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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Metafore del silenzio

Si dice spesso che i nostri giorni sono quelli della civiltà dell’immagine. È possibile che sia così, ma è anche la civiltà (e, assai spesso, l’inciviltà) del suono.
Samuel Beckett è del silenzio, soffocato dalle chiassose relazioni dei nostri giorni, uno dei più grandi interpreti del Novecento. Di quel silenzio ne ha intuito tragicità e comicità, ne ha fatto tracciato di vita e linguaggio; non è forse un caso che concluda una delle sue grandi opere – L’innominabile, 1953 – scrivendo: “… non so, non lo saprò mai, nel silenzio non si sa, bisogna continuare, e io continuo”.
E non è ancora solo un caso che – dopo varie traversìe di produzione – fu proprio lui a indicare Buster Keaton, altro eroe del silenzio, quale interprete di “Film” (1965). Singolare fu l’incontro a New York fra i due, ne riferisce il regista Alan Schneider con queste parole: “… l’incontro fra Beckett e Keaton, i lunghi silenzi fra loro, fu una di quelle occasioni che sembrano inevitabili prima di accadere, intollerabili quando accadono, impensabili in seguito”.
Altro grande interprete contemporaneo del silenzio, e della sua impossibilità, è John Cage.
Non solo con il famoso 4'33", ma pure con altre esemplificazioni nella sua opera.
Oggi, tutti c'imbottiscono le orecchie di musica. Non solo quelli che t'assordano ai semafori con lo stereo a palla, ma pure coloro che frequentiamo per le necessarie pratiche quotidiane. In bus, metro, stazioni, taxi, sale d'attese, studi di medici, notai, avvocati: musica, implacabilmente musica.
Perfino sulla poltrona del dentista, si bucano gengive, si strappano molari su impetuose onde sinfoniche, ritmiche scansioni jazzistiche, melismatici canti napoletani.
Perché tanto chiasso? Perché il silenzio mette paura a tanti. Perché aiuta a pensare.
Per difenderci dai decibel l'austriaco Rudolf Stefanich sta perfezionando il suo ‘Sono’, che si alimenterà succhiando energia da altri dispositivi wireless presenti in casa. “Il prodotto, ancora in via di sviluppo” - come scrive Pier Luigi Pisa – “sfrutta una tecnologia simile a quella utilizzata dalle cuffie noise-cancelling per attenuare i rumori dell'ambiente circostante”.
Non esistono però rimedi soltanto tecnologici ma anche filosofici per gustare il silenzio. Si pensi a Duccio Demetrio e Nicoletta Polla-Mattiot benemeriti fondatori dell’Accademia del Silenzio.
Sono anche curatori della omonima collana dell’editrice Mimesis nella quale di recente è stato pubblicato un aureo librino intitolato Metafore del silenzio.
Ne è autrice Francesca Rigotti (Milano 1951).
Filosofa e saggista, è docente all’Università della Svizzera Italiana, dopo aver insegnato a Göttingen, a Princeton e a Zurigo. Collabora a riviste e a trasmissioni radiofoniche e tv italiane e svizzere.

Dal quarto di copertina.
“Come parliamo quando parliamo di silenzio? Attenzione, non soltanto, «di che cosa parliamo», ovvero quali sono la natura, la sostanza, la struttura del silenzio, bensì, soprattutto, come ne parliamo, cioè quali sono le immagini, le espressioni, le metafore che si celano nelle parole con le quali parliamo di silenzio, e che cosa di esso ci rivelano? Esistono due modelli mentali dominanti per parlare del silenzio: come cosa positiva, solida, dura, che riempie lo spazio, e che il suono e la parola, col loro irrompere, infrangono; o, all’inverso, come un magma liquido nel quale le parole affiorano come blocchi di lava galleggiante. Su tale dualità riflette filosoficamente questo libro”.

Francesca Rigotti
Metafore del silenzio
Pagine 54, Euro 3.90
Mimesis Edizioni


I fiori del male


Un nuovo webmagazine arricchisce la Rete con una pluralità di eccellenti proposte critiche: I fiori del male.
A ideare e dirigere questa rivista è Luca Sommi, nato a Parma nel 1972.
Autore e critico.
Si occupa prevalentemente di letteratura e arte. Ha curato molte mostre, tra queste la grande esposizione su Correggio nel 2008.
Si sono avvalsi della sua collaborazione alcuni quotidiani, come «l’Unità» e la «Gazzetta di Parma».
Ha scritto anche per il piccolo schermo.
Nelle edizioni Aliberti troviamo la sua firma in volumi con Oliviero Toscani: Moriremo eleganti; Paolo Villaggio: Non mi fido dei santi; Enrico Vaime: A sinistra nella foto.

Le pagine web dei fiori del male spaziano tra molti campi espressivi: dalle arti visive alla letteratura, dall’architettura al video, dal teatro al cinema, dai viaggi alla cucina.
Tante le firme valorose, da Philippe Daverio ad Arturo Carlo Quintavalle, da Oliviero Toscani a Paola Veneto, da Giordano Bruno Guerri a Paola Catapano da Marco Pozzali a Federico Sabatini. Quest’ultimo ho avuto il piacere di ospitare su questo sito in occasione di sue magnifiche pubblicazioni, ad esempio QUI e anche QUI.
Sui Fiori del male conduce la rubrica “I labirinti della letteratura”.


Bill Viola: The Raft


Una nuova mostra in Italia, a Mantova, dedicata a Bill Viola (New York, 1951).
Tanti gli scritti su di lui, scelgo quello di Cristina Di Pietro che mi pare, con grande capacità di sintesi, ben interpreta il mondo di quest’artista.

Gran parte delle opere di Viola ruota attorno a cinque elementi fondamentali che l’artista definisce di «vitale importanza per la comprensione dell’essere»: cicli vitali, oscurità, luce, spazio, suono. Non è un caso che siano cinque gli elementi fondamentali che l’artista utilizza nelle sue opere; spesso infatti il lavoro di Viola è strutturato e concepito sulla base del numero cinque particolarmente significativo nella cultura orientale e a cui Viola si accostò nei primi anni ’80 grazie ad un soggiorno in Giappone […] Tra gli aspetti più originali adottati da Viola in tutti i suoi video, quelli che si notano in modo particolare sono l’uso estremo del rallentatore, quasi come a voler cercare la stasi della pittura nel filmato; il suono che se da un lato sembrerebbe associato naturalmente all’immagine, in realtà è accuratamente progettato. Altro costituente che da sempre caratterizza le produzioni di Viola è l’uso dello spazio come elemento narrativo, muovendo lo spettatore all’interno della narrazione dell’opera, commuovendolo attraverso l’identificazione con il soggetto rappresentato.

In foto: still dal video The Raft, May 2004, Video/sound installation)

Bill Viola inizia la sua carriera artistica affiancando i padri fondatori della visual art: Bruce Nauman e Nam June Paik.
Ha studiato e lavorato con il compositore David Tudor, sperimentando la musica e la scultura sonica. Sue realizzazioni musicali includono: il video/film Déserts, creato nel 1994 per accompagnare la composizione musicale Déserts di Edgard Varèse; una suite di tre nuove rappresentazioni video per il tour mondiale “Fragilità” del gruppo rock Nine Inch Nails nel 2000; la creazione di un video di quattro ore per la produzione di Peter Sellars di Tristano e Isotta di Richard Wagner nel 2005. Dal 1974 al 1976, è stato direttore tecnico di produzione a Firenze dello studio di videoarte Art/Tapes/22, collaborando con parecchi artisti, ad esempio: Giulio Paolini, Mario Merz, Jannis Kounellis, Vito Acconci. Con un lungo soggiorno in Giappone (1980-81, nell'ambito della Japan/US creative arts fellowship) ha approfondito lo studio delle tecnologie avanzate del video e i suoi interessi per le filosofie orientali studiando con Daien Tanaka, pittore monaco zen.
Le sue opere sono esposte nei musei e nelle gallerie di tutto il mondo e fanno parte di numerose collezioni famose.
Vive insieme con la moglie Kira Perov, sua collaboratrice storica, a Long Beach, California.

Tocca a lui firmare il secondo intervento del ciclo “La casa degli dei”, un progetto dell’Assessorato alle Politiche Culturali e alla Promozione Turistica del Comune di Mantova che vede protagonisti internazionali dell’arte contemporanea dialogare con gli spazi di Palazzo Te di Mantova.
L’opera presentata è intitolata “The Raft”.
La parola “raft”, tradotta in italiano, significa variamente “zattera”, “gommone di salvataggio”, termini che suggeriscono una condizione di pericolo, di emergenza, che Viola interpreta riprendendo alcune scene dipinte da Giulio Romano nella sala dei Giganti, dove questi ultimi sono trascinati a riva da violenti flussi di acqua, nel disperato tentativo di mettersi in salvo.
Viola si è spesso ispirato alle iconografie della pittura rinascimentale italiana. Famose tavole e pale d’altari, come la Visitazione del Pontormo (The Greeting, 2002) o la Deposizione di Masolino (Emergence, 1995) sono diventate nelle sue mani veri e propri quadri in movimento.
In “The Raft” (realizzata nel maggio 2004), un gruppo di diciannove personaggi, uomini e donne appartenenti a differenti etnie e ambienti sociali, viene improvvisamente colpito da forti getti d’acqua provenienti da entrambi i lati dell’inquadratura, talmente violenti che alcuni personaggi cadono per terra immediatamente, mentre altri riescono a stento a restare in piedi. Improvvisamente com'era arrivata, l'acqua si ferma, lasciando gli individui attoniti e increduli, alcuni sollevati, altri agonizzanti.
L’azione è stata registrata dal vivo ad alta velocità, ma si svolge al rallentatore per una durata di circa 10 minuti.

Per visitare il sito web di Bill Viola: CLIC!

Ufficio stampa
CLP Relazioni Pubbliche
Anna Defrancesco Gatti, tel. 02 36 755 700; mob. 349 6107625
anna.defrancesco@clponline.it; www.clponline.it

Bill Viola. The Raft
Mantova, Palazzo Te (Viale Te)
Informazioni: tel. 0376 – 323 266
23 novembre 2013 – 20 febbraio 2014


Morandini 2014

“Il più bel film che mai sarà fatto, è stato già fatto!”, così dice Ryan O’ Neal a Burt Reynolds, in ‘Vecchia America’, film del 1976 di Peter Bogdanovich.
Forse è vero, forse no. Se però vogliamo sapere tutto dei film finora girati, il migliore strumento che abbiamo in Italia è il Morandini, celebre pubblicazione firmata da Morando, Laura, Luisa Morandini.
Tempo fa incontrai Morando Morandini ed ebbi con lui una conversazione sul suo lavoro di critico e sul lavoro redazionale del Dizionario, se volete leggerla cliccate QUI.
Oggi, grazie alla Zanichelli che dal 1999 pubblica questo prezioso Dizionario dei Film, è in libreria l’edizione 2014 dell’opera.
E’ uno strumento imperdibile per chi lavora nel cinema, per i redattori della stampa quotidiana e periodica, le radiotelevisioni, i webmagazine, ma anche per quanti amano il cinema, la sua storia, le vie percorse e quelle che sta percorrendo.

Sono anni ormai che il Morandini, da considerare la più grande mappa del cinema pubblicata in Italia, riserva novità ad ogni sua nuova edizione.
Non solo cinema, infatti, nel 2014 già in libreria perché sono accolte anche le serie tv.
La famosa bibbia dei cinefili così s’evolve e diventa Dizionario dei film e delle serie televisive ospitando fiction, telefilm, sitcom per la tv.
Il perché lo hanno spiegato gli stessi autori, i critici cinematografici Luisa e Morando Morandini, alla presentazione nazionale del Dizionario che si è tenuta al Festival Internazionale del Film di Roma.
Lì abbiamo appreso tutte le ghiotte novità contenute nella nuova edizione, e, sono stati criticamente illustrati, cinema e fiction, come due modi simili, e al contempo diversi, di fare arte e intrattenimento visuale.
Analogie e differenze fra i linguaggi, aneddoti, analisi critica del piccolo e del grande schermo, le ritroviamo, quindi, nelle pagine del Morandini 2014, dal 1902 all'estate 2013 e, in una sezione apposita, una scelta – come prima dicevo – di circa 250 serie televisive e una di cortometraggi.
In copertina (comparirvi è diventato un traguardo per gli attori) stavolta è Luca Zingaretti; QUI alcune sue dichiarazioni sulla fiction in tv prendendo spunto proprio dal "Morandini".

Ufficio Stampa
Email: zanichelli.ufficiostampa@zanichelli.it
Tel. (+39) 06.32 08 066 – Fax ( +39) 06.32 08 168; Cell. (+39) 339 – 64 95 222

Circa i prezzi c’è la possibilità di un’articolata scelta.
Volume + Dvd – Rom +online = 38.80 Euro
Volume unico = 31.00 Euro
Versione download = 16.90 Euro


Portico d'Ottavia 13


Come ricordavo giorni fa su queste pagine, una delle date più crudeli che abbiano colpito Roma nel secolo scorso, è quella del 16 ottobre '43.
Settanta anni fa, infatti, ci fu il più grande rastrellamento contro gli ebrei in Italia; l'esercito nazista deportò dalla capitale oltre mille ebrei, in maggioranza donne e bambini.
Furono portati ad Auschwitz, solamente in 16 tornarono dal campo di sterminio: 15 uomini, una donna, nessun bambino.
Una grande storica, Anna Foa ha dedicato a quella tristissima data un libro di particolare scrittura fissando la storia di quell’aggressione su di un solo indirizzo del ghetto, un’antica casa medievale dove furono arrestati più di trenta ebrei, un terzo dei suoi abitanti, tra i più poveri della Comunità. Sono per lo più vecchi, donne e bambini. Altri quattordici saranno catturati nei mesi successivi.
Il volume, edito da Laterza, è intitolato Portico d'Ottavia 13 Una casa del ghetto nel lungo inverno del ‘43.
Libro che non indulge a nessun sentimentalismo, usa pochi aggettivi rinunciando a ogni cosmesi della pagina, e con secchezza porta il lettore attraverso la microstoria di un solo edificio e dei suoi abitanti immerso nella macrostoria di una tragedia.
Tragedia che aveva avuto in Italia un precedente di estrema gravità nel 1938 (e da molti allora sottovalutato) quando furono varate le leggi razziali fasciste.
Del resto, ancora oggi c’è chi afferma che il fascismo non fu persecutorio con gli ebrei, Mussolini suppergiù un bonaccione, il confino paragonabile a una vacanza, e Berlusconi – lo stesso che racconta barzellette sugli ebrei nel 2009 alla vigilia di una Giornata della Memoria – paragona i suoi figli (che vivono fra jet privati, elicotteri, lussuose ville e presiedono aziende) “perseguitati oggi in Italia come gli ebrei sotto il nazismo”.

Anna Foa insegna Storia moderna all’Università di Roma La Sapienza. Si è occupata di storia della cultura nella prima età moderna, di storia della mentalità, di storia degli ebrei.
Tra le sue pubblicazioni: “Ateismo e magia” (Roma, 1980); “Giordano Bruno” (Bologna 2002); “Eretici. Storie di streghe, ebrei e convertiti” (Bologna, 2011); “Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento” (2011); “Ebrei in Europa. Dalla peste nera all’emancipazione XIV-XIX secolo) ” (2013).

A lei ho rivolto alcune domande.
Fra ricerche e stesura, quanto tempo ha impiegato a scrivere questo libro?

La scrittura vera e propria mi ha preso all’incirca un anno, forse un po’ meno, ma ci stavo lavorando da molto tempo. Ad un certo punto, avevo quasi rinunciato a scriverlo, perché non riuscivo ad immaginare come coniugare il rigore storico con l’esigenza di ridar vita a tutti gli abitanti della Casa. Poi ho rinunciato alla completezza, e ho accettato il fatto che di alcuni ero riuscita a sapere molte cose, di altri quasi nulla, poco più che i nomi. Ma la mia scelta è stata rigorosamente storica, non narrativa tranne che nel linguaggio, che invece punta alla narrazione.

Oltre alle leggi razziali, il fascismo quali responsabilità dirette ha avuto nei nove mesi d’occupazione nazista di Roma?

Il fascismo ha avuto responsabilità primarie negli arresti e deportazioni degli ebrei romani dopo il 16 ottobre 1943. Come nel resto d’Italia, a partire dal novembre-dicembre del 1943, dichiarando gli ebrei nemici dell’Italia, il regime di Salò si era assunto in prima persona il compito della caccia agli ebrei che i nazisti, che erano impegnati sul fronte militare, non erano in grado di condurre efficacemente. A Roma come altrove, perciò, la polizia italiana aderente alla Repubblica di Salò era impegnata nella cattura degli ebrei. Il questore Caruso, nominato a Roma all’inizio di febbraio 1944, aveva tuttavia scarsa fiducia nella rete dei commissariati di zona, e creò dei gruppi speciali di polizia addetti all’arresto degli ebrei. Oltre a questi, vi erano a Roma bande di delinquenti che agivano nella cattura degli ebrei sotto il nome di SS italiane, rispondendo direttamente a Kappler, quali la banda Cialli Mezzaroma e quella di Renato Ceccherelli. Queste bande agivano principalmente sulla base di delazioni. Un gran numero degli ebrei arrestati a Roma nel periodo successivo al 16 ottobre, in tutto più di mille, furono arrestati dagli italiani, e fra loro tutti gli abitanti della Casa.

In Italia, a chi riferire le principali colpe del risorgere del neonazismo e dell’antisemitismo cui oggi assistiamo?

Negli ultimi anni abbiamo assistito in Italia come anche nel resto d’Europa ad una forte ripresa dell’ antisemitismo, un fenomeno che consideravamo ormai un residuo del passato. Credo che alle origini vi sia lo sviluppo del web, che diffonde idee complottistiche, e fa presa sull’ignoranza dei più e sulla voglia di sfatare idee e immagini considerate frutto del potere. Non si può inoltre fare a meno di considerare il più generale degrado culturale in cui versa il paese, l’ignoranza non solo degli studenti ma anche di molti docenti, la scarsa considerazione in cui la cultura e in particolare quella storica sono ormai tenute. Su questa ignoranza, il pregiudizio e l’odio antisemita crescono e si allargano senza freni. A tutto questo, si può rispondere solo con una seria ripresa culturale.

Per una scheda sul libro e un video con un’intervista di Concita De Gregorio ad Anna Foa: CLIC!

Anna Foa
Portico d’Ottavia 13
Pagine 168, Euro 15
Laterza


Il Parco sculture del Chianti


Quei 26 lettori di questo sito… sì, 26, ne ho uno più di Manzoni… sanno che a Cosmotaxi piacciono i musei all’aperto oppure che abbiano originali dislocazioni.
Oggi ne visitiamo uno.
Pievasciata, piccolo borgo nel cuore del Chianti senese, si sta trasformando in un centro d’arte contemporanea. Il punto focale è il Parco Sculture del Chianti, mostra permanente di opere integrate in un bosco di querce e lecci.
Sempre nel parco è stato creato un anfiteatro/scultura che offre ai visitatori un denso programma di concerti ed eventi culturali. Infine, a pochi metri, la Vecchia Fornace ospita sculture e il Winebar My Way, una galleria d’arte.

L’anfiteatro, anzi meglio chiamato Anfiscultura, fu inaugurato nel settembre 2009. Si trova all’ingresso del Parco. Le quinte sono in marmo bianco di Carrara, delle cave Michelangelo, e in granito nero dello Zimbabwe. I gradoni, che possono accogliere circa 250 spettatori, e il palcoscenico, sono rivestiti da lastre di lava. Qui, da maggio a settembre, si hanno ascolti, incontri, performances..
A 500 metri dall’ingresso del Parco si trova My Way, galleria di dipinti e winebar.
Si possono degustare vini e assaggiare affettati, circondati da opere d’arte visiva provenienti da ogni continente.
Circa la Fornace va detto che è prima di tutto una galleria d'arte molto particolare ambientata in una vecchia fabbrica di articoli in terracotta, ristrutturata e vincolata alla Soprintendenza ai Beni Culturali. Sono esposti artisti stranieri molto noti nei loro Paesi d'origine ma spesso sconosciuti in Italia.

Il Parco Sculture del Chianti nasce da un’iniziativa dei coniugi Piero e Rosalba Giadrossi, entrambi appassionati d’arte contemporanea.

(In foto; Christoph Spath, Balance, marmo e vetro, 3 m.x3.30)

Piero Giadrossi (QUI la sua bio) definisce il parco un organismo complesso diventato una composizione artistica che cambia aspetto col mutare della luce e delle stagioni.
A lui ho rivolto alcune domande.

Quando e come nasce il Parco?

Il Parco fu inaugurato ufficialmente nel maggio 2004. L’idea l’ho avuta circa 5 anni prima visitando i giardini botanici di Kristenbosch a Città del Capo. C’era una bellissima mostra di scultori Shona dello Zimbabwe e l’integrazione con la natura circostante mi sembrò veramente bella.
Avevo da poco acquistato un bosco di 14 ettari metà dei quali erano recintati in quanto in precedenza esisteva un allevamento di cinghiali.
Seguii poi un seminario sui Parchi nel New Jersey presso l’International Sculpture Center
.

Qual è il principio che guida la selezione delle opere da esporre?

I principi ispiratori del Parco Sculture del Chianti posso riassumerli in tre punti:
- Integrazione tra arte contemporanea e natura
- Multinazionalità degli artisti
- Pluralità di materiali usati
Per realizzare il primo obiettivo, gli artisti sono stati invitati, uno alla volta, a visitare il bosco, ed è stato chiesto loro di scegliere un posto e di fare quindi una proposta la più integrata possibile, al posto scelto
.

So di un’altra sua iniziativa sempre legata al territorio, può tracciarla in sintesi?

Sì, certo. Si tratta di trasformare Pievasciata (il villaggio vicino a noi) in un Borgo d’Arte Contemporanea. L’idea è di coinvolgere sia le istituzioni sia i privati ad esporre opere d’arte sui propri terreni per rendere più attraente un territorio, come il Chianti, già conosciuto per il suo vino ed i suoi borghi antichi.
Otto sono le opere già installate
.

Per rilevarne la dislocazione: CLIC!

Ufficio Stampa: Claudia Ratti, tel e fax 039 272 1502; claudiaratti@clarart.com
Sito web: www.clarart.com

Orario d’apertura Parco del Chianti:
Tutti i giorni dalle ore 10:00 al tramonto.
In estate, è possibile usufruire dell’area picnic per un pranzo a contatto con la natura.
Da novembre a marzo si consiglia di telefonare prima della visita: +39 0577- 35 71 51
Prezzi d’ingresso: 7.50 €; Ridotto 5.00 € (sotto i 16 anni)


Anonymous

Il catalogo di Feltrinelli Real Cinema infila un’altra perla nella sua prestigiosa collana fatta di film che mai entrano nelle sale o hanno una distribuzione precaria. Eppure si tratta di film importanti per pratica di linguaggio non tradizionale o scelta di temi scomodi.
È il caso di questo Anonymous L’esercito degli hacktivisti pubblicato in un cofanetto che contiene libro e Dvd.
Si tratta del vivace, sfrecciante documentario di Brian Knappenberger.
Scrittore, regista e produttore, ha realizzato numerosi documentari, spot pubblicitari e lungometraggi per Sundance Channel, Pbs Frontline/World, Travel Channel, National Geographic e Discovery Channel.
In “Life After War” indaga le tensioni e i cambiamenti politici nel sud dell’Afghanistan mentre in “A Murder in Kyiv” si concentra sull’abuso di potere e problemi legati alla libertà di parola in Ucraina.
Altri lavori spaziano dal cambiamento delle condizioni nell’Artico a come le tecnologie di ultima generazione cambino i nostri corpi in “Into the Body”.
Adesso vive a Venice, California, e gestisce la compagnia di produzione Luminant Media.

Al MilanoFilmFestival, “Anonymous” fu presentato con la seguente scheda: “Collettivo anarchico o miliziani della libertà d’espressione? Autentici rivoluzionari o asociali fautori del caos? Ognuno, dopo aver visto il film di Brian Knappenberger, potrà farsi un’idea di Anonymous. Dalla genesi, nel 2003, tra i post di 4chan, fino al supporto agli attivisti tunisini ed egiziani durante la primavera araba, passando per le azioni contro Scientology e Paypal, al fiancheggiamento di Wikileaks, il film, attraverso la voce degli stessi hacktivisti (molti dei quali non protetti dall’anonimato), fornisce una lettura di alcuni degli eventi chiave della nostra storia recente che nessun organo di informazione ufficiale approverebbe. Un inno alla disobbedienza civile”.

Nelle note di regìa Knappenberger ha scritto: Ho seguito a lungo Anonymous ben prima di cominciare a girare questo film, guardandoli con interesse sin dalla loro prima apparizione nel 2008 con l’attacco alla Chiesa di Scientology. Come molti, anch’io ho sempre ed erroneamente pensato che il movimento sarebbe sempre stato associato alla protesta di Scientology, ma un anno fa ho dovuto ricredermi. È ormai chiaro, infatti, che gli Anonymous stanno ridefinendo se stessi in modo sempre più affascinante e potente. La più grande sfida nel documentarli è stata più o meno quella che ci si può immaginare: avvicinarmi a quanti più individui possibile, coinvolti nelle diverse incursioni, per essere in grado di raccontare una storia veritiera.

Per una scheda editoriale: CLIC!

Brian Knappenberger
Anonymous
Libro + Dvd
Pagine 80, Euro 16.90
Feltrinelli Real Cinema


Reinforced Concrete


Marco Abbamondi e Stefano Ciannella, il primo lavorando su paste cementizie, il secondo sul ferro, s’incontrano, in una mostra – a cura di Guido Cabib – in corso a Milano, formando una costruzione visiva e tattile che esplora sia in senso fisico sia metaforico la natura del cemento armato.

Dicono ad una voce: È la configurazione semantica del corrispondente inglese ad avviare un processo di elaborazione che rimanda al fare e all'essere: “reinforced concrete” ovvero una concretezza robusta, rinvigorita dall'azione attraverso cui i due elementi sono uniti tra loro. Gli artisti sono attratti dalla solidità e compattezza di cose forzatamente messe insieme, cose che combinate tentano di funzionare e marciare nella direzione contraria a quella del tempo, aspirando all'eternità, alla grandezza, alla storia (entro documentati limiti).
La complessità, che evoca la parola e che definisce il materiale, ammicca infatti al fenomeno generativo (ovvero la composizione/unione di elementi) e diventa, teorema, fatto da cui trarre ispirazione. Cose, persone, altre identità sono cemento armato. Un composto che usiamo come metafora dell'uomo, individuo complesso, prodotto di diversi elementi, combinati tra loro dall'azione del pensiero, dell'essere e del fare; che contribuiscono alla sua formazione e col tempo, alla creazione di quelle crepe in superficie, che diventano poi ferite e morte
Vogliamo lanciare un messaggio: CONCRETE, che sta per being concrete. Siamo alla ricerca di un fare che genera frutti a lungo termine, efficaci e durevoli.
Il cemento è qui rappresentato nella sua essenza e funzione oggettiva ovvero forma, che occupa spazio sottratto alla natura; per questo motivo le installazioni in mostra sono accompagnate e segnalate dal volume della superficie che occupano

Dal catalogo.
“Reinforced Concrete 00'00 è il titolo del lavoro site specific, che sintetizza e dà origine alla mostra: # sacchi di farina, che sembrano di cemento sono disposti in ordine geometrico e occupano il volume centrale dello spazio; in corrispondenza un neon di un metro scrive e accende la parola Concrete. La dialettica dei contrasti e degli opposti domina la scena; la difficoltà nel codificare la natura delle polveri favorisce l'apertura di un varco e tenta la disponibilità a ricevere il messaggio: CONCRETE (being concrete). Parola chiave, s'identifica con l'idea di azione. Un inno al fare, che premia e valorizza la dinamica di mezzi e non necessariamente e prima, quella di risultato. Operatività, determinazione: Concretezza. Sotto la direzione e intrusione, necessaria e variabile, di uno stato liquido (richiamato dal colore azzurro del neon stesso), la materia può finalmente diventare prodotto, contenuto: fatto. Farina e cemento (solo evocato), polveri chiare e scure, strumenti che possono soddisfare necessità ed urgenze primarie: bisogni. Agiscono come segni, in direzioni differenti. Materiali, che subiscono variazioni di genere semplici, definitive e determinanti per lo sviluppo di una opera_funzione. Acqua, elemento centrale, costringe in vista della forma finale: respinge ogni resistenza e altera la natura originaria delle fonti. Liquidità evocata che rimanda all'esigenza di un medium ovvero di uno strumento di possibilità, idoneo a condurre il cambiamento: di ogni progetto, teorema o idea, in azione. Spinti a convivere, elementi per loro natura refrattari alla combinazione sono all'origine impreparati all’idea di perdita: proprio come l'uomo, incastrato da leggi morali, sociali e religiose”.

QUI il sito web di Marco Abbamondi
CLIC! per visitare quello di Stefano Ciannella

Marco Abbamondi • Stefano Ciannella
Reinforced Concrete
The Format Contemporary Culture Gallery
Via Giovanni Enrico Pestalozzi 10, Milano
Dal martedì al venerdì, dalle 15 alle 20
15 novembre > 13 dicembre 2013


Un mare d'inchiostro

Da Alessandra Pozzi, dell’omonimo Studio per la Comunicazione, apprendo di due interessanti mostre fiorentine.

L’incisione, l’arte grafica non sono soltanto patrimonio di secoli passati, ma si sono evolute e oggi se ne registra l’uso anche nelle arti visive dei nostri giorni.
L’Italia, e più precisamente Firenze, è da sempre un centro internazionale per l’arte grafica, basti pensare alla presenza del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi che raccoglie un patrimonio enorme di opere prodotte dalla fine del Trecento ad oggi
Non meraviglia, quindi, che proprio in quella città si svolgano due mostre per celebrare i 30 anni di attività della ‘bottega’ della grafica per eccellenza: la Scuola Internazionale di Arte Grafica Il Bisonte, fondata a Firenze nel 1983 da Maria Luigia Guaita.
Le esposizioni sono in corso in due templi della grafica d’arte: l’Accademia delle Arti del Disegno (‘Un mare d’inchiostro. Trenta anni di attività della Scuola Internazionale di Grafica d’Arte Il Bisonte) e la Galleria Il Bisonte (Un mare d’inchiostro. La generazione del Bisonte).
A proposito, il suo logo, qui in foto, ha una sua piccola storia.
Fu disegnato dall’architetto Aristo Ciruzzi che immaginò un bisonte in posizione d’attacco, circondato da due semicerchi, uno rosso, l’altro nero. Fu scelto il bisonte perché è una delle più antiche immagini disegnate dall’uomo, come dimostrano i graffiti delle grotte di Altamira in Spagna.

Nella prima mostra, antologica, dedicata ai 30 anni di attività, sono presentate 71 opere selezionate dall’archivio della Scuola ricco di oltre 7.000 pezzi che coprono le più svariate tecniche della grafica d’arte studiate e sperimentate dai migliori studenti dei corsi e dai maestri incisori che si sono succeduti in un trentennio dal 1983 al 2012. Al fine di avvicinare il pubblico alla raffinata arte dell’incisione e della stampa manuale, l’esposizione è integrata da una sezione didattica.
Nella seconda mostra, dedicata alla ‘generazione’ del Bisonte, è presentata una collettiva di 32 opere in cui artisti affermati a livello nazionale e internazionale, già allievi della scuola (tra cui Sandro Brachitta, Giovanni Turria e Toni Pecoraro) sono messi a confronto con “artisti–allievi” del Bisonte che, con successo, stanno portando avanti la loro ricerca in campo grafico.
Le due mostre sono corredate dal catalogo: Un mare d’inchiostro, 108 pagine, ill. b/n e col., edito da Polistampa, Euro 18.00

Contatti per la stampa
- Ufficio Stampa Alessandra Pozzi STUDIO POZZI
tel. 02 76003912 / mob. 338 5965789
e-mail: pozzicomunicazione@gmail.com

- Comunicazione e Relazioni Esterne Il Bisonte
Duccio Mannucci & Partners tel. 055 0120830 / mob. 333 2226171 /
e-mail duccio.mannucci@gmail.com

- Ufficio Stampa Firenze e Toscana, Riccardo Galli Ente Cassa di Risparmio di Firenze
tel. 055 5384503 / mob. 335 1597460 / e-mail: riccardo.galli@entecarifirenze.it

- Gherardo Del Lungo EVENTI PAGLIAI S.R.L.
tel. 055 7378721 / e-mail: press@eventipagliai.com

Un mare d’inchiostro.
Sala Esposizioni dell’Accademia delle Arti del Disegno
Via Ricasoli 68, Firenze
Fino al 30 novembre.
Lunedì chiuso.
Ingresso libero.

Un mare d’inchiostro.
Galleria Il Bisonte, Via San Niccolò 24r
Info: tel. 055 2342585 / e-mail gallery@ilbisonte.it
Fino al 29 novembre.
Sabato visitabile su appuntamento. Domenica chiuso.
Ingresso libero.


Il kit del 21° secolo

Le onde sempre più alte del flusso d’informazioni ci avvolgono o travolgono?
Il mensile ‘Wired’ ha messo a confronto le opinioni del sociologo polacco Zygmunt Bauman con quelle dell’esperto in media digitali Clay Shirky.
Il primo: “Sì, distinguere tra contenuti rilevanti e rumore è impossibile”.
Il secondo: “No. La Rete ci dà gli strumenti per filtrare i contenuti”.
Sia come sia, sta di fatto che durante gli ultimi trent'anni si sono prodotte più informazioni che nei precedenti cinquemila, mentre una copia dell'edizione domenicale del New York Times contiene più informazioni di quante potesse acquisire una persona colta, durante tutta la sua vita, nel XVIII secolo.
Questa grandissima quantità d’informazioni e nozioni si traduce in nuovi modi di vivere che passano attraverso nuove parole e nuovi segnali.
Ci troviamo di fronte a una maniera di rapportarci col mondo, col presente e col nostro futuro del tutto inedito, più non valgono parecchie delle esperienze del passato, i rapporti fra noi sono radicalmente cambiati, fisicamente c’incontriamo meno di tempo fa ma le comunicazioni si sono intensificate, le relazioni ispessite.
Rispetto a queste novità, in molti manifestano diffidenza (e, talvolta, disprezzo) altri fuggono atterriti mentre la saggezza faceva dire a John Cage: “Molti sono spaventati dal nuovo, a me terrorizza il vecchio”.

Proprio perché attraversiamo nuovi territori dell’umano, è necessaria una mappa per meglio orientarci nel cammino. Uno strumento utile l’ha pubblicato Vallardi, è intitolato Il kit del 21° secolo 625 cose che devi sapere del mondo di oggi.
Ne sono autori François Reynaert e Vincent Brocvielle.
Il primo, giornalista e scrittore, è una firma del Nouvel Observateur. Il suo “Nos ancêtres les Gaulois et autres fadaises” è stato un successo da oltre 80.000 copie.
Il secondo, esperto di storia e critica d’arte, è autore di Le Petit Larousse de l’Histoire de l’Art. Scrive anch’egli per il Nouvel Observateur.

Il volume chiarisce tanti termini che leggiamo sulla stampa o su internet oppure ascoltiamo alla radio, alla tv, al cinema, ci sono ripetute negli sms e nei tweet e spesso s’avverte in quelle parole un’insidiosa lontananza.
Che vorrà mai dire ‘twoosh’? E ‘brics’? E ‘hoax’?
Chi è mai e cosa sostiene Martti Ahtisaari? E Milton Friedman? E Catherine Millet?
Che cosa significa ‘auto-tune’? E ‘l’ipotesi Gaia’? E ‘cucina molecolare’?
Non speriate di trovare qui le risposte, ma nelle pagine di “Il kit del 21° secolo” sì.
Là troverete non solo risposte alle domande poste prima, ma anche a tantissime altre, a quesiti dai più vari campi, dall’arte alla scienza, dalla politica alla tecnologia, dalla finanza alla nuova economia domestica; una sorta di manuale di sopravvivenza per attraversare la giungla dei temi, dei personaggi, dei problemi, delle innovazioni che i nostri giorni ci propongono.
Il libro, con un necessario indice di termini e nomi di persone, contiene anche quiz con malvagi tranelli per giochi di società; c’è quello per principianti, quiz di livello intermedio, e per gli esperti di terminologia moderna.

Scrivono gli autori: “L’espressione ‘cultura generale’ spesso evoca l’immagine di un vecchio trombone che si vanta della propria erudizione. L’avrete sicuramente sentire tuonare contro l’ignoranza dei nostri giorni – epoca esecrabile in cui nessuno cita più a memoria le tirate di Racine o i discorsi di Cicerone imparati almeno cinquant’anni fa - fare spallucce, quasi disgustato, non appena qualcuno osa parlare di economia, medicina o addirittura videogiochi e informatica, tutte cose volgari… Ma perché dovrebbero essere considerate tali? Queste persone non hanno mai visto con cosa giocano i loro nipoti o non navigano su Internet? Vivono forse in un mondo senza soldi e senza malattie?”.

Per una scheda sul libro: CLIC!

François Reynaert
Vincent Brocvielle
Il kit del 21° secolo
Traduzione di Marta Cai
Pagine 288, Euro 14.90
Vallardi


Le novità alla Fondazione Fotografia Modena


Da Cecilia Lazzeretti che guida l’Ufficio Stampa della Fondazione Fotografia Modena apprendo delle plurali iniziative che rendono quell’istituzione meritatamente prestigiosa.
Ne segnalo qui due.
Mentre prosegue la mostra del fotografo americano Walter Chappell, intitolata Eternal Impermanence, visitabile fino al 2 febbraio 2014, si annuncia un corso per curatori e una serie di workshop.
Il direttore Filippo Maggia – head of projects di Fondazione Fotografia Modena, illustra in questo breve video le caratteristiche del corso dedicato a coloro che vogliono specializzarsi nella curatela e organizzazione di mostre nell’àmbito delle arti visive.

Veniamo ai workshop.
Si tratta di otto incontri con esperti di fotografia di ambito italiano e internazionale, distribuiti nel corso dell'anno, da gennaio a novembre, rivolti a professionisti, artisti e a tutti coloro che hanno trovato un mezzo d'espressione nella fotografia.
Per ogni workshop è previsto un numero minimo e massimo di partecipanti, le iscrizioni sono accolte in ordine di arrivo e fino ad esaurimento dei posti disponibili; maggiori informazioni sui contenuti, i costi e le modalità di iscrizione sono reperibili cliccando QUI.

Il calendario.

24-26 gennaio 2014
Costruire un portfolio d'autore: il rapporto tra grafica e fotografia
workshop con Mario Cresci

7-9 febbraio 2014
Stampa fine art in camera oscura
workshop con Enzo Obiso

8-9 marzo 2014
One shot: l'esperienza del ritratto
workshop con Toni Thorimbert

12-13 aprile 2014
24 maggio 2014
Indagine sulla realtà
workshop con Vincenzo Castella

9-11 maggio 2014
Off camera: impronta e gesto
workshop con Nino Migliori

5-8 giugno 2014
Fotografare l'invisibile
workshop con Franco Fontana

27-28 settembre 2014
Pratiche dell'arte come poetica civile
workshop con Francesco Jodice

17-19 ottobre 2014
Tecnologie digitali di stampa: questioni di metodo e sperimentazioni
workshop con Pino Musi

14-16 novembre 2014
Il nudo come racconto di sé
workshop con Settimio Benedusi

Ufficio Stampa
Cecilia Lazzeretti
tel. 059 – 23 98 88
mob. 338 – 85 96 174
press@fondazionefotografia.org

Informazioni
Fondazione Fotografia Modena
Via Emilia Centro 283, Modena
Tel 059 239888 - Fax 059 238966
mostre@fondazionefotografia.org
www.fondazionefotografia.org


Sublime Optics


Di formazione Bauhaus, l’artista tedesco Josef Albers è un nome maiuscolo nello scenario delle arti visive del secolo scorso (nell’immagine, una foto che lo ritrae nel 1926).
Alcuni cenni biografici: nasce il 19 marzo 1888 nella piccola città industriale di Bottrop, nella regione della Ruhr. Dal 1908 lavora come insegnante nelle scuole elementari, finché nel 1913 non si trasferisce a Berlino dove studia alla Königliche Kunstschule. Nel 1916 ritorna a Bottrop per riprendere l’insegnamento e contemporaneamente studiare alla Kunstgewerbeschule nella vicina Essen, dove incontra Jan Thorn-Prikker, artista olandese specializzato nella creazione di vetro colorato che avrà una certa influenza su Albers.
Nel 1919 si iscrive alla Königliche Bayerische Akademie de Bildenden Kunst a Monaco; nel 1920 lascia Monaco e s’iscrive al Bauhaus di Weimar, che Walter Gropius aveva fondato appena un anno prima. Durante il suo periodo iniziale frequenta il corso propedeutico tenuto da Johannes Itten e continua a realizzare opere in vetro. Dall’ingresso nella scuola di Gropius abbandonerà completamente la figurazione.
Completati gli studi propedeutici al Bauhaus nel 1922, Albers si dedica all’allestimento del laboratorio del vetro interno alla scuola. L’anno successivo è il primo diplomato del Bauhaus a divenirne insegnante.
Nel 1930 Mies van der Rohe diviene direttore del Bauhaus mentre Albers è nominato assistente direttore.
Il nazismo sale al potere il 30 gennaio 1933. A seguito delle gravi vessazioni da parte delle autorità, Albers riunisce i membri rimanenti della facoltà per decidere la chiusura ufficiale del Bauhaus il 10 di agosto.
In seguito alla segnalazione di Philip Johnson e Edward M.M. Warburg del MoMA di New York, Josef e la moglie Annelise sono invitati a insegnare alla scuola d’arte sperimentale e liberale Black Mountain College, appena fondata nel North Carolina. Al momento del loro arrivo al college, il 28 novembre, Josef risponde a chi gli chiede quale sia la sua missione come insegnante: “far aprire gli occhi”.
La Galleria Sidney Janis a New York organizza la prima mostra personale del lavoro di Albers negli Stati Uniti nel 1952.
Il suo fondamentale testo "L’interazione del colore", viene pubblicato dalla Yale University Press; documenta il corso sui colori di Albers sviluppato al Black Mountain College e divenuto celebre durante gli anni d’insegnamento a Yale.
Nel 1971 è il primo artista vivente ad avere una retrospettiva personale al Metropolitan Museum of Art di New York. Viene costituita la Josef Albers Foundation Inc.
Il 25 marzo 1976 muore a New Haven e viene sepolto a Orange, nel Connecticut.
Nel 1983, la moglie Annelise (Anni) Fleischmann presiede all’apertura del museo nella città natale di Josef Albers, a Bottrop.

La Fondazione Stelline, in collaborazione con la Joseph & Anni Albers Foundation, ospita la prima esposizione monografica a Milano delle opere di Albers intitolata Josef Albers: Sublime Optics.
L’esposizione è curata e allestita da Nick Murphy (Projects Director della Josef and Anni Albers Foundation), sulla base d’un progetto di Nicholas Fox Weber (Executive Director della Josef and Anni Albers Foundation); “Sublime Optics” offre una prospettiva unica su questo maestro del Bauhaus.
L’iniziativa alla Fondazione Stelline realizza il primo ritorno a Milano delle opere dell’artista dopo quasi 80 anni di assenza da quando - nel 1934 - Wassily Kandinsky organizzò una mostra di stampe di Albers nel capoluogo lombardo a un anno dalla chiusura della Bauhaus (di cui Albers fu studente e docente dal 1920 al 1933). E torna a Milano a pochi passi da quel “Cenacolo” di Leonardo da sempre ammirato dall’artista tedesco.
La mostra raccoglie rari disegni giovanili, vetri colorati, vetri sabbiati e una selezione di dipinti astratti.
Il percorso espositivo presenta oltre settanta lavori realizzati all'inizio della sua carriera artistica, quando insegnava in Vestfalia fino agli ultimi giorni della sua vita: dal primissimo disegno conosciuto fino all'ultimo Omaggio al Quadrato. Tutte le sue opere sono pervase dalla purezza e dall’onestà di pensiero dell’artista, ma soprattutto dal suo credere fermamente che, applicando il talento artistico con dedizione e verità, sia possibile trasformare la realtà quotidiana in modo miracoloso.

“E' per noi motivo di grande orgoglio poter offrire a Milano una personale di Josef Albers dopo 80 anni che l'artista non era presente con proprie esposizioni nella nostra città” – ha dichiarato la Presidente della Fondazione Stelline PierCarla Delpiano –“Come Fondazione siamo consapevoli dell'importanza che rivestiva per Albers la necessità di rendere accessibile l'arte al maggior numero di persone, compresi coloro che non possono liberamente godere di questo privilegio. Ecco perché, insieme alla Josef and Anni Albers Foundation, abbiamo avviato la preziosa collaborazione con la Cooperativa E.S.T.I.A. e il carcere di Bollate, per avvicinare i detenuti all'arte tramite attività culturali e artistiche. Quest'iniziativa afferma ancora una volta lo spirito solidale Ambrosiano di cui la sede della Fondazione è un simbolo.”

Ufficio Stampa: Andromaca Eventi, Valentina Morelli T. +39 338 5600375
CLP Relazioni Pubbliche, Marta Paini +39 02 36755700

Josef Albers
Sublime Optics
A cura di Nick Murphy
Fondazione Stelline
Corso Magenta 61 - Milano
Info: (+39) 0245462.411; fondazione@stelline.it
Fino al 6 gennaio 2014


Il centro del cerchio

Per le Edizioni Campanotto è uscito un nuovo libro sul poeta americano Ezra Pound, è intitolato Il centro del cerchio Ezra Pound e la ricerca verbo-voco-visiva.
La sua opera poetica rappresenta un importante momento della letteratura internazionale del XX secolo.
La sua vita fu macchiata dall’entusiasmo che manifestò per Mussolini e il fascismo, compreso l’ultimo più sanguinoso periodo, quello di Salò.
Parlò alla radio fascista dal 1940 manifestando il suo forte antisemitismo e – come lui stesso dice nel verbale dell’interrogatorio, il 7 maggio 1945, davanti agli agenti del Cic (Counter Intelligence Corps) – “All’incirca da maggio a settembre del 1944, inviai pezzi alla Radio Repubblicana Fascista a Milano. Quando volevo che il mio nome fosse noto o usato, questi pezzi erano scritti nella forma di un’intervista con me”
Arrestato dai partigiani italiani e consegnato agli americani mai fu processato, si preferì riconoscerlo infermo di mente e trascorse 12 anni in un manicomio criminale. Tornato in Italia, sbarcando a Napoli, si esibì nel saluto fascista.
Fu liberato anche grazie ad appelli che, per motivi umanitari, firmarono molti intellettuali; tra le firme italiane si va da Giorgio Caproni a Carlo Bo, da Alfonso Gatto ad Aldo Palazzeschi, da Alberto Moravia a Riccardo Bacchelli, da Giuseppe Ungaretti a Cesare Zavattini, ad altri ancora.
In questo video una famosa intervista di Pier Paolo Pasolini al poeta americano.

L’autore del volume “Il centro del cerchio” è Enzo Minarelli.
Performer, scrittore, videopoeta, autore del Manifesto della Polipoesia, pubblica libri, audio-cassette, dischi, cataloghi, Cd, Dvd. Ha ideato e realizzato 3ViTre Archivio di Polipoesia consultabile presso l’Università di Bologna e il Lincoln Center di New York. Recenti pubblicazioni: “Absolu ou rien” (Udine, 2010), “Le Voci dei Poeti” (Bologna, 2011), nel 2012 “Amo” (Udine), “Nembrot-Carneade o Primo Carnera?” (Dvd, Firenze), “Enzo Minarelli a Villa Cernigliaro” (Dvd, Biella) e “Fama” (Cd, New York).

Al libro è allegato un Dvd con la voce di Pound; un "corto" di marca sperimentale di Anna Bontempi, Martino Oberto, Gabriele Stocchi; una videopoesia di Minarelli.
A lui ho chiesto: Com’è nato questo libro?

Ho cercato di tirare acqua al mio mulino, collocando Pound al centro del centro della “verbo-voco-visualità”. Quando decide di accostare l’ideogramma accanto alla parola stampata, compie un’operazione epocale, aprendo in anni non sospetti, alla poesia concreta, alla nuova scrittura, alla futura poesia visiva. Questa originale unione tra l’invisibilità dell’Oriente e la visibilità dell’Occidente gli permette la valorizzazione del grafo, l’espansione semantica-visiva della parola stessa, appunto un connubio verbo-visuale che sarà sfruttato attraverso tutta la seconda metà del Novecento, senza cadere mai di moda. L’occasione del libro è venuta da un ritrovamento di una sua lettura inedita dei tardi anni Cinquanta dove legge parte dei Canti CX e CXII. Mi sono confrontato sia con Mary de Rachewiltz, figlia di Pound e Olga Rudge, che con Massimo Bacigalupo, per decifrarne il contenuto. La prospettiva poundiana mi è servita anche per avanzare ipotesi critiche sul ruolo svolto dagli affreschi del Palazzo Schifanoia di Ferrara nella composizione dei canti, sul modulo di lettura orale adottato sia da Pound che da Yeats stesso, suo mentore, e sull’uso delle tecnologie in poesia.

Che cosa, a tuo avviso, rende Pound un protagonista della letteratura del XX secolo?

Questa sua capacità, credo ancora insuperata e difficile da superare, di far filtrare nel testo poetico una stratificazione tematica proveniente da tutti i campi, in grado di rendere quella danza intellettuale tra le parole, non solo, poesia è soprattutto forma, e allora Pound accantonato l’”Imagismo”, non più schiavo, quindi, di un’immagine da comunicare, elabora uno stile personalissimo, aspro, asciutto, miscellaneo e poliglotta, dove tutto è sintesi, densità al massimo grado, una parola davvero piena, gravida, totale, senza mai giungere a deturparla come invece aveva fatto il suo protetto James Joyce.

Come interpreti le sue scellerate scelte d’adesione al regime fascista, alla Repubblica di Salò?

Dopo aver speso, come si suole dire anni sulle carte e sul nastro da decifrare allegato al libro, non riesco in tutta onestà a spiegarmi la sua infatuazione col regime fascista, la sua irresistibile attrazione verso la figura del duce. Può darsi, anzi può essere una plausibile spiegazione, che avesse visto in Mussolini lo strumento capace di dar voce e quindi di realizzare le sue teorie economiche. La verità è che aveva come il suo maestro Confucio gli aveva insegnato, un vero culto per il linguaggio come ogni “artista serio” dovrebbe avere, e sono convinto che Pound, pur commettendo errori grossolani, ha sempre messo la poesia al primo posto, costi quel costi, pagando sempre di persona questa sua coraggiosa scelta.

Enzo Minarelli
Il centro del cerchio
Pagine 112, Euro 20.00
Campanotto Editore


Lo schermo dell'arte

“Il rapporto tra cinema e arti visive” – scrive Marco Senaldi in ‘Doppio sguardo’ – è stato sovente interpretato come un educato scambio di cortesie – o in termini di citazione reciproca, oppure come un confronto fra dispositivi differenti. Ma, se si osserva che il vero partner storico del cinema non è tanto l’“arte” come tale, con la sua vicenda millenaria, ma la più o meno coeva “arte contemporanea” (la Biennale di Venezia è nata nel 1895, lo stesso anno dell’invenzione del cinematografo!) – allora si capisce che le cose stanno diversamente. In realtà, il rapporto fra cinema e arte è una vera relazione di odio-amore, una autentica dialettica che comprende momenti di rivalità, di passione, di rapimento, coronati, talvolta, da un riscatto finale. Se all’inizio era il cinema che cercava di sottrarre all’arte il primato estetico, ricreandone filmicamente le atmosfere e le immagini, a un certo punto è avvenuto il contrario, e il cinema è divenuto il “repertorio visivo” dell’arte contemporanea. La novità è che oggi entrambe queste figure, pur conservando la loro rispettiva autonomia, si rispecchiano l’una nell’altra in una nuova dimensione riflessiva della cultura. Ed è con questa dimensione che tutti – appassionati cinefili o fruitori d’arte, o anche semplici spettatori – siamo chiamati a misurarci”.

Uno sguardo al presente di quel rapporto, lo dedica con un’acuta riflessione Maria Rosa Sossai: “Oggi c’è da parte di tutti e degli artisti in particolare la consapevolezza che, come scrive Guy Debord ‘Il mondo è già filmato. Si tratta ora di trasformarlo’. Questa fase sintetizza in maniera efficace il tramonto di una visione delle immagini in movimento, cinema e video, che decretava un ruolo passivo dello spettatore al quale la società dello spettacolo lo aveva destinato. A una tale rivoluzione di prospettiva hanno contribuito in modo determinante gli artisti visivi i quali, attraverso la loro ricerca nel campo del film e video d’artista, hanno esteso le potenzialità della visione sino a coinvolgere aspetti della vita sociale”.

In Italia, la maggiore occasione per verificare lo stato delle cose fra cinema e arti visive è offerto dal festival fiorentino Lo schermo dell’arte diretto da Silvia Lucchesi giunto quest’anno alla sua sesta edizione.

In foto: Duane Michals. The Man inverted Himself – by Camille Guichard, 2012

Silvia Lucchesi, è storica dell'arte, ha pubblicato libri, saggi e ha curato mostre di arte contemporanea.
Ha realizzato il film “Senza titolo". Viaggio nell’arte moderna e contemporanea delle istituzioni pistoiesi” (2009). Ha collaborato con il Festival dei Popoli, curando la sezione Cinema e Arte (1992-1998, 2005-2007). Ha guidato rassegne video tra le quali Atlanti futuri (Firenze, 2008), e cinematografiche dedicate alle arti visive contemporanee (Pistoia 1995, “Artecinema”, Napoli” 1996-97). Con la sua società ‘Silvy Produzioni’ ha prodotto il film Perdere il filo di Jonathan Nossiter (2000), presentato in festival internazionali e messo in onda da RaiSat e Sundance Channel (USA).

A lei ho chiesto: quale la principale finalità espressiva del Festival?

Quella di raccontare l’arte attraverso il cinema, svelando l’universo creativo, e soprattutto umano dei protagonisti delle arti del nostro tempo. Lo straordinario successo della passata edizione del Festival dimostra che si tratta di una formula assai efficace per avvicinare un pubblico sempre più allargato alle forme e ai linguaggi del contemporaneo.

Come far conoscere a un più vasto pubblico questi film di nicchia?

Guardo ai network tv, soprattutto satellitari, e a internet come un importante veicolo di comunicazione, in continua evoluzione, e confido che in questi contesti, tali film abbiano sempre più spazio, proprio come strumento educativo e di conoscenza, non solo rispetto all’arte ma in generale alla contemporaneità. Su tutti i livelli pesa il problema, sostanziale, degli alti costi di produzione e della difficoltà che tali opere possano trovare adeguati canali di distribuzione. Per rispondere alla difficoltà della diffusione, “Lo Schermo dell’arte” ha deciso di mettere a frutto la propria esperienza e la fitta rete di contatti per lavorare ad una serie di progetti tematici tesi proprio a favorire la circolazione dei film, a partire da quelli proposti nell’ambito del Festival, che rischiano altrimenti di non essere più visti. L’idea è di provare ad innescare un circuito virtuoso, quanto più esteso possibile soprattutto sul piano del coinvolgimento di enti e istituzioni.

Per conoscere il programma: CLIC!

Ufficio stampa: Ester Di Leo: 055 – 22 39 07 e 348 – 33 66 205; esterdileo@gmail.com

Lo schermo dell'arte
Firenze
Dal 13 al 17 novembre 2013


Una razzia del 1943

Tra le date crudeli che hanno colpito Roma nel secolo scorso, una delle più terribili è quella del 16 ottobre '43.
Settanta anni fa, infatti, ci fu il più grande rastrellamento contro gli ebrei in Italia; l'esercito nazista deportò dalla capitale oltre mille ebrei, in maggioranza donne e bambini.
Furono portati ad Auschwitz, solamente in 16 tornarono dal campo di sterminio.
In un momento come l’attuale dove anche in Italia il revisionismo si fa spazio, con la complicità talvolta diretta e talaltra indiretta di forze politiche di centrodestra, lodevolissima è l’iniziativa di una mostra che ricordi quella tragica data.
Il Complesso del Vittoriano, infatti, ospita 16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei di Roma con documenti, anche inediti, testimonianze audiovisive, disegni, mappe e fotografie.

In foto: Uomini appartenenti all’Unità Seeling davanti alla sede di Via Salaria 227.
Una delle fotografie spedite a Marcello Pezzetti da una famiglia tedesca.
Questi uomini non erano delle SS e, finora, i loro volti mai si erano visti
.

Curata da Marcello Pezzetti (per la sua bio QUI), Direttore della Fondazione Museo della Shoa, con il coordinamento generale di Alessandro Nicosia, è questa la prima volta che è possibile vedere i volti dei razziatori e non solo quello noto di Kappler o quello meno noto di Moellhausen, ma pure di altri, facce che rispondono ai nomi di August Tietje, Reiner Stahel, Joannes Quapp, Albin Eisen Kolb, e altri ancora consegnati alle cronache dell’infamia.

Una visione di alcune parti della mostra è possibile QUI in un ottimo reportage di Fulvia Palacino su ArteMagazine con anche un’intervista a Marcello Pezzetti.

Circa quella tragica data, segnalo l’uscita di un importante libro, edito da Laterza, dedicato al 16 ottobre ’43. Si tratta di Portico d’Ottavia 13 firmato da Anna Foa che in uno dei prossimi giorni sarà ospite di Cosmotaxi.

Roma, Complesso del Vittoriano
16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei di Roma
Fino al 30 novembre 2013
Info: Tel. 06 32 25 380 - 328 411 69 85
E-mail: p.polidoro@comunicareorganizzando.it
Ingresso libero


Diario proibito


La macrostoria è un orientamento storiografico che privilegia nella ricerca l'analisi dei grandi eventi e degli scenari d’ampio orizzonte sul lungo periodo.
E i tanti che vivono quei grandi avvenimenti?
Questa domanda se l’è posta all'inizio degli anni settanta del Novecento la microstoria.
Sul piano metodologico ha prodotto indagini che si concentrano su aree geografiche circoscritte, avvenimenti, personaggi, che inevitabilmente sfuggono alla storia di vasta scala, ma che permettono di analizzare in modo efficace i grandi scenari.
In Italia questa corrente di studi si raccolse intorno ai Quaderni storici.

Premessa per dire di un libro che, scritto da una grande poetessa russa, è immerso in un tragico contesto, contenitore di una vita e del suo dramma, una microstoria che illumina più di un trattato su grandi dimensioni storiche intrecciando, inoltre, letteratura e politica, illusioni e delusioni. Tutto illuminato dai lampi della seconda guerra mondiale, in un suo particolare episodio: l'assedio di Leningrado da parte delle truppe naziste durato 900 giorni, dall’8 settembre 1941 fino al 27 gennaio 1944.
Il volume, pubblicato da Marsilio, s’intitola Diario proibito La verità nascosta sull’assedio di Leningrado
L’autrice è Ol’ga Berggol’c (Pietroburgo, 16 maggio 1910 – Leningrado, 13 novembre 1975).
Figlia di un chirurgo militare, esordisce giovanissima, a quindici anni, pubblicando versi e racconti per case editrici specializzate in letteratura per ragazzi. Nel 1934 esce il suo primo corpus di liriche e viene accolta nell’Unione degli Scrittori. Nel ’38, suo marito, Boris Kornilov, che aveva lavorato con Šostakòvič alla colonna musicale di alcuni film, è fucilato come “nemico del popolo”. Lei stessa è arrestata, con l'accusa di aver cospirato contro il terribile Zdanov.
Per ricordare chi era questo tipetto (responsabile della linea culturale del Partito Comunista russo e della feroce repressione di ogni artista che non esaltasse il realismo socialista), basti pensare che definì la grande poetessa Anna Achmatova “… puttana e monaca, la cui lussuria si mescola alla preghiera".
La Berggol’c dopo quasi un anno di detenzione – con trattamenti brutali che poco dopo l’arresto le fecero perdere il figlio di cui era incinta – fu rimessa in libertà. Come ad altri esponenti dell'intellighenzia del tempo, prima emarginati e poi reintegrati dalla classe dirigente sovietica, anche alla Berggol'c è data di nuovo l'opportunità di partecipare alla vita culturale del paese e allo scoppio della seconda guerra mondiale è assunta nella redazione di Radio Leningrado come speaker e autrice di programmi. Dai microfoni della radio, nei giorni dell'assedio, incoraggia a resistere divenendo così l'emblema della stoica e grandiosa resistenza di Leningrado, mentre la propaganda usa tutta la sua capacità per sfruttarne l'immagine sapendola amatissima dagli ascoltatori.

La Berggol'c nei 900 giorni dell'assedio registra con lucidità, minuziosamente, nelle pagine del suo diario segreto, nascosto in un cortile di Leningrado (“in quegli anni” – scrive nell’Introduzione Nadia Cicognini – “tenere un diario poteva essere molto pericoloso”), l'angosciosa quotidianità della città con i suoi lutti, le privazioni, interrogandosi sulle laceranti contraddizioni che attraversano la società sovietica. Alternando annotazioni di carattere privato, personale, a riflessioni sulle condizioni del popolo russo e sul tragico vissuto staliniano, comporrà a poco a poco il quadro autentico di una realtà negata dal regime.
Oltre a questo palpitante diario, gli anni della guerra le ispirano alcuni lavori tra cui “Poema di Leningrado”, 1942, e il dramma “Vivevano a Leningrado, scritto in collaborazione con Georgij Makogonenko (1912 – 1986), con cui realizza nel 1945 anche la sceneggiatura del film “Sinfonia di Leningrado”, contenente documenti e filmati raccolti dal 1942 al 1944. Nel 1959 conclude la prima parte del suo romanzo-confessione “Stelle diurne”, alla cui stesura si era dedicata dal 1939, forse la sua opera più complessa e ambiziosa, rimasta incompiuta.
Come scrive Silvia Golfera, “Morì a sessantacinque anni d’età, dimenticata, e travolta da quell’unica amica che le era rimasta devota, la vodka”.

Ol’ga Bergol’c
Diario proibito
Traduzione di Nadia Cicognini
Pagine 160, Euro 14.00
Marsilio


Decameron in 100 Tweet


Le nuove tecnologie hanno rivoluzionato i tradizionali modi d’intendere la pagina.
Abbiamo il "Vook", sintesi multimediale tra video e book: interfaccia libro, internet e social network; il 'keitai shosetzu' in Giappone: romanzo scritto su telefonino; l'articuento' nato in Spagna da Juan Josè Millàs fruibile solo via sms sui cellulari.
Anche su Twitter è nata una forma espressiva sganciata dall'informazione giornalistica.
In origine, nel 2006, quel che avevano in mente Jack Dorsey, Biz Stone ed Evan Williams, gli inventori di Twitter, era di creare uno strumento per comunicare velocemente, un sistema per mandare qualcosa di simile a un SMS a diverse persone, contemporaneamente, dando per scontato che si conoscessero.
Poi il grande successo arriso a questa forma di comunicazione, ha visto i famosi 140 caratteri entrare anche nell’area dell’espressività estetica.
Oggi, in Italia, ne abbiamo un maiuscolo esempio.

A 700 anni dalla nascita di Giovanni Boccaccio (Firenze, 1313 - Certaldo, 1375) la Società Dante Alighieri, attraverso la redazione di Madrelingua, propone un’originale riscrittura del Decameron in 100 twoosh (tweet di 140 caratteri esatti): Decameron in 100 Tweet.
Qui (twitter.com/la_dante), l’iniziativa, partita il 1° agosto, accoglie, fino all’8 novembre prossimo, i tweet di chi vuol partecipare .
Per ciascuna novella sono proposte ogni giorno due versioni: una in metrica e una narrativa.
Ecco un esempio dalla decima novella della terza giornata (quella che tratta il singolare modo di “rimettere in diavolo in inferno” praticato da una ragazza con il pio conforto e la collaborazione di un eremita):
- Una giovane “rimette il diavolo in inferno” assistita da un eremita, poi diffonde quest'insolita pratica d’omaggio al Signore .
- Una ragazza piena di vita si dà buon tempo con un eremita. E rimandato il demonio nell'Ade, replica il rito in tante contrade.

Ideazione e curatela scientifica del linguista e critico letterario Massimo Arcangeli (QUI la sua bio) che si avvale di Valeria Noli per lo sviluppo e coordinamento del progetto.
Ecco un modo di ricordare e studiare Boccaccio che molto mi piace. Una maniera lontana da polverose celebrazioni e sussiegose relazioni accademiche, ripensando con una singolare ottica il capolavoro di un padre della lingua italiana.
Il pubblico della Rete ha risposto con entusiasmo e ogni giorno arrivano nuove versioni, in rima e in prosa.
Il 16 novembre prossimo, le migliori saranno selezionate e premiate nel corso di un evento pubblico a Certaldo.

In foto: fotogramma da una rivisitazione pasoliniana del Decameron.

Massimo Arcangeli – come informa Emanuela Gregori dall’Ufficio Stampa – nei giorni scorsi è stato nominato direttore editoriale dell’area riviste della “Dante” .
A lui ho rivolto alcune domande.
In che cosa riconoscere oggi la modernità di Boccaccio?

Un’opera sia pure complessa come il Decameron, se affrontata nei giusti modi, ha una capacità di parlare alla contemporaneità come poche. Con quei capolavori di sintesi che sono le rubriche introduttive a ciascuna novella (con le quali potrebbe competere solo la fulminante capacità riassuntiva di Pietro Metastasio), ma anche con un realismo di grande impatto visivo: il pensiero sintetico e la riscoperta di un principio di realtà (per reazione alla virtualità imperante) sono due componenti chiave della nostra modernità ultima, che si è da tempo gettata alle spalle la logorrea e l’antirealismo del postmoderno.

“Decameron in 100 tweet”: com’è nata quest’idea e perché la scelta di Twitter?

Le nuove tecnologie permettono di sperimentare nuove (o rinnovate) forme letterarie d’avanguardia: come la poesia al cellulare affidata ai 160 caratteri di un sms standard o, per l’appunto, i vari esperimenti letterari via twitter. Nel 2009 Alexander Aciman ed Emmett Rensin, due studenti di Chicago, hanno “twitterato” 60 classici di vari tempi e luoghi: 17 cinguettii per l’intera Odissea, 19 per il Don Quijote, 20 per il Ritratto di Dorian Gray; L’americana Jennifer Egan, dal 24 maggio al 2 giugno 2012, ha postato ogni sera su Twitter (dalle 20 alle 21), per il periodico “The New Yorker”, una puntata del suo Black Box: una nanostoria in dieci capitoli, ciascuno dalla lunghezza di un “twoosh” (140 caratteri). Quella di twitter è stata una precisa scelta di campo, sul piano mediale e testuale: a spingermi in questa direzione proprio l’esistenza di una “twitteratura” ben frequentata e già consolidata.

Quale il principale risultato espressivo che ti aspetti dal “Decameron in 100 tweet”?

La familiarità con il Web, possiamo ancora imparare a insegnarlo ai nostri giovani, aiuta a non trascurare alcuna possibilità, invita a percorrere tanto le superveloci autostrade informatiche quanto i vecchi sentieri. I classici, perché giunga più potente a noi la loro voce, dovrebbero allora approfittare della comunicazione mediata dal computer, o dai suoi ipertecnologici compagni di avventure virtuali, per trarne almeno il senso di infinite relazioni ancora attivabili, di infinite occasioni ancora da cogliere, di infiniti cammini non ancora intrapresi. Queste relazioni, queste occasioni, questi cammini investono anche la lingua e lo stile: il risultato che mi aspetto, sul piano espressivo, è la stimolazione di una creatività che nei giovani, nelle varie forme in cui oggi perlopiù si manifesta, fa fatica a emergere o lascia alquanto a desiderare.

Per contatti su “Decameron in 100 tweet”: Valeria Noli
Tel. 06.68 73 694/5 int. 32; Mob. 339 – 34 17 256


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