Una resistenza senz’armi (1943 – 1945)
Ne sono autori Mario Avagliano e Marco Palmieri

Avagliano, giornalista e storico, collabora alle pagine culturali del «Messaggero» e del «Mattino». Tra i suoi libri: «Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945» (Einaudi, 2006) e «Il partigiano Montezemolo» (Baldini & Castoldi, 2012)
Palmieri, giornalista e storico, è autore di «L’ora solenne. Gli italiani e la guerra d’Etiopia» (Baldini & Castoldi, 2015). Insieme hanno pubblicato numerosi volumi, tra cui, con il Mulino, «Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte» (2014), «L’Italia di Salò» (2016), «1948. Gli italiani nell’anno della svolta» (2018, Premio Fiuggi Storia) e «Dopoguerra. Gli italiani tra speranze e disillusioni» (1945-1947)» (2019).

Il libro è ricchissimo di documenti, lettere, brani di diario che testimoniano il clima politico e psicologico in cui vissero circa 650mila soldati italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943.
Inoltre, ha il grande merito di riportare in primo piano un pezzo di storia che non ha avuto il rilievo che pur meritava. Cioè il ruolo di resistenti che ebbero tutti quelli (e furono moltissimi)I i quali una volta rinchiusi nei lager si rifiutarono di aderire alla repubblica di Salò. Scelta che, rischiando la vita (alcuni ce la rimisero) comportò loro una prigionia durissima più simile a quella di deportati che non di prigionieri di guerra.
In copertina la foto di Giovannino Guareschi, numero di matricola 6865 – 333, uno dei tanti che dissero “no” alla Rsi e di cui nel volume è ricordato un suo acrostico in “I” come Internato; la prima strofa così suona:

Ingannato, Malmenato, Impacchettato
Internato, Malnutrito, Infamato
Invano Mi Incatenarono
Inutilmente Mussolini Insistette
Iddio Mi Illuminò
.

Non è il solo nome noto che si trova nel libro ma tanti fra politici, giornalisti, parenti di personaggi oggi famosi. Qualche nome fra i tantissimi: Giovanni Ansaldo, Oreste Del Buono, Mario Rigoni Stern, Gino Marinuzzi, Luciano Salce, Gianrico Tedeschi, e Francesco Guccini padre del cantautore Francesco, Carmelo Carrisi padre di Al Bano, Nereo Reggio padre di Ezio, Carlo Rossi padre di Vasco, e l’elenco continua.

Dalla presentazione editoriale
«La storia degli IMI (internati militari italiani) è la storia dei circa 650mila soldati che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, furono catturati e deportati dai tedeschi. L’offerta di aderire alle SS o alla repubblica di Salò ed essere rimpatriati fu accettata solo da una piccola parte; la massa scelse di rimanere prigioniera nei lager, come autentico atto di resistenza. Grazie a una ricchissima mole di diari, lettere e testimonianze dirette, edite e ancor più inedite, il libro ne racconta la vicenda complessiva, dalla cattura alla liberazione e al ritorno, scoprendo anche aspetti poco noti della violenza nei lager, nei campi di lavoro coatto e di punizione, del loro bagaglio di ideali e di umanità, del rapporto con la popolazione civile e con le donne. Una pagina a lungo trascurata e sottovalutata recuperata qui, attraverso le voci dei protagonisti, in un quadro vivido e dettagliato».

Segue ora un incontro con i due autori.


I militari italiani nei lager nazisti (2)


A Mario Avagliano e Marco Palmieri (in foto) ho rivolto alcune domande.
Li sentirete rispondere con una voce sola: prodigi della tecnologia a bordo di Cosmotaxi.

Aldilà delle cifre di cui si è detto prima presentando il libro, chi sono, qual è il profilo storico dei militari italiani internati nei lager?

Gli internati militari italiani sono quei soldati, sottufficiali e ufficiali che furono catturati dai tedeschi all'indomani dell'8 settembre e furono condotti nei campi di prigionia del Reich e sottoposti a una drammatica scelta: restare prigionieri e subire il lavoro coatto, un'alimentazione del tutto insufficiente e non di rado violenze gratuite e omicidi, oppure aderire alle SS o all'esercito della Rsi. La gran parte di quei militari, circa l'80%, nonostante l'adesione comportasse la possibilità di rientrare in Patria, decise di dire "no". Uno di loro, Giovannino Guareschi, parlò di "volontari del lager". La loro scelta coraggiosa ebbe un significato politico, perché costituì una sorta di referendum negativo di massa contro il risorto fascismo, e un significato militare, perché l'impiego sul fronte di oltre seicentomila soldati forse non avrebbe cambiato la sorte del conflitto ma di certo avrebbe ritardato la liberazione dell'Italia, con un numero di stragi, di vittime e di distruzioni nettamente superiore.

Quale cosa avete deciso fosse necessaria prospettare nel volume assolutamente per prima e quale evitare assolutamente per prima?

Il libro inizia con un prologo che racconta come si era arrivati a quella situazione e come i tedeschi si fossero presentati all'appuntamento dell'armistizio dell'Italia con un piano d'azione ben preciso a fronte dell'improvvisazione del governo Badoglio. Era necessario partire dal clima del "Tutti a casa" dell'8 settembre per comprendere la tragedia degli Imi. Quanto alla loro vicenda, abbiamo cercato di scandagliarla a 360 gradi, senza reticenze, utilizzando per lo più documenti coevi che ci hanno consentito di approfondire i loro stati d'animo, sentimenti, illusioni e disillusioni: lettere, diari, brani di lettere intercettati dalla censura, oltre che relazioni delle autorità e filmati e giornali dell'epoca.

All’arrivo nei lager in quanti optarono per Salò? E quali le ragioni che li spinse a farlo?

Se la vicenda degli Imi che dissero “no” nel dopoguerra è stata a lungo trascurata e dimenticata, quella dei militari che invece fecero la scelta opposta e decisero di aderire ha rappresentato una pagina ancora meno nota e studiata. Certamente si è trattato di una scelta minoritaria, ma non per questo irrilevante. L’adesione avvenne in forme diverse. La prima si verifica direttamente sul campo, al momento del disarmo subito dopo l’armistizio, quando circa 94 mila uomini, tra cui la quasi totalità delle camicie nere della Milizia, accettano di passare con i tedeschi, sfuggendo così alla deportazione. In questa fase si registra il grosso delle adesioni per motivi ideologici e convinzione di voler continuare a combattere la guerra. Una seconda fase di adesioni, invece, si verifica dopo l’arrivo nei Lager, in due momenti diversi: richiesta di adesione alle SS italiane, richiesta di adesione alla Rsi, la cui nascita provoca una certa impressione in molti uomini per il ritorno di Mussolini e di un governo italiano fascista…

… ci furono altre adesioni?

… sì, seguirono poi altre adesioni durante tutto il primo inverno di prigionia, per le quali man mano si perde ogni motivazione politica e prevalgono quelle della sopravvivenza e della famiglia, uscendo dall’inferno dei Lager nella sola speranza di poter tornare a casa. Dall’inizio della prigionia all’estate del 1944, infatti, si contano circa 103.000 adesioni alla Rsi o alle forze armate tedesche, come combattenti o ausiliari lavoratori, pari a circa il 15% degli internati

Le condizioni di coloro che avevano rifiutato la Rsi?

Le condizioni di vita nei lager per chi non aderiva erano drammatiche, tant’è vero che la loro condizione è stata definita giustamente più simile a quella dei deportati che a quella degli altri prigionieri di guerra. All’arrivo nei lager i militari italiani subiscono le stesse umilianti pratiche dei deportati, tese ad annientare l’individuo in quanto tale, assegnandogli un numero di matricola e spogliandolo di tutto. La vita, poi, si svolge in baracche sudice e sovraffollate e le giornate sono scandite dal gelido d’inverno, dagli estenuanti appelli sui piazzali, dalle violenze dei carcerieri e dal rischio di essere uccisi avvicinandosi alle recinzioni. Più di ogni altra sofferenza pesa la fame. Questa condizione rimane tale per tutto il periodo della prigionia per gli ufficiali non aderenti, mentre sottufficiali e uomini di truppa vengono avviato immediatamente al lavoro coatto e ogni mattina devono fare lunghi tragitti a piedi per andare a svolgere turni di lavoro massacranti, per poi far ritorno dietro i reticolati del lager di sera.

È possibile tracciare una ripartizione ideologica fra coloro che non avevano aderito all’appello di Mussolini?

Le motivazioni che portano gli Imi a rifiutare l’adesione sono varie e molto diverse tra loro. Inizialmente solo per alcuni il rifiuto di continuare a combattere la guerra di Mussolini e Hitler è riconducibili a convinzioni antifasciste. Per lo più prevale la stanchezza della guerra, condotta in modo disastroso, che aveva disatteso tutte le aspettative iniziali, sottoposto a grandi sacrifici e drammi e non era più in alcun modo compresa o sentita propria. In altri casi prevale l’imitazione dei compagni o dei superiori più carismatici, in un momento di grande incertezza e confusione…

… esisteva oppure no anche un dibattito più propriamente politico?

Sì, ci fu. Nei Lager durante l’internamento si è assistito a quella che è stata definita una vera e propria scuola di democrazia, quando la scelta di non aderire reiterata più e più volte diventò anche oggetto di discussioni e analisi che portarono molti italiani nati e cresciuti sotto il regime a prendere le distanze e maturare un sincero distacco dal fascismo. Dietro i reticolati si discute di come dovrà essere il mondo dopo la guerra e dopo il fascismo, arrivando perfino a parlare di Unione europea, libertà, e appunto democrazia. E questa sarà la grande eredità “politica” che l’esperienza degli Imi lascerà all’Italia del dopoguerra.

Dedicate un capitolo alla “Posta, gli affetti familiari, l’amore e il sesso”.
Quale ritratto ne avete ricavato di questa parte spirituale e fisica dell’umanità prigioniera
?

Innanzitutto, va detto che l'incontro con esponenti dell'altro sesso durante la prigionia fu possibile quasi esclusivamente per soldati e sottufficiali che erano costretti al lavoro coatto nelle città, nelle fabbriche e nelle campagne, mentre gli ufficiali nei lager raramente ebbero tale occasione. Fare all'amore non era la priorità per gli internati che lottavano oggi giorno per la sopravvivenza ma nei periodi in cui in qualche modo alcuni dj loro riuscirono ad avere un trattamento migliore, ad esempio nelle fattorie, si svilupparono diverse relazioni sessuali o d'amore con donne polacche, francesi, cecoslovacche e anche tedesche che in qualche caso durarono oltre la guerra, trasformandosi in matrimoni. Ci furono soldati che sul treno del ritorno portarono con sé mogli o fidanzate e a volte anche figli.

Le principali difficoltà che trovarono questi militari tornando in Italia?

Gli internati militari tornarono in un'Italia diversa da quella che si aspettavano, che non li accolse con i festeggiamenti, le bandiere tricolori e le bande musicali, ma con un'indifferenza che a volte sconfinava addirittura nell'insofferenza per le loro storie e le loro vicende. Lo Stato non li considerò alla stregua di resistenti, come invece erano stati, e solo di recente molti di loro o i loro parenti hanno ricevuto una medaglia d'onore. Non ebbero neppure un aiuto economico e a trovare una degna occupazione. L'esercito non rivendicò la loro resistenza senz'armi, volendo mettere una pietra sopra la vergogna dell'8 settembre. La politica nel migliore dei casi li considerò una resistenza di serie b o c, a volte additandoli come degli imboscati. Per questo molti di loro si rinchiusero in un ostinato silenzio. In tantissimi casi i familiari hanno saputo che i loro cari erano stati Imi solo al momento della loro scomparsa, trovando diari, lettere o documenti che lo attestavano.

Perché, a parte lodevoli eccezioni come l’esistenza del vostro lavoro, non è vasta, come in altre cronache e riflessioni sulla Resistenza, la letteratura storica dedicata a questi militari che con rischi e sofferenze avevano rifiutato il fascismo?

Negli ultimi anni la storiografia e la memoria sugli Imi ha fatto notevoli passi avanti. È vero però che per troppo tempo la vicenda degli Imi non è stata adeguatamente ricompresa nella storia più generale della guerra di liberazione e non è stato evidenziato il valore della loro scelta come «altra Resistenza». Lo dimostra il fatto che la gran parte dei diari e dei carteggi che abbiamo utilizzato per scrivere questo libro è rimasta a lungo segreta o nota solo a pochi familiari…

… i motivi?

I motivi sono stati diversi: il desiderio del paese di voltare pagina e non sentir più parlare della guerra e delle responsabilità del fascismo; la loro resistenza in nome di un re e di una dinastia andati via dall’Italia; la scelta del silenzio da parte degli stessi reduci, delusi dal mancato riconoscimento della propria esperienza come contributo alla Resistenza; il fardello di aver combattuto la guerra voluta dal fascismo e la memoria della rovinosa dissoluzione dell’esercito all’indomani dell’armistizio, in un clima di tutti a casa. Solo più recentemente la scelta degli Imi è stata collocata più correttamente nel quadro della storia italiana di quel drammatico periodo, considerando pienamente il grande valore che essa ha avuto.

…………………………………..

Mario Avagliano
Marco Palmieri
I militari italiani nei lager nazisti
Presentazione di Enzo Orlanducci
Pagine 464, Euro 26.00
e-book euro 17.99
Formato: Kindle, ePub
il Mulino


Radio India

Diceva Marshall McLuhan "La radio, come qualunque altro medium, ha un suo manto che la rende invisibile. Ci si presenta apparentemente in una forma diretta e personale che è privata e intima, mentre per ciò che più conta è una subliminale stanza degli echi che ha il potere magico di toccare corde remote e dimenticate”.

Sarà, forse, anche alla luce di questa riflessione che nasce oggi a Roma Radio India dal Progetto Oceano Indiano.
Che cos’è Oceano Indiano?
Presto detto. Il bacino che lo accoglie è il Teatro India, che per tutto l’anno sarà abitato da cinque compagnie romane: DOM-, Fabio Condemi, Industria Indipendente, MK, Muta Imago. Queste cinque compagnie troveranno spazio per sviluppare i propri percorsi artistici e lavorare alle proprie produzioni. In quanto abitanti del Teatro India, condivideranno poi con la direzione artistica l’ideazione di un programma di appuntamenti pubblici.

In quel progetto s’inserisce la creazione di “Radio India” in collaborazione con Daria Deflorian.

Estratto dal comunicato stampa
«Radio India trasmette tutti i pomeriggi con formati intimi o più aperti, declinati attraverso rubriche quotidiane, invitando anche voci e figure che hanno attraversato il cartellone del Teatro India, nel desiderio di accendere un tempo di condivisione in cui ampliare il commento e l’approfondimento dei giorni presenti con l’immaginazione di mondi possibili.
Si inizia tutti i giorni (dalle 17 alle 17.10) con Muta Imago e la rubrica 4:33, che propone a un gruppo di persone la registrazione audio del brano di John Cage (titolo del programma); ogni ascolto è introdotto da un frammento di Silenzio di Cage; con Sparizioni, ogni venerdì (dalle 18.30 alle 19.10), si indagano concetti di sparizione e di evasione, a partire dalle registrazioni in hi-fi di ambienti dove l’essere umano non può vivere».

Cosmotaxi si felicita con Radio India inviando dallo Spazio un omaggio musicale che ha il nome di un altro paese che l’India non è.
Si tratta di Radio Ethiopia dall'album omonimo di Patty Smith. Buon ascolto.

Ufficio Stampa Teatro di Roma: Amelia Realino
tel. 06. 684 000 308 I 345.4465117
e_mail: ufficiostampa@teatrodiroma.net

Ed ecco il palinsesto settimanale di Radio India in streaming su www.spreaker.it

LUNEDÌ
17.00-17.10 4:33 (QUATTRO MINUTI E TRENTATRE) / Muta Imago
17.10 - 18.10 VANCOUVER / Michele Di Stefano
18.10 - 18.20 GUERNICA / Oceano Indiano

MARTEDÌ
17.00 - 17.10 4:33 / Muta Imago
17.10 - 18.10 SPECIE DI SPAZI / Fabio Condemi
18.10 - 18.30 Selezioni musicali a cura di Oceano Indiano
18.30 - 19.30 EXTRA / ospite della settimana del 6 aprile: Attilio Scarpellini
19.30 - 20.00 DEDICA / Oceano Indiano

MERCOLEDÌ
17.00 - 17.10 4:33 / Muta Imago
17.00 - 18.30 VIVERE TRA LE ROVINE / DOM-
18.30 - 19.00 GRUPPO 2020 / Industria Indipendente in collaborazione con lacasadargilla
19.00 - 20.00 Il disco della settimana

GIOVEDÌ
17.00-17.10 4:33 / Muta Imago
17.10 - 17.40 RECORD / Michele Di Stefano
17.40 - 18.00 Selezioni musicali a cura di Oceano Indiano
18.00 - 20.00 DENTRO LA KAMERA SPECULATIVA / Industria Indipendente

VENERDÌ
17.00-17.10 4:33 / Muta Imago
17.10 - 17.50 PERSONE / Daria Deflorian (intervistato della settimana del 6 aprile Francesco Alberici)
17.50 - 18.30 Selezioni musicali a cura di Oceano Indiano
18.30 - 19.10 SPARIZIONI / Muta Imago
19.10 - 20.00 DEDICA / Oceano Indiano

SABATO
17.00-17.10 4:33 / Muta Imago
17.10 - 18.00 TUTT* NELL* STESS* CAS* / Matteo Angius e Riccardo Festa
18.00 - 20.00 SUPERORGANISMO / Industria Indipendente

DOMENICA
17.00-17.10 4:33 / Muta Imago
17.10 - 20.00 BAGNO DI SUONO / Pescheria


La strega e il capitano


"La stregoneria proviene dai tempi negati alla speranza"
(Jules Michelet, 1798 – 1874).

"La caccia alle streghe è una vergogna della mente umana, un delirio psicopatico"
(Hugh R. Trevor-Roper, 1914-2003).

Ecco due opinioni che da epoche e paesi diversi convergono sullo stesso giudizio che è giudizio oggi accettato da tutti i più seri studi storici.
Non è da trascurare, però, il fatto che ancora adesso non solo in sette fondamentaliste – ma anche in seno alla Chiesa con esorcisti e altre nere tonache – esistano uomini e libelli che affermando l’esistenza del diavolo suggeriscano (purtroppo per loro senza l’ausilio di torture e roghi) nuove cacce alle streghe e demoni, scovandoli perfino in canzoni rock, rintracciando oscuri messaggi talvolta facendo girare i dischi al contrario come dj al servizio di una discoteca Celeste.
Le streghe, ecco un tema investigato dall’antropologia, dalla sociologia, dalla psicoanalisi, tutti pervenendo alla conclusione che quella psicosi derivi da una sessuofobia delirante, dalla denigrazione del corpo femminile, e dal praticare un’accanita persecuzione dell’immagine della donna nella società.
È roba che viene da lontano, da fonti autorevoli, basta aprire la Bibbia… è autorevole, non vi pare?... un esempio?... ve lo servo subito:
“Dalla donna ha avuto inizio il peccato,
per causa sua tutti moriamo” (Siracide, 25:24).

Un grande autore italiano, Leonardo Sciascia (Racalmuto, 1921 – Palermo, 1989) ha lasciato su di una donna realmente vissuta, creduta strega, un piccolo libro che nella sua produzione letteraria è una gemma di quel singolare intreccio fra narrazione e saggio di cui è un magnifico rappresentante.
Scrive Paolo Squillacioti curatore per Adelphi di tutte le delle opere dell’autore siciliano: “Ha dichiarato Sciascia «quando mi viene un’idea di qualcosa da scrivere, breve o lunga che sia, non so in prima se mi prenderà la forma del saggio o del racconto». Opera in lui, infatti, un «gioco costante di correlazione» tra queste due forme: il che fa sì che riesca a essere, come pochi altri, saggista nel racconto e narratore nel saggio”.
Il libro che propongo oggi, pubblicato dalla casa editrice Adelphi è intitolato La strega e il capitano, racconto della drammatica vicenda di Caterina Medici.
Attenzione, non è da confondere con la regina Caterina de’ Medici (1519 – 1589), il periodo in cui vissero è simile, Caterina Medici nacque, infatti, nel 1573 e morirà nel 1617.
Una cosa, però, unisce la memoria delle due donne: entrambe furono reputate fattucchiere. Ma gli esiti delle due vite furono molto diversi.
Caterina fu ritenuta strega dal capitano Vacallo e denunciata come tale al senatore Luigi Melzi, del quale era ospite. Il senatore aveva a servizio (con funzioni non solo d’igiene domestica) Caterina. La denuncia di Vacallo spiegava perché Melzi fosse afflitto da violenti attacchi d’insopportabili dolori al ventre. Lestamente attribuiti a un maleficio.
La cosa trovò molti ascolti. Dai medici, ai quali specie a quell’epoca non pareva loro vero d’attribuire a maleficio ciò che non riuscivano a diagnosticare; dalle pie e feroci suore di un convento; da magistrati che vedevano il diavolo dappertutto.
L’ultimo a convincersene fu proprio il dolorante senatore, infine anche lui se ne persuase.
Sciascia indaga tra i documenti dell’epoca, legge le carte del processo, profila i caratteri dei personaggi della storia, nella meticolosa e avvincente forma scrittoria che si rintraccia in un tutto il suo percorso storiografico: dagli “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel” a “La scomparsa di Majorana”, da “I pugnalatori” a “Dalle parti degli infedeli”, fino a “L'affaire Moro”.
È intuibile come le cose andarono a finire per l’innocente Caterina che sotto tortura confessò colpe immaginarie. Fine tragica la sua, illuminata dalle fiamme d’un rogo.
Questo è chiaro fin dalle prime righe, ma il godimento della lettura sta in due grandi capacità che ha Sciascia: raccontare col ritmo di un giallo che avvince chi legge per snodi narrativi e colpi di scena, e l’impianto di linguaggio usato che riesce a restituire il clima di un’epoca facendone al tempo stesso esercizio di critica civile.

Dalla presentazione editoriale
«Nel febbraio del 1617, a Milano, Caterina Medici, serva «carnosa ma di ciera diabolica», viene condannata al rogo: «Sia condotta sopra un carro al luogo del pubblico patibolo, ponendole sulla testa una mitra con la dicitura del reato e figure diaboliche, e percorrendo le vie e i quartieri principali della città col tormentarla nel corpo con tenaglie roventi, per poi essere bruciata dalle fiamme...». In apparenza, uno dei tanti casi di stregoneria depositati nei nostri archivi. Ma la scrupolosa, o meglio accanita, ricostruzione che all’atroce caso – ricordato da Manzoni nel XXXI capitolo dei Promessi sposi – dedica Sciascia in questo libro del 1986 ci mostra che non è così, giacché tutta la vicenda nasconde tra le pieghe interrogativi e zone d’ombra. Nello sbrogliare l’esasperante «pasticciaccio» con le cadenze e il montaggio di un thriller, egli non si limita tuttavia a consegnarci una delle sue inconfondibili miniature microstoriche, ma dilata l’avversione della Chiesa Cattolica per le «antiche fantasie e leggende» a immagine dell’eterno schema che vede ogni «sistema dominante» combattere tutte le fonti di «ingiustizia, di miseria, d’infelicità» nel momento in cui «ingiustizia, miseria e infelicità» vengono da quello stesso sistema «in maggiore quantità e con accelerazione prodotte». Ancora una volta quel che preme a Sciascia è scrostare dalla Storia le innumerevoli maschere del potere, sino a svelarne il volto ripugnante e primigenio. E ancora una volta egli riesce ad assimilarsi sapientemente allo stile dei documenti, affidando la luce del giudizio al contrappunto mentale dei lettori».

Per leggere le prime pagine: CLIC!

Leonardo Sciascia
La strega e il capitano
Pagine 76, Euro 15.00
Adelphi


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