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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Quando Darwin incontrò Flash Gordon (1)


Non è stato facile fare incontrare il grande scienziato con il noto personaggio dei fumetti. Anche perché il primo è nato nel febbraio 1809 e il secondo nel gennaio del 1934.
Però ,Marco Ciardi, storico della Scienza, li ha convocati nel territorio di Ludiland dove tutto è possibile ed ecco il resoconto di quell’incontro pubblicato dalla casa editrice Carocci con il titolo Quando Darwin incontrò Flash Gordon Scienza e cultura di massa tra Otto e Novecento.

Ciardi è stato già gradito ospite di questo sito in occasione di altri suoi libri: Il mistero degli antichi astronauti - Breve storia delle pseudoscienzeIl pianoforte di Einstein - Frankenstein.

Dalla presentazione editoriale.

«Nel corso dell’Ottocento, generi letterari come il sovrannaturale, il poliziesco, il fantasy, i mondi perduti e la fantascienza hanno ampliato i modi di circolazione della scienza, affiancati progressivamente da due nuove forme d’arte e di intrattenimento: il cinema e i fumetti. Il libro “Quando Darwin incontrò Flash Gordon” esplora le storie di Mary Shelley, Edgar Allan Poe e Jules Verne, in continuo dialogo con le discipline scientifiche, dall’astronomia alla biologia, descrive i viaggi nel tempo e l’attacco dei marziani narrati da H. G. Wells, e rivela che Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes, fu anche inventore di meravigliose avventure popolate da dinosauri. Non mancheranno Emilio Salgari e Topolino, Tarzan e Isaac Asimov, Superman, l’Uomo Invisibile e King Kong, Einstein e Freud, assieme a tanti altri autori e personaggi reali o immaginari. Per scoprire quando Darwin incontrò Flash Gordon».

Segue ora un incontro con Marco Ciardi.


Quando Darwin incontrò Flash Gordon (2)


A Marco Ciardi (in foto) ho rivolto alcune domande.

La motivazione che ti ha spinto a scrivere questo libro

Le motivazioni sono molteplici. Da sempre sono interessato alle intersezioni tra saperi, tra discipline. Per formazione sono contrario all'inquadramento delle conoscenze in settori scientifico-disciplinari, come si è soliti dire a livello ministeriale e accademico. Quindi, occupandomi professionalmente dell'evoluzione del pensiero scientifico nell'età moderna e contemporanea, per me parlare dei rapporti tra scienza, letteratura, cinema e fumetti è abbastanza naturale. Il periodo preso in esame nel libro vede nascere quella che oggi chiamiamo divulgazione scientifica, ma è importante ricordare che la scienza non si diffuse soltanto su riviste come “Nature” (nata nel 1869), che peraltro aveva caratteristiche ben diverse da quelle che conosciamo oggi (e a questo ho dedicato un paragrafo del mio libro), ma attraverso canali come, appunto, il cinema e i fumetti. Da molti anni sto insistendo non solo sul ruolo culturale dei comics, ma sul fatto che i fumetti debbano essere considerati una fonte storica dotata della stessa dignità di tutte le altre. Non dobbiamo dimenticare, inoltre, la nascita della fantascienza che, soprattutto grazie alle riviste “pulp” americane, fu un veicolo di diffusione della scienza a livello di cultura di massa. Molte di queste riviste, tra l'altro, avevano al loro interno rubriche di divulgazione scientifica, che proponevano contributi molto interessanti. Poi, è evidente, parlando di motivazioni, non posso fare a meno di ricordare la mia passione verso il cinema, i fumetti e la scienza, che è nata quando ero piccolo e che progressivamente ho avuto la fortuna di portare anche dentro il mio lavoro. Tanto per fare un esempio, oggi non solo sono membro dei consigli scientifici o direttivi di istituzioni o riviste accademiche nell'ambito della storia della scienza (che è la mia disciplina universitaria), ma anche del consiglio direttivo dell'Anafi (Associazione Nazionale Amici del Fumetto e dell'Illustrazione).

Che cosa nasce dall’immaginario incontro tra Darwin e Flash Gordon?

Nel libro viene preso in esame il rapporto tra letteratura, cinema e fumetti e tutte le discipline scientifiche, dalla matematica alla chimica, dalla psicologia all'astronomia, fino al complesso territorio dei fenomeni spiritici (basti pensare al caso di Arthur Conan Doyle, l'inventore di Sherlock Holmes, ma anche del “mondo perduto” popolato da dinosauri). Tuttavia, come si evince facilmente dal titolo, è evidente che Darwin e la sua opera (spesso male interpretata e distorta) rappresentino un filo conduttore della storia, che mostra come il “darwinismo” si sia diffuso capillarmente proprio attraverso queste forme d'arte, passando – solo per limitarsi a qualche esempio – dalle straordinarie avventure create da Edgar Rice Burroughs (John Carter di Marte, Tarzan, il ciclo di Pellucidar e molto altro) a quel capolavoro cinematografico rappresentato da “King Kong”, uscito nel 1933. Fino al momento in cui, proprio l'anno successivo, nasce Flash Gordon, creato da Alex Raymond, uno dei maestri della storia del fumetto, nelle cui storie la presenza di Darwin non mancherà di farsi sentire. Un incontro che testimonia ancora una volta quanto numerose e proficue siano le relazioni tra discipline e saperi, tra scienza e arte. Nel libro si va comunque oltre Flash Gordon, mostrando come il tema dell'evoluzione sia centrale anche nella nascita di un supereroe come Superman, che vede la luce nel 1938. Senza dimenticare che la storia che ho provato a raccontare ha un punto di inizio, che vorrebbe essere in qualche modo anche un riferimento per la conclusione: “Frankenstein” di Mary Shelley.

Con il cyber punk Darwin e Flash Gordon continuano a parlarsi? Se no, perché? Se sì, tu che hai origliato i loro discorsi che cosa si dicono?

Certamente continuano a parlarsi. Prima di tutto perché le conseguenze scientifiche, etiche e sociali del darwinismo e dell'evoluzionismo sono state decisive per la comprensione del nostro posto nella natura, abbattendo barriere che sembravano impossibili da abbattere, come quelle fra regno animale e mondo umano. Conseguentemente è diventato molto più semplice riflettere sul fatto che non esiste una differenza così netta tra naturale e artificiale, che è una delle tematiche caratterizzanti il cyberpunk. Flash Gordon, dal canto suo, è un personaggio che ha continuato a vivere a lungo, per decenni (anzi, si è parlato proprio di recente di un suo ritorno a fumetti), travalicando l'ambito dei comics per essere protagonista in tutti i media (chi si ricorda il film del 1980 con la colonna sonora dei Queen?). Perciò, attraverso l'analisi complessiva della vita di un personaggio come Flash Gordon è possibile analizzare anche come si è evoluta la scienza nel corso dei decenni e come è stata rappresentata all'interno di un fumetto. Ma, naturalmente, Darwin e Flash Gordon rappresentano anche due simboli, simboli di un dialogo che è sempre esistito fra scienza, letteratura e arte. Origliando i loro discorsi, la cosa più importante che ho percepito è che dobbiamo fare di tutto per non far morire questo dialogo, sempre costantemente minacciato, che molti vorrebbero impedire.

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Marco Ciardi
Quando Darwin incontrò Flash Gordon
212 pagine * 17.00 euro
Carocci Editore


2 libri 2

Segnalo due libri che aiutano molto bene a far capire i giorni che viviamo.
“La sciagura” (la… ops!... il presidente Giorgia Meloni, e, visto il titolo, chi sennò?).
Autore Andrea Scansi, Edizioni PaperFIRST, 16 euro.

“Iconografia della Destra” (dai neofascisti del Msi ai postfascisti Fratellastri d’Italia).
Autore: Luciano Cheles, volume ricchissimo d’immagini, Edizioni Viella, 29 euro.

Ottime strenne per antagonisti.


Kabloona, l'uomo bianco

Quanta letteratura è stata ispirata dal viaggiare: da Marco Polo a Jack Kerouac, da Jules Verne a Bruce Chatwin, da W. G. Sebald a Tiziano Terzani e a tanti tanti altri autori. Ognuno con le sue considerazioni sull’andare, sulla meta, sul ritorno.
Ecco due modi opposti di considerare il viaggio.
“Viaggiare è una brutalità. Obbliga a perdere di vista il comfort familiare della casa e degli amici. Ci si sente costantemente fuori equilibrio”.
(Cesare Pavese)
“La meta di un viaggio mai è un luogo, ma la gioia di un nuovo modo di vedere le cose”
(Henry Miller)
Nel bellissimo “I viaggi, la morte”, Gadda spiega la sua “dialisi degli umani in sedenti e migranti”, per affermare – dal punto di vista di coloro “che tornano dai paesi lontani” – “la desolata vanità del mondo spaziale a meno di non mettersi nella prospettiva del secreto interiore dell’essere”.
E in quell “secreto” è invitato a entrare il lettore nelle pagine di un luminoso libro pubblicato dalla casa editrice Adelphi: Kabloona L’uomo bianco.
L’autore è Gontran de Poncins (1900 – 1962), più precisamente Jean-Pierre Gontran de Montaigne, visconte di Poncins, discendente di Montaigne.
Gontran lascia i morbidi agi e gli accettabili disagi di Parigi e va nelle terre gelide al nord del Canada, dove la temperatura è normalmente di 40 gradi sotto zero, dove abitano gli Inuit da noi più noti quali eschimesi.
Vuole andare proprio lì “… a vivere con gli eschimesi. Non quelli della Groenlandia che, arguivo, erano addomesticati sotto la tutela governativa; non quelli dell’Alaska, che intagliavano souvenir per i turisti; ma gli eschimesi canadesi, quelli dell’Artico Centrale che, vivendo in regioni così remote e difficili da raggiungere, conducevano ancora la vita primitiva di mille anni prima”.
Perché recarsi in quella terra dalla natura inospitale fra gente lontanissima dal nostro pensare, sentire e agire? Scrive: “Una buona parte di questo libro diventa la storia dell’incontro tra due mentalità e della graduale sostituzione, in me, della mentalità europea con quella eschimese. Certo, questa sostituzione non è mai stata totale, né per periodi prolungati. L’europeo in me continuava a protestare, a ribellarsi; e specie quando lo sforzo fisico sembrava insopportabile, s’impuntava e rifiutava d’accettare la necessità di adottare il punto di vista eschimese – e ne subiva le conseguenze. Ma nei limiti del possibile per me, credo di esserci riuscito”.

Non è, quindi, Kabloona un documentario (ma lo è pure riferendo usi e costumi là conosciuti), no, non è questo il fine di de Poncins. La sua finalità: esplorare la possibilità di un trapianto d’anima, sfida antropologica estrema di una trasformazione della sua personalità psichica. Si può qui aprire un discorso complesso, il libro lo merita, tra l’indagare le motivazioni profonde che spingono l’autore a tanto ardire. Ogni ipotesi è legittima. La più semplice la suggerisce (a credergli) l’autore. Che cosa ha appreso lassù sulla cima del pianeta?
“Gli Inuit mi hanno insegnato soprattutto ad accantonare le cose: la fretta, l’inquietudine, la ribellione, l’egoismo. Mi ci è voluto un anno per imparare queste lezioni e all’improvviso mi rendo conto che il mio anno al Nord non è stato, come pensavo, un anno di conquista degli elementi, ma di conquista di me stesso. E, vista la singolarità della conquista, l’Artico non è più una fonte di sofferenza ma di gioia. È il crogiolo dove, con lentezza e pazienza, in certa misura, si sono sciolte le scorie della mia natura. Qui nell’Artico ho trovato la pace, la pace che non ero mai riuscito a trovare fuori. Fatta eccezione per i monaci, o per chi affronta circostanze straordinarie come la guerra o il pericolo, non c’era altro modo per trovare la pace”.
Ha trovato la pace? Anche qui dubitarne è legittimo perché la scrittura di De Poncis è come vedere il retro di un arazzo: fili, nodi, intrecci di nastri, che lasciano a chi guarda (qui a chi legge) intuire quali figurazioni stanno al lato opposto. Tracce che rivelano nascondendo e nascondono rivelando. Già, figure. Il libro è scandito da disegni dell’autore.
Disegni che mi hanno fatto pensare a Giorgio Manganelli che in "Migrazioni oniriche" scrive che “ai quadri, riflesso della ‘mentita consistenza’ del mondo”, preferisce i disegni, “appartenenti ‘al luogo discontinuo dei fantasmi”.

Risvolto

«Nel 1938 un visconte francese avventuroso e un po’ avventuriero, sempre alla ricerca di un senso da dare alla vita, decide di partire per l’estremo Nord, al di là del Canada, dove vivono le popolazioni più “primitive”. Nel racconto di questa esperienza – una lenta e progressiva acclimatazione, in ogni senso, al nuovo mondo – tutto incanta fin dal primo istante: le durissime prove di resistenza, l’asprezza degli elementi, descritti con una vivacità e un’immediatezza fuori del comune, ma sopra ogni altra cosa l’incontro con gli Inuit, i più arcaici abitanti dell’Artico. Dapprima irrigidito nella sua supremazia di Kabloona, “uomo bianco” – si spingerà a dire che gli Inuit “non pensano”, il che secondo i nostri angusti canoni potrebbe sembrare vero –, Gontran de Poncins finirà per imparare molto da queste genti, che non si pongono affatto il problema di dare un senso alla vita, come scopriremo in pagine profonde, spiazzanti, educative nel senso più alto della parola. E nell’ora sofferta del ritorno, si renderà conto, inaspettatamente, di essere diventato uno di loro. Il suo cuore rimarrà lì, come quello di noi lettori, illuminati da un’avventura che, superando ogni distanza, riesce a farci entrare nell’anima di un popolo e di un tempo che non potranno essere più».

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Gontran de Poncins
Kabloona
Disegni e fotografie dell’Autore
Con la collaborazione di Lewis Galantière
Traduzione di Marco Rossari
332 pagine * 24.00 euro
Adelphi


Natale si avvicina

Per molti è motivo di felicità, per me di angoscia.
Quei giorni di obbligatoria festosità invitano a nutrirsi più di psicofarmaci che di torroni.
Tra l’altro, sono feste lunghe, almeno a Pasqua sono pochi giorni, Gesù non fa in tempo a morire che già resuscita e vola in cielo. Dopo si sopporta un po’ di scampanìo, ce la sbrighiamo rapidi e torna la sospirata pace!
A Natale c’è pure l’abitudine di scambiare doni. Altra calamità.
I soli regali che si fanno più volentieri sono quelli destinati ai ragazzi perché vederli allegri nel riceverli rende felice anche il più duro dei cuori.

“C'è sempre qualche vecchia signora che affronta i bambini facendo delle smorfie da far paura e dicendo delle stupidaggini con un linguaggio informale pieno di ciccì e di coccò e di piciupaciù. Di solito i bambini guardano con molta severità queste persone che sono invecchiate invano; i ragazzi non capiscono cosa vogliono e tornano ai loro giochi, giochi semplici e molto seri”.
Così Bruno Munari (1907 - 1998), grafico e designer italiano ha scritto in “Fantasia”.
Quella vecchia signora rassomiglia tanto a molta letteratura per ragazzi che - pur migliorata rispetto a quella di anni fa – spesso fallisce i suoi obiettivi di comunicazione.
I più ricorrenti difetti: sbagliare il target di età facendo libri troppo complessi per i più piccoli e troppo semplici per i più grandi; non aver compreso i segnali della nostra epoca che con l’animazione cinematografica, la tv, i videogiochi, ha reso la percezione dei ragazzi diversa da quella di un tempo; errore: usare un linguaggio che non riesce a coinvolgere i lettori cui è destinata.
Livio Sossi, saggista, docente di Letteratura per l’infanzia all’Università di Udine, autore del saggio “Scrivere per i ragazzi” (Campanotto Editore), rispondendo a un’intervista di Mary B. Tolusso che gli chiede “Come scrivere per i ragazzi oggi? Quale linguaggio usare?” Così risponde: “I ragazzi si riconoscono in quello che leggono. Il problema dell’accostamento dei giovani alla lettura è determinato principalmente dalla necessità di riscoprire se stessi nella scrittura. Ecco perché in questo tipo di letteratura si presentino pure delle espressioni colorite, al limite anche le parolacce, o un linguaggio che deriva dai media, dalle formule degli sms. È necessario liberare la scrittura per l’infanzia dall’enfasi inutile, dall’eccessiva aggettivazione. E dai diminutivi. Perché pare quasi che tutto il mondo del bimbo sia minuscolo, ridotto o riduttivo. Questo il bambino non lo accetta”.

Credo che tutto ciò sia stato ben capito dalla casa editrice Lindau che si misura, e lo fa molto bene, con le pubblicazioni più difficili: quelle rivolte ai più piccoli.
Fra poco scatta l’implacabile domanda (almeno fra i paesi che non hanno guerre in casa) di che cosa mettere sotto l’albero natalizio.
Ho scelto alcune recenti proposte di Lindau. Adatte ai più piccoli e a varie tasche.
Dateci un'occhiata.


Il presepe di San Francesco


… ma si dice presepe o presepio?
L'Accademia della Crusca scioglie il dubbio: “Si possono usare entrambe le forme, come del resto ha fatto uno dei padri della letteratura italiana, Alessandro Manzoni, in diversi suoi scritti”.
Altro dubbio. presepe oppure albero di Natale? La tradizione dell’albero natalizio è molto più antica di quella del presepe. L’abitudine di decorare alcuni alberi era diffusa già tra i Celti durante le celebrazioni per il solstizio d’inverno (ma questo Salvini non lo sa; voleva imporre “la più antica tradizione del presepe per le feste” mentre proprio i suoi cari Celti…).
Quel dubbio, in realtà non ha ragione d’esistere. Possono convivere benissimo. La multiculturalità è una forza dei popoli. Alcuni hanno tentato di accreditare la tesi secondo la quale il presepe fosse patrimonio dei credenti e l’albero, invece, dei laici. In Italia si tende sempre a dividere, a fare schieramenti contrapposti. Siamo capaci di ridurre della dottrina dei contrari in filosofia a una partita scapoli – ammogliati.
Chi scrive queste righe è ateo, ma tra le cose care ho il presepe. E non sono il solo ateo ad avere cara quella scena con paesaggio di sughero, figurine di terracotta, muschio con il suo inconfondibile odore che mi riporta all’infanzia, era quello per me l’odore di Natale, il profumo della festa. Oggi, con gli anni che ho, il presepe mi fa attraversare il tempo forse anche perché il presepe ne contiene alquanti.
Scrive Marco Belpoliti, vecchio amico di questo sito: “Il presepio contiene più temporalità: il tempo narrativo, il tempo mitico e il nostro tempo”.
Sì, mi piace il presepe. Non ne sono costretto dalla pietà come accade a Tommasino nel finale di Natale in casa Cupiello, ma dal ricordo di lampi di gioia infantile (e oggi lampi di dolce malinconia). Mi piace il presepe anche con spudorati falsi come quel pulcinella in posa di ballo col triccaballacche davanti alla grotta. Mi piace meno il presepe vivente, con tutto il rispetto per San Francesco che l’ha inventato. Lì il falso vuole sembrare vero. Nel presepe di sughero e terracotta il falso dichiara la sua falsità e ne va fiero, assemblea di fantasmi immobili colti in un fotogramma 3D del passato.

Uno splendido libro sul presepe è stato pubblicato dalla casa editrice il Mulino, ha per titolo: Il presepe di San Francesco Storia del Natale di Greccio. Ne è autrice la grande medievista Chiara Frugoni (1940 – 2022) QUI la sua bio.
Ho avuto l’onore di averla ospite su Nybramedia in occasione di alcune sue pubblicazioni, per esempio: Le paure medievali o Donne medievali e anche A letto nel Medio Evo. Tutti pubblicati da il Mulino.

In questo ultimo – ultimo purtroppo in tutti i sensi – “Il presepe di San Francesco” (splendidamente stampato tanto da renderlo una preziosa strenna natalizia sia per credenti o sia per laici senza distinzione, come ho già scritto prima) si legge nella presentazione editoriale: «Voglio evocare il ricordo di quel Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del cuore i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, e come fu adagiato in una greppia quando fu messo sul fieno tra il bue e l’asino.
Con queste parole – secondo il suo primo biografo – Francesco chiede a un fedele amico di Greccio di predisporre quanto serve per realizzare il presepe. Ma dove sono i personaggi principali, la Madonna e il bambino? Perché mai Francesco sceglie di rappresentare il Natale solo attraverso la greppia colma di fieno, fra due animali non nominati dai vangeli canonici? Saper leggere e mettere a confronto le fonti con rigore e sottigliezza, saper decifrare le immagini con acume finissimo: armata degli strumenti in cui eccelleva, Chiara Frugoni si avvicina – e noi con lei – alla figura del santo di Assisi, illuminando la vera posta in gioco del Natale di Greccio, quel potente messaggio di pace che dal 1223 ancora oggi vibra di una mai sopita spiritualità rivoluzionaria».

In questo video Chiara Frugoni parla del suo libro rivelando qualche sorpresa a proposito del presepe.

Chiudo ancora con Marco Belpoliti e il Presepe:
“La fedeltà a se stessi è quella all’infanzia, alla propria infanzia. Il presepio non è solo l’infanzia della Divinità, che ha dominato la nostra storia occidentale per due millenni. Il presepio è il ritorno al proprio Io bambino. Riguarda quel tempo, che non è passato, ma continua ancora, ogni volta che si fa il presepio. Un tempo mitico, si dovrebbe dire, perché anche questa temporalità fuori dal tempo, per quanto diversamente dal passato, oggi la pratichiamo ancora, in tutto ciò che è sospensione del tempo feriale dominante, nel tempo della festa, nelle mitologie del contemporaneo e ancora, per nostra fortuna nel presepio. Non sarà molto, tuttavia non è neppure poco”.

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Chiara Frugoni
Il presepe di San Francesco
con 100 ill. b/n e colore
270 pagine * 38.00 euro
Il Mulino


Il cavaliere inesistente


Quest’anno Italo Calvino è stato ricordato largamente come merita in occasione dei cento anni dalla sua nascita.
Mi sono occupato di lui su questo sito QUI quando mesi fa è stata pubblicata una nuova edizione della raccolta “Il libro dei risvolti”.

Siamo alla fine del 2023 ed ecco ancora un ricordo della sua opera.
Se, infatti, a Roma abitate, o siete di passaggio nelle date che troverete alla fine di questa nota, non perdetevi lo spettacolo per la regìa di Tommaso Capodanno Il cavaliere inesistente al Teatro India.
È tratto dall'omonimo romanzo di Calvino.
Perdonate una citazione che mi riguarda. Ricordo che nei primi anni ’80 ho diretto a Radio Rai un adattamento di quel testo che ebbe a protagonista il grande Dario Penne, attore straordinario, voce storica del nostro doppiaggio.

È forse interessante osservare come Calvino crei un cavaliere inesistente, lui proprio che alla vista dedica non poca attenzione (e nel Cavaliere inesistente gli occhiali hanno un non piccolo ruolo) così, infatti, nota Silvio Perrella: “«Insomma il cervello comincia nell’occhio». Italo Calvino scrive la frase, dopo aver perlustrato ipotesi fisiologie e filosofie della vista, e aggiunge: «Quest’ultima frase la dico io e speriamo sia giusto». In ogni caso è insieme affascinante e perturbante immaginare che una parte del nostro cervello sia a vista, a contatto con l’aria e gli altri elementi; e che dunque dobbiamo stare attenti, attentissimi, a evitare che questa parte così preziosa di noi non abbia traumi. L’occhio pensa le immagini del mondo mentre altri occhi lo stanno osservando, come avviene ne La spirale, una delle Cosmicomiche più pregnanti, dove assistiamo alla nascita dell’occhio, resasi necessaria perché la bellezza di una conchiglia ha sviluppato con i suoi barbagli cromatici il desiderio di essere vista e goduta e contemplata“.

Al Teatro India Tommaso Capodanno dirige un cast tutto al femminile.
Ecco un estratto dalle sue note di regìa.
«Con Il cavaliere inesistente, Calvino ha creato uno dei personaggi più suggestivi della letteratura novecentesca, capace di segnare la crescita di molte generazioni, tra cui la mia (…) Agilulfo è pura forza di volontà: nei modi e nelle azioni, sarebbe il paladino perfetto, se non fosse che non esiste. Tale conflitto lo rende potentemente umano e vicino a noi. La storia di questo eroe impossibile ribalta ironicamente l’immaginario dei racconti cavallereschi e rende protagoniste figure solitamente marginali (…) Lo spettacolo indaga le tematiche dell’identità e dell’esistenza, mettendo al centro i tre elementi principali del romanzo: una voce narrante di donna, un cavaliere che non c’è e un gioco fanciullesco di guerra e di amore. In scena ci saranno quattro attrici, quattro Bradamante che, attraverso le parole di Calvino, racconteranno le vicende di Agilulfo, Gurdulù, Rambaldo, Torrismondo e gli altri. Oltre ad agire diventando via via i personaggi della storia, le interpreti (Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane) manovreranno una grande armatura bianca, come se fosse una marionetta, dando vita al Cavaliere Agilulfo».

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Ufficio Stampa Teatro di Roma: Roberto Roscani
tel. 06. 684 000 308 --- 345.4465117
e_mail: ufficiostampa@teatrodiroma.net

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Teatro India
Lungotevere Vittorio Gassman 1
Il cavaliere inesistente
da Italo Calvino
adattamento scenico di
Matilde D’Accardi - Tommaso Capodanno
regia: Tommaso Capodanno
info: 06 - 877 52 210
dal 6 al 16 dicembre


Un nome


Che cos’è la Microstoria?
Il dizionario afferma: “Metodo d'indagine storiografica impostata sulla raccolta e la disamina di fatti minimi e di ambienti circoscritti (la vita di un villaggio, di una famiglia, di una persona, di un episodio)”.
Le cose, però, sono anche più complesse come si può notare QUI.
La Storia, la grande Storia (o Macrostoria) contiene un’infinità di microstorie, molte delle quali mai le sapremo, di altre dobbiamo essere grati a quegli osservatori che le hanno portate alla nostra conoscenza.
Che poi, quelle storie tanto micro non sono. Lo sono per volumetria dell’avvenimento rispetto alla grande Storia, ma non per la portata (morale o immorale) che contengono.

Ad esempio, la storia contenuta nel libro che mi accingo qui a presentare è un’imponente quanto tragica microstoria per lo spessore esistenziale, morale, storicamente esemplificativo di un’epoca italiana non lontanissima dai nostri giorni.
Sono – e non sono il solo – grato alla casa editrice Giuntina che ha pubblicato Un nome.
E grato all’autore Paolo Ciampi. Giornalista e scrittore fiorentino.
Sue notizie biografiche QUI
Nelle pagine si apprende di Enrica Calabresi (in foto), nata a Ferrara nel 1891. Fu docente di Scienze all’Università di Pisa e di Firenze, insegnante nelle scuole medie e poi nella scuola ebraica durante gli anni della guerra.
CLIC per leggere la sua biografia.

Sul link precedente c’è un errore. Calabresi non morì ad Auschwitz, ma prima di arrivarci.
Fra le sue allieve un nome illustre Margherita Hack.
Su questo sito ebbi il piacere di fare anni fa una conversazione con lei
La grande astronoma così scrive nella prefazione a “Un nome”: Questo libro ruota attorno alla figura di una donna dall’aspetto fragile, una donna estremamente timida, che chi, come me, ha conosciuto solo come la professoressa di scienze, riteneva chiusa, poco o punto comunicativa: una figura di cui ci si sarebbe dimenticati facilmente, se non fosse per il fatto di essere stata colpita da quella ingiustizia disumana che furono le leggi fasciste sulla «difesa della razza ariana. Infatti, Enrica Calabresi si era macchiata della grave colpa di essere nata ebrea (…) Questo libro si pone a pieno titolo accanto a quegli indimenticabili documenti della barbarie nazifascista che sono il Diario di Anna Frank e Se questo è un uomo di Primo Levi. Senza dimenticare che il grande merito di aver sottratto all’oblio il lavoro scientifico di Enrica va a due ricercatrici della Specola, il Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, Marta Poggesi e Alessandra Sforzi.
Leggendo queste pagine ho sempre in mente l’ultima immagine che mi è rimasta indelebile di Enrica Calabresi: una figurina esile, vestita dimessamente, che camminava rapida, quasi strisciando contro i muri di una di quelle stradette dietro Piazza della Signoria, parallele a Via del Corso, diretta probabilmente a quella che ora ho saputo essere la sua casa, in Via del Proconsolo (…) Questo libro ci fa rivivere quegli orrori, che non dovremo mai dimenticare, perché non si ripetano. Mai più
».

Dalla presentazione editoriale.

«All’inizio è solo un nome. Un nome e molte domande: cosa ha bloccato la carriera di Enrica Calabresi, giovane e brillante scienziata in anni in cui per una donna era difficile perfino accedere agli studi superiori? E cosa è successo di lei dopo che ha abbandonato l’università? È davvero la stessa persona che anni più tardi, nei mesi più terribili dell’occupazione nazista, si uccide nel carcere di Firenze per sfuggire alla deportazione? È da queste domande che prende avvio un libro che è insieme commossa biografia, appassionata inchiesta giornalistica, riflessione a più voci sulla barbarie delle leggi razziali ma anche sulle scelte che ognuno di noi è chiamato a fare – anche solo per non dimenticare. Enrica Calabresi, la professoressa ebrea, lo ha fatto fino in fondo, con i suoi sogni, il suo rigore, la sua silenziosa resistenza all’orrore. Una storia riemersa dall’oblio, ma non dal nulla: perché ancora oggi, da Milano a Gerusalemme, ci sono persone che si portano nel cuore Enrica; persone che hanno amato la scienza e di scienza hanno vissuto proprio grazie alla loro professoressa. Una storia vera e vibrante, costellata di sorprese, che ci aiuta a intravedere la primavera oltre ogni inverno».

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Paolo Ciampi
Un nome
Prefazione di Margherita Hack
230 pagine * 15.00 euro
Giuntina


Mondi distorti


Alla Fondazione Modena Arti Visive è in corso una mostra dei lavori di Evan Roth (Okemos, Michigan, 1978) che espone installazioni, dipinti, video, sculture, in uno spazio immersivo e interconnesso.
Titolo: Mondi distorti.
Roth alla nascita di Internet fu tra quelli entusiasti della nuova tecnologia per poi progressivamente assumere una posizione critica rispetto al web notandone alcune sostanziali colpe: il ruolo di controllo sociale che andava assumendo, lo slittamento verso un mondo commerciale con conseguenze coercitive sul pubblico, il ragionato timore verso le fake news e la velocità della loro diffusione.

Dice la curatrice Chiara Dall'Olio: “Come altri artisti della sua generazione cresciuti negli anni Novanta, Roth inizia a utilizzare la rete come piattaforma per la libera circolazione delle informazioni e condivisione delle opere d’arte create in formato digitale, lavorando in particolare con sistemi open-source e riflettendo in maniera critica sull’applicazione al mondo web delle leggi relative alla proprietà intellettuale. A partire dallo scorso decennio, la coscienza su cosa sia la rete cambia in Roth come in altri artisti, si pensi a Eva e Franco Mattes o a Paolo Cirio per citare artisti esposti a FMAV negli ultimi anni. Internet non è più quello spazio utopico, immateriale, atemporale in cui scambiare liberamente contenuti, ma è diventato un luogo dove si esercita un potere accentrato e monetizzato, e che viene utilizzato anche per il controllo e la sorveglianza. Questa nuova consapevolezza porta Roth ad interrogarsi su cosa sia effettivamente la rete, come funzioni, che aspetto fisico abbia e come sia gestita”.

Estratto dal comunicato stampa.

«La mostra presenta opere realizzate tra il 2013 e il 2023 che riflettono sulla relazione tra internet e la società. Il percorso espositivo si apre con l’opera inedita “…”[dot dotdot] realizzata per l’occasione. Un prisma triangolare sospeso e rovesciato, formato da un intreccio di cavi ethernet che convergono verso la punta entro cui è collocato un router a cui i visitatori possono connettersi. L’immagine della piramide rimanda al logo di Kopimi ma anche all’antenna radio eretta a Poldhu in Cornovaglia, da Guglielmo Marconi nel 1901 come stazione di trasmissione per il telegrafo senza fili, da cui fu inviato il primo segnale radio transoceanico: tre punti nell’alfabeto Morse, che rappresentano la lettera S. (…) Il cavo che collega tra loro tutte le opere della mostra, dispiegandosi lungo le pareti e il pavimento, è reso visibile dalla serie di sculture Bent Networks (2020 – in corso), nella quarta e ultima sala del percorso espositivo. Distorcendo fisicamente il cavo Ethernet, l’artista ribadisce l’inattendibilità di quei sistemi da cui ci facciamo ciecamente guidare nella vita di tutti i giorni, rimanendo però all’oscuro delle scelte politiche, economiche e tecniche che si nascondono dietro di essi».

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Ufficio Stampa:
Santa Nastro, +39 320 11 22 513; s.nastro@fmav.org
Antonella Campobasso, a.campobasso@fmav.org

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Evan Roth
Mondi Distorti
Palazzo Santa Margherita
Corso Canalgrande 103
Modena
Info: +39 059 203 29 19
Fino all'11 febbraio 2024


L'occhio magico

Quante ne sono state dette sulla tv!
In tanti le attribuiscono le peggiori colpe. Per esempio, l’allontanamento dalla lettura. E un inasprimento dei rapporti sociali fino alla violenza. Beniamino Placido risponde: “Se non ci fosse la tv, tutti la sera a leggere ponderosi volumi? E tutti più buoni e bene educati? Qualche dubbio mi sfiora”.
Aggiungo che quando i nazisti cacciavano corpi nei forni non c’erano ancora in onda Mike Bongiorno o Amadeus.
Sulla televisione, agli strali scoccati da Karl Popper preferisco quanto dice Clive Barnes: “La tv è la prima cultura voluta per tutta la gente; la cosa più terrificante è ciò che la gente vuole dalla tv”. Ai tanti spettatori andrebbero riconosciute quote Siae, i loro nomi inseriti almeno nei, già ora interminabili, titoli di coda. L’innegabile abbassamento dei livelli di gusto e grazia viene fuori dai tanti sondaggi su ciò che il pubblico desidera, risultati astutamente interpretati e rappresentati. Ad esempio, da Berlusconi con programmi calcio, fica e forza Italia.
Intendiamoci, mai c’è stata un’epoca d’oro alla Rai (monopolista della scena italiana tv per decenni). Non dimentichiamo le severe censure dell’Amministratore Delegato Guala (fattosi poi frate trappista) oppure le cacciate dalla tv di Dario Fo, Franca Rame, di Volontè fatte da Bernabei. Però va detto anche che la tv – pur fra non pochi scivoloni, soprattutto di censura politica – fino all’avvento del berlusconismo aveva una sua personalità culturale e una sua dignità sociale andate poi perdute.
Conosco bene la Rai (avendoci lavorato dagli anni ’60 - ho funestato l’etere con la regìa di tanti sceneggiati radiofonici e servizi tv per i programmi “culturali”), conosco bene la Rai, dicevo, da sapere che un tempo anche i funzionari meno provveduti erano pur sempre di un'accettabile professionalità.
Ora la tv pubblica e le altre (La 7, al momento, esclusa) occupate manu militari delle truppe governative, più non sono lottizzate perché diventate monoteiste meloniane. Alla prepotenza politica (che non ha fatto difetto anche al centro-sinistra) si è accoppiata adesso un’incompetenza disastrosa Mala tempora currunt.

Forse mettendo uno sopra l’altro i libri scritti sulla televisione, l’Everest apparirebbe come una collina. Pagine tecniche e pagine sociologiche, raccolte di articoli e dizionari di personaggi… non basterebbero più lunghe vite per leggere tutto quel ben di Dio, ammesso che Dio considerasse un bene quel mare d’inchiostro.
La casa editrice Graphe.it ha pubblicato L’occhio magico Breve storia della televisione italiana
L’autore è Aldo Dalla Vecchia.
Nella nota biografica,l‘editore informa: che, “Nato a Vicenza nel 1968 è autore televisivo e giornalista da oltre trent'anni. Abita a Milano con le gatte Carmelina, Assuntina, Anicetta e la cagnolina Alma. Le sue passioni: le canzoni di Mina, giocare a burraco, Simenon, la filodiffusione, il gelato alla pera, le focaccine dell’Esselunga. Vorrebbe passare la vita a scrivere libri e basta, ma non è ancora possibile. In tivù ha firmato: Target, Verissimo, Il bivio, Cristina Parodi Live, The Chef, In Forma.
Ha collaborato tra gli altri con Corriere della Sera, Epoca, A e Mistero, di cui è il coordinatore editoriale da diversi anni.
Ha al suo attivo ventidue libri. Il primo è il romanzo Rosa Malcontenta (Sei Editrice, 2013), il più recente è Le Tre Parche (Pegasus, 2023)”.

Il libro ha una struttura con capitoli (accortamente corredati con diffuse note) che procedono per decenni a partire dalla data di domenica 3 gennaio 1954 quando alle 11 del mattino l’annunciatrice Fulvia Colombo presentò per la prima volta le trasmissioni della tv italiana.
Il volume si conclude con due ben studiate appendici: “La tivù prima della sua nascita” e “Brevissima storia della critica televisiva in Italia”.
Merito di non poco momento delle pagine di Dalla Vecchia è quello di essere riuscito, in omaggio alla “brevitas” latina, a dare in lettura una veloce, agevolissima, cronistoria di quello strumento dei media che ha formato sia nel bene sia nel male la società italiana. Non mi pare poco. Inoltre, è un volumetto utilissimo per chi lavora nelle redazioni di giornali, radio-tv, web, perché rapidamente è possibile rintracciare epoche e personaggi (ancora di più avrei gradito un Indice dei Nomi).

Dalla presentazione editoriale
«Quella della televisione è una storia, in effetti, breve in termini cronologici: appena settant’anni di attività. Eppure in questa linea del tempo relativamente esigua è radicato un cambiamento culturale di proporzioni enormi, all’interno del quale proprio la Tv di casa ha avuto grandissima parte, nel bene e nel male.
Attraverso il piccolo schermo transitano e insieme si costruiscono la politica, la prospettiva sociale ed economica, gli scandali giudiziari e i gusti musicali; in altre parole, i sogni (e gli incubi) degli italiani a cavallo del secolo.
La profonda competenza in materia di Aldo Dalla Vecchia (giornalista e autore in prima persona di molti famosi programmi televisivi degli ultimi trent’anni) si esprime in questo volume ricco di informazioni precise e interessanti per appassionati e studiosi dei media. Questi ultimi troveranno particolarmente comode le schede riassuntive Il decennio in pillole e le preziose appendici dedicate alla tivù prima della tivù e alla critica televisiva in Italia.
Dal Musichiere ad Amici, da Perry Mason a Sex & the City, da Il pranzo è servito a MasterChef il lettore potrà ripercorrere la propria storia di spettatore e ricostruire anche lo show a cui, per ragioni anagrafiche, forse non ha assistito: la nascita del concetto stesso di trasmissione televisiva, e dell’abitudine nazionale di sedersi sul divano davanti all’apparecchio»

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Aldo Dalla Vecchia
L’occhio magico
Prefazione di Massimo Scaglioni
124 pagine * 9.00 euro
Graphe.it


Bombino


Bombino… sì, lo so, è un vitigno a bacca bianca, uno dei vitigni più antichi e più diffusi nel centrosud, in particolare in Puglia... ma non è di quello che voglio parlare.
Voglio dire di un altro Bombino (nome che è una deliziosa storpiatura di “piccolo bambino”): musicista nato in Niger, nella città settentrionale di Agadez, Bombino è un membro della tribù dei Tuareg
Per conoscere la sua storia: CLIC.

È da tempo uno dei miei cantanti preferiti.
Sere fa mi è capitato di vederlo in Tv su La 7 nella indovinata trasmissione “Propaganda Live” e ha riproposto uno dei suoi successi: Ayes Sachen.
Buon ascolto e buona visione.


Amore, morte & Rock 'N' Roll


Nel catalogo della casa editrice Hoepli si trova un libro che illustra la cronaca e interpreta i motivi che hanno portato tante stelle del rock a spegnersi assai spesso in giovane età.
Titolo: Amore, morte & Rock ‘N’ Roll Le ultime ore di 50 rockstar. Retroscena e misteri.
L’autore è Ezio Guaitamacchi
L’editore così lo presenta: “Da alcuni definito "lo Sherlock Holmes del rock 'n' roll", torna sulla scena del crimine dopo gli apprezzamenti per il suo "rock thriller" PSYCHO KILLER, Omicidi in Fa Maggiore, un giallo ambientato nella Milano indie rock degli anni 2000 e il successo dei suoi DELITTI ROCK (libro, spettacolo teatrale, show radiofonico su RSI e programma tv su RAI 2 condotto da Massimo Ghini) che gli sono valsi premi e riconoscimenti. Decano del giornalismo musicale in Italia ha pubblicato e diretto riviste specializzate, scritto e condotto programmi radio-tv, ideato centinaia di spettacoli di parole & musica, inventato rassegne e festival, diretto Master e seminari.
Ha scritto più di venti saggi su rock e dintorni; dal 2014 cura la collana musicale di Hoepli. Gioca a tennis e tifa Milan”.

Dalla Prefazione di Enrico Ruggeri: “Il libro di Guaitamacchi è un meraviglioso campionario di gloria e perdizione, di trionfi pubblici e fallimenti private tra gli irripetibili momenti leggendari di una stagione che verrà ricordata per sempre, con una conclusione e una morale ben precisa: il grande artista è fragile per definizione, troppo sensibile per vivere una vita normale, sempre in bilico tra il trionfo e l’abisso".

Dall’Introduzione di Pamela Des Barres: “Negli anni Sessanta e Settanta non esistevano i rehab, la medicina e la psichiatria non erano ancora in grado di curare alcune patologie di cui hanno sofferto molte rockstar. Uno come Keith Moon, che ho conosciuto bene anche intimamente, oggi verrebbe diagnosticato come persona affetta da disturbo bipolare – e come tale assistito. Ma, anche per lui, vale lo stesso discorso fatto per Jimi Hendrix e altri.
Questi artisti – come illustra bene Guaitamacchi – hanno dato tanto perché hanno generosamente messo la loro arte a disposizione del mondo”

In questo video sarà proprio l’autore Ezio Guaitamacchi a guidarci lungo le pagine del libro.

Dalla presentazione editoriale.

«Piene di leggende e di eccessi, stravaganti, oltraggiose, sconsiderate e rischiose, le vite delle rockstar sono spesso andate oltre le più sfrenate fantasie da sceneggiatura hollywoodiana.
Purtroppo, anche le loro morti sono state a volte frutto di circostanze drammatiche, di coincidenze incredibili, di eventi imprevedibili. E, quasi sempre, sono rimaste circondate da un alone di mistero che ha dato vita a mille speculazioni. E come nella tradizione anglo-americana, delle "murder ballad" (love story che, per vari motivi, si sono concluse in modo tragico) anche le infauste fini delle rockstar sono rimaste inscindibilmente legate ai loro grandi e altrettanto impetuosi amori.
Questo libro raccoglie una serie di storie, raggruppate per tipologia di "crimine", che raccontano le ultime ore di 50 stelle del rock. Scritto come un "noir", in modo originale e appassionato, presenta retroscena, curiosità, aneddoti e tesi alternative pur documentando il tutto con puntualità e rigore giornalistici. Illustrato con immagini prese dalle scene del crimine, impreziosito da box, citazioni e "colonne sonore" suggerite, l'opera si rivolge al cultore del genere ma anche al curioso, al lettore di gialli o al rockettaro incallito riuscendo a soddisfare anche i palati più esigenti».

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Ezio Guaitamacchi
Amore, morte & Rock ‘N’ Roll
Prefazione di Enrico Ruggeri
Introduzione di Pamela Des Barres
XIV, 346 pagine * 32.90 euro
Hoepli


Ocean Terminal Teatro

Nei giorni scorsi, a Roma, Mina Welby ha presentato il libro Ocean Terminal Teatro, pubblicato da WriteUp, adattamento drammaturgico tratto dal romanzo (fu pubblicato postumo da Castelvecchi) di Piergiorgio Welby.
“Piergiorgio ci ha lasciati il 20 dicembre di 17 anni fa” – dice Mina Welby – “Grazie a lui troviamo ancora oggi il coraggio di batterci per la libertà di scelta, di pensiero e di coscienza in tutti i campi della nostra vita. L'uscita di ‘Ocean Terminal Teatro’ è l’occasione di ricordare ciò che lo spirito di Piergiorgio evoca attraverso il linguaggio artistico di Emanuele Vezzoli, attore che da anni porta in scena il romanzo di Piergiorgio”.

QUI una dichiarazione di Emanuele Vezzoli.

QUI un brano dello spettacolo.

Dalla presentazione editoriale

«Ocean Terminal, il monologo teatrale diretto e interpretato da Emanuele Vezzoli, è tratto dall’omonimo romanzo postumo di Piergiorgio Welby, pubblicato a cura di Francesco Lioce nel 2009. L’adattamento drammaturgico firmato da Vezzoli e Lioce restituisce il corpo e la parola di una performance attoriale di rara intensità, che ha contribuito a diffondere un’immagine di Welby più completa rispetto a quella proposta dal circuito mediatico. Una vita ricca di esperienze a volte forti, inaccettabili da parte della sterile morale contemporanea, tutta tesa a dividere il mondo in buoni e cattivi; una cultura vastissima e sempre densa di richiami; una ricerca spirituale forte e mai prona al destino: sono gli elementi che aiutano a comprendere l’avventura di un uomo fuori dal comune, quando alla sua porta bussa l’ineluttabile. Ciò che emerge forte è, sempre e ancora una volta, una mente lucida e appassionata che cerca di misurarsi con l’incomprensibile. Ocean Terminal teatro è un libro complessivo, che oltre al testo drammaturgico raccoglie le voci condivise con entusiasmo dalla compagnia, gli stralci attentamente selezionati di una ricca rassegna stampa e le testimonianze di quanti – creativi, studiosi, politici, medici e giornalisti – hanno assistito allo spettacolo portato sulla scena in Italia e all’estero dal maggio 2012 al febbraio 2020».

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Ocean Terminal Teatro
A cura di
Francesco Lioce
Emanuele Vezzoli
108 pagine * 16.00 euro
WriteUp Books


Gli inganni di Pandora

Le imponenti manifestazioni di sabato scorso in risposta all’appello di “Non una di meno” (brillavano per assenza tutti I boss del governo e del centrodestra) hanno riportato in primissimo piano la necessità e l’’importanza di istituire nei luoghi di lavoro, nelle forze armate, ovviamente nella scuola e nelle università, spazi in cui si discuta dei rapporti sociali nelle comunità. Così come avvengono riunioni per discutere dei diritti sindacali. Ben 107 vittime dal mese di gennaio a oggi impongono misure che solo in apparenza sono eccezionali, ma, purtroppo, eccezionali non lo sono.
I terribili giorni che stiamo attraversando in Italia mi spingono oggi a ricordare un libro che mi pare lettura illuminante sull’origine lontana di tanto sangue sparso.
È della casa editrice Feltrinelli http://www.feltrinellieditore.it un volume importante di Eva Cantarella, titolo: Gli inganni di Pandora L'origine delle discriminazioni di genere nella Grecia antica.
QUI note biografiche dell’autrice.

L’inferiorità di genere è un’idea antica.
Una storia che comincia in Grecia con il mito di Pandora e arriva fino a noi.
Siamo abituati a pensare ai greci come alla culla della nostra civiltà: a loro dobbiamo l'idea di democrazia, la storiografia, la filosofia, la scienza e il teatro. Eppure, di questa eredità fa parte anche il modo in cui consideriamo il rapporto tra i generi: un lascito che ha superato i secoli e i millenni con tracce che continuano a pesare sulle nostre vite come macigni. Nella nostra storia antica c'è stato un momento in cui la differenza tra il genere maschile e quello femminile si è trasformata nell'idea che le donne siano inferiori agli uomini e quindi in una serie di inevitabili, pesanti discriminazioni. Tutto comincia con un mito. Esiodo racconta la nascita della prima donna, mandata da Zeus sulla terra per punire gli umani della colpa commessa da Prometeo: rubare il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, riducendo così la distanza che li separava dagli immortali. Pandora è "un male così bello" da essere un "inganno al quale non si sfugge". Rappresenta un'alterità incomprensibile agli uomini, tanto misteriosa da essere paragonabile solo alla morte. Da lei, dice Esiodo, discende "il genere maledetto, la tribù delle donne".
Eva Cantarella illumina alcuni momenti di una vicenda lunghissima, che dal mito giunge ai medici e ai filosofi che hanno fondato il pensiero occidentale. Attraverso le voci di Parmenide, Ippocrate, Platone e Aristotele vediamo come la differenza di genere viene costruita e codificata, fino a diventare un pilastro dell'ordine sociale e della cultura giuridica greca. Scopriamo l'origine delle convenzioni sociali, delle teorie filosofiche e delle pratiche giuridiche che oggi ripropongono visioni 'essenzialiste' delle diverse identità personali. Conosciamo una parte molto antica di noi stessi e facciamo esperienza di un passato da cui finalmente possiamo prendere le distanze per realizzare il nostro futuro.

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Eva Cantarella
Gli inganni di Pandora
96 pagine * 9.50 euro
Feltrinelli


Come parlare con chi nega la scienza


Ha un’aria molto soddisfatta di sé, gli occhi accesi di luce biblica, le parole si rincorrono via via accelerandosi, il fervore spumeggia, la donna accanto a quel suo profetico compagno annuisce soddisfatta. Chi è quel tale? Via, l’avete capito. È un complottista. Odiatore della Scienza. Mi sta rivelando segreti di cui non sono degno d’esserne messo a parte visto che neanche un po’ m’emoziono.
L’11 settembre? Un inside job voluto dal governo degli Stati Uniti. Lo sbarco sulla Luna? Una finzione cinematografica. L’Aids? Un virus creato in laboratorio. Il riscaldamento globale? Una bufala. L’Olocausto ebraico? Un’esagerazione propagandistica. Il Covid? lo ha voluto Bill Gates alleato di Big Pharma. G5? Voluti, effetti devastanti sulla salute dell’uomo… Intelligenza Artificiale? Manco a parlarne!
Scrive Giorgio Vallortigara su Micromega: “La vita di ciascuno di noi è sempre più permeata dall’utilizzo di tecnologie avanzate, figlie delle straordinarie conoscenze che la scienza ci ha consentito di ottenere. Durante la pandemia da Covid-19 abbiamo anche assistito quasi in diretta al rapido sviluppo di vaccini che ci hanno permesso di superarla in tempi relativamente brevi. Eppure, mai come in questo periodo lo scetticismo nei confronti della scienza e degli scienziati galoppa. E quando la scienza non viene attaccata, si cerca di piegarla ai propri interessi politici e ideologici. Una delle cause di questo paradosso è una diffusa ignoranza sul metodo scientifico, ossia su quali siano le logiche e i criteri che la scienza impiega per indagare la realtà”.

Quando incontro un complottista è forte assai la voglia di sottoporlo a una dura punizione (ad esempio fargli ascoltare un intero discorso del ministro Lollobrigida o della ministra Roccella… sì, lo so, la tortura è vietata dall’articolo 4 della ‘Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea’), ma c’è chi, invece saggiamente scrive: «Come possiamo convincere i negatori della Scienza a cambiare idea in base ai fatti? Con calma. Nel settembre 2011, la rivista Nature Human Behaviour ha pubblicato uno studio fondamentale, fornendo la prima prova empirica che è possibile combattere i negazionisti della Scienza».
Chi è questo Santo? È Lee McIntyre.
Svolge attività di ricerca presso il Center for Philosophy and History of Science alla Boston University. Ha pubblicato con MIT Press: Dark Ages: The Case for a Science of Human Behavior (2009); The Scientific Attitude: Defending Science from Denial, Fraud and Pseudoscience (2020); Post-Truth (trad. it. Post-verità, Torino, Utet Università, 2019).
La casa editrice FrancoAngeli ha pubblicato un suo saggio intitolato Come parlare con chi nega la scienza Conversazioni con terrapiattisti, negazionisti del clima, del Covid e con chiunque sfidi la Ragione.

Se McIntyre ci riesce a convincere quelli lì… che dire?... santo subito.

Scrive Antonio D’Aloia nella Presentazione: "Un libro intrigante, schietto, quello di McIntyre. Una ricerca sul campo, dove i contenuti teorici vengono confrontati e messi alla prova con un’indagine “sociale”, in uno spazio attraversato da pesanti fratture culturali, religiose, politiche. Il nostro tempo è il tempo delle emergenze, una dopo l’altra, quasi una sorta di crisi permanente, al punto che l’incertezza e la paura diventano un filo conduttore della modernità. Tutte queste emergenze, questo è un po’ il tratto comune di questo fenomeno, presentano un alto tasso di scientificità. Sono emergenze scientifiche, in cui la scienza assume ruoli diversi, a volte portando sulle soglie del problema o contribuendo alla sua determinazione, altre volte segnalando i rischi, o indicando possibili soluzioni.
Ma questa ambiguità (in sé peraltro inevitabile, perché la scienza è uno dei motori fondamentali dello sviluppo e del consolidamento delle attività umane) crea disorientamento, diffidenza, talvolta reazioni conflittuali, narrazioni alternative a quelle offerte dalla scienza ufficiale: appunto il science denial di cui parla questo libro”.

Dalla presentazione editoriale.
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«"Il cambiamento climatico è una bufala, e lo è anche il Coronavirus". "I vaccini sono pericolosi per la nostra salute". Al giorno d'oggi, molte persone rifiutano le competenze scientifiche, preferendo le ideologie ai fatti. Non sono semplicemente disinformate ma assimilano cattiva informazione. E citano prove scelte ad arte, affidandosi a falsi esperti, confidando nelle teorie complottiste.
Come possiamo, allora, convincere i negazionisti della scienza? Come possiamo persuaderli a cambiare idea, ad accettare i fatti, quando ne rifiutano l'evidenza? Lee McIntyre dimostra che ognuno di noi può combattere il negazionismo e che è fondamentale farlo. Altrimenti ci porterebbe alla rovina.
Attingendo alla propria esperienza personale e alla letteratura scientifica, McIntyre rivela e delinea le strategie tipiche e comuni ai diversi negazionismi: dalle campagne di disinformazione delle multinazionali del tabacco negli anni '50, inventate per contrastare le evidenze scientifiche dell'azione cancerosa delle sigarette, ai no vax dei giorni nostri. Descrive i faticosi tentativi, dopo essersi "infiltrato" a una convention sulla Terra piatta, di convertire i ‘Flath Earthers’; le singolari discussioni con i minatori dei giacimenti di carbone; le conversazioni con l'amico scienziato sulla presenza di OGM negli alimenti. Offre, soprattutto, una serie di strumenti e tecniche per comunicare la verità e i valori della Scienza, sottolineando che il modo migliore per avvicinarsi ai negazionisti è quello di mettersi in gioco, avere il coraggio di incontrarli di persona e confrontarsi sempre con estrema calma e rispetto».

Ancora una cosa. Questo libro ha fatto dire allo storico della Scienza Michael Shermer: “Lee McIntyre è una delle voci più decise nella lotta contro la pseudoscienza, la superstizione, le fake news e gli ‘alternative facts’ che, negli ultimi anni, si sono diffusi in modo preoccupante. È ormai evidente che i fatti, da soli, non sono più sufficienti per convincere i negazionisti a cambiare idea. Che cosa fare, quindi? McIntyre passa in rassegna la letteratura scientifica e le nostre conoscenze sulla psicologia delle false credenze, ma anche le strategie più efficaci, raccontando le sue pittoresche conversazioni con i negazionisti. Destinato a diventare un classico".

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Lee McIntyre
Come parlare con chi nega la scienza
Prefazione e traduzione di Antonio Disi
Presentazione di Antonio D’Aloia
300 Pagine * 33.00 Euro
PdF con Drm 27.99 Euro
FrancoAngeli


Auguri Baruch!

Occorrerebbero quasi 400 candeline su di una torta per festeggiare gli anni raggiunti oggi dal filosofo olandese Baruch Spinoza particolarmente caro a Nybramedia e al suo conduttore, o tenutario se ritenete sia denominazione più acconcia.
Il 24 novembre del 1632 nasceva ad Amsterdam Baruch Spinoza.
Consultato il Calendario Perpetuo, si apprende che il 24.11.1632 era di mercoledì.
Ci berrei volentieri qualche bicchiere al bar con questo scomunicato dagli ebrei e detestato dai cattolici… gli islamici?... lui ha scritto che le religioni “… sono fatte per ingannare i popoli e per vincolare le menti degli uomini". Inoltre, afferma che l'Islam supera di gran lunga il Cattolicesimo in vincoli per gli uomini. Ne sappiamo qualcosa noi, oggi, con gli assassini di Hamas che vorrebbero un nuovo Gran Califfato a governare il mondo pfui!.

Per avere un ritratto del pensiero di Spinoza, mi sono rivolto a un’amica da molti anni di questo sito: Maria Turchetto.
Epistemologa, già docente all’Università di Venezia; ha diretto per 15 anni il bimestrale “L’Ateo”; curato la raccolta di saggi “Darwin fra Natura e Storia”; le è stato dedicato il volume Sconfinamenti. Scritti in onore di Maria Turchetto pubblicato da Mimesis.
Torna così su queste pagine web una voce che mi è cara.
Ecco il suo intervento da me richiesto.

«Nell’ambito della filosofia moderna, l’”Etica” di Spinoza rappresenta la più importante, rigorosa (more geometrico demonstrata), sistematica formulazione di un pensiero ateo, materialista ed edonista.
Ateo: Spinoza non nega esplicitamente Dio (scrive nel XV secolo, clamorosamente inaugurato dal rogo di Giordano Bruno, l’odore di bruciato era ancora nell’aria), ma riconducendo Dio alla natura (Deus sive Natura) ottiene l’effetto di toglierlo completamente di torno.
Materialista: fondamentale la sua negazione del dualismo mente/corpo (tanto caro a Cartesio e tuttora profondamente radicato nelle teste dei nostri contemporanei) che ne fa un antesignano delle attuali neuroscienze – a detta di Antonio Damasio (cfr. Alla ricerca di Spinoza) che in questo campo non è certo uno sprovveduto.
Edonista: la “sapienza” – secondo il mio compianto maestro Paolo Cristofolini, uno dei maggiori studiosi di Spinoza, la filosofia di Spinoza è “l’ultima manifestazione in Occidente di un ideale sapienziale, intendendo per sapienza […] l’ideale di sintesi tra la somma del sapere e il perseguimento di ciò che per noi è bene” ha come scopo la gioia (laetitia). Qui ed ora, non certo in un improbabile paradiso».

Per chi volesse approfondire, segnalo di Maria Turchetto “Spinoza edonista (e materialista). Una lettura incrociata”, in L’Ateo, n. 2/2013 scaricabile QUI.


Parigi secondo Julien Green

Lo scrittore e drammaturgo Julien Green (nome francesizzato di Julian Hartridge Green) nacque a Parigi da genitori americani nel settembre 1900 e in quella città morì nell’agosto 1998.
Fu uno dei pochi autori pubblicato nella collezione Pléiade mentre era in vita.
In Italia, nel 1985, ebbe il “Premio Comisso” nella sezione Biografie.
Ha scritto prevalentemente in francese, ma ha pubblicato alcuni libri in inglese perché era bilingue; ha anche tradotto alcune sue opere in inglese.
Altre notizie e considerazioni sulla sua opera QUI.

Parecchi critici hanno detto di lui che meriterebbe più spazio nella storia letteraria francese e si sorprendono che quello spazio non lo abbia ottenuto.
Convertitosi dal protestantesimo al cattolicesimo, nella sua opera si riflette la sua fede (senza risparmiare aspre critiche all’ipocrisia ecclesiastica) che non trovò contraddizione con la sua omosessualità. Uno studio su quest’aspetto della sua figura letteraria si trova in “L’indicible de l’homosexualité dans l’œuvre de Julien Green” di Carole Duval.

La casa editrice Adelphi ha pubblicato di Green Parigi.
Parigi… credo che insieme con Roma, New York e Londra sia la città sulla quale più si è scritto in prosa e in versi, per non dire di quante opere teatrali, cinematografiche, televisive ha fatto da scenografia. Aggiungo che solo nella mia biografia di regista conto finora la direzione di tre sceneggiati radiofonici alla Rai e molti altri esistono diretti da miei colleghi.

Parigi… qualche battuta dai tanti film

- “Che Parigi esista e qualcuno scelga di vivere in un altro posto nel mondo sarà sempre un mistero per me”!
(dal film Midnight in Paris)

- “Oh ma Parigi non è fatta per cambiare aerei.. è fatta per cambiare vita! Per spalancare la finestra e lasciare entrare la vie en rose”.
(dal film Sabrina)

- “Finché non ti hanno baciata in uno di quei piovosi pomeriggi a Parigi, non sei mai stata baciata”.
(dal film Mariti e Mogli)

Qualche rigo da tanta infinita letteratura

- “Parigi è come un oceano. Gettateci pure una sonda e mai ne conoscerete la profondità”.
(Honoré de Balzac)

- “La mia grande scoperta fu che a Parigi potevo essere giovane, mentre a New York, a ventun anni, ero un vecchio”.
(Henry Miller)

- “Strappatemi il cuore, ci vedrete Parigi!”.
(Louis Aragon)

E Julien Green?
Non ricordo chi ha sostenuto – e sono d’accordo con lei o lui che sia – che si può giudicare un libro leggendo di seguito le prime e le ultime righe. Longanesi sulla falsariga andò oltre dicendo che di un articolo bastava il titolo e la firma. Tornando alla lettura delle prime e ultime parole di “Parigi” ne trascrivo incipit ed explicit.
Leggete e giudicate voi.

“Ho sognato tante volte di scrivere un libro su Parigi che fosse come una lunga passeggiata senza meta, nel corso della quale non si trovano le cose che si cercano ma molte altre che non si stavano cercando. Anzi, è solo così che mi sento in grado di affrontare un argomento che mi scoraggia non meno di quanto mi attragga”.
(…)
“Parigi mi ha ossessionato a tal punto, nella vita, che molti personaggi dei miei romanzi hanno ereditato da me l’attrazione e il piacere che provo nelle passeggiate solitarie e avventurose attraverso la capitale. Ancora oggi mi basta seguire l’uno o l’altro di loro per ritrovare, per suo tramite e come intensi$cato dalle sue fantasticherie, il turbamento o l’incanto di un luogo in cui ritorno per caso”.

Dalla presentazione editoriale.

«Nato nel XVII arrondissement da genitori originari del Sud degli Stati Uniti, in bilico fra due lingue e due culture, Julien Green ha fatto di Parigi la sola vera patria, oggetto di una amorosa contemplazione e di una stupefatta tenerezza. Nessuno meglio di lui poteva dunque non già raccontarci le eclatanti meraviglie di cui vanno a caccia i turisti, ma svelarci un’anima che non si lascia cogliere facilmente, una città segreta e inaccessibile che “appartiene ai sognatori” disposti a girovagare senza problemi di tempo, e quella inesplicabile qualità che di fronte alla più umile delle immagini, come la ”fila di libri malconci nel cassone di un bouquiniste”, ci fa dire senza esitazione: “Questa è Parigi”
Una qualità che Julien Green, grazie al suo contagioso amour fou, riesce miracolosamente a trascrivere, a raffigurare con le parole, convincendoci che non vale la pena di «affrontare le turbolenze degli aeroporti e la noia delle crociere per andare a cercare dall’altra parte del mondo, in mezzo alle folle o nei pochi luoghi deserti che restano,» ciò che soltanto Parigi sa offrirci ogni giorno «con tanta generosità».

Per leggere le prime pagine: CLIC

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Julien Green
Parigi
Traduzione di Marina Karam
118 pagine * 12. Euro
Con 19 immagini
Adelphi


Joni Mitchell

Nei riguardi delle persone che amo sono vittima di un’approssimativa sorta di “effetto Dorian Gray”: ne fermo l’immagine nella mia memoria al momento del primo incontro e non riesco a vederne l’invecchiamento.
Ecco perché la foto di Joni Mitchell qui accanto la ritrae quando era giovane, così la ricordo, e non già adesso che il 7 novembre scorso ha compiuto 80 anni.
Ha ottant’anni? Non lo voglio sapere. Sennò ricordo anche i miei.

Joni Mitchell, all'anagrafe Roberta Joan Anderson, nata in Canada a Macleo, ha iniziato la sua carriera musicale a metà degli anni '60 come cantante folk.
Scrive Onda Rock: «Quello di Mitchell è un talento cristallino, emerso fin da bambina, quando già suonava il pianoforte, l'ukelele e la chitarra. Come la stessa cantautrice ha ricordato, fu solo il superamento della poliomelite, che la colpì violentemente a nove anni, a farle sviluppare una profonda sensibilità artistica. A definire meglio questa propensione, pensò un suo insegnante alla scuola media, Mr. Kratzman, che l'aiutò sia nella pittura che nella poesia. "Se puoi dipingere con un pennello, lo puoi fare anche con le parole", amava ripeterle. Ed è a lui che Mitchell dedicherà il suo album di debutto omonimo del 1968 (poi ristampato come "Song To A Seagull"): "To Mr Kratzman who taught me to love words". E' l'inizio di una carriera folgorante, che la porta in breve a diventare una "sensation" nel circuito dei folksinger prima in Canada (Toronto), poi negli Stati Uniti (New York prima, California dopo). I successivi album "Clouds" e "Ladies Of The Canyon" accrescono la sua fama. Ormai Mitchell è un star del folk, al punto che viene ingaggiata da Carole King per il suo epocale "Tapestry" e da James Taylor per il suo "Mud Slide Slim And The Blue Horizon".
Ma è con "Blue" (1971) che la cantautrice di Alberta mette a fuoco definitivamente la sua arte (…) Oltre alla grande abilità compositiva e alla poliedricità degli arrangiamenti, a far presa sull'ascoltatore è la tecnica vocale di Mitchell, giocata sul contrasto tra i toni alti da soprano (nella tradizione del canto medievale e dell'aria da opera), e quelli più profondi, resi rochi dal vizio del fumo. L'esito è una sorta di litania nevrotica, che fa da veicolo ideale alle sue tormentate autoanalisi».

Joni Mitchell ha attraversato non poche disgrazie: la poliomelite, un ictus, una drammatica maternità, dolorose separazioni nella vita sentimentale; un giorno ha detto: “Il dolore è facile da esprimere e così difficile da raccontare.”

Tra le tante sue canzoni che amo ho scelto Raised on Robbery.

Buon ascolto.


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