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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Santarcangelo Festival 2021


Dobbiamo al più longevo festival di teatro la presentazione di alcune fra le più nuove forme sceniche contemporanee imperniate sul multicodice, sull’ibridazione dei linguaggi.
Festival longevo, sono cinquant’anni, infatti, che esiste il Santarcangelo Festival che in tutte le sue edizioni ha fatto conoscere a critici e spettatori gruppi italiani e stranieri, portatori di nuovi territori espressivi.
Ora, all’8 al 18 luglio 2021, va in scena FUTURO FANTASTICO (II movimento). Festival mutaforme di meduse, cyborg e specie compagne.
Questo Festival, come tante altre manifestazioni si è dovuto misurare con una programmazione più volte ripensata a causa dell’emergenza pandemica, avviando un costante esercizio di trasformazione e una riflessione sul rapporto tra arte e dimensione pubblica.

QUI una dichiarazione della direzione artistica.

L’immagine guida del Festival è tratto dal video Signals from Future prodotto con un programma di intelligenza artificiale che racconta l’esplorazione di un mondo futuro dove: regna la fluidità delle vite e delle forme.
Ne è autrice l’artista taiwanese Betty Apple.

CLIC! per conoscere il programma del Festival.

Info: tel. 0541 - 62 61 85

Per i redattori della carta stampata, delle radio-tv, del web
Ufficio Stampa Santarcangelo Festival: Irene Guzman
i.guzman@fmav.org | | T. +39 349 1250956
ufficiostampa@santarcangelofestival.com
Matteo Rinaldini, matteo@santarcangelofestival.com; mob. 360 – 47 87 28

Santarcangelo Festival
Dall’8 al 18 luglio ‘21


Pianeta città alla Fondazione Ragghianti

Chi è Italo Rota (in foto) e perché parlano così bene di lui?
Qualche cenno biografico già serve a capire.
La sua formazione inizia negli anni ‘70, dapprima presso lo studio di Franco Albini e dopo in quello di Vittorio Gregotti, dove lavora alla progettazione dell’Università della Calabria.
Prima della laurea, conseguita nel 1982 presso il Politecnico di Milano, Rota attraversa importanti momenti espressivi decisivi per il suo successivo percorso professionale e personale: la realizzazione della rivista “Lotus international” (1976-1981) con l'architetto Pierluigi Nicolin e soprattutto la trasformazione dello stabile ottocentesco Gare d'Orsay nell'attuale Museo d’Orsay a Parigi, realizzata in collaborazione con Gae Aulenti.
Trascorre in Francia oltre dieci anni, durante i quali cura molti allestimenti di mostre e realizza alcune importanti ristrutturazioni: il Museo d’Arte Moderna al Centre Pompidou (ancora con Gae Aulenti); le nuove sale della Scuola francese alla Cour Carré del Louvre; la ristrutturazione del centro di Nantes, l’illuminazione di Notre Dame (1991-2000).
Tornato in Italia a metà degli Anni Novanta nel suo studio milanese spazia dal masterplan al product design, in progetti che si caratterizzano per la "scelta di materiali innovativi, tecnologie all'avanguardia e approfondita ricerca sulla luce".
Di rilievo la raccolta di "objets trouvés", che va dai libri a originali pezzi da collezione.
Spiccano nella sua produzione la promenade del Foro Italico a Palermo (Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana per gli Spazi Pubblici 2006) e il Museo del Novecento nel Palazzo dell’Arengario in Piazza Duomo a Milano (2010).
Intensa la collaborazione con Roberto Cavalli. Oltre a numerose boutique e club sparsi in tutto il mondo (Miami, Mosca, Delhi), Rota firma anche la residenza fiorentina del celebre stilista (2008). Nei più recenti anni lo studio Rota ha progettato diversi alberghi di lusso e numerose le opere realizzate in ambito internazionale, tra questi: la Casa Italiana alla Columbia University, New York (1997); il Tempio Indù a Mumbay (2009); il Chameleon Club al Byblos Hotel, Dubai (2011).
Nella sua attività didattica spicca la direzione del Dipartimento Scuola di Design alla NABA - Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, dal 2010.
In editoria, numerosi gli interventi di Rota per importanti riviste di settore (Domus, Casabella, Abitare). Inoltre, i volumi “Cosmologia portatile” (2013) e “Una storia elettrica” (2014), entrambi per Quodlibet.
Al suo lavoro sono dedicati diversi titoli tra i quali si segnala “Italo Rota. Projects, works, visions 1997-2007, (Milano, Skira 2008).
Recentemente allo Studio Rota è stata assegnata la realizzazione del Padiglione Italia all'Esposizione Universale di Dubai del 2020 (qui in video illustra alcuni dei materiali usati) in una cordata con CRA-Carlo Ratti Associati, F&M Ingegneria, Matteo Gatto & Associati.

Tale mole di attività e creatività vede alla Fondazione Ragghianti diretta da Paolo Bolpagni un’esposizione dal titolo Pianeta città Arti, cinema musica design nella Collezione Rota 1900-2021

Estratto dal comunicato stampa

«Con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e la sponsorizzazione di Banco BPM, la mostra “Pianeta città” analizza il tema-città prevalentemente attraverso gli innumerevoli pezzi della collezione dell’architetto Italo Rota, tra i più noti progettisti del nostro tempo.
L’intento è di creare un racconto del Novecento e del primo ventennio del nuovo millennio attraverso la visione della città, la sua rappresentazione nelle arti e nel cinema e l’evoluzione dell’oggetto libro. Da una parte ripercorrendo lo sviluppo dell’idea di città, da quella immaginata da Antonio Sant’Elia negli anni Dieci fino all’architettura attuale della megalopoli; dall’altra analizzando come sia cambiato il nostro modo di trasmettere la conoscenza, fino alle evoluzioni contemporanee e al cambiamento del nostro modo di pensare, con lo sviluppo di una modalità di ragionamento ipertestuale e intertestuale, ma con la permanenza del libro, rivelatosi ancora attuale e vivo nella sua dialettica tra la carta stampata e il digitale.
Il concept della mostra è stato ideato da Paolo Bolpagni, Aldo Colonetti e Italo Rota, in condivisione con un comitato scientifico composto anche da Gianni Canova, Daniele Ietri, Francesco Careri, Eleonora Mastropietro, Alessandro Romanini».

Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web:
Ufficio Stampa Fondazione Ragghianti: Elena Fiori.
elena.fiori@fondazioneragghianti.it

Pianeta città
Fondazione Ragghianti
Via San Micheletto 3, Lucca
Info: 0583 – 467 205
Dal 9 luglio al 24 ottobre 2021


Quei bravi ragazzi


No, questa nota non è dedicata a quel grande film di Martin Scorsese, ma a un cinema reso grande dall’impresa di un gruppo di bravi ragazzi, bravi proprio ma non nel senso dei protagonisti di quel film che erano bravi per modo di dire.
Qui si parla di un’operazione che non riguarda solo Roma perché è un esempio di come anche in pochi si possa riuscire in iniziative che al loro nascere sembrano impossibili. E pure a sperare che in Italia nascano tanti altri gruppi di bravi ragazzi.
Nel 2012 un pugno di ventenni salva dalla demolizione il Cinema America di Trastevere, fonda l’associazione “Piccolo Cinema America”, oggi “Piccolo America”, e inizia a colorare Roma con grandi arene estive gratuite, da San Cosimato fino a Ostia.

L’associazione non a scopo di lucro “Piccolo America”, composta esclusivamente da ragazzi tra i 18 ed i 30 anni, è nata nel settembre 2014 con l’obiettivo di tutelare e promuovere il patrimonio culturale e cinematografico, salvaguardando in primis le sale storiche romane.
Dopo aver ottenuto la tutela del Cinema America da parte del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, la realtà ha concentrato le proprie energie nell’ideazione del “Festival Trastevere Rione del Cinema”. Per tre estati ha così raccolto 100.000 spettatori intorno allo schermo a cielo aperto installato in piazza San Cosimato, restituendo identità e dignità ad una delle aree pedonali più degradate del centro storico. Dal 2018 altri due territori sono stati animati dalle notti estive del “Piccolo America”, il progetto del Festival di Trastevere si è trasformato nel più ampio “Il Cinema in Piazza”, arrivando a coinvolgere, oltre San Cosimato, anche le aree del Parco del Casale della Cervelletta a Tor Sapienza e del Porto Turistico di Roma a Ostia, un bene confiscato alla criminalità.
Nell’aprile 2016, a conclusione del bando pubblico per l’assegnazione della Sala Troisi, l’associazione si è aggiudicata la gestione della stessa per la realizzazione nel settore cinematografico di attività finalizzate alla promozione della produzione culturale e della rigenerazione del tessuto cittadino.

Detto nelle righe che avete fin qui letto può sembrare che tutto sia stato facile.
Non è andata così.
Quel piccolo gruppo ha dovuto scalare montagne burocratiche, ostacoli messi di traverso per impedire la realizzazione dei progetti, perfino aggressioni fisiche da parte di neofascisti per intimidire quel gruppo del quale si è occupata con ammirazione anche la stampa straniera, da El Pais al The New York Times, da Le Nouvel Observateur al The Guardian

Adesso è tornato il Cinema America e ricomincia l’appuntamento fisso del cinema nelle piazze di Roma
Il 4 giugno è stata inaugurata la manifestazione con Damiano e Fabio D’Innocenzo che hanno presentato “Favolacce” con Ileana D’Ambra, Max Malatesta e Gabriel Montesi. L’intera rassegna è dedicata a Ferzan Ozpetek, che presenterà i suoi film insieme a Serra Yilmaz e altri protagonisti delle sue opere.
Tra i tanti ospiti ci saranno inoltre Enrico Vanzina, Ken Loach, Wim Wenders, Emir Kusturica, Matteo Garrone, Carlo Verdone, Gianfranco Rosi, Pietro Marcello.
La rassegna terminerà il primo agosto.

Abbiamo finalmente potuto programmare tutti i titoli che desideravamo proiettare – afferma Valerio Carocci, presidente dell’Associazione Piccolo America – speriamo perciò di aver contribuito a scardinare un sistema che stava iniziando a tagliare le gambe a tutti gli eventi cinematografici gratuiti. Sappiamo tuttavia che questa battaglia non è finita, e forse non finirà mai, e proprio per questo abbiamo da mesi attivato un osservatorio legale con cui ogni giorno monitoriamo che altre realtà d’Italia non si vedano negare i film di retrospettiva (ovviamente a fronte di un equo compenso) per eventi culturali gratuiti.

Inoltre, grazie ai ragazzi del Cinema America, al termine dell’estate aprirà nuovamente la sala Troisi, chiusa dal 2013. Dopo il rallentamento a causa del Covid-19, i ragazzi del Cinema America sono riusciti a trovare il supporto economico dello Stato, del MIC – Ministero della Cultura e della Sindaca di Roma, Virginia Raggi. Per sostenere la faticosa impresa sono arrivate anche le donazioni private, che hanno permesso la ristrutturazione del luogo.
Il Cinema Troisi riaprirà ufficialmente il 30 settembre, grazie a un fondo di 1,8 milioni di euro. Il progetto prevede un proiettore di ultima generazione in 4K, il suono in 7.1 Dolby Surround e 300 poltrone del colore rosso caratteristico del Cinema America. Ci sarà il bar che serve cibo gourmet, uno spazio dedicato allo studio con il wi-fi gratuito e una terrazza dove ospitare eventi all’aperto.


28 giugno 1867


1867: la Russia vende l’Alaska agli Stati Uniti per 7,2 milioni di dollari, Tokio diviene capitale del Giappone, il chimico svedese Alfred Nobel brevetta la dinamite, Emile Zola pubblica “Thérèsa Raquin”, muore a Parigi Charles Baudelaire.
Il 28 giugno di quell’anno nacque Luigi Pirandello, figlio di Stefano Pirandello e Caterina Ricci Gramitto, in contrada Càvusu a Girgenti, nome di origine araba con cui era nota, fino al 1927, la città siciliana di Agrigento.
Era di venerdì, quel 28 giugno
Segno zodiacale Cancro, per chi ci crede; io no.

«Son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco "Kaos"».
Il drammaturgo raccontò in versi la sua nascita, avvenuta mentre imperversava un’epidemia di colera.
È questa stessa poesia che per sua volontà è incisa sulla lapide della tomba.

Una notte di giugno caddi come una lucciola / Sotto un gran pino solitario / In una campagna d’olivi saraceni /Affacciata agli orli d’un altipiano / A dirupo sul mare africano / Si sa le lucciole come sono / Il suo nero la notte / Pare lo faccia per esse / Che volano non si sa dove / Ora qua ora la / Aprono un momento / Languidi sprazzi verdi / Le lucciole qualcuna ogni tanto cade / E si vede si e no quel verde sospiro / Di luce in terra che pare / Perdutamente lontano / Dunque io caddi / Quella notte di giugno / Che tante altre lucciole gialle / Baluginavano su un colle / Dov’era una città / Che in quell’anno patia / Una grande moria / Un’ epidemia di colera / Per lo spavento che s’era preso / Mia madre mi metteva al mondo / Prima del tempo / In quella solitaria campagna / Chiamata caos / Io dunque sono figlio del caos / Da madre sono nato in questi luoghi / Che da secoli chiamano in dialetto / Caos! Caos! Caos!”.

L’8 novembre 1934 vincerà il Premio Nobel per l’opera “Il fu Mattia Pascal”.
In quell’occasione non pronunciò il tradizionale discorso di ringraziamento.
Secondo molti fu per evitare l’imbarazzo della sua iscrizione al Partito Nazionale Fascista, perché non citandola in quel discorso avrebbe irritato il governo di Roma.
E allora? Meglio evitare il discorso.

Il 17 settembre 1924 Pirandello aveva chiesto, infatti, l'iscrizione al PNF inviando un telegramma a Mussolini in cui scrisse: Eccellenza, sento che questo è per me il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l'E.V. mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregerò come massimo onore tenermi il posto del più umile e obbediente gregario. Con devozione intera. Luigi Pirandello.
Il telegramma arrivava in un momento di grande difficoltà per Mussolini e il suo governo perché era stato ritrovato il 16 agosto il corpo di Giacomo Matteotti assassinato da sicari fascisti agli ordini del Duce.
La sua iscrizione al PNF (della quale mai è stata rinvenuta una ricusazione) servì molto al Regime donandogli immeritata lucentezza e perfino un’ancora più immeritata autorità culturale.
Lo scrittore Corrado Alvaro da allora scriveva il nome del drammaturgo: Pi.Randello.

Lo scrittore Pirandello fu grandissimo, l'uomo Pirandello parecchio meno.
Morì a 69 anni il 10 dicembre 1936. Era di giovedì


Attorno al Museo


In foto: i fogli multipli di “Memorandum”, opera di Lamberto Pignotti al Museo per Ustica.

Dall’Ufficio Stampa BolognaMusei ricevo e volentieri rilancio.
«Quarantunesimo anniversario della strage avvenuta il 27 giugno del 1980.
Si conferma l'impegno dell’Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica nel perseguire la ricerca della verità e la cura della memoria attraverso la sperimentazione di linguaggi artistici contemporanei, a partire dal Museo per la Memoria che ospita l'installazione permanente “A proposito di Ustica” di Christian Boltanski.
Ed è ancora una volta questo luogo simbolo ad essere il fulcro della rassegna Attorno al Museo che, dopo un primo momento con il convegno “Il dolore e la politica” tenutosi il 21 giugno alla Camera dei Deputati, si svolge dal 25 giugno al 10 agosto 2021 nel Parco della Zucca adiacente al Museo (via di Saliceto 3/22, Bologna).

In continuità con quanto proposto negli ultimi anni, la proposta artistica parte da opere prime originali che sappiano rivolgere il proprio sguardo al futuro e alle nuove generazioni nella consapevolezza che solo interrogandosi e mantenendo viva l'attenzione sul passato e sulla storia sia possibile dare risposte ai continui mutamenti a cui siamo sottoposti quotidianamente. Un popolo senza memoria è un popolo privo di anima, un edificio senza fondamenta che non può resistere alle intemperie e non può nemmeno ergersi verso l'alto, verso il futuro».

Cliccare QUI per il programma.


La mano invisibile


In Italia siamo da sempre autori di un genere ignoto alla Siae e in molti paesi: la tragigag.
Sappiamo, infatti, produrre epoche storiche insanguinate condite da comicità.
Un maiuscolo esempio fu il fascismo che, con il suo risibile incedere tra pennacchi, fanfare e impettiti guerrieri di cartapesta, procurò morte e distruzioni.
E se la Destra è senza dubbio maestra in quel teatro, anche la sinistra è stata presente su quella particolare ribalta e ha recitato ruoli apprezzabili.
Ad esempio, la sinistra extraparlamentare tra il ’68 fino alla fine degli anni ‘70 recitò con abilità un monologo talvolta tragico e comico al tempo stesso.
Fra quei gruppi di allora, ci fu un momento in cui primeggiò una sigla più tristanzuola di tutte le altre: Servire il Popolo, i maoisti italiani.
“Servire il Popolo” (beffeggiato dai gruppi rivali come “Servire il pollo”) aveva un Grande Timoniere: Aldo Brandirali. Era idolatrato dai suoi, assoluta la devozione verso di lui, sugli striscioni portati in piazza c’era scritto: “Marx – Lenin – Stalin – Mao – Brandirali”.
Secondo la mesta imitazione della ritualità cinese, Brandirali un giorno ammetterà in un fluviale discorso (una delle caratteristiche del gruppo era la logorrea) di avere commesso 271 errori, un po’ troppi per un Grande Timoniere, più roba da Piccolo Mozzo. Fu, di fatto, la fine del gruppo. E Brandirali? Prima folgorato dalla luce di Comunione e Liberazione, passò poi in Forza Italia diventando consigliere comunale a Milano con la sindaca Moratti.
Chissà, forse avrà pensato: in fondo, Mao e Moratti sempre per emme cominciano.
Veniamo ad oggi. Sono passati 32 anni, dalle proteste della Piazza Tiananmen represse dal regime cinese. Il 4 giugno scorso a Pechino settemila agenti in tenuta antisommossa hanno bloccato ogni possibilità di riunione e i divieti si sono estesi a Hong Kong, a Macao, e a Taiwan. Il governo si è affrettato a dire che erano disposizioni anti-Covid per evitare assembramenti. Ma due cose non tornano: avevano detto settimane prima che l'epidemia era cessata e, inoltre, è stata respinta anche la richiesta di un ricordo simbolicamente fatto di poche persone.
Il regime comunista di quel paese non si ferma però a incarcerare gli avversari, a censurare gli artisti sgraditi, a svolgere una occhiuta vigilanza sui costumi locali, ma svolge alacremente ben altre invasive attività usando i mezzi delle moderne tecnologie.

Lo documenta un libro edito recentemente intitolato La mano invisibile Come il Partito Comunista Cinese sta rimodellando il mondo
Gli autori sono Clive Hamilton e Mareike Ohlberg.
Hamilton è un accademico e autore australiano. Il suo libro sulle operazioni di influenza della Cina in Australia, Silent Invasion, è stato un bestseller nazionale che lo ha proiettato al centro del dibattito sulla Cina in patria e all’estero. I suoi articoli sono apparsi su «The Guardian», su «The New York Times» e su «Foreign Affairs».
Ohlberg è membro del Programma Asia del German Marshall Fund. In precedenza ha lavorato presso il Mercator Institute for China Studies, per il quale ha redatto un rapporto sulla crescente influenza politica della Cina in Europa. I suoi articoli sono stati pubblicati su «The New York Times», su «Foreign Affairs» e sulla «Neue Zürcher Zeitung».

Dalla presentazione editoriale
«Il Partito Comunista Cinese è determinato a rimodellare il mondo a sua immagine e somiglianza. Esso ha un solo obiettivo: vincere quella che considera una feroce guerra ideologica contro l’Occidente. Ai suoi occhi il mondo si divide tra coloro che possono essere conquistati e i nemici. Pezzi importanti dell’élite economica e politica occidentale sono già stati cooptati; molti altri, proprio in questo momento, stanno valutando se stringere o meno un “patto col diavolo”.
Attraverso il suo enorme potere economico e le sue operazioni segrete “di influenza”, la Cina sta lentamente ma inesorabilmente indebolendo le istituzioni globali, prendendo di mira in modo aggressivo le singole imprese e minacciando la libertà di espressione nei campi delle arti, della cultura e del mondo accademico. Allo stesso tempo, i servizi di sicurezza occidentali sono sempre più preoccupati per le incursioni cinesi nella nostra infrastruttura di telecomunicazioni.
Il volume “La mano invisibile”, frutto di un lavoro meticoloso durato anni, espone il programma globale di sovversione del Partito Comunista Cinese e la minaccia che rappresenta per la democrazia.
Combinando una ricerca scrupolosa con una prosa avvincente, Clive Hamilton e Mareike Ohlberg mettono a nudo la natura e la portata delle operazioni del Partito in tutto il mondo occidentale, portando alla luce le minacce alle libertà democratiche e alla sovranità nazionale in Europa e nel Nordamerica, e mostrano come possiamo respingere la pressione autocratica cinese».

Recentemente l’ottima trasmissione tv “Report” ha trasmesso un servizio esplosivo su quanto operano i servizi cinesi in patria e in occidente. Per chi non l’avesse visto, è possibile la visione cliccando QUI.

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Clive Hamilton – Mareike Ohlberg
La mano invisibile
Traduzione di Alessandro de Lachenal
Pagine 562, Euro 20.00
Fazi Editore


Non ce lo dicono (1)


Titolo ben indovinato per un libro che descrive il meccanismo che fa nascere e diffondere le cosiddette fake news e, inoltre, traccia la storia di false notizie che hanno avvelenato tanto tempo di secoli passati.
Quel titolo è Non ce lo dicono Teoria e tecnica dei complotti dagli Illuminati di Baviera al Covid-19. Infiniti personaggi, molte trame, uno schema solo. Tutti (o quasi tutti) i Grandi Complotti della storia..
“Non ce lo dicono" è, infatti, quel giro di frase più comune fra quelli che riferendosi a “loro” vogliono indicare i tentativi di occultare verità che, invece, si ritengono svelati da occhiuti osservatori.
Di quelle preziose pagine, edite dalla casa editrice Utet è autore Errico Buonanno.
Nato a Roma nel 1979. Scrittore, autore radiofonico e televisivo, ha esordito vincendo il Premio Calvino con “Piccola Serenata Notturna” (Marsilio, 2003).
Con Utet ha pubblicato “Notti magiche. Atlante sentimentale degli anni Novanta” (con Luca Mastrantonio, 2017); “Falso Natale. Bufale, storie e leggende della festa più importante dell’anno”; “Sarà vero. Falsi, sospetti e bufale che hanno fatto la storia“(2019).

Dalla presentazione editoriale di “Non ce lo dicono”.

«Il 2021 si è aperto con una scena apocalittica: migliaia di manifestanti assaltano Capitol Hill per rovesciare l’elezione di Joe Biden. Certi dell’esistenza di un oscuro complotto, molti sostenitori di Trump erano davvero convinti di essere in missione per conto del misterioso QAnon, una gola profonda che attraverso messaggi segreti sparsi su internet cercava di fermare una setta di pedofili sanguinari capeggiata da Hillary Clinton.
Ma quante sono le teorie del complotto che abbiamo visto montare in questi ultimi anni? Quanti disegni segreti vengono orditi ogni giorno dietro il paravento di un placido Occidente democratico? E tuttavia: non notate una certa aria di famiglia?
I complotti di oggi hanno infatti radici lontanissime e sterminate varianti: per chi è in grado di vederlo c’è un filo invisibile che unisce gli Illuminati di Baviera e l’omicidio Kennedy, gli UFO e la minaccia del 5G, i luciferini gesuiti coi loro Monita Secreta e l’11 settembre, gli untori della peste e l’esercito dei no mask contro la finta pandemia del Covid-19. Errico Buonanno, da sempre attento a ricostruire nel dettaglio le bufale che hanno fatto la storia, ha deciso di mettere ordine nel caos cangiante dei complottismi di sempre, ricostruendo il meccanismo narrativo perfetto che alimenta ogni pericoloso “Non ce lo dicono”.
Se infatti possiamo ridere delle dietrologie più assurde, tra sostituzioni di Paul McCartney e terrapiattisti, Teletubbies pro gender e invasioni di rettiliani, non si tratta mai di innocue fantasie. Ufficialmente antisistema, le teorie del complotto si rivelano invece strumento ideale di chi il potere lo detiene, o lo desidera: lo capì Adolf Hitler, che cavalcò la paura di una congiura giudaico-massonica, e lo sanno oggi i leader populisti che agitano lo spauracchio del piano Kalergi di sostituzione etnica o che fomentano le paure sui vaccini.
D’altra parte, se l’idea di un grande complotto è immortale, è perché ha il fascino del feuilleton e la praticità di una soluzione: sostituisce le aride cause con le più sfiziose colpe, permettendo così di togliere dall’equazione dell’esistente il capriccioso caso, forse il vero nemico di una vita tranquilla».

Ancora una cosa su questo libro. È corredato da un Indice dei Nomi.
Ad alcuni può sembrare niente di speciale. Invece lo è diventato perché da qualche anno a questa parte i libri di saggistica frequentemente sono privi di quell’importante apparato mettendo così piombo nelle ali ai volumi. L’Indice dei Nomi permette di rintracciare agevolmente parti del libro utili per ricordare al lettore qualcosa che lo ha particolarmente interessato, a critici e giornalisti righe preziose per una citazione.
Mi batto da tempo contro l’assenza di quello strumento. La mia sconfitta è pressoché quotidiana. La casa editrice Utet è fra le poche che non trascura quell’Indice.

Segue ora un incontro con Errico Buonanno.


Non ce lo dicono (2)

A Errico Buonanno (in foto) ho rivolto alcune domande.

Quali sono le regole del complotto perfetto?

Una teoria di complotto, in fondo, non è altro che una trama di cassetta, da film o da libro di serie B. Ecco perché le regole sono chiare e assolutamente ripetitive. Primo: ci deve essere un nemico. Non solo un avversario, ma un Nemico con la enne maiuscola, votato al Male, alla distruzione della società, all’uccisione dei bambini e via dicendo. Secondo: questo Nemico deve incarnarsi in un gruppo ristretto, minoritario e assolutamente identificabile. Può essere una minoranza religiosa, un gruppo politico, una lobby. L’importante è che si possa creare una contrapposizione chiara tra “noi” e “loro”. Inutile dire che noi siamo i buoni. Terzo: deve esserci la Prova.
In genere si tratta di un documento top-secret, di un libro tenuto nascosto… Testi che, puntualmente, si rivelano taroccati, ma poco importa: devono essere confessioni, come nel finale di un giallo; lettere o diari in cui sono i colpevoli stessi a esporci i loro piani. Ultima regola: una buona teoria di complotto deve andare a confermare ciò che già segretamente sospettiamo. Non deve esporre cose nuove, ma rassicurarci nei nostri pregiudizi. C’è già un odio antisemita nell’aria? Accusate gli ebrei. E il gioco è fatto.

Chi sono i più vulnerabili dalle fake news e pronti, quindi, a ingrossare le file dei complottisti?

Le teorie di complotto possono sinceramente convincere chiunque, perché mirano proprio a giocare con le nostre incertezze. Pensare che esista una mente dietro ai disastri naturali, o alle epidemie, o agli incidenti, aiuta in qualche modo ad arginare il caos di cui siamo tutti in balia. E il problema si pone ancor di più nel momento in cui le dietrologie sono armi sfruttate spesso anche dai governi. Qualcuno di poco informato può credere a una teoria antiscientifica. Ma come dobbiamo comportarci, quando, informandoci, scopriamo che non esisteva alcuna arma di distruzione di massa in Iraq, e che la Cina non fornisce sufficienti documenti sulle attività del laboratorio di Wuhan, e che complotti verissimi sono stati messi in atto nella politica degli ultimi trecento anni? Perciò: a volte è corretto pensare che la versione ufficiale non sia quella più affidabile. O almeno farsi venire lo scrupolo. Il complottismo, tuttavia, non è scrupolo (sempre legittimo, come il dubbio), ma l’ossessione.

Le religioni, specie quelle monoteiste, hanno un ruolo in certe convinzioni sull’esistenza di complotti?

Non credo siano le religioni a essere complottiste. Credo che sia il complottismo ad avere un che di religioso e fideistico: credere ciecamente in qualcosa che non si vede, e nel trionfo del Bene contro il Male. Era già Popper in fondo a paragonare la tendenza dietrologica alla visione degli dèi che muovono dall’alto gli eroi dell’Iliade. Quanto alle religioni propriamente dette, possiamo dire che il complottismo è stato usato da qualcuno contro chi aveva una fede diversa, certo: i pagani accusavano i cristiani di bere il sangue dei bambini; poi i cristiani hanno rivolto la stessa accusa contro i pagani (le streghe) e gli ebrei; e oggi QAnon rivolge la stessa accusa contro i nemici dello Stato. Ma qualcosa mi dice che una tendenza del genere non sarebbe troppo amata da chi, nel Vangelo, raccomandava di non seminare zizzania.

A differenza di tempi andati, le nuove tecnologie permettono di verificare velocemente una notizia o un documento. Come spieghi che, invece, si assiste all’affermazione di tante notizie false che oggi chiamiamo “fake news”?

Se con “tecnologie” si intende internet, non stupisce affatto che le fake news non siano sconfitte ma che, anzi, abbiano trovato nella rete uno strumento di amplificazione. Da sempre, le fake news vivono prima di tutto grazie alla voce popolare. Si diffondono, diventano “opinione comune”. E internet è precisamente la grancassa dell’opinione comune. Non mi riferisco solo ai social, dove sappiamo bene come un post o una foto falsa possa diventare immediatamente virale senza che nessuno si prenda la briga di verificare (basta che il falso confermi ciò che vogliamo sentirci dire). Mi riferisco anche ai motori di ricerca. Perché un sito ci appare prima di un altro, quando googliamo? La ragione non sta nella sua attendibilità, ma nella sua popolarità, nel numero di link di cui beneficia. Ovvero: un sito è tanto più in evidenza quanto più ha l’attenzione degli utenti. Questo significa che se, ipoteticamente, fosse esistito internet nel medioevo e avessimo googlato la parola “unicorno”, i primi siti che ci sarebbero apparsi sarebbero stati quelli che garantivano che l’unicorno era un animale reale. Ma naturalmente il pericolo non viene solo “dal basso”, perché, se anche qualche utente responsabile decidesse di verificare l’attendibilità della notizia, incontrerebbe parecchi problemi. I giornali online spesso propagano fake news. L’editoria fa lo stesso. Quando ci fu l’attentato alle Torri Gemelle, una serissima casa editrice nostrana pubblicò un libro in cui si “dimostrava” come l’11 settembre fosse un complotto. E la stessa casa editrice pubblicò contemporaneamente un libro che dimostrava come le teorie di complotto fossero un’idiozia. L’idea era quella di garantire la libertà di dibattito. Ma l’utente medio, che non ha certo le competenze tecniche per stabilire quale sia la verità e quale no, come può orientarsi? Riassumendo: la contemporaneità ha garantito a chiunque un ampissimo accesso ai media. Ma i media, da sempre, non sono affatto immuni alle fake news. Qual è la soluzione? Io propongo, come prima cosa, la conoscenza del passato. Perché, proprio grazie alla ripetitività delle bufale, davanti all’ennesima notizia clamorosa possiamo almeno avvertire un campanello d’allarme.

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Errico Buonanno
Non ce lo dicono
Pagine 270, Euro 17.00
Utet


Fragile alla Monitor


È in corso a Roma, alla Galleria Monitor, una mostra a cura di Christian Caliandro intitolata Fragile.

In foto: Marta Roberti, "fare fiori in malasana", 2020, opera in mostra.
Disegno con pastello ad olio e collage su carta dello Yunnan,.cm70x85.

Dal profilo critico che accompagna “Fragile”.

«La mostra collettiva “Fragile” indaga uno stato d’animo individuale e collettivo, una condizione sospesa e apparentemente indefinibile, mobile e mutevole. Le opere degli otto artisti (Thomas Braida, Anna Capolupo, Emanuela Barilozzi Caruso, Laura Cionci, Serena Fineschi, Oscar Giaconia, Marta Roberti, Serena Semeraro) diversi per età, formazione, background e linguaggio, si inscrivono in questa condizione.
Nell’ultimo anno, abbiamo imparato sempre più e sempre meglio come al “consumo” artistico e culturale si possa e si debba sostituire l’esperienza. In questo senso, l’arte è in grado di costruire una nuova dimensione intima, interiore, quasi domestica, quindi di stabilire un rapporto diretto e profondo con un essere umano che si avvia a non essere più “spettatore”, così come con una comunità che non è più soltanto “pubblico”.
È qualcosa che ha strettamente a che fare con la distanza tra verità e finzione, tra avvenimento e rappresentazione: la fiction sembra cioè fare difetto, in un’occasione come quella che stiamo vivendo; e comincia a insinuarsi il sospetto che si sia creata una frattura non temporanea, ma destinata forse ad allargarsi e ad approfondirsi, legata al rapporto delle opere d’arte con il contesto da cui provengono e con quello in cui vengono inserite normalmente, e ai diversi modi in cui le opere stesse vengono recepite e fruite. Si tratta dunque di (ri)abbracciare il vuoto, il momento - ricercando forme inedite di sincerità, di precarietà e di spontaneità.
L’elemento al centro di questi lavori è la relazione, intesa come incontro e dialogo autentico. La fragilità individua così (anche) una situazione di totale apertura e disponibilità nei confronti del non ordinato, del non conosciuto, dell’imprevisto. Cioè, fondamentalmente, dell’altro. Questo progetto espositivo rende conto di una situazione del genere, e prova ad articolarla criticamente attraverso i lavori e gli interventi delle autrici e degli autori coinvolti».

Fragile
A cura di Christian Caliandro
Galleria Monitor
Palazzo Sforza Cesarini
Via Sforza Cesarini 43a, Roma
info:T: +39 06 - 393 78 024
M: monitor@monitoronline.org
Fino al 23 luglio 2021


Natura vincit

Una mostra senza che abbia un titolo implacabilmente in inglese forse viene vista oggi come avvenimento trascurabile. Gli anglicismi, tic da periferia dell’Impero domina infatti su nomi di Gallerie e riviste di arti visive, titola articoli e libri, testate di siti web.
Sono un sostenitore del meticciato in tutti i campi e, quindi, anche in quello linguistico, ma usare una parola straniera quando ne esiste una di equivalente spessore semantico in italiano, mi pare cosa che denoti un’ansietà un po’ cafoncella d’apparire internazionali anche quando non si è, vale a dire nella maggioranza dei casi.
Mi fa piacere, perciò, che una mostra modenese si manifesti con le parole latine Natura vincit.
Organizzata da: CerchioStella, in collaborazione con D406 e Comune di Modena, sostegno offerto dal Gruppo Hera e patrocinio della Regione Emilia-Romagna l’esposizione, a cura di Fulvio Chimento presenta lavori di Andrea Chiesi.
La progettazione dell'allestimento è stata ideata da Saggion-Paganello.
Il titolo, “Natura vincit”, vuole testimoniare la potenziale rinascita dell’uomo attraverso un percorso in cui la Natura è per l’artista una guida costante e ispiratrice.
Il lavoro di Chiesi spazia dall’osservazione di foschi cieli agli interni in rovina di fabbriche abbandonate.

In foto: Andrea Chiesi, Eschatos D 33, 2019

Estratti dal comunicato stampa i profili dell’artista e del curatore.
«Andrea Chiesi (Modena, 1966) si forma frequentando la scena della controcultura della prima metà degli anni Ottanta.
È vincitore del Premio Cairo Communication nel 2004, del Premio Terna nel 2008 e della seconda edizione del Gotham Prize di NewYork.
Nel corso degli anni sviluppa una ricerca sul paesaggio contemporaneo tendente all’esasperazione delle strutture, allo studio della luce, dell’ombra e della penombra. Nei lavori più recenti indaga il ritorno della natura nei luoghi abbandonati dall’uomo.
Tra i luoghi che hanno ospitato le sue mostre si segnalano il PAC di Milano, la Galleria d’Arte Moderna di Bologna, il Palazzo Reale di Torino, il Chelsea Art Museum e la Galleria Nohra Haime di New York, la Galleria Being 3 di Pechino, la Galleria NM di Montecarlo, la Galleria Guidi&Schoen di Genova, la Galleria D406 di Modena.
Insegna pittura all’Accademia di Belle Arti di Ravenna e di Macerata».

«Fulvio Chimento (Roma, 1979) vive e lavora in Emilia-Romagna.
È ideatore di “Ailanto”, progetto artistico itinerante che dal 2016 al 2018 ha trovato attuazione in tre città italiane: Roma, Palermo, e Modena.
Nel 2016 è co-ideatore di “Effimera”, rassegna artistica dedicata ai Nuovi Media realizzata in collaborazione con la Galleria Civica di Modena (due edizioni, nel 2016 e 2017).
Nel 2019 è promotore del progetto “Amore e Rivoluzione” in via del Mandrione a Roma, e, nello stesso anno, “Stanze. Odes to the Present”, presso la Keats-Shelley House.
Nel 2019 è ordinatore di “Alchemilla”, con Cuoghi Corsello e Claudia Losi.
Nel 2020 lo è della mostra “Filigrana” che coinvolge Stefano Arienti, Pierpaolo Campanini, Maurizio Mercuri
Nel 2020: è ideatore di “Arcipelago fossile”, progetto site specific sulle Dolomiti a Cortina.
Nella sede espositiva di Palazzo Vizzani a Bologna cura nel 2021 la personale di Alessandro Pessoli “City of God”.
Per la casa editrice Mimesis ha pubblicato il volume “Arte italiana del terzo millennio”».

Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web:
Ufficio Stampa: Irene Guzman | irenegzm@gmail.com | tel. 349 – 12 50 956

Andrea Chiesi
Natura vincit
A cura di: Fulvio Chimento
Ex Chiesa di San Paolo e Sala delle Monache
Via Selmi 63, Modena
Info: info@cerchiostella.com, tel. 393 - 8933370
Fino al 19 settembre 2021
Ingresso libero senza prenotazione


Dead Nations. Eternal version

Nelle mostre di arte visive da un po’ di tempo si è diffusa, una formula a mezza strada tra la goffaggine e la furbata, mi riferisco a quel modo di scrivere “in dialogo con”.
In un museo che conserva arte antica, o comunque di qualche secolo fa, si mettono opere di un artista vivente e si dichiara, senza che scappi da ridere, che quelle opere sono “in dialogo con” le opere di tanto tempo fa.
Dialogo, ovviamente, fra muti senza neppure il soccorso della lingua dei segni, perché dev’essere provvisto di gran fantasia chi riesca a scorgere
un pur remoto rapporto fra i lavori di oggi e quelli di ieri messi, col favore delle tenebre, gli uni accanto agli altri con mossa lesta e volpina.

Sorprende e fa piacere, quindi, scorgere per una volta che quel dialogo è vero.
Accade a Roma, al Museo Nazionale Etrusco, dov’è in corso Dead Nations. Eternal version dell’artista russo Evgeny Antufiev nato nel 1986. QUI la sua biografia.
Curatrici della mostra sono Marina Dacci e Svetlana Marich.

In foto: Evgeny Antufiev, Untitled, 2020, bronzo e Corniola, cm 38x30x18.
Courtesy l’artista & z2o Sara Zanin

Così scrive Marina Dacci: È un lungo romanzo a capitoli il rapporto di Evgeny Antufiev con il patrimonio archeologico sedimentato nel nostro territorio e presente nei nostri musei. Una fascinazione che Antufiev subisce per la stratificazione segnica e simbolica, per l'eco profondo di antiche storie che continuano a parlarci nelle sale dei musei (…) Il lavoro di Antufiev trasporta nel tempo e nello spazio figure simboliche, le sue ceramiche così come le fusioni, evocano antiche scoperte e ci appaiono come "dono" rinvenuto nel sottosuolo. La presenza di figure in trasformazione ben si sposa con il repertorio iconografico etrusco.

Dallo scritto di Svetlana Marich: La vasta ricerca di Evgeny Antufiev sulle culture estinte e sui loro manufatti porta la sua pratica artistica alla creazione di opere che divengono simboli senza tempo: specchi, guerrieri, maschere, coltelli e vasi (…) il fitto dialogo tra oggetti antichi trovati e oggetti artistici di nuova realizzazione si presenta come una celebrazione della vita, passando dai secoli precedenti al mondo contemporaneo e al futuro, diffondendosi da un contesto museale alle famiglie contemporanee e future, legando i nostri ricordi con la realtà delle generazioni che verranno.

La mostra “Dead Nations. Eternal Version” è co-prodotta da Malevich.io piattaforma dedicata a sostenere artisti e musei con esposizioni istituzionali, contribuendo a finanziare la produzione di opere e la loro valorizzazione.

Ufficio Stampa: Sara Zolla | press@sarazolla.com | Tel. 346 – 845 79 82

Evgeny Antufiev
Dead Nations. Eternal version
Curatrici: Marina Dacci - Svetlana Marich
Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia
Piazzale di Villa Giulia 9, Roma
Fino al 26 settembre 2021


Ricordati di respirare

La scrittrice Elena Stancanelli:
Le epidemie producono ottima letteratura. Da Tucidide a Boccaccio, da Manzoni a Camus, il contagio è propizio, fecondo di storie e di pensieri.
Per tante ragioni e la prima è la paura
.

Di paura ne abbiamo attraversata molta in questi ultimi tempi, ed è troppo presto per sapere se il Coronavirus (terribile il suo anagramma: Coronavirus = “Carnivorous”) avrà dato letteratura all’altezza dei nomi di prima. Ma se anche così fosse, confesso – e credo di non essere il solo – che ne avrei fatto volentieri a meno.
Di sicuro, però, la pandemia ha prodotto una parte (solo una parte, s’intende) di notevole testimonianza documentaristica attraverso carta stampata, web, alcuni servizi radio-tv.
Su questo cursore si pone un libro pubblicato dalla casa editrice Fefè Intitolato Ricordati di respirare Io, infermiera Covid in prima linea .
Ne è autrice Agnese Tancredi.
Nata a Lecce nel 1975, cresce in un piccolo paese della provincia di Matera.
Diplomata prima in Scienze Pedagogiche, poi in Scienze Infermieristiche, inizia la sua carriera a Milano, all’Ospedale San Raffaele.
Nel 2001 si trasferisce a Bologna, dove vive tutt’ora, insieme con la sua famiglia. Diventa mamma nel 2013.

Con “Ricordati di respirare” ha scritto un libro palpitante, che trasmette al lettore le ansietà, le trepidazioni, le difficoltà, ma anche le illuminazioni di speranza da lei vissute nel periodo che va dal marzo dell’anno scorso ad aprile del 2021.
Ecco come presenta il volume.
«Marzo 2020, arriva una notizia, per tutti sconcertante e frastornante, un trauma che forse mai rimuoveremo dalla memoria. Faccio l’infermiera da vent’anni e per la prima volta desidero fare altro, penso che la mia vita sia in pericolo e che l’unica soluzione sia la fuga. Ma non scappo, resto, come tutti i miei colleghi e vivo questa esperienza che mi toglie e mi dà allo stesso tempo. Ho paura, piango spesso, mi arrabbio anche, ma non mi arrendo, non posso arrendermi, i pazienti sono tanti, ogni giorno di più, e noi dobbiamo esserci per loro, questa battaglia dobbiamo vincerla, non accetto l’idea del contrario. Penso che devo essere più forte della paura e ci riesco. Le emozioni che vivo con pazienti e colleghi le metto in questo libro, le rileggerò quando tutto sarà finito, per non dimenticare che siamo stati più forti di quanto credevamo. Spero possano emozionare anche voi e farvi capire che è tutto vero e solo se collaboriamo, applicando le regole, ce la faremo».

Il libro si avvale di una prefazione e un’appendice di Ottavio Davini.
Torinese, medico, radiologo, è stato Primario e, per cinque anni, direttore sanitario all’Ospedale Molinette di Torino. È componente di diverse società scientifiche e autore di oltre cento pubblicazioni, nonché di vari libri, due dei quali a tema sanitario: “Il prezzo della salute “(Nutrimenti, 2013) e “Nella bolla del virus” (Neos, 2020).
Ecco un passaggio della sua prefazione:
“Il codice guida del più antico ospedale di Parigi, l’Hôtel-Dieu, recitava:
Se sei malato vieni e ti guarirò,
se non potrò guarirti ti curerò,
se non potrò curarti ti consolerò
.
In questo libro troverete – in un mondo sottosopra – la guarigione, la cura e la consolazione".

Ancora una cosa. Riguarda la copertina di questo libro che raffigura un’immagine realizzata dal più famoso street artist del mondo: Bansky.
Si tratta di un’opera (un metro per un metro) in b/n donata dall’artista all’ospedale universitario di Southampton il 6 maggio 2020 in occasione della Giornata degli Infermieri in America. Abbandonati in un cestino i pupazzi di Batman e Uomo Ragno, il bambino solleva come nuova sua compagnia un’infermiera della Croce Rossa.

Agnese Tancredi
Ricordati di respirare
Prefazione ed appendice di
Ottavio Davini
Pagine 176, Euro15.00
Fefè Edizioni



21 giugno: Festa della Musica


Perché quella Festa si tiene proprio il 21 giugno?
Perché si vuole che coincida con il solstizio d’estate, cioè il passaggio dalla stagione primaverile a quella estiva. Cercando in un dizionario si legge: “Il solstizio è il momento in cui il sole raggiunge, nel suo moto apparente lungo l'eclittica, il punto di declinazione massima o minima. Questo significa che i solstizi di estate e di inverno rappresentano rispettivamente il giorno più lungo e più corto dell'anno”.
Quella Festa l’idearono i francesi nel 1982 ed oggi è celebrata in non meno di 120 nazioni in tutto il mondo, naturalmente anche in Italia perché, seppure qualcuno ne dubita, è una nazione anche quella che ospita tutti noi, con le nostre virtù e i nostri vizi.
Talvolta riusciamo perfino a varare cose che contengono al tempo stesso pregi e difetti.
Eccone un esempio che si lega pure alla Festa della Musica.
Si chiama Italiana è il portale del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale dedicato alla promozione della cultura, della creatività e della lingua italiana.
Nato a marzo 2021 con l’encomiabile l'obiettivo di proporre una nuova narrazione del nostro Paese all'estero e aperto alla cultura nella sua accezione più ampia (musica, letteratura, teatro, danza, cinema, arti visive e performative, fumetto, digital art, design, architettura, storia, archeologia, enogastronomia...), il sito raccoglie produzioni audio-video, approfondimenti, interviste, bandi, opportunità e molto altro, con aggiornamenti sui social e una newsletter periodica su cui sono segnalate tutte le novità.
Tutto bene?… sì… però… mhhh … il Ministero degli Esteri che intende celebrare la nostra lingua con questo lodevole portale, indovinate come ha chiamato le iniziative promosse o sostenute in occasione della Festa della Musica? Music For Uncertain Times.
Comportandoci in tal modo, è ben certo che i tempi resteranno Uncertain certamente..
Rendendo tristi i volti degli amici di Diciamolo in italiano nonostante siano in rima anche col pensiero in tema espresso dal Presidente del Consiglio Mario Draghi.
Non era forse meglio mettere la dizione in italiano seguita da una serie di traduzioni in varie lingue?
Gesù fate luce!

Passiamo ad altro: l’ottimo programma.

Estratto dal comunicato stampa.

«Music For Uncertain Times è un percorso in tre episodi video diffusi dalla rete estera di Ambasciate, Consolati e Istituti Italiani di Cultura e sul canale Vimeo di italiana, il portale del Ministero dedicato alla promozione della lingua, della cultura e della creatività italiana nel mondo. Commissionato dalla Farnesina, scritto da Andrea Lai e diretto da Francesco Coppola, il progetto consiste in tre performance musicali inedite ed esclusive, registrate da protagonisti della canzone italiana contemporanea in alcuni luoghi rappresentativi del patrimonio culturale del Paese: Francesca Michielin e Vasco Brondi nel Museo del Novecento di Milano, Fiorella Mannoia e Clementino al Castel dell'Ovo di Napoli e La Rappresentante di Lista a Palazzo Butera a Palermo. Un percorso che crea un dialogo fra musica, patrimonio culturale e linguaggio cinematografico. La cornice è offerta da tre gemme architettoniche: il castello più antico di Napoli, uno dei musei più giovani di Milano, un complesso monumentale simbolo di Palermo. Al loro interno è protagonista il pop italiano contemporaneo, con tre performance da vivo esclusive e in versioni inedite. I riflettori sulla musica si trasformano poi in riflessioni sulla musica in questi momenti incerti, attraverso le parole degli artisti raccolte subito dopo le performance
Music For Uncertain Times racconta la musica arte fra le arti. Lo fa attraverso i musicisti, le loro note e le loro parole, mentre riflettono sulla musica in tempi di cambiamento, sul suo essere guida quando l’orizzonte muta, di essere bellezza contro la paura. Riempie di musica architetture nate per altri scopi raccontate dalle voci di critici e curatori d'arte: Gianluca Marziani al Museo del Novecento, Paola Ugolini a Castel dell'Ovo e Claudio Gulli a Palazzo Butera. Tre intense cartoline musicali della nuova bellezza italiana, tre nuovi contenuti gratuiti disponibili a tutti da oggi 21 giugno su Italiana».

Ufficio stampa HF4 www.hf4.it
Marta Volterra marta.volterra@hf4.it 340.96.900.12
Alessandra Zoia alessandra.zoia@hf4.it 333.76.23.013
Matteo Glendening matteo.glendening@hf4.it


Conversazione su Dante

Fra i grandi nomi di artisti perseguitati in Russia dal comunismo, c’è quello di Osip Mandel’štam (Varsavia, 15 gennaio 1891 – Vladivostok, 27 dicembre 1938).
Per leggerne la bio CLIC.

Negli anni Dieci fu uno dei più significativi rappresentanti dell’Acmeismo.
Censurato prima, arrestato poi, condannato al confino, arrestato di nuovo perché Stalin volle il bis visto il successo della precedente cattura, fu mandato in gita in un gulag vicino Vladivostock nel 1938 e in quello stesso anno in quel luogo ameno tolse il disturbo per sempre.
Causa della morte? Una misteriosa malattia che lo colse nonostante gli agi di cui immaginiamo era circondato, le leccornie servite, l’affettuosa cura dei sanitari del luogo.

Oltre ai testi in prosa e in poesia, Mandel’štam ha lasciato un importante patrimonio di scritti critici fra i quali la famosa Conversazione su Dante scritta nel 1933, pubblicata postuma nel 1967. In Italia è recentemente uscita, a cura di Serena Vitale, una nuova edizione stampata dalla casa editrice Adelphi nel cui catalogo già figurano dell’autore russo Quasi leggera morte e Il rumore del tempo.

In “Conversazione su Dante”, esplorazione della poetica e del personaggio di Alighieri, Mandel’štam dichiara di farsene sommessa guida, che i lettori lo immaginassero quale "un dotto giardiniere che accompagni gli ospiti per la sua tenuta e dia loro spiegazioni sostando tra le aiuole, oppure uno zoologo dilettante che accolga vecchi amici nel suo allevamento”.
In realtà di voce sommessa c’è poco, al contrario i giudizi sono netti, talvolta esclamativi, pronunciati da un artista che molto amava il poeta fiorentino: iI canti danteschi sono partiture di una singolare orchestra chimica. L’orecchio di un ascoltatore occasionale vi distingue soprattutto le similitudini, cioè gli impeti, e gli assolo, cioè le arie e gli ariosi: ammissioni di colpa, autoflagellazioni o racconti autobiografici d’un tipo affatto particolare, talvolta lapidari come epitaffi, così brevi da stare sul palmo di una mano, talvolta molto estesi e articolati, di un’intensità drammatica che ricorda l’opera lirica, come ad esempio la celebre cantilena di Francesca.
Altro che voce sommessa!
Né risparmia frustate che fa schioccare sulle interpretazioni, a suo avviso errate, fatte da nomi maiuscoli quali Blok o Spengler.
Scrive Serena Vitale nel luminoso saggio introduttivo al volume: La “Conversazione su Dante” non può essere parafrasata, descritta, riassunta. È un poema critico. Un poema sulla poesia di un grande del Medioevo, di un grande del Novecento – sulla poesia.

Dalla presentazione editoriale.

«Nel 1933 Osip Mandel’štam, poeta in disgrazia, ‘emigrato interno’ in procinto di diventare carne da lager, ‘arde di Dante’, e studia l’italiano servendosi della Divina Commedia. In Crimea durante la primavera scrive “Conversazione su Dante”, ma quando tenta di pubblicarlo incontra una serie di rifiuti. Di certo il saggio non ha nulla a che vedere con il realismo socialista, né corrisponde al canone degli studi danteschi. Affrancando il ‘sommo poeta’ italiano da secoli di retorica scolastica, Mandel’štam ragiona su ciò che presiede alla nascita della sua poesia: in primo luogo, la metamorfosi. Tutto, nella Commedia, è in movimento, e per il vero lettore, ‘esecutore creativo’, leggere Dante significa rifiutarsi di restare incatenati a un presente che a sua volta è saldamente ancorato al passato: “Pronunciando la parola “sole” compiamo un lunghissimo viaggio al quale siamo talmente abituati che ormai viaggiamo dormendo. La poesia ci sveglia di soprassalto a metà parola – parola che ci sembra molto più lunga di quanto credessimo –, e in quel momento ricordiamo che parlare è sempre essere in cammino”. Unico poiché sembra comprendere tutti i linguaggi, quello di Dante evoca il mondo con irripetibile potenza, e la Conversazione di Mandel’štam, tripudio di luminose intuizioni, costrutti arditi e metafore inusitate (biologiche, musicali, meteorologiche, tessili), in una prosa continuamente attraversata da squarci di poesia, scorge e mette in luce i tratti più moderni, addirittura sperimentali, del suo poetare».

Osip Mandel’štam
Conversazione su Dante
A cura di Serena Vitale
Pagine 116, Euro 13.00
Adelphi


Graffiti in Umbria


Su questo sito, come sanno quei generosi che leggono queste pagine web, mi occupo anche, e principalmente, delle arti visive contemporanee, ma sono attratto anche da capolavori di un tempo, specialmente se si tratta di forme lontanissime che hanno dato origine con nuove sembianze a tante cose che ammiriamo oggi. A volte perfino di preparazioni che venivano praticate un tempo- Per intenderci: come non restare incantati a Pisa dal Museo delle sinopie?
Non ricordo chi ha affermato (e sono d’accordo su quanto ha detto) che non esiste un progresso dell’arte ma esiste un progresso delle tecniche. Oggi gigantesco grazie alle tecnologie elettroniche.

Le righe che seguono v’invitano a un viaggio in Umbria per la prima mostra tematica italiana sulle scritture spontanee lungo sentieri segnati dai graffiti medievali e moderni, opera di pellegrini e viandanti.
Graffiti in Umbria può fregiarsi della dizione di ‘prima mostra in Italia’ perché è, dedicata non ad un solo luogo in cui vedere antichi graffiti, ma ad una intera regione alla scoperta dei graffiti apposti in diverse località. Finalità della mostra diffusa è permettere ai visitatori di percorrere prima idealmente nel Museo di Palazzo Trinci a Foligno e poi fisicamente itinerari da Narni a Gubbio, da Perugia a Spoleto passando per tutti i borghi, eremi, chiese ed edicole votive con graffiti.
Curatore della mostra è Pier Paolo Trevisi dottore di ricerca in Scienze del Libro e della Scrittura che QUI illustra i plurali profili di “Graffiti in Umbria”.

Un viaggio in Umbria che può fare felici sia i credenti sia gli atei ai quali appartengo perché la Bellezza supera sia la Fede sia la Ragione.
E come non bastasse quello umbro è un itinerario che farà scoprire a chi ancora non le conoscesse le tante risorse enogastronomiche di questa regione italiana.
Per date e luoghi della mostra: CLIC!

Per i redattori della carta stampata, radio – tv, web:
Responsabile Ufficio Stampa ADD: Michela Federici
www.addcomunicazione.it
press.addcomunicazione@gmail.com
Tel. + 39 328 – 007 96 62


Tutto quello che non avreste...

La casa editrice comma 22 ha pubblicato un originale volume che sperimenta il saggio in forma di graphic novel.
Il titolo: Tutto quello che non avreste mai voluto leggere – o rileggere – sul fotoromanzo.
Una passeggiata, così è definito il libro dagli autori che sono per i testi Luciano Curreri e Michel Delville, per i disegni Giuseppe Palumbo.
Questo testo ha un precedente dovuto a Curreri e Palumbo: “L’elmo e la rivolta”, per saperne di più: CLIC!

La passeggiata dei tre autori è un’articolata riflessione sul fotoromanzo qui espressa in forma di fumetto. Ma esiste un confine tra il fumetto e il fotoromanzo?
Posi questa domanda quando ospitai su questo sito una grande esperta in materia: Silvana Turzio che così rispose: «Il fumetto utilizzava i disegni che non avevano come scopo il realismo né, se non raramente, una narrazione di tipo sociale. Di rado presentavano un melodramma e facevano ampio ricorso alle onomatopee. Lo avvicinavano invece al fotoromanzo altri aspetti: la gabbia grafica, la suddivisione in riquadri delimitati dai canali, la ricerca di un parlato che imitasse il linguaggio orale sia nella sintassi che nella scelta del vocabolario».

In retrocopertina si legge a firma Jacques Dubois:

«A lungo, ho scritto i miei testi, i miei articoli,
camminando.
Ora vedo che Luciano e Michel
fanno del ’saggio passeggiato’
(e in questo caso anche ‘illustrato’,
molto ben illustrato da Giuseppe)
un vero e proprio metodo e genere; e non posso
che felicitarli col nostro «Bravo!»,
anche perché li applicano a quel fotoromanzo
che Charles Grivel
mi fece amare diverso tempo fa»

……………………………………………………………………………………….……

Luciano Curreri – Michel Delville – Giuseppe Palumbo
Tutto quello che non avreste mai voluto leggere – o rileggere – sul fotoromanzo
pagine 96, euro 9.00
edizioni comma 22


La voglia dei cazzi, fabliaux medievali


Le Edizioni Effedi propongono ai lettori un piccolo gioiello di letteratura licenziosa: La voglia dei cazzi e altri fabliaux medievali tradotti e presentati da Alessandro Barbero.
Che cosa sono i fabliaux? Dell’altra parte del titolo si sa.
I Fabliaux sono narrazioni in francese antico, spesso anonime, di tono lascivo, destinate al divertimento dei lettori. Ne sono stati conservati meno di 150 scritti fra il l200 e il 1400.
Nascono nei secoli detti bui. Bui? Per Umberto Eco: Sul Medioevo pesano troppi stereotipi. A partire dal fatto che sia un’epoca oscura, le ‘Dark Ages’ su cui molti si sono soffermati. È opportuno precisare che il Medioevo non è quello che il lettore comune, che molti affrettati manuali scolastici gli hanno fatto credere, che cinema o televisione gli hanno presentato. Quella che chiamiamo oggi Europa, con le sue nazioni, le lingue che ancora parliamo e le istituzioni che, sia pure attraverso cambiamenti e rivoluzioni, sono ancora le nostre, da lì proviene.
Ecco come rispose su questo sito la medievista Chiara Frugoni alla mia domanda “Furono così scuri quei secoli?”: Medioevo=secoli bui è un’invenzione di Montanelli che da un punto di vista giornalistico è una definizione perfetta. Ma non ha alcun senso. Come si possono giudicare bui i secoli con Dante, Boccaccio, Petrarca, Cimabue, Giotto? E il secolo appena passato con due guerre mondiali, la bomba atomica e il massacro degli ebrei è stato un secolo luminoso?
I fabliaux – talvolta sciaguratamente tradotti in italiano come “favolelli” – contengono, come spiega un Dizionario letterario: “un divertimento che nasce, di volta in volta, da un gioco di parole, da una situazione grottesca, dalla caratterizzazione comica di personaggi resi con arguta precisione. Il genere dei Fabliaux s’inserì poi con un suo apporto realistico nella letteratura francese, ad esempio, con Rabelais,.Théophile de Viau, Scarron”.

In questo breve video un gustoso e dotto intervento proprio di Alessandro Barbero.

Applausi a quest’edizione? Sì, e meritati.
Una soltanto la mia perplessità. Mi è sembrata spericolata scegliere per la presentazione di Barbero, visto il titolo del volume, la dizione Introduzione.
Forse era meglio scegliere diversamente. O no?

Dalla presentazione editoriale
«La fortuna critica dei fabliaux è andata regolarmente crescendo nel corso degli ultimi decenni. Il Medioevo francese ci ha lasciato circa centocinquanta di questi poemetti in rima baciata, generalmente di ottonari, lunghi poche centinaia di versi, e di contenuto per lo più erotico, se non francamente osceno.
Una materia che nelle mani di uno storico del calibro di Alessandro Barbero, provvisto della giusta ironia e arguzia, si è trasformata in un volume modernissimo, ricco di trovate sorprendenti e valenza letteraria. I ‘racconti’, tutti assolutamente inediti, si muovono all’interno di un immaginario erotico quanto mai attuale e modernissimo. Le invenzioni letterarie, un vero fuoco d’artificio, concedono divertimento e disincanto. Una scoperta per tutti coloro che non conoscono questo lato giocoso e godereccio del Medioevo, solitamente dipinto come epoca oscura e lontana da ogni idea di piacere e voluttà. Ma la scommessa, più sottile e curiosa, è quella di fingere che nell’epoca in cui viviamo le parole non facciano più paura, nemmeno nei titoli. Sarà davvero così?».

La voglia dei cazzi
Tradotti e presentati da
Alessandro Barbero
Pagine 150, Euro 15.00
Edizioni Effedi


ll tempo di una canzone (1)

La casa editrice Jaca Book ha pubblicato un nuovo libro di Franco Fabbri intitolato Il tempo di una canzone Saggi sulla Popular Music.
Così l'editore presenta l’autore ai lettori: "È noto per essere stato uno dei primi studiosi della popular music, non solo in Italia. Fra i vari aspetti della sua personalità di musicista e studioso «polimorfo» (l’aggettivo è nella motivazione del Premio Tenco, conferitogli nel 2019) ci sono quelli di conduttore a Radio Tre, docente all’Università e al Conservatorio, amministratore di enti lirici e sinfonici, direttore artistico di rassegne musicali, redattore di riviste musicologiche, oltre alla più nota attività di cantante, chitarrista e autore nel gruppo degli Stormy Six, e co-fondatore (1974) de l’Orchestra, una delle prime etichette indipendenti italiane. È stato tra i promotori della International Association for the Study of Popular Music, fondata nel 1981, presieduta varie volte fino al 2019.
Tra i suoi libri: “Elettronica e musica” (1984, introduzione di Luigi Nono); “Il suono in cui viviamo” (1996); “Album bianco” (2000); “L’ascolto tabù” (2005); “Around the clock. Una breve storia della popular music” (2008).
Con Jaca Book ha pubblicato Non è musica leggera (2020)”.

Presentazione ineccepibile. A me va di aggiungere qualche altra cosa che fa di Franco Fabbri una figura rara – e, probabilmente unica, bum! l’ho detta, perché lo penso – certamente nello scenario italiano, ma forse non soltanto italiano.
Qual è?
Oggi so di buona e ve la dò gratis, come dice la Palombina del seicentesco Tomaso Mondini.
Ecco: trovatemi un altro che possa con uguale conoscenza e acutezza discorrere di una sinfonia di Haydn e di un brano punk, di una canzonetta napoletana e di un melodramma di Donizetti. E non basta. Perché, essendo chiamato come consulente tecnico in liti giudiziarie fra musicisti, sfodera perfino competenza in filosofia giuridica; nel libro “Il tempo di una canzone” troverete, infatti, largo spazio dato al tema del plagio.
Gente così? Avercene!

Dalla presentazione editoriale

«"Il tempo di una canzone" è una raccolta di saggi sulla popular music, ai quali Franco Fabbri ha lavorato negli ultimi dieci anni e fino a tempi recentissimi. Soprattutto, più della metà sono stati scritti e pubblicati in altre lingue ed erano finora inediti in italiano: fra questi, alcuni sono in assoluto i più letti - nella lingua originale - da un vasto pubblico internazionale. La popular music è studiata dal punto di vista storico (dalla canzone napoletana e statunitense nella prima metà dell'Ottocento, fino al rebetiko, e poi al rock, al beat, e alla canzone d'autore, dagli anni Cinquanta del Novecento ai giorni nostri), analitico (il sound delle surf bands, del progressive rock, di Peter Gabriel, di De André, della musica ascoltata in cuffia e in streaming), teorico (le classificazioni per generi, le diverse tendenze degli studi musicali, il plagio). C'è spazio anche per saggi sulla musica da film, per l'impatto delle tecnologie sulla produzione e sul consumo di musica, per riflessioni sull'industria editoriale e discografica e sul diritto d'autore».

QUI un breve video con Franco Fabbri.

Segue ora un mio incontro con lui


Il tempo di una canzone (2)


A Franco Fabbri (in foto) ho rivolto alcune domande.

Scrivi nell’Introduzione: "Nonostante che tutti i testi raccolti qui siano nati da occasioni accademiche, il mio lettore-tipo non è lo specialista".
Perché? E ancora: a quale lettore ti rivolgi
?

Scrivo per una piccola moltitudine di lettori e lettrici reali, che conosco: formano l’immagine astratta di un lettore-tipo, ma sono molto concreti. A dire la verità, molti di loro sono effettivamente degli specialisti, ma so che condividono con me il gusto per una scrittura senza fronzoli e senza birignao, che mira ad essere compresa, nonostante la complessità degli argomenti. Lo stile di molti testi accademici mi annoia, mi stanca: alla mia età, e con l’esperienza che ho dell’accademia, ci vedo dietro immediatamente le pressioni della carriera, della politica, di un narcisismo estremo nascosto dietro una maschera di oggettività pseudo-scientifica. Riconosco quello stile in italiano, ma anche nelle altre lingue che frequento. E scrivo come scrivo perché ho letto e ammirato autori come Umberto Eco, Philip Tagg, Marcello Sorce Keller, ma anche Richard Feynman (ho fatto studi scientifici: il linguaggio oscuro che vuol mettere il lettore in soggezione lì non funziona).

"Cos’è la popular music? E cosa non è?”, non sono soltanto due quesiti che poni nel primo, denso, capitolo, ma un tema che variamente modulato affiora anche in altri saggi.
Quel virgolettato, lo faccio ora diventare una domanda

Nella storia la popular music (con i vari nomi che ha assunto in diversi contesti linguistici) è stata definita prima di tutto per quello che non era: non era musica folk (di tradizione orale, o “popolare”, come si è sempre detto in Italia) e nemmeno musica classica. Ma ci sono anche altre musiche che la popular music non è: il jazz dopo la Seconda Guerra Mondiale (fino all’èra dello swing, invece, il jazz era popular music per eccellenza), le musiche creative e improvvisate, sperimentali, “fuori dai generi”, e altro ancora. Negli anni Settanta-Ottanta, quando si rivendicava lo studio delle musiche che fino ad allora erano state escluse dall’accademia, spesso si riuniva in un unico macrogenere tutto quello che si riteneva meritevole di studio: da qui l’idea della “musica extracolta” pestalozziana. Ma, come scrivo in quel primo capitolo, chi vuole studiare la popular music non può farsi carico di tutto il resto. Tantopiù – e al contrario – che in alcuni ambienti jazzistici (per fortuna non in tutti) si sostiene una precedenza cronologica e una superiorità gerarchica del jazz sulla popular music, che è stata fatta propria anche nei nostri Conservatori: un’assurdità scientifica (il fado, la canzone napoletana, la chanson francese, l’habanera, il flamenco, il tango, e ovviamente il minstrel show e il blues precedono anche di un secolo la nascita del jazz).

Sono tanti gli argomenti che hai trattato che è impossibile nello spazio di una breve intervista soffermarsi su questo o su quello.Ti chiedo, quindi, di esprimerti su di un tema, che tratti verso la fine del libro, che particolarmente m’incuriosisce: il plagio.

Come cerco di argomentare nel mio capitolo sul plagio (e anche altrove), il plagio può essere pensato solo in relazione al riconoscimento della proprietà intellettuale. Prima del Settecento, quindi, non aveva senso. D’altra parte, è vero che ogni autore ha dei modelli (e in musica vi si ricorre tranquillamente nella didattica: i corali di Bach, le romanze senza parole di Mendelssohn), e che un grande autore “ruba”; ma esistono quelli che rubano anche senza essere grandi autori, e sperano di passarla liscia. Quindi il dibattito sul plagio è viziato dalla difficile compatibilità fra i grandi princìpi e le pratiche discutibili. Per di più, dato che la gran parte delle cause di plagio ha a che fare con la popular music, ma spesso le perizie vengono affidate a docenti di Conservatorio, quel dibattito subisce anche le conseguenze del pregiudizio.
Essendomi occupato di casi di plagio come consulente tecnico, sono convinto nella stessa misura che certe somiglianze siano inevitabili, e che comunque ci siano dei furbacchioni che ci provano spesso...

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Franco Fabbri
Il tempo di una canzone
Pagine 360, Euro 22.00
Jaca Book


Artivisive in progress


Una figura di spicco nello scenario delle arti visive contemporanee è Sylvia Franchi (in foto), la sua biografia lo testimonia.
Per meglio comprendere il suo profilo, ecco un flash tratto da un intervista del 1991 circa il futuro della sua attività. A una domanda rivoltale da Enrico Cocuccioni così rispose: Il mio progetto futuro, è sotto il segno positivo del caos e dell’indisciplina. Già lo notava Lamberto Pignotti quando, in occasione dei dieci anni d’attività della Galleria Artivisive, parlava di un metodo di lavoro “inter-disciplinare o in-disciplinato. E penso che sarò fedele a questa regola basata sulla volontà di non limitarsi a perseguire obiettivi univoci.
Ha mantenuta la fedeltà a quella regola anche quando la Galleria si è trasformata in Associazione Artivisive.

Ora a ventidue anni dalla prima edizione ne è stata stampata una seconda del volume Artivisive in Progress, un libro-archivio che già dalla sua prima pubblicazione è presente nelle biblioteche di musei, gallerie d’arte in Italia e all’estero. Le pagine raccolgono testimonianze, opere, documenti di artisti che hanno svolto sperimentazioni e ricerche dal 1969 al 2021 partecipando alle attività della Galleria Arti Visive
L'aggiornamento editoriale di questa seconda edizione, è così descritto in un comunicato.

«Il libro offre un importante spaccato dell’ultimo ventennio negli ambiti dell’immagine verbovisiva, dalla sperimentazione musicale, della grafica, del design, della fotografia, del teatro, della sperimentazione materica, del cinema, del disegno, dell’architettura, dell’editoria.
Comune denominazione della raccolta e dei documenti, è la qualità intrinseca delle opere all’interno del percorso di ciascuno degli artisti che hanno avuto un rapporto, più o meno articolato e prolungato, ma sempre efficace e stimolante, con la Galleria Artivisive che si dedica, da oltre cinquant’anni, alla ricerca multidisciplinare».

La pubblicazione (stampata nel marzo 2021, in 300 copie, 132 pagine, s.i.p.), ricca d’immagini e di dati, raccoglie testi di: Domenico Amoroso, Paolo Balmas, Mirella Bentivoglio, Daniela Bigi, Enrico Cocuccioni, Fabrizio Cisafulli, Roberto Lambarelli, Lamberto Pignotti, Daniela Vasta.

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Edizioni Artivisive
www.associazioneartivisive.com
artivisivesylvia@libero.it
Tel 333 – 31 426 48 /// 339 – 21 929 63


Un poeta al rogo


La casa editrice Eretica ha pubblicato Un poeta al rogo Giordano Bruno, il “poeta –philosophus” dei poetici furori
Ne è autore Donato Di Poce, nato a Sora nel 1958, residente dal 1982 a Milano. Suoi volumi sono tradotti anche in inglese, romeno e spagnolo.,Editati anche ebook, e libri d’arte per Pulcinoelefante.

Ai più distratti ricordo che Giordano Bruno nato a Nola nel 1548, all’alba del 17 febbraio del 1600, dopo 9 anni di carcere, a piedi scalzi e con la lingua stretta nella mordacchia affinché non pronunciasse parole rivolte al popolo, veniva condotto dal carcere del Sant’Uffizio a Piazza Campo dei Fiori dove fu bruciato vivo.
Era accaduto che mentre si trovava nel 1591 a Venezia, lì invitato dal nobile (si fa per dire) Giovanni Mocenigo, era stato denunciato dal Mocenigo stesso all’Inquisizione... accidenti che ospitalità!... direbbe Buster Keaton sporgendosi dal titolo di un suo film. Processato a Venezia prima e a Roma poi, non avendo ritrattato le sue idee, fu condannato al rogo da quegli uomini pii della Chiesa cattolica.
A Roma, ogni anno, il 17 febbraio (data del rogo), a cura dell' Associazione del Libero Pensiero si celebra con una manifestazione pubblica a Campo de’ Fiori il grande filosofo martire della libertà di coscienza.

Dalla presentazione editoriale.

«Il libro “Un poeta al rogo”, analizza i testi poetici di Giordano Bruno contenuti nei suoi dialoghi filosofici italiani. Raggruppati in due parti sono commentati dall’autore in due saggi specifici. Al vitalismo cosmologico, Bruno aderisce con un vitalismo speculativo e poetico.
Dal testo: “…il suo stile unico, il solo che poteva reggere ed esprimere la sua incandescenza esistenziale e speculativa, la sua incessante ricerca di verità…”».

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Donato Di Poce
Un poeta al rogo
Pagine 110, Euro 15.00
Eretica Edizioni


L'Amazzonia deve vivere


È questo il titolo di una rassegna internazionale di arte postale a cura di Ruggero Maggi.
Per ricordare i 40 anni dalla fondazione nel 1979 dell'Amazon Archive of artistic works and projects about the Amazonic World. è stata allestita una mostra al Museo Diotti di Casalmaggiore (Cremona) dal 5 giugno al 1° agosto e, dopo la chiusura estiva, dal 21 agosto al 26 settembre 2021.
Quest’anno è particolarmente avvertito il tema ambientale circa quanto accade in Amazzonia. Secondo l'Istituto Nazionale delle Investigazioni spaziali (Inpe, Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais) istituto brasiliano creato nel 1961) l'anno scorso si è registrata la seconda maggiore perdita dal 2015. Ma la peggior annata per le foreste pluviali è il 2019 a causa degli incendi dovuti a politiche di distruzione dell'ambiente attuate dal governo Bolsonaro in carica.

In esposizione più di 500 artisti internazionali provenienti da 40 nazioni: questa la risposta della comunità mailartistica - nonostante le effettive difficoltà di spedizione/ricezione via posta a causa della pandemia, che ha posticipato di un anno la realizzazione della mostra - all'invito lanciato nel 2019 ad intervenire, con ogni mezzo espressivo (dal disegno alla scultura, dal digitale al collage, attraverso la poesia visiva, il libro d'artista, e anche su foglie raccolte a terra). Ancora una volta l'Arte postale dimostra di nulla aver perso della sua originaria vitalità creativa e sociale.

«L'Amazzonia» – scrive Ruggero Maggi – «la più grande foresta pluviale del pianeta e ricca di biodiversità, rappresenta attualmente una ferita ecologica aperta e soprattutto l'emblema dell'incomparabile danno che l'Uomo sta causando alla Natura. Riscaldamento globale, desertificazione, distruzione delle foreste pluviali… tutti effetti dell'avidità e della criminale cecità umana. Con Pierre Restany, grande teorico dell'arte contemporanea e fondatore del movimento Nouveau Réalisme, già negli anni Settanta discutevamo di Estetica al servizio dell'Etica e di una particolare “percezione” dell'Arte, in grado di rimodulare il rapporto con la Natura. Entrambi eravamo stati colpiti da ciò che Pierre definiva lo “shock amazzonico”. Per lui fu determinante il viaggio in Brasile nell'estate del 1978 che lo indusse a scrivere il “Manifesto del Rio Negro” (pubblicato sulla rivista-laboratorio “Natura Integrale” fondata nel 1979 da Pierre Restany e Carmelo Strano) e per me fu l'addentrarmi, nell'estate del '79, nella Selva peruviana dove concepii l'idea di organizzare Amazon, un archivio artistico dedicato all'Ecologia e alla Natura. Spero che questo binomio Amazzonia-Arte Postale possa condurre anche i visitatori in un viaggio altrettanto affascinante»

CLIC per i nomi dei partecipanti alla rassegna, un po’ troppi per citarli qui.


Il mondo nuovo di Bellandi Saladini


Nel dicembre scorso presentai una nuova casa editrice che coraggiosamente debuttava in quei giorni difficili con un testo di Marinetti.
Oggi, in tempi più tranquilli, pubblica il libro che dà titolo a questa mia nota di oggi.
Ed ecco titolo e sottotitolo: Il mondo nuovo Manuale di educazione civica digitale.
No, ovviamente non si tratta di Huxley, ma è assai probabile che l’autore Andrea Bellandi Saladini abbia volutamente usato quel titolo perché il volume pubblicato fissa proprio uno sguardo su di un nuovo pianeta, quello d’oggi, quello elettronico della comunicazione internettiana che accanto alle sue grandi realizzazioni presenta pure grandi rischi.

L’autore, fondatore e direttore dell’Accademia Civica Digitale, realtà dedicata alla diffusione di comportamenti virtuosi sul web, è così presentato dall’editore: “Milanese doc, classe ‘93. Appassionato di poesia e comunicazione è fondatore de Lo Sbuffo, associazione di Millennials nata con lo scopo di diffondere la cultura del “buon scrivere” in rete. Da sempre sensibile alle tematiche del riscatto sociale e del dialogo intergenerazionale.
Laureato in Linguaggi dei Media, in Management e Design dei Servizi, con un master in Digital Transformation, dirige Elzevirus, rivista antifascista”.

Ha scritto un libro che è un manuale di autodifesa dalle insidie del web: Revenge porn, Cyberstalking, Fake news, falsi account e odio trasmesso senza risparmio.
In una poesia di Giorgio Caproni troviamo espressa una chiave dell’odio: Non chieder più. / Nulla per te qui resta, / Non sei della tribù. / Hai sbagliato foresta”.
Tanti oggi stanno in una foresta di social e più non vedono il cercatore, o turista per caso, ma un estraneo che diventerà presto un nemico. Gli viene detto perciò che ha “sbagliato foresta”. Via, prima che forse sia troppo tardi per lui: nato lontano e per questo guastatore dell'identità del territorio che sta attraversando. Quell’Identità che diventa una corazza elettronica entro la quale in molti si chiudono rivendicando una serie di convincimenti (ovviamente vengono chiamati “Valori”), usanze (diventano “Tradizioni”) abitudini (trasformati in “Riti”), spruzzato il pepe della Superstizione (detta prontamente “Religione”) ecco servito il piatto piccante del “noi e loro”. Gli spunti che portano ad una Identità, tutta scritta in maiuscolo, non è faticoso cercarli sono infiniti, c’è l’imbarazzo della scelta. C’è quella nazionale, regionale, cittadina, linguistica, gastronomica fino a quella italiana, padana, veneta, friulana, tirolese e così via. Salvo che, allargando appena l’orizzonte fuori dai nostri confini, incontriamo subito l’identità austriaca, quella catalana, quella serba, quella wallonia con ovvia e contrapposta identità fiamminga.
Mi disse la psichiatra e psicoterapeuta Nicoletta Gosio in un incontro su questo sito: “Come cambiano i modi di percepire il nemico nell’era telematica?, Dietro la veste ipertecnologica, in verità troviamo le stesse dinamiche, come purtroppo rivela l’estensione dell’odio in rete. In aggiunta, la rete offre l’illusione imperante di una grande platea a molte esternazioni autoreferenti, in cerca di pubblico piuttosto che di confronto. Penso che per il web si possa parlare di un teatro delle illusioni. E, a maggior ragione se il perimetro di me e quello del mondo coincidono, la disillusione e banali divergenze di opinioni sono vissute come attacchi, che ne generano ulteriori, e finiscono in scontri accesi. Anche la questione della mole enorme di informazioni, nonché di fake, col corollario dell’ormai affermato fenomeno del ‘tutti competenti su tutto’, accresce litigiosità e inimicizie”.

A conclusione di queste righe che riguardano i temi seri del libro di Bellandi Saladini, volgiamo la serietà su di un registro satirico. Crozza ha inventato un personaggio – già bene indovinato dal nick name: Napalm 51 – che rappresenta un “hater” seriale e di quel Napalm 51 traccia i caratteri che ne riflettono l’atteggiamento verso il mondo e la sua meschinità interiore. Ecco a voi Napalm 51.


QUI un video di presentazione del libro "Il mondo nuovo".

Estratto dalla presentazione editoriale.

«”Il mondo nuovo” è la prima ricognizione su quell’umanità digitale che fino a pochi anni fa apparteneva all’immaginario visionario del cinema e della letteratura distopica e che adesso è l’ambiente naturale nel quale siamo immersi, paesaggio da comprendere e salvaguardare perché il presente sia una terra abitabile e il futuro una scommessa ancora possibile».
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Andrea Bellandi Saladini
Il mondo nuovo
Nota introduttiva di Biancamaria Mori
Prefazione di Alessia Sorgato
Pagine 260, Euro19.00
Fve Editori


Diciamolo in italiano

Tempo fa viaggiò su questo Cosmotaxi una mia nota che riguardava l’abuso degli anglicismi.
Riferiva di quanto era nato grazie allo scrittore Antonio Zoppetti.
Si può leggere QUI.

Ora vi invito a guardare questo breve video.

Dante vi sarà grato.


Malvagi e giusti

La casa editrice FrancoAngeli ha pubblicato un libro che documenta e riflette su quei medici che, assecondando il nazismo si resero complici dello sterminio dei disabili a volte perfino condividendo in nome della loro interpretazione della scienza, le finalità della strage. Il volume si occupa anche di quei sanitari che s’opposero a tali crudeltà, fino a perdere la propria vita per salvarne altre.
Infine, il volume riporta a oggi la questione interrogandosi – attraverso un’accuratissima inchiesta – circa la possibilità che quei lontani fatti sanguinosi possano ripetersi.

Titolo del libro: Malvagi e giusti Le scelte tragiche dei medici nella Storia.
Ne è autrice Isabella Merzagora.
È professore ordinario di Criminologia all'Università degli Studi di Milano e presidente della Società Italiana di Criminologia. Ha scritto numerose pubblicazioni tra le quali, per FrancoAngeli: “Il mestiere del criminologo. Il colloquio e la perizia criminologica”, con Guido Travaini (2015), e “Colpevoli della crisi? Psicologia e psicopatologia del criminale dal colletto bianco”, con Guido Travaini e Ambrogio Pennati (2016).

Il volume, proponendo l’analisi di quei funesti episodi storici, di fatto, avanza un problema filosofico: è possibile distinguere nettamente gli uomini "buoni" da quelli "cattivi"?
Nella storia della filosofia moderna è Thomas Hobbes (1588 – 1679) a delineare un pessimismo antropologico. Nello «stato di natura», secondo il filosofo inglese, domina la forza: 'Homo homini lupus', «l’uomo è lupo all’altro uomo».
Radicalmente opposta è la visione di Jean-Jacques Rousseau (1712 – 1778) il quale ritiene che in un ipotetico «stato di natura», in assenza della civiltà e degli artifici delle convenzioni sociali, l’uomo sarebbe un «buon selvaggio».
C’è chi sostiene oggi che l’evoluzione, però, non è un interruttore che tac! dà luce a tutta l’umanità contemporaneamente, ma raggiunge prima alcuni poi altri e da qui, forse, abbiamo alcuni più vicini alla ferocia delle origini e altri più evoluti e non animati (o meno animati) dall’istinto di scimmie assassine.
O forse ancora, ed è un’altra teoria (peraltro non nuova) che in ogni uomo alberga nello stesso corpo cattiveria e bontà e l’una o l’altra può manifestarsi con la stessa intensità.
Chissà se quel titolo “Malvagi e giusti” non alluda proprio a questa sincronia… chissà.
Sia come sia, è un libro appassionante che si conclude nella sua terza e ultima parte riportando dati di una ricerca del 2019 effettuata intervistando un campione rappresentativo di più di mille italiani sul tema delle cosiddette "scelte tragiche", ad esempio in caso di un’epidemia curare prima i più giovani e solo dopo gli anziani? Le domande sono state riproposte nell'aprile del 2020 per verificare se l'emergenza pandemica avesse mutato l'atteggiamento dei nostri concittadini e in che senso.
I risultati sono illustrati con efficacia grafica, pure attraverso istogrammi.
Consiglio la lettura non solo a quelli che lavorano in area sanitaria e giudiziaria, ma anche a coloro che sono interessati a conoscere su quel tema quale possibile strada intendiamo percorrere nel prossimo futuro.

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Isabella Merzagora
Malvagi e giusti
Pagine 144, Euro 19.00
FrancoAngeli


La bambina


La casa editrice il verri ha mandato nelle librerie nuovo lavoro di Franca Rovigatti intitolato la bambina, il libro s’avvale di illustrazioni dell’autrice.
Franca Rovigatti, romana di famiglia veneta, per trent’anni lavora all’Istituto della Enciclopedia Italiana. Nel 1997 fonda romapoesia organizzando l’annuale festival internazionale. Pubblica su riviste e antologie poesie, nonsense e racconti. Nel 1997 pubblica “Afàsia”, romanzo di fantalinguistica, e nel 2011 “modididire”, raccolta illustrata di nonsense. Dipinge e realizza oggetti d’arte, che espone in diverse mostre, tra cui: “Sotto mentite spoglie”, personale, Milano 2000; “Art & Fashion – A Cross Fertilisation”, collettiva, Los Angeles 2003; “Traccia, ragione, mutamento”, “personale, Roma 2004; “La stanza del mare”, scenografia e installazione di videoarte, personale, Segesta - Calatafimi 2008-09; “Tracce & stracci”, personale, Roma 2012; “A testa nuda”, personale, Roma 2015.
Quest’opera, bellissima e lancinante, è possibile vederla su questo sito nella sezione Nadir.

CLIC per leggere una recensione di Maria Grazia Calandrone

RICLIC per un articolo di Mariangela Mianiti

Dalla presentazione editoriale

«Quattro tipi di scrittura si intersecano per recuperare alla memoria l’infanzia dell’autrice che affiora dolce e candida sollecitata da un ricordo o da una fotografia. I disegni, preziosissimi, ci presentano i personaggi nella realtà di un passato ormai lontano. La narrazione al presente dà voce alla bambina che vive nell’Italia degli anni Cinquanta il trauma della madre ricoverata in un ospedale psichiatrico e sottoposta a elettrochoc. Con ritmo incalzante, talvolta onirico, talvolta sostenuto da piccole annotazioni curiose e infantili viene narrato il trasferimento della bambina nella grande casa, ricca e borghese, degli zii di Roma. Si alterna un testo tra parentesi in corpo più piccolo che contiene riflessioni ex-post, un piano più adulto e riflessivo che obbliga il lettore a modificare di continuo le proprie valutazioni sugli avvenimenti narrati e a penetrare più a fondo nel vissuto della bambina. In corsivo compaiono poesie, strabiliate, attonite, intoccabili reperti di una profondità non attendibile».

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“Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita”. Questo il famoso incipit in ‘Aden Arabia’ di Paul Nizan.
Franca Rovigatti, con “la bambina”, abbassa l’asticella dei record dell’infelicità portandola all’altezza dell’infanzia fino a lambire l’adolescenza.
Se questo libro l’avesse letto il mio amico Giordano Falzoni non avrebbe avuto dubbi nell’inserire l’autrice in quella categoria di eroica fragilità da lui amata e chiamata con un neologismo in forma di crasi; sarebbe stata definita una bambulta, cioè una bambina adulta.
Leggete “la bambina” e gli darete ragione.

A Franca Rovigatti ho rivolto due domande.

Nell’ideare lo svolgimento narrativo quale la cosa che hai deciso di fare per prima e quale per prima da evitare?

Lo svolgimento narrativo de “La bambina” non è stato ideato prima di essere scritto. Non c’è stato piano, progetto, schema, struttura. Ho cominciato a scrivere per ricordarmi. La mia infanzia era contenuta in una sorta di nebbia stopposa, appiccicosa, e mi pareva di non ricordare niente. Ma succedeva che più scrivevo, più mi ricordavo (ri-cordare significa “riportare al cuore”). Erano come dei link che, aprendosi, spalancavano a loro volta altri link. Scrivevo per me, per una sorta di ricostruzione della mia origine. Poi una carissima amica, in genere piuttosto severa, mi ha detto: “Vai avanti, è buono”. Allora ci stavo lavorando già da 4/5 anni, lasciandolo e riprendendolo, senza alcun progetto. Non era un’operazione indolore né facile, perché cercavo di ritrovare – il più fedelmente, il più precisamente possibile – la vera voce dei pensieri della bambina, la sua vera verità. Scrivendo venivano anche fuori – quando necessario alla chiarezza – spiegazioni e considerazioni ex post dell’autore, di me adulta che scrivevo. Ed emergevano, dal passato o da quanto andavo scrivendo, versi, poesie…

…come s’inserivano nella tua scelta compositiva?

Ancora una volta nessuna scelta compositiva prefissata. Le poesie sono misteriosamente degli oggetti semantici molto veritieri e precisi. Per questo, quando si sono presentate al testo, sono state per me irrinunciabili.

E così il testo cresceva

Già, il testo cresceva… poi altre due belle amiche – quelle a cui dedico il libro – mi hanno molto incoraggiato, e parlavano anche di pubblicazione. Quando, ancora un anno dopo, Milli Graffi mi ha proposto entusiasticamente di pubblicarlo con il verri, per la prima volta ho cominciato a considerare questo testo un libro. E guardandolo come ‘libro’, mi sono resa conto che dentro c’erano tre tipologie di scrittura: la ‘vera’ voce della bambina, le spiegazioni – quasi delle note a margine - dell’autore adulto e le poesie. Allora ho voluto evidenziarle graficamente, in modo che fosse agevole per un eventuale lettore orientarsi. Contemporaneamente ho sentito che mancava ancora una voce, o meglio uno sguardo. E ho avuto bisogno di affiancare al testo dei piccoli disegni tratti dalle vecchie fotografie di casa, ulteriori testimonianze di veridicità.
Quindi, niente è nato per prima, il libro è andato costruendosi su se stesso, quasi da solo, anche se ci sono voluti più di sei anni per scrivere queste poche paginette.
Quanto a quello che ho voluto, consapevolmente, evitare: certamente la retorica, il melodramma, il vittimismo. Cose che la bambina, già da molto piccola, detestava con tutto il cuore.

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Franca Rovigatti
la bambina
Illustrazioni dell’autrice
Pagine 126, Euro 14.00
Edizioni il verri


"Lingua", edito da Fefè


È intitolato Lingua estetica della soglia il nuovo e decimo titolo della collana “Oggetti del Desiderio” curata per la casa editrice Fefè dal filosofo Lucio Saviani.
Firma il volume Valeria Cantoni Mamiani. .
In una bandella l’editore informa che l’autrice “lavora nella soglia tra le humanities e le diverse discipline creando progetti culturali e percorsi di cambiamento e apprendimento organizzativo incentrati sullo sviluppo della persona nella sua integralità. Filosofa e mediatrice umanistica dei conflitti, approccio che ha applicato alle organizzazioni per dare vita a Leading by Heart, nuova scuola di management, inclusivo ed empatico, per creare ambienti di lavoro emotivamente sicuri, fertili e antifragili. È presidente di ArtsFor, società di progettazione e consulenza culturale e di formazione. Dal 2007 è docente del corso “Arte e Impresa” all’Università Cattolica di Milano e dal 2015 è membro del CDA della Fondazione Adolfo Pini, dove ha ideato e dirige il progetto Casa dei Saperi.
Dal 2016 è nel comitato artistico della Triennale di Milano/Teatro”.

“Lingua” esce nella collana ‘Superfluo Indispensabile’ un titolo, come ho già scritto – scusandomi per l’autocitazione – in una precedente occasione … toh, anche la rima… che sarebbe molto piaciuto a Oscar Wilde e pure tanto a Giorgio Manganelli e ad altri cervelli monelli (...ormai siamo al poemetto). Se non sbaglio, però, deriva da un aforisma di Salvemini che disse “La cultura è il superfluo indispensabile”.
L’autrice compie un viaggio inforcando la parola lingua e partendo dall’istmo delle fauci, scansate le bianche scogliere dei denti si affaccia sulla soglia delle labbra poi da lì ardimentosamente esce per conoscere il mondo.
Credo che s’imbatta con detti proverbiali che la raffigurano, in plurali maniere sicché è vista maluccio come ci accade ogni giorno di sentire. In pratica, come una che ha la lingua lunga, è lingua biforcuta, ha sempre il fiele nella lingua, ha la lingua che taglia e cuce, e, comunque, è proprio una mala lingua.
Eppure, o, forse, proprio per questo, Cantoni Mamiani compie un… come si dice?... ce l’ho sulla punta della lingua… compie un… ecco si, ci sono, compie un periplo felicissimo intorno a questo nome d’organo riuscendo a mostrarne sia l’aspetto materiale sia quello immateriale. Lo fa illustrandolo dall’anatomia alla linguistica passando attraverso la gastronomia e l’erotismo. Volumetto d’acquistare per partecipare a una festa della pagina.
Questo libro sulla lingua è così ben fatto che mi piacerebbe recensirlo non con parole scritte o pronunciate ma con una lingua muta. Cioè con il Lis, Linguaggio Italiano dei Segni. Ho deciso: vado a scuola, imparo, e in questo modo un giorno recensirò il libro di Valeria Cantoni Mamiani.

Dalla presentazione editoriale

«La lingua è l’organo che si muove nella soglia e dalla soglia si apre al mondo e porta il mondo nel corpo. Cibo ed eros conquistano senso grazie a lei, che sfugge, mai si ferma, porta dentro e porta fuori, mette in relazione il corpo con la terra e con altri corpi. Non c’è il bello in lei ma il buono e, se Platone ci aveva visto giusto, il buono porta bellezza. Dunque, è la regina dell’estetica, che dalla soglia aiuta la memoria a trattenere ricordi di vita. Ma la lingua è anche il nome immateriale che segna l’identità di ogni individuo e della sua comunità, ci dice a chi apparteniamo, da dove veniamo, con chi possiamo costruire senso. Come l’identità di ognuno, è viva e dinamica, molteplice, mai fissa. Mai una, sempre molte. E a stare nella soglia ci si prende gusto».

Valeria Cantoni Mamiani
Lingua
Pagine 146, Euro 12.00
Editore Fefè


Locandine immaginarie per pellicole fantasma


Fra qualche settimana sarà gradito ospite di questo sito l’artista Leonardo Crudi.
Il suo lavoro mi piace molto e, per sua fortuna, non soltanto a me, tanti, infatti, i critici (mentre io non lo sono) che hanno scritto sul suo profilo artistico.
Per visitarne il sito web: CLIC!

Tra le operazioni più recenti da lui condotte, una è l’opera vincitrice di “Lazio Street Art”.
Un riuscitissimo intervento di Arte Urbana svoltosi nel quartiere San Lorenzo di Roma.
Un’altra, anch’essa molto apprezzata, ha per titolo Progetto Cinema ed è apparsa diffusa su parecchi muri. della Capitale.
Cosmotaxi gli ha chiesto d’illustrare in che cosa è consistita e consiste.

Fin da giovane avevo una grande passione per le immagini e in particolare per il cinema. Quando ho posizionato una lente di ingrandimento su quello che stavo vedendo ne è scaturita una ricerca infinita, che continua tutt’ora, con i poster che realizzo a mano dipingendoli a smalto. Danno voce a tutta quella cinematografia sperimentale che tanto mi appassiona, che spesso, non avendo un vasto pubblico, è priva d’immagine di copertina, in pratica di quei manifesti che segnalano il film al pubblico.

Un’opera, la tua, esistente e immaginaria al tempo stesso per pellicole esistenti ma irreperibili per mancanza di distribuzione… film vivi eppur fantasmi…

Infatti, il mio “Progetto Cinema” si basa proprio su questo, cioè restituire una copertina a tutti quei film che non l’hanno avuta, un’immagine per immagini irrangiungibili. Per esempio quella locandina che vedi in foto l’ho fatta per il film di Alberto Grifi “La Normalina” del 1978.

Come ti sei avvicinato al cinema?

Al cinema, in maniera politica. Mi sono avvicinato prima di tutto al cinema neorealista e piano piano sono arrivato al cinema sperimentale italiano, il cosiddetto “cinema underground”, e ho scoperto che in questo contesto, dai libri alle interviste, tutti citavano i vari Dziva Vertov o Sergej Ėjzenštejn. Quindi ho cominciato ad approfondire il cinema d’avanguardia russo dei primi del Novecento, avvicinandomi anche ad altre correnti artistiche – in poesia e pittura soprattutto – di quel breve periodo.

E per dirla con la lingua dei vecchi trailer: prossimamente su questo sito nella sezione Nadir: forme, colori, emozioni con Leonardo Crudi!


Libri d'artista. L'arte da leggere

La Direzione Museo Boncompagni Ludovisi per le Arti decorative propone un’interessante mostra intitolata: Libri d’artista. L’arte da leggere.
Il progetto è stato ideato e curato da Mariastella Margozzi (già autrice di un saggio sul libro d’artista) con Vito Nicola Iacobellis ed è stato presentato nel 2019 negli spazi del Castello Svevo di Bari e anche al Castello di Copertino (Lecce).
I “libri d’artista” oggi in esposizione al Museo Boncompagni Ludovisi sono stati tutti realizzati da autori italiani contemporanei.
Per conoscere i nomi: CLIC!
Ogni artista esprime il proprio messaggio per stimolare una riflessione sulla lettura e una partecipazione emozionale e cognitiva ad essa.

In foto: Lamberto Pignotti, “Il cielo serve ad altro”, libro di plastica, 1990

Il libro-oggetto è assimilabile ad una piccola scultura. Nato con le Avanguardie storiche del Novecento e sviluppatosi con il movimento Fluxus, è un particolare volume concepito non come diffusione di un’opera, ma come opera d’arte in sé. Insomma, non si tratta di un genere editoriale proprio perché realizzato in pezzo unico - o in serie limitate a pochissimi esemplari - con materiali di varia natura: legno, ferro, pietra, stoffa, plastica e altro ancora
Un lavoro, spesso, praticato in modo irriverente e birbone, che vive in quella felice terra di nessuno che si trova nell’intersezione tra letteratura e arti visive di plurali stili
Ecco alcune righe tratte da “Libro e segnalibro” di Mirella Bentivoglio (1922 – 2017): «In inglese si chiamano bookworks, libri-opera. Nei paesi di lingua latina, si suddividono tra libri d'artista e libri oggetto, con un più forte accento sulla atipicità nel secondo caso. La terminologia in questo campo è ancora approssimativa e mista, ma forse non sarà inutile ripetere che il libro d'artista è un libro regolare con un contenuto irregolare, mentre il libro-oggetto è un libro irregolare. Con tutti questi più o meno avanzati translibri è vinta la separazione tra testo e immagine. E l'immagine è anche linguaggio, perché immessa, al di fuori di ogni ruolo subordinato, illustrativo, nella sede istituzionale della comunicazione linguistica. Con il libro-oggetto, il problema del logorio visivo dell'immagine è risolto. L'immagine si offre solo quando è desiderata. Non s'impone; richiede l'apertura del libro.
Crolla la funzione decorativa del messaggio visivo (e a volontà resta: aperto su un piano, il libro è sempre un oggetto captante)...
E il segnalibro? E' la delega del fruitore e il suo appuntamento. Dice: “Torno, aspettami”».

La mostra “Libri d’artista. L’arte da leggere” si collega a quella dalla stessa tematica - Libri d’artista dalla collezione del Museo H.C. Andersen - allestita al Museo Hendrik Christian Andersen, sempre afferente alla Direzione Musei Statali della Città di Roma, e curata da Giuseppina di Monte e Valentina Filamingo insieme con il Cepell (Centro per il Libro e la Lettura), nell'ambito dell'iniziativa del MiC “Il Maggio dei Libri” (dal 28 maggio al 28 luglio 2021).

Museo Boncompagni Ludovisi
“Libri d’artista. L’arte da leggere”
Via Boncompagni 18, Roma
Informazioni: 06 - 32 29 81
Fino al 17 ottobre 2021


Cantatrix sopranica L.


«Più si tirano pomodori alle cantatrici, più esse urlano.»
Non lo sapevate?
Per approfondire scientificamente la questione non vi resta che acquistare Cantatrix sopranica L. e altri scritti di George Perec pubblicato dalla casa editrice Quodlibet.
Georges Perec (Parigi,1936 – Ivry-sur-Seine,1982), è una delle maggiori glorie della letteratura francese contemporanea. Venuto agli onori letterari con il suo romanzo d’esordio, “Le cose” (1965), è autore, tra gli altri, de “La disparition” (1969), “W ou le souvenir d’enfance” (1975), “Je me souviens” (1978), “La vita istruzioni per l’uso” (1978), il suo romanzo più celebre che è stato tradotto in tutto il mondo.
Nato e vissuto a Parigi, figlio di ebrei polacchi, Georges Perec aveva un’inconfondibile barbetta crespa e molta passione per l’enigmistica.

Nel nostro tempo infestato da tanti romanzieri giallisti o nientisti è una gioia ritrovare un autore come Georges Perec.
Perec, lo ricordo ai più distratti, è tra i protagonisti dell'Oulipo.
“Dell’Oulipo, Georges” – scrisse Italo Calvino, oulipiano anch'egli – “era diventato il maggiore esponente, e almeno due terzi della produzione del gruppo erano opera sua”.
Perec, alla domanda “Chi vorrebbe essere?”, postagli da uno studente che preparava una tesi sull’opera perecchiana, rispose “Uomo di lettere”; preciserà, poi il senso che volle dare a quelle sue tre parole: “Un uomo di lettere è un uomo il cui mestiere sono le lettere dell’alfabeto”.
Su quelle lettere ha lavorato creando una poetica ispirata prevalentemente a principii matematici, scacchistici, geometrici, ludonumerici e ludolinguistici.
Si pensi, ad esempio, a quel suo testo lipogrammatico di trecento pagine, (La Disparition, Guida 1969); scritto senza mai usare la vocale "e" al quale fa seguito un secondo lipogramma, in forma di specchio de “La Disparition”, intitolato “Le ripetizioni” nel quale, invece, utilizza come sola vocale in tutto il testo proprio la lettera "e".
Il discorso di Perec e degli oulipiani travolge tanti oziosi dibattiti fra convegni del Nulla e blog dello Strepito sui tanti inutili romanzi odierni. L’Oulipo, infatti, è, finora uno dei più avanzati esempi di letteratura che si avvale di tecniche scientifiche. Si pensi ai “Centomila miliardi di poesie”, di cui Queneau ci fa leggere solamente i dieci sonetti base che permettono di produrre cento mila miliardi di poesie, testi che per leggerli tutti occorrerebbero quasi duecento milioni di anni leggendo 24 ore su 24. Si arriva così alla realizzazione di un libro esistente ma impossibile da leggere tutto.
O si pensi al diagramma di flusso usato - in modo rigoroso e comico a un tempo – da Perec in “L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento”, scritto breve che nella sua brevità contiene l’infinibile.
Cantatrix sopranica L (alla quale si accompagnano altri funambolici scritti) è giocata su quel registro caro a Perec: lo svolgimento di un tema del tutto improbabile usando un linguaggio scientifico il più rigoroso possibile.
L’esito è di travolgente umorismo. Leggere questo libro è partecipare a una grande festa della pagina.
La presentazione editoriale che segue è firmata in bandella con le iniziali E.C.
Non bisogna scomodare Sherlock Holmes per scoprire che dietro quelle due lettere si cela Ermanno Cavazzoni.

«Divertentissime parodie scientifiche di uno dei migliori autori francesi del Novecento. Il primo scherzoso e sapientissimo saggio (che dà il titolo al libro) descrive nell’inglese da congresso e con scientifica acribia l’effetto del lancio di pomodori su una cantante d’opera, con diagrammi e comica bibliografia; segue un gustoso saggio pseudo entomologico; la biografia di due illustri e inesistenti scienziati; e altri scritti in veste di storico e di iper filologo.
Giochi letterari prossimi all’Oulipo, l’associazione per una letteratura potenziale fondata su regole arbitrarie, di cui Perec fu il più apprezzato esponente».

George Perec
Cantatrix sopranica L.
Traduzione di Roberta Delbono
Pagine 136, Euro 14.00
Quodlibet


Pirandello in Realtà Virtuale

Ha detto John Cage: “Molti hanno paura dal nuovo, io sono terrorizzato dal vecchio”.
Sono molti, invece, quelli che temono le nuove tecnologie e, comunque, pensano che ieri fosse meglio di oggi. Chissà se lo pensano anche quando stanno sulla poltrona di uno studio dentistico e non avvertono dolore grazie all’anestesia che ieri non c’era, oppure possono trasferirsi da un punto all’altro della Terra grazie all’aereo che ieri non c’era, fare arrivare uno scritto da Roma a Tokio in un fiato grazie a internet che ieri non c'era, potrei continuare con esempi fino a dopodomani.
Particolarmente curioso è che i recalcitranti dinanzi al nuovo si trovino anche in aree artistiche laddove il progresso delle tecniche di realizzazione dovrebbe trovare buona accoglienza. La mia esperienza registica, che va oltre il quarantennio Enpals, mi ha fatto constatare che mentre chi lavora nel cinema, alla televisione, nella radio è attento alle nuove possibilità espressive offerte dalle nuove tecnologie, non accade la stessa cosa fra chi opera in teatro specie nella generazione che va dai cinquantenni in su.
Anche nelle arti visive ci sono ancora parecchi che continuano a pittare ignorando l’aureo monito del grande Marcel Duchamp: “Da quando i generali non muoiono più a cavallo, non vedo perché un pittore debba morire davanti al cavalletto”.
Naturalmente le eccezioni esistono. In questa nota, fra poco, dirò di una di queste.
Adesso, a proposito di avversioni verso nuovi strumenti tecnici, voglio citare il pensiero di Anna Maria Monteverdi, una delle massime studiose della multimedialità a teatro (il suo libro più recente Leggere lo spettacolo multimediale) la quale in un incontro che ebbi con lei su Nybramedia così mi disse: «Da dove viene quell’avversione? Forse è solo indice dell’incapacità di accogliere il nuovo, di riconoscere potenzialità creative nei mezzi tecnologici (ma gli artisti stanno sperimentando questo sin dalle prime e seconde avanguardie e nel teatro lo scenografo Joseph Svoboda usava sistemi di proiezione dinamica già alla fine degli anni Cinquanta). L’ostilità è certamente dovuta alla non conoscenza. Ma è anche vero che non tutta la produzione tecnologica teatrale si dimostra eccellente, spesso ci si affida all’effetto meraviglia delle proiezioni per coprire l’assenza di idee. Non esiste una ricetta ma noto che gli spettacoli funzionano laddove la tecnologia è considerata alla pari ed è inscritta nel progetto sin dall’inizio, a creare una “drammaturgia multimediale”. Ma rifiutare di avere a che fare con la tecnologa ci rende inevitabilmente anacronistici. Ricordo un giornalista ora anziano molto famoso che quando ci incontravamo alle conferenze mi diceva con un certo orgoglio che ancora scriveva con la macchina Lettera 22. E io ogni volta gli dicevo che prima o poi gli sarebbero finiti i nastri».

Poco fa scrivevo che le eccezioni ci sono fra chi ha la curiosità e si è dato la professionalità d’esplorare in scena nuove vie espressive.
Una di queste è rappresentata da Elio Germano (1980), attore di grande successo al cinema – Quattro David di Donatello, un Nastro d'argento, Orso d'argento al Festival di Berlino 2020, e altri premi ancora – che si è già misurato con il teatro e a dimostrazione dei suoi plurali interessi lo troviamo anche presente nel gruppo rap Bestie Rare.
Ora porta in una speciale ribalta “Così è (o mi pare)” una riscrittura in VR (Realtà Virtuale) del “Così è (se vi pare)” di Luigi Pirandello, di cui è regista e anche interprete del personaggio Lamberto Laudisi. È un progetto presentato da Fondazione Teatro della Toscana, Infinito Produzione Teatrale, Gold Productions
Per saperne di più: sulle tecniche praticate: CLIC!

QUI un breve video con Elio Gerrmano che presenta questo suo lavoro teatrale.

Lo spettacolo è in programma in autunno all’interno della prossima stagione del Teatro della Toscana. Sono previste anteprime il 14 luglio a Villa Bardini e il 5 agosto alla Manifattura Tabacchi in collaborazione Fondazione Stensen e il 23-26 settembre a Romaeuropa Festival 2021.


Poetry Slam e Logos


Questo sito non si occupa di poesia cosiddetta lineare (versi stampati insomma), ma riserva spazi alla poesia sonora (quella che nasce già in forma sonora) e poesia visiva con preferenza per quella elettronica in forma di videoclip. Non posso trascurare, quindi, la segnalazione del successo a Parigi di Logos (all’anagrafe Giuliano de Santis) appartenente al collettivo artistico WOW - Incendi Spontanei, primo italiano a conquistare il titolo di campione del mondo di Poetry Slam.
Il suo prossimo impegno sarà insegnare ad una AI (Intelligenza Artificiale) a comporre versi. Così come fece Nanni Balestrini parecchi decenni fa con i primi computer apparsi sul mercato.
Oggi la forma rappata è molto diffusa, ma la faccenda, forse non in forma rap, cioè il certame poetico proviene dall’antichità come spiega QUI Federico Condello.

Veniamo adesso ai giorni nostri ed ecco un efficace ritratto del Poetry Slam scritto da Lello Voce poeta che per primo ha fatto conoscere in Italia questo tipo di poesia.
«Lo slam è sport e insieme arte della performance, è poesia sonora, vocale; lungi dall’essere un salto oltre la ‘critica’, lo slam poetry è un invito pressante al pubblico a farsi esso stesso critica viva e dinamica, a giudicare, a scegliere, a superare un atteggiamento spesso tanto passivo quanto condiscendente, e dunque superficiale e fondamentalmente disinteressato, nei confronti della poesia.
Lo slam inoltre riafferma, una volta per tutte, che la voce del poeta e l’ascolto del suo pubblico fondano una comunità, o meglio una TAZ (Temporary Autonome Zone), come direbbe Hakim Bey, in cui la parola, il pensiero, la critica, il dialogo, la polemica e insieme la tolleranza e la disponibilità all’ascolto dell’altro sono i valori fondamentali.
Insomma, lo slam dimostra, con la sua stessa esistenza e il suo diffondersi, l’indispensabilità
della poesia nella società contemporanea e soprattutto il suo essere arte adeguata ai nuovi e mutati contesti antropologici proposti dal terzo millennio, specie se portata fuori dai libri e dalle incrostazioni scolastiche
».

QUI Logos in “Date loro fuoco”.


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