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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Pierini alla GallCivMo

Da tempo s’attendeva la nomina del nuovo direttore della Galleria Civica di Modena, ora si conosce il suo nome, è Marco Pierini.

Da Cristiana Minelli, che guida l’Ufficio Stampa della Galleria, apprendo le note biografiche del nuovo direttore.
Senese, 44 anni, ha diretto fino a qualche tempo fa il Centro d’arte contemporanea Palazzo delle Papesse e Sms Contemporanea di Siena. Dal 1959 organizza mostre, conferenze e giornate di studio su temi e protagonisti dell'arte contemporanea.
Con la nomina di Pierini si sono conclusi i lavori della commissione presieduta da Giulia Severi, dirigente responsabile del settore Cultura del Comune di Modena, e composta da Olivo Barbieri, fotografo di fama internazionale, e Daniele Lupo Jallà, coordinatore dei Servizi museali della città di Torino.
Marco Pierini è stato selezionato tra 47 candidati che hanno partecipato alla selezione per la nuova direzione artistica dell'istituto modenese.
Laureato in Lettere all'Università degli studi di Siena nel 1991, Pierini ha conseguito il diploma di specializzazione in Archeologia e Storia dell’arte nel 1994 e nel 2003 ha concluso il dottorato di ricerca in Estetica sempre all'Ateneo senese. Dal 1998 al 2007 è stato direttore del Museo diocesano di Pienza.
Dal 2002 al marzo 2010 ha diretto il Centro Arte Contemporanea di Siena, prima ospitato al Palazzo delle Papesse e dal giugno 2008 al Santa Maria della Scala col nome di Sms Contemporanea. In quella sede, nell’arco di nove anni, sono state organizzate più di quaranta mostre, oltre un centinaio di eventi collaterali e sono stati pubblicati circa cinquanta volumi. Dal 2002 al 2009 Pierini è stato docente di Arte contemporanea e media e di Filosofia delle immagini all'Università degli studi di Siena.
Tra le principali mostre da lui curate di recente, si segnalano: "Francesca Woodman" (Murcia, Siena, Milano 2009-2010), "Video abierto. Videoclip" (Murcia, 2009), , "Gordon Matta-Clark", "Numerica" (Siena, 2008) , "Good Vibrations. Le arti visive e il Rock" (Siena 2006). Marco Pierini si è occupato di argomenti di estetica, di arte contemporanea e di arte medievale e la sua bibliografia conta circa centoventi pubblicazioni fra monografie, cataloghi di mostre, articoli, saggi. Giornalista pubblicista, collabora regolarmente con le riviste “GQ” (Condé Nast), “Arte” (Giorgio Mondadori Editore) e “Insound” (Auditorium edizioni). Dirige la collana discografica “21st records” dedicata alle nuove ricerche musicali contemporanee.


Collages

Si ce sont les plumes qui font le plumage, ce n'est pas la colle qui fait le Collage.
Questo frizzante aforisma di Max Ernst, la Galleria Repetto lo pone come esergo alla mostra Da Mirò a Paolini 50 anni di collage.
Recita un Dizionario dell’Arte: “Collage: tecnica consistente nell’applicazione di frammenti di documenti su carta, tela, legno, oppure altre materie. Forma d’arte che si lega alle esperienze artistiche del cubismo con opere realizzate, ad esempio da Picasso, Gris, Braque, a partire dal 1912”.
Alcuni, poi, distinguono il collage dall’assemblage e dal décollage. Il primo (definito da Dubuffet) utilizzato per definire opere tridimensionali costituite dal montaggio d’elementi vari e oggetti eterogenei, tecnica questa pur vicina al cubismo che, però, produceva opere bidimensionali. Il secondo, fu introdotto come dizione dagli artisti del ‘nouveau réalisme’ che utilizzavano per le loro opere manifesti pubblicitari scollati o strappati dai supporti; per fare un esempio italiano, si pensi a Mimmo Rotella.
Tutti i tre termini, collage - assemblage - décollage -, li troviamo poi largamente usati nella poesia visiva (ad esempio, in Italia, da Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, e altri) che s’avvale per le sue composizioni di tutte quelle tecniche.
Ma, aldilà, di queste puntute differenziazioni, il collage è di sicura derivazione dall’infinito universo dell’infanzia. Non a caso la mostra parte con Joan Mirò, uno degli artisti del Novecento più vicini al recupero e all’esaltazione della creatività pre-cosciente, della magica invenzione dei bambini. L’intera esposizione, però, si profila pure come un vivace caleidoscopio di forme, linee, colori, carte e superfici, disegnandosi come l’immagine di un gioco insieme sapiente e leggero, attento e ironico, cerimonioso e allegro. Un libero gioco che ci dimostra come “il solo fatto di essere è talmente prodigioso che nessuna sventura deve esimerci da una sorta di comica gratitudine.” (Borges).

Il percorso della mostra si sviluppa attraverso cinque gruppi tematici: il realismo di Renato Guttuso e Bepi Romagnoni; il fotocollage di Jiri Kolar, Jonathan Meese, Jacques Monory, Tony Oursler, Giulio Paolini e Franz Roh; l’informale con Afro Basaldella, Alberto Burri, Giuseppe Capogrossi, Franco Garelli, Conrad Marca-Relli, Robert Motherwell, Gastone Novelli, Giuseppe Santomaso, Antonio Saura, Salvatore Scarpitta, Toti Scialoja, Antoni Tàpies, Giulio Turcato ed Emilio Vedova; la poesia e il gioco che animano le opere di Donald Baechler, Nicola De Maria, Fausto Melotti, Joan Mirò, Mimmo Paladino e Jan Voss e infine il gioco visionario di Jean Dubuffet, Mario Merz e Carol Rama (di quest'ultima in foto una sua opera in mostra).

Ufficio Stampa: Emanuela Bernascone, 011 – 19 71 49 98; fax: 011 – 19 71 65 66
www.emanuelabernascone.com; info@emanuelabernascone.com

“Da Mirò a Paolini 50 anni di collage”
Galleria Repetto, via Amendola 21/23
Acqui Terme
Info: tel/fax +39 0144 325318
Fino al 3 luglio 2010


Pornosofia


Da sempre si è dibattuto sul mutevole confine tra arte, erotismo e pornografia, ma è dalla seconda metà del secolo scorso che la filosofia ha cominciato ad analizzare quel fenomeno pervenendo a fruttuose analisi e conoscenze sull’Essere, inteso come verbo e come sostantivo.
Per farlo è sempre più necessario “sviluppare una critica al moralismo dilagante, al massimalismo etico di stampo religioso che sembra ormai minacciare il concetto stesso di stato laico, un fantasma contro il quale è sempre più necessario usare le armi della ragione”, come scrive Ruwen Ogien in “Pensare la pornografia”. Specie in un momento in cui andando oltre il libro, la fotografia, il cinema, la performance teatrale o quella prodotta nelle arti visive, la pornografia è veicolata su internet sia nella forma mainstream sia in quella, ancora più interessante, amatoriale dove, mi piace ricordarlo, da anni agisce l’impagabile lavoro d’osservazione antropologica di Sergio Messina che ha riversato i suoi studi anche in un one-man-show intitolato Realcore… a proposito, è possibile vedere “Realcore la rivoluzione del porno digitale”, venerdì 11 giugno al COX18 (Via Conchetta, 18 – Milano) alle 21:30.

Un discorso filosofico con plurali angolazioni, tutte assai ben centrate, lo svolge un libro di recente edito da Ponte alle Grazie: Pornosofia Filosofia del pop porno.
L’autore è Simone Regazzoni.
Genovese, nato nel 1975, è un allievo di Jacques Derrida. Ha fatto un dottorato in Filosofia all’università di Parigi 8, dove ha poi insegnato. E’ autore di un saggio, La filosofia di Lost, dedicato a quella famosa serie tv. Ha cominciato a collaborare con l’Università Cattolica nel 2007; oggi ha due corsi, entrambi a Economia: Filosofia delle arti visive e Storia economica della cultura.
Insegnerà nella stessa Università anche il prossimo anno? Pare di no.
Per conoscere l’assurda avventura che sta vivendo Regazzoni, cliccate QUI.
Insomma, in quest’Italia del 2010, con gli ambienti ecclesiastici e politici investiti da uno tzunami di scandali sessuali, finanziari, legislativi, scrivere un testo che studia valorosamente, con un ampio ventaglio di riferimenti culturali, la pornografia, il suo ruolo sociale e semantico nella società contemporanea, può costare caro.
Pornosofia è un libro da leggere che, pur dotto, s’avvale di una scrittura scorrevolissima in grado d’affascinare il lettore anche per le documentazioni che propone (si veda, ad esempio, l’intervista con la pornostar Alessia Donati). Da quelle pagine, si capirà perché troviamo fianco a fianco Emmanuel Lévinas e Slavoj Žižek, maestri del pensiero contemporaneo, accanto a Rocco Siffredi e Moana Pozzi, protagonisti di ben altre imprese. Che cosa rende il pop porno (particolare fiction “in cui gli attori fingono di fare ciò che in realtà fanno”), l’osceno, lo scandaloso, degno oggetto di riflessione filosofica; cos’è, in una parola, la pornosofia, termine coniato da Franco Volpi come c’informa Regazzoni che inoltre scrive “…alla banale insinuazione secondo cui scrivere un libro di filosofia sul porno è un ottimo pretesto per guardare film hard occorre rispondere che guardare film hard può essere un ottimo pretesto per fare cose perverse come scrivere un libro di filosofia”.

Simone Regazzoni
“Pornosofia”
Pagine 176, Euro 14.00
Ponte alle Grazie


Spaesamento


E’ stata pubblicata una vibrante testimonianza sul disorientamento che può essere provato da chi guarda il nostro paese camminando per le strade e non guardandolo attraverso i vetri scuri delle macchine blu che a sirene spiegate sfrecciano sulle strade. Da chi guarda, con occhi non velati da immagini catodiche, la trasformazione avvenuta nelle donne, negli uomini, nei bambini di questa italia con la “i” minuscola. Ed ecco intorno più arroganti che barbari, tanta indifferenza e nessuna condivisione se non per uniformarsi a qualche vestiario che mostra così i segni d’appartenenza a qualche rassegnata tribù che formicola in qualche piazza.
Tutto ciò è assai ben notato e descritto da Giorgio Vasta in SpaesamentoEditori Laterza – un gran bel libro, un documentario letterario sul paese “spaesato” com’è il nostro. Tre giorni a Palermo vista come un disperato paradigma italiano. E il fantasma di un solo uomo che pervade ogni cosa rivelandoci il processo in atto: Berlusconi.
“La parola Berlusconi” – scrive Vasta – “è una sintesi. L’aria, il mezzo tra le cose. La patria del presente. Berlusconi, ora, è il marchio di un prodotto: Berlusconi è il marchio, l’Italia Il prodotto.

Giorgio Vasta (Palermo, 1970) vive e lavora a Torino. Ha pubblicato Il tempo materiale (minimum fax 2008), selezionato al Premio Strega 2009, finalista al Premio Dessì, al Premio Berto e al Premio Dedalus. Ha curato diverse antologie, tra le quali “Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile” (minimum fax 2009). Scrive sul blog letterario minimaetmoralia.

A Giorgio Vasta ho chiesto: qual è il gusto e il disgusto che ti hanno spinto a scrivere questo libro?

Più che di un gusto e di un disgusto forse sarebbe più esatto parlare di una specifica percezione e di una altrettanto specifica disperazione (una disperazione sobria, asciutta, da intendere al netto di ogni retorica). Perché la percezione di Palermo e dell’Italia genera in me, adesso, per circostanze che sono insieme individuali e collettive, uno stato d’animo insostenibile, un sentimento che implode in se stesso, un senso di minaccia e di umiliazione che discende dal constatare che stiamo girando a vuoto in un labirinto all’interno del quale sembra che tutto accada quando invece c’è solo una potentissima polverizzazione di ogni impulso sociale, politico e persino personale. L’Italia è dunque il luogo di un esperimento che ha per obiettivo quello di descrivere la metamorfosi dell’umano (o la rivelazione della sua costitutiva miseria). Provare a dare forma a tutto questo – una forma narrativa, articolata in immagini – sta alla base di “Spaesamento”. La disperazione, o meglio la speranza disperata, non è tanto quella che davvero le nostre vicende riusciranno a breve a cambiare in meglio ma che, indipendentemente da questo, sia indispensabile agire come se potessero davvero cambiare, senza abbandonarsi alla tentazione del cinismo e del nichilismo, pensando questa ostinazione cieca e ottusa come un argine etico, un prendersi cura della propria dignità.

Per una scheda sul libro: QUI.

Giorgio Vasta
“Spaesamento”
Pagine 128, Euro 9.50
Editori Laterza


Mendini e Depero


Quando vivrò di quello che ho pensato ieri, comincerò ad avere paura di chi mi copia.
Così disse una volta Fortunato Depero (Fondo, marzo 1892 – Rovereto, novembre 1960) una delle principali figure del Futurismo: pittore, scrittore, scultore, designer.
Fondata nel 1957 dall'artista, la Casa d'Arte Futurista Depero è l'unico esempio di museo futurista realizzato in Italia da un futurista stesso.
Il 17 gennaio 2009, in occasione del centenario del Futurismo, dopo un restauro – firmato dall'architetto Renato Rizzi, con il progetto museografico ideato da Gabriella Belli – Casa Depero ha riaperto i battenti.
Sono circa 3000 gli oggetti lasciati dall'artista alla città, fra dipinti, disegni, tarsie in panno e in buxus, collages, manifesti, locandine, mobili, giocattoli e prodotti d'arte applicata. Il nucleo principale della collezione è costituito soprattutto dai lavori tardi, ma donazioni e acquisti hanno ampliato la raccolta.

Ora al Mart è in corso la mostra Mendini > Depero che presenta una serie di mobili e arazzi inediti ispirati alla creatività dell’artista roveretano, progettati e realizzati da Alessandro Mendini per quest’occasione.
L’architetto Mendini, designer, artista, teorico, protagonista della cultura italiana del ‘900, rende così omaggio con le proprie opere a Fortunato Depero; due nomi maiuscoli della scena culturale europea s’incontrano, in questa mostra a cura di Gabriella Belli e Nicoletta Boschiero, in un raffronto a tutto campo tra arte, design e architettura.
Come sulla scena di un teatro, il pubblico sarà testimone di un continuo e serrato dialogo tra le opere di Depero e le nuove creazioni, come quattro arazzi di grandi dimensioni progettati dal maestro e realizzati da Katia Brida in curioso accostamento con tarsie in panno eseguite da Fortunato Depero o i mobili d’ispirazione alpina realizzati da artigiani locali. Un’idea affascinante e suggestiva, quella proposta da Mendini, per far emergere legami appassionanti, combinazioni infinite tra le opere, dando a ognuna la possibilità di essere colta sotto una luce nuova.
Nella mostra sarà possibile ammirare sia le sue creazioni storiche - prima tra tutte la "Poltrona di Proust" del 1978 (in foto) – il divano "Kandissi", sempre del 1978, il tavolo "Zabro", 1984, fino alle più recenti mobili-sculture per uomo: "Giacca" e "Scarpa" del 1996.

Il catalogo è stampato da Silvana Editoriale.
Ufficio Stampa dell'Editrice: Lidia Masolini, 02 – 61 83 62 87; press@silvanaeditoriale.it

Per il Mart, l’Ufficio Stampa (press@mart.trento.it) è curato da:
Luca Melchionna 0464 – 45 41 27 e Clementina Rizzi 0464 – 45 41 24.

"Mendini > Depero"
Casa D'Arte Futurista Depero
Via Portici 38, Rovereto
Fino al 17 ottobre 2010


Nuovo Teatro a Terni


A Terni apre la scena il nuovo teatro cittadino dedicato al giovane ternano Sergio Secci, morto nella strage di Bologna il 2 agosto del 1980.
Dal libro “Un attimo… vent’anni” di Daniele Biacchessi: Sergio Secci è in stazione. 24 anni appena e già una voglia di vivere che non sa contenere. Sergio si è laureato al Dams, l'università dello spettacolo, della musica, della cultura. Ha un lavoro. La sua strada già è chiara così come la sua attività. La sera del primo agosto, Sergio telefona da Forte dei Marmi ai suoi genitori, Torquato e Lidia: "Stasera sono a una festa. Domani vado su in Alto Adige, a Bolzano, prendo l'espresso delle 8,18 a Bologna". Ha la voce tranquilla, distesa, calma. La sua destinazione di lavoro è Bolzano. Prima deve fermarsi a Verona da Ferruccio Merisi, suo grande amico. Sergio non riesce a prendere quel treno. Uno stupido ritardo di pochi minuti. Si reca all’ufficio informazioni e scopre che un altro convoglio sta per raggiungere la stazione di Bologna. E’ annunciato alle 10,50. Attende la sua coincidenza sbuffando un poco ma per lui, pazienza e fiducia sono armi vincenti. Sergio Secci, il volto sempre sorridente, spesso in giacca e cravatta, i tratti somatici molto simili a suo padre Torquato.

Il teatro che ora porta il suo nome è un tipico teatro all'europea da 300 posti, fa parte degli spazi del CAOS (Centro Arti Opificio Siri) e rientra nel progetto comunale di riqualificazione dell'area post-industriale della ex fabbrica chimica Siri.


Inaugurazione: sabato 22 maggio con la Compagnia Bread and Puppet Theatre.

Per il cartellone, cliccare QUI.

Ufficio Stampa: Luca Dentini, luca.dentini@gmail.com ; 340 – 388 69 92; 0744 – 425 153


Le due chiese

Leggo da quarant’anni sempre con felicità le opere di Sebastiano Vassalli (per un’essenziale sua biobliografia e foto QUI, per un’altra nota più articolata: CLIC) perché lo giudico uno dei nostri maggiori scrittori e perché è riuscito in un’impresa unica: tracciare un’archeologia del presente (citazione di un suo titolo) su plurali occasioni storiche del nostro paese facendone un itinerario che, pur riflettendo sulle peculiarità italiane, si legge come un universale, amaro ritratto dell’esistenza umana.
Così come accade in questo recente, splendido, Le due chiese edito da Einaudi.
A Rocca di Sasso - un paese di fantasia “imitato dal vero” a somiglianza dei tanti paesini sotto il Monte Rosa - il tempo è immobile come la montagna che lo sovrasta. Sotto le sue pendici, nel libro, in uno scenario maiuscolo di paesaggio scorrono più storie d'esistenze minuscole, ma non trascurabili, lungo un arco di novantadue anni – dalla prima guerra mondiale ai giorni nostri – punteggiati da “un inno: L’Internazionale, che ormai pochi cantano e pochi ricordano”.
Nel villaggio, Vassalli segue le storie di tredici protagonisti e di una folla di comparse che attraversano vari destini, assai spesso intrecciati fra loro, tenendole insieme, con rara maestrìa scrittoria. E accadono un sacco di cose: tradimenti, omicidi, amori, fughe e ritorni, cene e funerali, feste e sciagure, vissute da personaggi che sono, ognuno per sua parte e nel loro insieme, una rappresentazione di cui avemmo anticipo in L'italiano: “animale socievole e non sociale, infantile, opportunista, simpatico, adattabile, ingegnoso, vigliacco, furbo, egoista, generoso, narcisista”.
E qui rifulge una delle maggiori qualità di Vassalli capace attraverso la narrativa di rimandare alla scrittura saggistica, e questa a quella, spiazzandosi reciprocamente.
Sono romanzi quelli di Vassalli? Sì, certamente, lo sono pure, però così particolari con la loro eco che risuona dalla Storia oppure dalla Cronaca da diventare ritratti che, senza fare sociologia e antropologia spicciole, ci aiutano a capire l’inferno in cui viviamo. E lo fanno con “pessimismo ilare e atroce” come scrisse tanti anni fa di lui Guido Davico Bonino. E, più recentemente, ha fatto dire a Giulio Ferroni (Scritture a perdere, Laterza 2010): “…Vassalli, autore di romanzi non storici, ma di escavazione storica […] come sta facendo da alcuni anni, misura il polso del mondo, sembra come voler dare un’accorata radiografia delle minacce che ci sovrastano, con una scrittura che sa mostrare la dimessa e velenosa normalità dell’assurdo sociale e ambientale”.
Ferroni si riferisce in particolare ai libri di racconti di Vassalli (quando scriveva quanto ho citato non era ancora uscito il titolo Le due chiese), ma quest’opera, si può forse affermare che è un romanzo fatto di racconti che intersecandosi, sommandosi e dividendosi, descrivono una trasformazione di un paese e di una società; narrano, in trasparente similitudine, come il villaggio Italia è diventata l’azienda Italia che deve portare i libri contabili (economici e morali) in tribunale.
Accade in un momento del libro che alcuni, in partenza per la prima guerra mondiale (a Rocca di Sasso partono in trentanove e ritornano in quindici), s’interrogano su chi sia il nemico, lì mi pare sentire rispondere Vassalli dalle pagine di un suo altro volume (“Il robot di Natale”, edito da Interlinea) dove scrive “è necessario un nemico che ogni tanto ci faccia ‘bu’ e ci spaventi […] come possiamo volerci bene tra di noi, se non abbiamo un nemico?”.

Le due chiese: un titolo fra quelli che resteranno nella storia della nostra letteratura.

Per una scheda sul libro: QUI .

Sebastiano Vassalli
“Le due chiese”
Pagine 322, Euro 20.00
Einaudi


Le due chiese

Leggo da quarant’anni sempre con felicità le opere di Sebastiano Vassalli (per un’essenziale sua biobliografia e foto QUI, per un’altra nota più articolata: CLIC) perché lo giudico uno dei nostri maggiori scrittori e perché è riuscito in un’impresa unica: tracciare un’archeologia del presente (citazione di un suo titolo) su plurali occasioni storiche del nostro paese facendone un itinerario che, pur riflettendo sulle peculiarità italiane, si legge come un universale, amaro ritratto dell’esistenza umana.
Così come accade in questo recente, splendido, Le due chiese edito da Einaudi.
A Rocca di Sasso - un paese di fantasia “imitato dal vero” a somiglianza dei tanti paesini sotto il Monte Rosa - il tempo è immobile come la montagna che lo sovrasta. Sotto le sue pendici, nel libro, in uno scenario maiuscolo di paesaggio scorrono più storie d'esistenze minuscole, ma non trascurabili, lungo un arco di novantadue anni – dalla prima guerra mondiale ai giorni nostri – punteggiati da “un inno: L’Internazionale, che ormai pochi cantano e pochi ricordano”.
Nel villaggio, Vassalli segue le storie di tredici protagonisti e di una folla di comparse che attraversano vari destini, assai spesso intrecciati fra loro, tenendole insieme, con rara maestrìa scrittoria. E accadono un sacco di cose: tradimenti, omicidi, amori, fughe e ritorni, cene e funerali, feste e sciagure, vissute da personaggi che sono, ognuno per sua parte e nel loro insieme, una rappresentazione di cui avemmo anticipo in L'italiano: “animale socievole e non sociale, infantile, opportunista, simpatico, adattabile, ingegnoso, vigliacco, furbo, egoista, generoso, narcisista”.
E qui rifulge una delle maggiori qualità di Vassalli capace attraverso la narrativa di rimandare alla scrittura saggistica, e questa a quella, spiazzandosi reciprocamente.
Sono romanzi quelli di Vassalli? Sì, certamente, lo sono pure, però così particolari con la loro eco che risuona dalla Storia oppure dalla Cronaca da diventare ritratti che, senza fare sociologia e antropologia spicciole, ci aiutano a capire l’inferno in cui viviamo. E lo fanno con “pessimismo ilare e atroce” come scrisse tanti anni fa di lui Guido Davico Bonino. E, più recentemente, ha fatto dire a Giulio Ferroni (Scritture a perdere, Laterza 2010): “…Vassalli, autore di romanzi non storici, ma di escavazione storica […] come sta facendo da alcuni anni, misura il polso del mondo, sembra come voler dare un’accorata radiografia delle minacce che ci sovrastano, con una scrittura che sa mostrare la dimessa e velenosa normalità dell’assurdo sociale e ambientale”.
Ferroni si riferisce in particolare ai libri di racconti di Vassalli (quando scriveva quanto ho citato non era ancora uscito il titolo Le due chiese), ma quest’opera, si può forse affermare che è un romanzo fatto di racconti che intersecandosi, sommandosi e dividendosi, descrivono una trasformazione di un paese e di una società; narrano, in trasparente similitudine, come il villaggio Italia è diventata l’azienda Italia che deve portare i libri contabili (economici e morali) in tribunale.
Accade in un momento del libro che alcuni, in partenza per la prima guerra mondiale (a Rocca di Sasso partono in trentanove e ritornano in quindici), s’interrogano su chi sia il nemico, lì mi pare sentire rispondere Vassalli dalle pagine di un suo altro volume (“Il robot di Natale”, edito da Interlinea) dove scrive “è necessario un nemico che ogni tanto ci faccia ‘bu’ e ci spaventi […] come possiamo volerci bene tra di noi, se non abbiamo un nemico?”.

Le due chiese: un titolo fra quelli che resteranno nella storia della nostra letteratura.

Per una scheda sul libro: QUI .

Sebastiano Vassalli
“Le due chiese”
Pagine 322, Euro 20.00
Einaudi


Succede a Miomao


Chi è Fernando Del Barrio e perché parlano così bene di lui?
Per saperne di più su questo artista spagnolo, cliccate sul sito Komikazen.
In questi giorni è possibile vederne alcune opere (l'artista, per la prima volta le mette in vendita) presso la Galleria Miomao dove, in collaborazione con Mirada saranno in mostra tutte le tavole originali dell’opera più importante di Del Barrio, realizzata insieme allo sceneggiatore Felipe H. Cava nel 1996: La macchina perversa, la cui edizione italiana, pubblicata da Comma 22, risale al 2008. Si tratta di una storia a fumetti particolarmente raffinata, sia piano narrativo sia su quello grafico, che è insieme una riflessione filosofica sul fumetto, sul destino della Spagna durante la dittatura fascista di Francisco Franco, e sulla responsabilità politica e civile degli artisti rispetto alla comunità in cui operano.
Comma 22 così lo presentò ai lettori: E’ uno dei romanzi a fumetti spagnoli più importanti del post franchismo. Sceneggiato da Felipe H. Cava e disegnato magistralmente da Federico del Barrio, questo fumetto ebbe notevole risonanza alla sua uscita in Spagna e fu introdotto da un importante testo di Manuel Vasquez Montalbán (riproposto anche nella presente edizione italiana).
È un testo che affronta il tema, caro allo sceneggiatore Cava, della difficile sopravvivenza della memoria e del delicato passaggio, coperto da un velo di omertà, dalla dittatura allo Stato democratico. Fu un passaggio in cui si negò il diritto alle giovani generazioni di sapere, in cambio di una transizione senza problemi. Cava e Del Barrio, due autori storici del fumetto spagnolo, si misurano con un tema importante, senza perdere la visione cinematografica e d’atmosfera che caratterizza le produzioni migliori della nona arte. A molti lettori lo stile del disegno di Del Barrio ricorderà per certi versi la scuola di Breccia padre e figlio, di cui è un degno prosecutore: artista sperimentale e virtuoso al tempo stesso
.

Accanto alle potenti immagini di “Macchina perversa”, a Miomao si trova in mostra una selezione di tavole a colori, di grande formato, tratte dalla storia a fumetti, realizzata sempre in tandem con Cava, “Lope de Aguirre - La Conjura”.

Galleria Miomao
Via Podiani 19–21, Perugia
info e press: Maria Cristina Maiocchi
info@miomao.net; tel. 347 – 78 31 708
Fino al 29 maggio ‘10


LookAt Festival


E’ giunto alla quarta edizione, il LookAt Festival rassegna di videoinstallazioni e musica elettronica ospitato quest’anno negli spazi della Fondazione Ragghianti di Lucca.
Il LookAt – a cura da Elena Marcheschi con la direzione artistica di Fabio Bertini – lavora sulle pratiche dei nuovi statuti linguistici, le loro direzioni d’intervento estetico, mediale, politico attraverso il fumetto, la fanzine, la fotografia, il rock, la videoarte, la performance, il clip musicale. Su ognuno di quei cursori scorre, infatti, non soltanto una cifra estetica ma anche una complessità sociale nella quale agiscono, combinandosi, nuovi fattori: pluralismo etnico, velocità delle comunicazioni, molteplicità degli stimoli percettivi, un benvenuto ritorno che i nostri anni propongono (ci mancava dal Rinascimento) dell’unione fra umanesimo e scienza con larghe testimonianze in molte mostre.
Il procedere nell’arte è oggi, quindi, sempre più fondato sullo scambio dei codici, sulla sinestesia, sulle derive magnetiche della sensorialità.
Ecco perché le installazioni presentate a Lucca si muovono ai confini delle arti e dei linguaggi mass mediatici, intrecciando dialoghi con le forme più tradizionali della pittura, la scultura e la performance, volgendosi all’arte elettronica, per poi esplorare i mondi reali ripresi dal videofonino, fino alle realtà virtuali.

ImmaginAzioni è il titolo di questa edizione che ospiterà le installazioni di Mario Canali - Ass. Dn@ - Theo Eshetu - Giulia Gerace e Tiziana Bertoncini - Marcantonio Lunardi - Lorenzo Pizzanelli e Fariba Ferdosi - Marco Pucci - Sara Rossi - Giacomo Verde.
Stimoli immaginari (creativi, metaforici, caleidoscopici, realistici) e azioni (generative, interattive, dialettiche) vengono proposti dagli artisti sia come fattori determinanti nella creazione delle rispettive opere, sia come invito alla partecipazione dello spettatore, in alcuni casi fisicamente interattiva, in altri più immaginifica, intima, speculativa.
Gli spettatori dovranno scegliere all’ingresso della mostra quale percorso affrontare, se vorranno prima immaginare o agire, secondo la propria curiosità e del grado di coinvolgimento che desidereranno sperimentare.

Per il programma cliccare QUI.

Per i redattori della carta stampata, delle radiotv, del web, l’Ufficio Stampa è a cura di Elena Fiori: 0583 – 46 72 05; elena.fiori@fondazioneragghianti.it

LookAt Festival
Fondazione Ragghianti
Via San Micheletto 3, Lucca
info@lookatfestival.it
Da oggi fino al 30 maggio
Ingresso gratuito


Angeli perduti


Disse B. B. King: “Il blues non si può ripulire più di tanto; dev'essere grezzo e intenso. Il blues non può essere perfetto ed è il motivo per cui molti musicisti bianchi non sono capaci di suonarlo. Non per altro, ma perché parlano un inglese troppo buono. Il blues e una buona pronuncia non vanno d' accordo. Per suonarlo bene, devi sporcare, devi spaccare le parole”.
Se volete saperne di più su questo suono che rappresenta uno dei momenti importanti della storia della musica, è in libreria, edito da Meridiano Zero, Angeli perduti del Mississippi Storie e leggende del blues.
Il volume è firmato da Fabrizio Poggi.
Nato nel 1958, si avvicina giovanissimo al mondo della musica. Sul finire degli anni ottanta l’incontro decisivo con l’armonica a bocca, di cui diventa uno dei più noti solisti italiani. Con la sua band Chicken Mambo e altre formazioni incide dodici album, di cui tre prodotti e registrati negli Stati Uniti, paese che lui ha ben conosciuto grazie a numerosi viaggi, soprattutto negli stati del Sud.
La Hohner (la più celebre azienda produttrice di armoniche a bocca) lo ha premiato con un Oscar alla carriera.
Questo suo recente volume espone una storia del blues, attraverso un dizionario articolato in voci che propongono termini personaggi stili, rivissuta secondo una puntuale cultura storica, ma anche una navigazione orientata sulle passioni dell’autore.

A Fabrizio Poggi, ho chiesto: che cosa, principalmente, ti ha spinto a scrivere questo libro?

Il fatto che nel blues dietro ogni parola ci sia sempre una storia. Una storia a volte cupa a volte divertente, ma sempre affascinante. Storie che spesso mi sono state raccontate da chi le ha vissute in prima persona. Questo è un altro di quei libri che mi sarebbe piaciuto leggere quando trent’anni fa mi sono avvicinato al blues. Un libro fatto di parole semplici, semplici come la musica che descrive, ma anche un libro pieno di passione, quella che c’è dentro il mio cuore quando suono il blues. Questo libro è una guida, o come dice il grande Ernesto De Pascale nella sua introduzione, un navigatore satellitare dei sentimenti per visitare con gli occhi del cuore quel luogo dell’anima che si chiama blues. Un luogo in cui si incontrano chitarre e armoniche a bocca, treni da prendere al volo, musicisti che hanno venduto l’anima al diavolo e distillatori di whisky di contrabbando che cantano come angeli, angeli perduti del Mississippi alla ricerca della propria anima blues.

Qual è stata l'influenza del blues negli altri stili musicali?

Il blues ha influenzato tutta la musica moderna. Solo certe musiche etniche o la musica classica non sono stati toccati da ciò che gli afroamericani hanno saputo tirare fuori dal loro dolore infinito. Uomini e donne che dalle acque fangose del Mississippi hanno tirato fuori il blues, la ‘madre’ di tutte le musiche. Gente straordinaria che ha inventato una musica che è una medicina. Una medicina capace di guarire tutte le tristezze e di toccare miracolosamente persone diversissime fra loro, in ogni parte del mondo.

Ai nostri giorni, nella produzione musicale italiana, è possibile, rinvenire tracce del blues?

Il blues è dappertutto nella musica contemporanea e l’Italia non fa eccezione. A volte i miei colleghi musicisti e il pubblico ne sono coscienti e riconoscenti, altre volte no. Oppure ci si può imbattere in qualcuno che in assoluta buona fede pensa di suonare o di ascoltare il blues e invece il blues sta da tutt’altra parte. Perché ‘eseguire’ un blues è facilissimo, ‘suonarlo’ invece, è difficilissimo. Credo che forse il segreto stia in ciò che insegnavano un tempo i bluesmen più navigati a quelli meno esperti, una cosa che vale ancora oggi e cioè che nel blues, i silenzi e le pause sono importanti almeno quanto la musica. I musicisti dicevano spesso che non era importante il numero o la velocità delle note suonate ma la qualità di ogni singola nota. Bisognava scegliere in mezzo a tante la nota ‘giusta’, la nota che emozionava. E solo dopo anni un musicista di blues riusciva a capire qual’era la nota giusta da suonare, ma quando si arrivava lì voleva dire che si era davvero pronti, pronti per suonare il blues!

Per una scheda sul libro: CLIC sull’immagine di copertina della sezione Novità.

Fabrizio Poggi
“Angeli perduti del Mississippi”
Prefazione di Ernesto De Pascale
Pagine 256, Euro 15.00
Meridiano Zero


Scritture a perdere


Immaginate che il 16 maggio del 2009 un noto storico e teorico della letteratura… chi?...no, il nome lo dico dopo… s’aggiri tra assordanti padiglioni del Salone del libro a Torino; intervenga a uno dei tanti incontri in quel luogo assai pensoso; è costretto ad ascoltare un attore che legge con troppa nonchalance un testo leopardiano; sia trascinato da un fotografo per alcune foto (però è stato scambiato per un altro); attraversi stands trattenendosi – e, soprattutto, trattenuto – da editori davanti ai loro banchi con tanti, forse troppi, volumi pubblicati; poi uscito da quella bolgia di cellulosa si ritrovi in un’altra bolgia in una piazza dove si svolgono chiassosamente su di un palco le riprese di un quiz tv condotto da una presentatrice che suscita deliranti entusiasmi.
Sto riassumendo l’inizio di un romanzo contemporaneo? Ma no, lo sapete che io quasi mai m’occupo di romanzi contemporanei, li detesto quasi quanto John Belushi odiava i nazisti dell’Illinois in “The Blues Brothers”. Sto parlando di un noto storico e teorico della letteratura… no, il nome lo dico dopo… che s’accorge di navigare nel Tempo dell’Eccesso. Le maiuscole le ho messe io. Ma così s’intitola il primo capitolo di un lucente saggio intitolato Scritture a perdere la letteratura negli anni zero edito da Laterza che nel suo catalogo ospita, dello stesso autore, anche Prima lezione di letteratura italiana.
Quell’autore lo reputo uno dei massimi esponenti della critica italiana, e non sono il solo ma in molti a pensarla così: è Giulio Ferroni.
Lo ebbi anche ospite tempo fa nella taverna spaziale da me gestita sull’Enterprise di Star Trek perché è tipo che pur vantando brillanti titoli accademici nulla ha di dottorale burbanza e accettò il mio invito a fare quella conversazione durante un viaggio spaziale.

Il suo saggio, come già il titolo promette, o minaccia, chiede, certamente consiglia, e forse implora come segue: Insieme ad un’ecologia dell’ambiente fisico abbiamo sempre più bisogno di un’ecologia della comunicazione, che agisca come ecologia della mente, che liberi le nostre menti dagli scarti infiniti che le tengono in ogni momento sotto assedio, con una variegata catena di manipolazioni a cui ben pochi arrivano a resistere. Ed è sempre più necessaria un’ecologia del libro e della letteratura, capace di operare distinzioni nell’immenso accumulo del materiale librario prodotto.
Di solito, un critico – ai giorni nostri dove appena fai un nome susciti una serie d’incarognite reazioni di potenti gruppi – dopo una dichiarazione di principio, prudentemente continua filosofeggiando. Ferroni, no. E accanto a puntualissime analisi storico-letterarie e politico-editoriali, esemplifica con nomi e cognomi, salvandone pochi e inabissandone parecchi. Volete sapere qualcuno di quei nomi?... no, andate in libreria, rifornitevi di “Scritture a perdere” e li conoscerete.
Ma, aldilà di cognomi (di uno addirittura si rifiuta di farlo per il troppo orrore che gli suscita dicendo: de cuyo nombre no quiero acordarme), c’è un discorso che reclama quelle novità che più strombazzate sono e più mute si rivelano, un discorso sul linguaggio, un appello a riservare più attenzione al racconto che non al romanzo perché In questa Italia di oggi ci sono certo romanzi migliori di quelli “di successo”; ma è anche vero che proprio la forma romanzo, trascinata nel vortice mediatico, presa come l’emblema più consumabile della letteratura contemporanea, a porsi come sempre più inessenziale, sempre più inadatta a corrodere criticamente il presente, a tracciare un segno intenso sulla confusione del mondo.

Finalmente un libro di critica in un paese in cui la critica è latitante o commette reati che rapidamente vanno in prescizione per decreto legge.

Per una scheda sul volume e recensioni ottenute CLIC!

Giulio Ferroni
Scritture a perdere
Pagine 116, Euro 9.00
Editori Laterza


Chaplin e Keaton

Più di una volta in queste pagine web mi è capitato di elogiare l’attività della Cineteca di Bologna (Presidente: Giuseppe Bertolucci; Direttore: Gian Luca Farinelli), la più recente delle quali in occasione dell’inaugurazione dell’Archivio Videoludico.
Una nuova iniziativa, di grandissimo valore storico per la cultura cinematografica in Italia, è nata con il Progetto Chaplin – successivamente estesosi anche all’opera di Buster Keaton – e concretizzatasi in due volumi con annessi Dvd (ecco l’idea di un buon regalo a voi stessi se vi volete bene o per vostri amici se li sapete cinefili o anche spettatori appassionati) acquistabili presso la Cineteca stessa; cliccare QUI.
Il progetto è guidato da Cecilia Cenciarelli
Cecilia Cenciarelli dirige il ‘Chaplin Project’ alla Cineteca di Bologna dove ha cominciato a collaborare dal 2000. Nel 2007 ha coordinato ‘Chaplianiana’, un tributo a Charlie Chaplin della durata di sei mesi, che comprendeva la mostra di Sam Stourdzé “Chaplin in Pictures”. Attualmente sta lavorando alla rivista, di prossima pubblicazione, “Chaplin at work” realizzata dai ‘Cahiers du Cinéma’. Dal 2007 è la coordinatrice della Fondazione ‘Martin Scorsese’s World Cinema Foundation’, un’organizzazione no-profit che si occupa della conservazione, restauro e diffusione del patrimonio cinematografico nei paesi emarginati dal grande circuito di distribuzione in tutto il mondo.
A Cecilia Cenciarelli ho chiesto: come nasce, e con quali intenti, l'iniziativa che ha portato alla pubblicazione di questi volumi con Dvd?

Dalla fine degli anni 90 la Cineteca di Bologna ha avuto il grande privilegio di restaurare tutta l'opera di Charlie Chaplin. Un progetto importante e prestigioso, voluto dagli eredi del cineasta, portato avanti interamente dal nostro laboratorio di restauro L'immagine ritrovata. Parallelamente abbiamo intrapreso un lavoro di catalogazione e digitalizzazione dell’archivio cartaceo e fotografico del cineasta, circa 150.000 carte e 10.000 unità fotografiche che permettono di guardare, di scandagliare ‘dall’interno’ l’arte di Charlie Chaplin. La missione primaria del Progetto Chaplin è quella di salvaguardare il patrimonio cartaceo lasciato in eredità dal cineasta, ma anche quella di incoraggiare e alimentare un lavoro di ricerca e riscoperta permanente su Charlie Chaplin, creando le premesse per uno confronto continuo tra studenti, ricercatori e cinefili.
In linea con questo obiettivo, l'intero corpus dei documenti d'archivio è al centro di una serie di pubblicazioni volte ad approfondire in maniera inedita il lavoro di Chaplin come Artista a tutto tondo. Dalla nascita di un'idea, alla sua realizzazione, ripercorrendo l'ideazione, la produzione, la promozione e le vicende politiche, storiche e umane legate al film e alla sua uscita nelle sale.
In tutti questi anni abbiamo avuto la fortuna di conoscere da vicino chi, molto prima di noi, aveva intrapreso, con obiettivi molto simili ai nostri, una ricerca sugli archivi Chaplin, in particolare il biografo di Chaplin David Robinson e lo storico e regista Kevin Brownlow. Negli ani 80s, Brownlow aveva lavorato, assieme a David Gill, a due documentari straordinari che raccontano Chaplin e Keaton meglio di chiunque altro. La Cineteca di Bologna, da un anno a questa parte editore dei suoi volumi e dei suoi DVD, ha scelto questi due titoli per farli conoscere al pubblico italiano
.

Qual è, a tuo avviso, ciò che più differenzia Chaplin da Keaton?

È una domanda impegnativa… Keaton era un acrobata da vaudeville, Chaplin era un ballerino nato – come gli disse anche Nijinsky quando andò a trovarlo sul set di “Sunnyside”. Qualcuno ha scritto che Keaton generava comicità lavorando con cose ‘grandi’ – case, ferrovie, tifoni – e di farlo con enorme destrezza. Chaplin lavorava con il suo corpo, un corpo plastico e meccanico al tempo stesso, che ispirò tanti artisti delle avanguardie europee da Léger in poi.

Il consumo di cinema (dai classici ai nuovi autori) s'è assottigliato in questi più recenti tempi sia in sala sia nei networks tv. E' una derivazione dei gusti del pubblico oppure una conseguenza della politica con la quale è amministrato il cinema nel nostro paese?

Il cinema classico, il patrimonio cinematografico del nostro paese, così come più in generale il suo immenso patrimonio storico-culturale non sembrano una priorità di questo governo. Non voglio addentrarmi un una questione così complessa ma i gusti del pubblico sono diretta conseguenza di una totale mancanza di educazione all’immagine e di una proposta televisiva che spaventa. Uno dei ruoli principali di una Cineteca è quello di restaurare opere che altrimenti andrebbero perdute e successivamente riportarle sul grande schermo. A Bologna, la Cineteca organizza durante la prima settimana di luglio un festival che si chiama ‘Il Cinema Ritrovato’. Nel 2007, in occasione della prima del restauro di “The Gold Rush” accompagnato da sessanta elementi dell’orchestra del Teatro Comunale, oltre 6000 persone hanno riempito Piazza Maggiore. Sarà anche questo un segno….

Spero che Bondi non lo sappia, sennò se ne addolora.

Per i redattori della carta stampata, delle radio-tv, del web, è Patrizia Minghetti (cinetecaufficiostampa@comune.bologna.it ; 051 – 21 94 831) a guidare ottimamente l’Ufficio Stampa.


Inni di paesi apocrifi


Il poliartista Vittore Baroni e Radical Matters presentano la ristampa della leggendaria compilation di inni alternativi Trax 0983 Anthems, uscita nel 1983 in Lp e cassetta, tornata ora disponibile (con copertina di Massimo Giacon e grafiche originali) nella Radical Matter Web Editions Series di Sandro Gronchi.
Dopo oltre un quarto di secolo, alcuni dei materiali prodotti nell’àmbito del progetto modulare Trax – promosso dal 1981 al 1987 da Piermario Ciani, Vittore Baroni e Massimo Giacon – vengono così ora messi, grazie alle Web Editions della Radical Matters, in download gratuito.
Di ciascun lavoro sarà prodotta anche una Collector’s Edition su cd in tiratura limitata, con nuovi materiali multimediali.

Prima uscita in questa nuova serie di ristampe - dopo il doppio cd “Notterossa / Rednight” apparso nel 2007 su Small Voices - è l’album a tema “Anthems” del settembre 1983, con 21 nuove versioni d’inni nazionali da paesi reali e immaginari, realizzate da musicisti di altrettante nazioni. Il “concept” uscì in origine in due diverse edizioni, su LP in vinile (in 1000 copie) e in cassetta più libretto (500 copie). Questa ristampa raccoglie tutti gli inni inclusi nei due prodotti Trax, con aggiunta di un doppio inno inedito dedicato a “Tutte le frontiere”, creato per l’occasione da Gianluca Becuzzi che si è occupato anche della remasterizzazione dei brani dai supporti originali.
Musiche così diverse per stile e concezione, testimoni di un momento particolarmente effervescente e creativo della scena sotterranea internazionale, possono ancora divertire e istruire. Ad esempio, ascoltare un giovane Masami Akita in uno dei rari brani del vastissimo repertorio di Merzbow, così come scoprire gemme dalle nazioni fantastiche di Naon e Akademgorod.

Per scaricare gratuitamente quest’album: CLIC!

Autori Vari
“Trax 0983 Anthems”
Genere: Avantgarde / Networking / Conceptual / Dada
Edizione: Maggio 2010
Download gratuito


In difesa e indifesa


Pur nata da appena un anno, la Fondazione 107 (per saperne di più: QUI), ideata da Federico Piccari sta attraendo una meritata attenzione per l’originalità delle sue proposte.
Dopo il successo ottenuto con la mostra Ad est di niente ha dato vita ad un secondo appuntamento: IN-DIFESA Artisti da Africa, Asia, Europa, Russia, Usa e Medio Oriente rinnovando la volontà di promuovere e stimolare dibattiti su temi di interesse globale sviluppati da artisti provenienti dai vari continenti che portano la loro esperienza e visione del mondo attraverso le opere esposte.
Una mostra (in foto: Erbassy Meldibekov, “My brother My ennemy”, stampa lambda, cm. 120x200) che non è solo l’esposizione di prodotti artistici contemporanei, ma ha la forza d’inserirsi in un dibattito filosofico e linguistico dei nostri giorni e che ha precipitati nel costume e nella politica. Indaga, infatti, nei territori di chi è in difesa e/o indifeso, argomento questo che i media sempre più tendono – spesso maliziosamente – a confondere.
La nostra vita, infatti, vede sempre più intersecarsi i momenti estetici con quelli della comunicazione perché le nuove tecnologie permettono nuove forme di trasmissione del pensiero e nuove creazioni espressive. Possono essere agite nell’informazione e nella controinformazione, modificando percorsi della mente e dello sguardo, rimodulando l’Essere in un nuovo modo d’intenderlo sia come verbo sia come sostantivo.
Questa mostra ha il merito d’illuminare questo dibattito attraverso una testimonianza che va anche oltre il dato artistico, perché concerne la modalità di fruizione delle immagini oggi e il modo in cui le nostre esistenze ne sono toccate.
Esplora la linea di confine, in cui le azioni di attacco e difesa perdono di certezza e definizione, risultato agevolato dalla manipolazione dei dettagli che conduce a una realtà artefatta.

Tra gli artisti in mostra Diamante Faraldo - Shirin Neshat - Almagul Menlibayeva - Andres Serrano - Dino Pedriali - Aes+F - Budi Kustarto - Oleg Kulik - Ana Opalic e numerosi altri che attraverso fotografia, installazioni, video, pittura e scultura sottolineano l’importanza di una presa di coscienza e assunzione di responsabilità di ogni uomo e ogni donna di questo pianeta.

Ufficio Stampa: Emanuela Bernascone, Tel +39 011 – 19714998
info@emanuelabernascone.com; www.emanuelabernascone.com

“In-Difesa”
Via Sansovino 243
Torino
Info: 011- 45 444 74; info@progetto107.it
Fino al 4 luglio 2010


La voce regina

Nel corso di una conversazione tenutasi a Bologna, alla Biblioteca del Dipartimento di Italianistica – con Enzo Minarelli, Niva Lorenzini, Angelo Guglielmi, Edoardo Sanguineti – è stato presentato il restyling del sito La voce regina, approntato da Roberto Pasquali, prevalentemente dedicato alla poesia sonora, ma anche a testimonianze documentaristiche su prosatori.
Si tratta di uno dei più importanti centri di documentazione fonico-letterari in Italia.
Custodisce, infatti, la voce di molti autori italiani e stranieri avvalendosi anche del contributo delle Teche Rai.

Per accedere al sito: CLIC!

Per informazioni:

www.biblioitalianistica.unibo.it

dipital.infobiblio@unibo.it


Tiro libero


Nella pallacanestro, il tiro libero è la sanzione prevista nel caso in cui la difesa commetta un fallo nel momento in cui un avversario tira. In questi casi è consentito al giocatore che ha subito il fallo di tirare dall'interno della lunetta del ‘tiro libero’. Il suo obiettivo, ovviamente, è quello di centrare il canestro, se non ci riesce… fatti suoi.
Se a tirare la palla è Guido Davico Bonino, i suoi tifosi non potranno che ammirare come, con bello stile, ha fatto centro. E, fuori della metafora sportiva, i suoi lettori non potranno che ammirare questo Tiro libero Giornale letterario 2009Nino Aragno Editore – in cui il pallone di cellulosa va a segno nel cesto delle lettere (italiane e straniere) in una serie di note che, spesso deliziosamente aspre, commentano quanto si è stampato, detto in dibattiti, o messo in scena durante l’anno scorso.

Guido Davico Bonino è nato a Torino nel 1938. Allievo di Giovanni Getto, è stato docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, e Storia del teatro alle Università di Cagliari, Bologna e Torino. Nel 1961 entra a far parte della casa editrice Einaudi, succedendo come capoufficio stampa a Italo Calvino e divenendone fino al 1978 segretario editoriale. E’ stato critico teatrale a “La Stampa” dal 1978 al 1989, ha diretto il Teatro Stabile torinese dal 1994 al 1997, e dal 2001 al 2003 l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi.
Improvvisatosi cosmonauta, è stato ospite dell’Enterprise di Star Trek.

"Tiro libero" s’avvale di una prefazione di Giovanni Tesio che presentando il volume scrive: Qui troviamo un’annata di gusti e di disgusti […] Intanto l’enorme ‘curiositas’ solidamente accoppiabile con l’elogio della competenza (‘age rem tuam’, la virtù indigena dei Pavese, Levi, Calvino) che la tuttologia (e gli annessi tuttologi) strapazzano con estrema disinvoltura, perché quello letterario sembrerebbe non essere altro che un ‘terrain-vague’ dove chiunque possa piantare il suo circo, il suo baraccone o semplicemente il suo io narciso […] Poi la prospettiva internazionale di Davico Bonino che trae le “scintille d’intelligenza” che la divulgazione letteraria arriva a sprigionare. Con annessa capacità di spigolare impulsi dei maestri più diversi (da Zeri a Starobinski, da Firpo a Poulet, da Jankélévitch a Barthes, da Kezich a Baldacci, da Saramago a Philip Roth) e di tradurli “nell’oppressiva bassura culturale in cui stentiamo a respirare” […] Infine, l’idea – forte, nonostante tutto – del fare letterario e della sua interpretabilità. Non ideologismi rassicuranti (‘finis Utopiae’), ma preparazione e dedizione. Non facilitazioni e scorciatoie, ma applicazione soda a testi e problemi. In prosa e in poesia.

In questa bella prefazione, qui vulnerata dalla necessaria (per motivi di spazio) mia citazione a frammenti, Tesio sostiene anche che questo libro - “Un diario (in pubblico), un commentario, un lunario, un ideario, uno zibaldone, un journal?" - è reso necessario anche dalla voglia di “chiosare ciò che ogni buon lavorante della terra di 'Scrittura' vorrebbe dire a se stesso e ad altrui, non avendo sempre a disposizione una cattedra da cui insegnare, un pulpito da cui propugnare, un giornale da cui propalare o un uditorio – per amore di un molto piemontese ‘understatement – a cui 'cicalare' ”. Non cita, però, una possibilità che la nostra epoca offre: il Web. Questo valoroso libro, infatti, ben si presterebbe ad avere una sua versione, o prosecuzione, in Internet attraverso un blog che resiste nel tempo più della carta stampata, strumento immateriale e pur perenne; in molti, ed io fra questi, sostengono che la Rete sarebbe piaciuta a Borges. Sapendo però che Davico Bonino non frequenta Internet so che questa mia speranza è vana.
Allora non mi resta che sperare in un nuovo Giornale letterario 2010 in edizione libraria per la gioia di noi tutti suoi lettori.

Per una scheda sul volume: CLIC!

Guido Davico Bonino
“Tiro libero”
Prefazione di Giovanni Tesio
Pagine 223, Euro 16.00
Nino Aragno Editore


La saittella

Della giovane Editrice Magmata mi ha particolarmente interessato un titolo che, inoltre, credo ben ne rappresenti la linea. E’ intitolato La saittella (in dialetto, a Napoli, sta per “tombino”) e ha per sottotitolo strategie di sopravvivenza in territorio amico.
E’ firmato – ma che non sta per un’arbitraria contrazione di meno male, ma dietro quell’acronimo troviamo le iniziali di Marcello Anselmo napoletano del 1977, storico, scrittore che ha pubblicato “Napoli comincia a Scampia” (Ancora del Mediterraneo), “Traffici criminali” (Bollati Boringhieri); saggista per le pagine di Nuovi argomenti, Lo Straniero, Passato e Presente; redattore del mensile Napoli Monitor. E’ anche autore di numerosi documentari per Radiorai… si sa, nessuno è perfetto.
La saittella è un gran bel libro fatto di racconti tratti da incontri realmente avuti dall’autore che ha registrato fonicamente la voce di donne e uomini immersi in una notte sociale senza prezzo e senza pace, dalla vita avventurosa ed illegale, racconti orali poi riscritti in un esercizio linguistico che vede il dialetto sotteso alla lingua nazionale (sia per vocaboli sia per cadenze), e tutti riflettono lo stato di disagio di Napoli: fatiscente e lussuosa, attraversata da segni di vitalità lambiti dalla morte, vivace in occasionali ribellioni, incarognita da carogne di alto e basso rango.
Scrive il sociologo Franco Quadrelli in prefazione: “Con ogni probabilità, per introdurre i “racconti” che il lettore si troverà tra le mani, occorrerebbe la penna di Balzac e non solo per la sua statura letteraria, ma, soprattutto, perché siamo di fronte a un insieme di “storie” ascrivibile a pieno titolo alla “Commedia umana”. Ciniche e ingenue, epiche e banali, feroci e tenere le ‘storie’ ci restituiscono l’esistenza affannata e tragica di un popolo alla continua ricerca di una qualche strategia di sopravvivenza […] Nella sua tarda modernità la città di Totò e Peppino ha scoperto Hobbes e vi si adatta”.
Per chi non avesse completata la scuola dell’obbligo, ricordo che Hobbes è un filosofo britannico del ‘600 fedele al detto “Homo homini lupus est”.

A Marcello Anselmo, ho chiesto: i racconti contenuti in "La saittella", come ho detto nella nota introduttiva, nascono da una serie d'interviste da te condotte. Perché hai preferito dare forma narrativa, di racconto, ai vari intervistati e non hai pubblicato le interviste così com'erano realizzate?

In primo luogo vorrei precisare che il libro è costruito non solo su interviste ma anche su colloqui non registrati, dialoghi nella notte, appunti di “presa diretta” all’interno di situazioni di vita quotidiana. In alcuni casi le storie del libro sono il risultato di un lavoro di trasposizione letteraria di più esperienze di vita. Infine l’intento è stato quello di provare a differenziare l’elemento “sociologico” dei racconti dalla loro suggestione letteraria privilegiando quest’ultima che al momento ritengo la via più efficace per trasmettere contenuti e riflessioni ai lettori forse un po’ narcotizzati dall’esplosione di narrativa e pubblicistica su Napoli e i fenomeni criminali. “La Saittella” vuole raccontare di sensibilità umane, una sorta di micro-racconti di formazione di un sottoproletariato aggredito e adattato alla post-modernità.

In copertina il tuo nome figura scritto "-ma". Dietro questa formula grafica so che c'è una precisa intenzione programmatica. Puoi, in sintesi, spiegarla?

L’acronimo di copertina è il simbolo di un metaforico “passo indietro” dell’autore a vantaggio di ciò che nel libro viene raccontato. Mi è sembrato opportuno, in tempi di dominio dello spettacolo e protagonismi personali, non partecipare ad un’orgia di presenzialismo autoriale ma dare un segnale di discontinuità. Credo inoltre che il lavoro sia il frutto di una partecipazione corale di tutti coloro che parlando con me hanno reso possibile l’emersione delle storie della “Saittella”.

Per una scheda sul libro: QUI.

-ma
“La Saittella”
Pagine 131, Euro 12
Edizioni Magmata


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