Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
venerdì, 30 marzo 2007
Kafka sognatore ribelle
Franz Kafka nacque a Praga nel 1883 dove morì a 41 anni nel 1924. Pedanteria ricordarlo? Per niente. Sto per parlarvi di un nuovo saggio su Kafka in cui l’autore, studioso di tanti meriti, in 134 pagine mai trova il tempo non dico d’inserire una ragionata scheda biografica, ma neppure di comunicare al lettore dov’è nato l’autore di cui sta scrivendo né le date di nascita e morte. Siamo tutti colti, parliamo fra noi, o no? Mai un saggista anglosassone farebbe una cosa così. E una piccola, delicata, tirata d’orecchi merita la pur ottima editrice Eleuthèra, di cui sono da anni ammiratore, che non ha riparato il guasto. L’autore che sto rimproverando è Michael Löwy, brasiliano, nato nel 1938 e che vive a Parigi dov’è direttore di ricerca presso il Cnrs. Ha scritto una ventina di libri; tradotti in italiano: “Dialettica e rivoluzione” (Jaca Book, 1974), “Redenzione e utopia” 1992, “Sognatore d’incendio”, 1994 (entrambi per Bollati Boringhieri), “La stella del mattino” (Massari, 2001). Caro Löwy, visto come si fa? Il libro in questione è intitolato: Kafka sognatore ribelle. Il volume s’aggiunge ai tanti studi sullo scrittore praghese e che, come ci ricorda l’autore, possono essere suddivisi in 6 categorie: - le interpretazioni strettamente letterarie puntate sul ‘testo’ e non sul contesto; - le letture biografiche, psicologiche e psicoanalitiche; - le letture teologiche, metafisiche e religiose; - le letture dalla prospettiva dell’identità ebraica; - le letture postmoderne che riflettono sull’inspiegabilità degli scritti kafkiani; - le letture socio-politiche. A quest’ultima sezione appartiene il suo saggio, com’egli stesso precisa. Da qui la necessità per gli studiosi di Kafka e per gli addetti ai lavori letterari di leggere questa particolare prospettiva che propone Löwy e capirne le ben articolate ragioni. Lo studio pone giustamente la figura di Kafka come quella di uno dei più grandi critici moderni dell’autoritarismo che ha la sua prima espressione repressiva nella burocrazia. Intrapresa questa via, Löwy, usando frequentemente la parola “libertario”, connota fortemente il praghese come un anarchico in senso precisamente politico. E qui mi convince meno. Certo, chi si ribella al Potere, tenebroso e vessatorio, come si ribella Kafka, può essere considerato un anarchico (… a proposito di anarchici, segnalo un bel libro di recente uscita), ma Kafka è molto di più e qualcosa di meno. Dell’anarchico gli mancano alcuni elementi non da poco: la speranza; vive, infatti, in una condizione esistenziale (e politica) che è la disperazione universale, cosa diversa dalla rassegnazione domestica. E gli manca la fiducia negli umani; Ceronetti (che, insieme con Bufalino e Manganelli, ritengo sia quello che da noi meglio abbia interpretato K.) ricorda: “un pensiero con molta paprika di Kafka: Uno degli strumenti del male è il dialogo”. Ciò detto, ripeto che il saggio di Löwy è molto serio, spero solo che non incoraggi qualcuno a presentarci un giorno quel grande scrittore come uno a braccetto in corteo tra Caruso e Turigliatto al quale – segnalo qui spudoratamente – ho dedicato uno studio enigmistico.
Per una scheda sul libro e l’indice dei capitoli, cliccate QUI. Michael Löwy “Kafka sognatore ribelle” Traduzione dal francese di Guido Lomarsino Pagine 134; Euro 13:00 Edizioni Elèuthera
giovedì, 29 marzo 2007
Il mondo nella mente
Da ateo quale sono, e anche per gusto letterario, fra gli scrittori dai quali mi sento lontanissimo, c’è l’inglese Chesterton (1874-1936), eppure – proprio vero che mai si può stare tranquilli – ha detto una cosa… una soltanto, intendiamoci… che mi sento di sottoscrivere: “Il pazzo è uno che ha perduto tutto tranne la ragione”. Il libro di cui sto per dirvi, di follia si occupa, ma non da un punto di vista strettamente clinico bensì filosofico e, più precisamente, epistemologico, parola terrorizzante, perciò a beneficio di coloro che non hanno completato la scuola dell’obbligo (fra i quali, ovviamente, ci sono io), offro, a me stesso e a quelli, un soccorso per avere lumi sulla parola di poc’anzi cliccando QUI. Ora che colti siamo diventati, posso dirvi che il libro si chiama Il mondo nella mente e ha per sottotitolo Per un’epistemologia della cura chiarendo così fin dalla copertina che si riflette sul disagio psichico, su pazienti e curanti (non di rado più bisognosi d’assistenza dei loro stessi pazienti) e non si prescrivono terapie. L’autore, è Mario Galzigna. Insegna Storia della scienza ed Epistemologia clinica alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Venezia. Svolge consulenze, ça va sans dire epistemologiche, per i Dipartimenti di Salute Mentale. E’ condirettore di Psychiatry on line Italia e membro del Comitato Scientifico della Fondazione San Servolo di Venezia. Notizie sulle sue pubblicazioni in questa bibliografia. Mi piace ricordare che inoltre ha fondato, nel 1982, la collana di testi e di saggi Il corpo e l'anima, per Marsilio, collana purtroppo oggi chiusa della quale siamo in molti a sentirne la mancanza. A proposito de Il mondo nella mente, così scrive Fausto Petrella in una densa prefazione: “Quasi tutte le maggiori figure della psichiatria europea del Novecento hanno sentito il bisogno di confrontare la malattia mentale e le sue dinamiche disgregative o comunque trasformative con le forme accreditate del sapere e con le visioni dell’uomo maturate sul terreno del pensiero filosofico. Lo psichiatra si appella al filosofo o si fa filosofo lui stesso […] con Galzigna il problema si capovolge: qui è il filosofo ad occuparsi della psichiatria con grande attenzione”. Ma poiché il compito dell’epistemologia critica – com’è detto nel libro – è anche quello di conoscere il profilo, distorto o negletto, delle figure soggettive che popolano un sapere, ecco che sono presentati anche, con nomi di fantasia, casi clinici che, come accade in queste faccende, disegnano figure che sono complessi personaggi che potrebbero figurare – dopo aver provveduto ad allontanare dalle vicinanze Massimo Fagioli e Marco Bellocchio – in drammi da schermo o da ribalta. E non è un caso che l’autore affronti la materia anche con strumenti letterari sicché si ritrovano nelle pagine citazioni che vanno da Borges a Pessoa, ragionamenti da e su Gadda. A Mario Galzigna ho chiesto: Umberto Galimberti ha scritto: “La psichiatria organicista riduce tutti i fenomeni psichici ai principi che presiedono la biochimica del cervello; la psicoanalisi riduce le manifestazioni della psiche alla dinamica che presiede la sessualità infantile; le neuroscienze riducono gli scenari psichici alle dinamiche dei sistemi neuronali; la genetica riduce i disturbi psichici alla componente ereditaria e solo in seconda battuta ai fattori ambientali” A quale direzione appellarsi per saperne di più su noi umani?
Ha ragione l’amico e collega Umberto Galimberti quando denuncia l’angustia di una prospettiva riduzionista, da qualunque parte essa venga: dalla biochimica, dalla psicoanalisi, dalle neurosceinze, dalla genetica. Anche nel mio libro è presente questa istanza antiriduzionista, che si situa proprio nel cuore della mia esperienza di epistemologo clinico. Questa figura scientifica, nell’ambito dei Dipartimenti di Salute Mentale, si batte per una integrazione degli approcci, dei paradigmi, delle metodiche terapeutiche. La prospettiva olista e antiriduzionista implica un’assunzione radicale della domanda di cura, un rifiuto delle parcellizzazioni, che di solito si riflettono negativamente sull'integrità psichica dei pazienti e sull’efficacia della “cura”: intesa sia sotto il profilo tecnico, come particolare percorso terapeutico, sia sotto il profilo esistenziale, come capacità di “prendersi cura”, empaticamente, di chi soffre. A Vienna, al manicomio di Gugging, c'è un padiglione chiamato Haus der Kunstler, la Casa degli Artisti, dove alcuni ricoverati sono diventati pittori (Walla, Garber, Kernbeis, e altri) riconosciuti anche dal mercato, esposti in una delle più prestigiose gallerie viennesi Galerie Nachst St. Stephen. E' solo uno dei tanti esempi sul tema Arte-Follia. Tutto questo per chiederti: secondo te, l'arte è una malattia o una terapia? Non è una malattia né una terapia, anche se può far parte dello stile di vita di una persona sofferente, “malata”; anche se può rappresentare una risorsa terapeutica all’interno di determinati progetti di “cura” del disagio psichico. Artaud, lo “schizofrenico”, supera l’orizzonte della malattia quando scrive il suo folgorante libro su Van Gogh. L’arte è risorsa creativa, distinta dalla malattia e dalla cura, anche se può appartenere ad entrambe queste dimensioni. Al libro è dedicato un blog in Rete che v’invito a visitare cliccando QUI. Mario Galzigna “Il mondo nella mente” Prefazione di Fausto Petrella Pagine 188; Euro 12:00 Marsilio
mercoledì, 28 marzo 2007
Arte come design
“Stabilire se l’arte abbia dato al design più della tecnica diventa la scommessa di questo libro”. Si apre così il volume Arte come design storia di due storie di Manlio Brusatin che Einaudi ha da pochi giorni mandato in libreria. L’autore insegna alla Facoltà di Design del Politecnico di Milano e alla Facoltà di Architettura di Alghero; ha collaborato a varie Biennali di Venezia dell’Arte, dell’Architettura e del Teatro. Per Einaudi ha già pubblicato “Storia dei colori”, “Storia delle linee” e “Storia delle immagini”. Per la sua bibliografia completa, cliccate QUI. Ho chiesto a Guglielmo Bilancioni, docente di Storia dell’Architettura all’Università di Genova, che fra le sue pubblicazioni annovera anche la recente traduzione e cura d'uno storico testo di Louis Hautecoeur – "Mistica e Architettura. Il simbolismo del Cerchio e della Cupola" – una riflessione su questa recente fatica di Manlio Brusatin.
Alla trilogia di storie – sui colori, sulle linee e sulle immagini - Einaudi ora aggiunge un’altra opera del genio versatile e appassionante di Manlio Brusatin; già il titolo induce a una profonda riflessione: “Arte come design. Storia di due storie”. L’arte viene ‘applicata’ al prodotto, da una fibbia ad un i-pod, e si cela, restando attiva sul fondo come Volontà e Qualità. L’intenzione artistica lega tra loro soggetto oggetto e progetto, e muove alla sempre nuova ricerca di un bello che sia utile e di un utile che sia bello. Questo libro muove da Piranesi, che riproduceva perché voleva diffondere, e illumina sulle ceramiche di Wedgwood, e sul disegno dei tessuti, che è insieme artistico e meccanico. Compare nel libro l’Artigiano, eroico custode della Tradizione, che produce – a mano e con strumenti adeguati - tanti ‘pezzi unici’ che incorporano Sapere, mentre si impone, figura della Necessità, il Prototipo per la Serie, con le sue forme furbe che lambiscono la caducità della moda. Brusatin, che è soprattutto uno storico delle Idee, insegna e diletta: studia e discute il difficile nesso fra Forma e Funzione, che spesso è maliziosa e artificiale Finzione, capace di trasformare un modello in una firma, un archetipo in un gadget, e una voluta in una merce. E i terribili oggetti ‘staminali’, nella loro cellulare indifferenza alla forma ed all’umanità, sono un monito ed un allarme: tornare all’Origine sarà la sola promessa di originalità. Manlio Brusatin “Arte come design. Storia di due storie” Pagine 233; Euro18:00 Einaudi
martedì, 27 marzo 2007
Da Silvio a Silvio
Don’t panic please! I due Silvio di cui mi occupo oggi sono persone perbene. Leggete appresso e vedrete. Un caso letterario che pesa sulla coscienza di parecchi critici e editori è quello di Silvio D’Arzo. Di casi letterari in Italia ce ne sono anche degli altri, i primi nomi che mi vengono sulla tastiera, sono quelli di Antonio Delfini, Paola Masino, Enrico Morovich, Antonio Pizzuto… chissà se un giorno una casa editrice vorrà occuparsi di loro. Silvio D’Arzo, pseudonimo di Ezio Comparoni, nacque a Reggio Emilia e morì di leucemia a 32 anni nel 1952. Fu figlio naturale di Rosalinda Comparoni che faticosamente riuscì ad allevarlo e tenerlo agli studi poiché non poteva contare sull'aiuto finanziario e morale del padre che aveva abbandonato Ezio quando era ancora in tenera età. Nel 1941 si laureò in Lettere a Bologna con una tesi di glottologia. Per una bibliografia completa delle opere, delle traduzioni, e una selezione degli scritti critici su di lui, cliccate QUI. Scrisse alcuni fra i racconti più importanti, scarsamente conosciuti, della letteratura italiana della prima parte del Novecento fra i quali rifulge Casa d’altri definito da Eugenio Montale “racconto perfetto”. Dobbiamo oggi a Silvio Castiglioni - uomo di teatro e di raffinate letture (n’è recente esempio un suo lavoro tratto da Osip Mandel’štam) - se quello splendido racconto oggi rivive in scena da lui interpretato e diretto. Silvio Castiglioni è stato per molti anni direttore del Festival Santarcangelo dei Teatri portando quella rassegna a livelli internazionali e che adesso, dalla passata edizione senza di lui, sta conoscendo un momento (e speriamo solo un momento) di crisi qualitativa, organizzativa e promozionale. Per conoscere il suo pensiero teatrale, suggerisco una conversazione ch’ebbi con lui . Lo spettacolo debutta nel corso del Festival “Crucifixus”, rassegna scenica che vede tra le altre presenze quelle di Marco Baliani, Franco Branciaroli, Paolo Fresu, Andrea Giordana, Moni Ovadia, Armando Punzo, Gabriele Vacis. Qui di seguito le prime date di “Casa d’altri”.
“Casa d’altri” di Silvio D’Arzo drammaturgia di Andrea Nanni interpretato e diretto da Silvio Castiglioni 28, 29, 31 marzo, Sellero, Pisogne, Tavernola (Valcamonica) 6 aprile, Cocconato (At) 12 – 13 aprile, Cattolica, Salone Snaporaz 14 aprile, Verucchio, Teatro Pazzini
lunedì, 26 marzo 2007
Momentaneamente assenti
Tra i giovani della critica d’arte, c’è una curatrice che si sta meritamente affermando tra le nuove voci dello scenario italiano: Cecilia Antolini. E’ nata a Como nel 1980; laureata con lode in Filosofia Estetica all’Università di Milano, scommetto una bottiglia di Romanée Conti che tra qualche anno la troveremo tra i nomi di vertice (… Cecilia non deludermi perché quella bottiglia costa tanto che mi mandi in rovina). Trascorre fra mostre in ambienti inediti – ad esempio spazi militari in funzione – a innovatrici gallerie d’arte moderna, dalla pittura derivata dal web a particolari forme di eat art. In questi giorni, nell'ambito di Photo Festival, presenta alla Galleria Il torchio - Costantini otto fotografi. Il titolo della mostra (bello come un titolo di Lilanga) è: Sono passato a trovarti ma non c'eri. Lascio la parola a Cecilia Antolini.
Protagonista della mostra è la figura umana, declinata secondo otto registri differenti, Protagonista semi-assente, la cui presenza rimanda incessantemente alla propria assenza, celata dietro la superficie piana delle stampe fotografiche. Lì catturata, la figura mette in scena il suo gioco, spostandosi sempre un po' più in là dell'occhio di chi guarda. Può essere scomposta e disgregata come nelle opere di Maurizio Galimberti o messa sapientemente in posa come nei lavori di Gianluca Chiodi e Nicola Vinci; catturata in un attimo sospeso come negli scatti di Elettra di Ranno e Jasmine Hirst, o frammista a rimandi tecnici e concettuali tra i più diversi come nella ricerca di Occhiomagico e Francesca Galliani. Può anche presentarsi articolata come in un caleidoscopio, trattata in quanto forma prima e più che in quanto corpo puro, come nella ricerca di Stefano Scheda. In tutti i casi, ogni figura fotografica si conferma essenzialmente presenza di un'assenza. Segno indelebile della distanza incolmabile del suo essere lì al posto di qualcun/qualcos'altro: che sia l'artista stesso, il suo punto di vista oppure quello di chi guarda. Presenza apparente, tangibile solo grazie a un gioco di specchi o a un'intesa fugace tra l'occhio e la mente. Presenza di fronte a cui sembra restare una sola cosa da dire: ‘Sono passato a trovarti ma non c'eri’ Galleria Il Torchio – Costantini Via Crema 8, Milano “Sono passato a trovarti ma non c'eri” A cura di Cecilia Antolini Info: 02 – 58 31 83 25; mail: iltorchio@fastwebnet.it Fino al 14 aprile 2007
venerdì, 23 marzo 2007
Il giardino sul Vascello
Anton Cechov, nato a Taganrog nel 1860 e morto di tisi a Badenweiler nel 1904 (una curiosità: a Cechov è stato intitolato il cratere omonimo sulla superficie di Mercurio), nonostante i molti tentativi d’inquadrarne l’opera in questa o quella corrente letteraria, sfugge a qualsiasi catalogazione . Egli agì in un periodo in cui in Russia imperversava la reazione e la vita intellettuale, lontana dai passati fulgori, era inabissata in una palude di conformismo. La sua narrativa e il suo teatro sono, attraverso una dolorosa riflessione esistenziale, un atto d’accusa verso il ristagno delle idee del suo tempo. Tale condizione lo portò negli ultimi anni della sua vita a impegnarsi contro quella società come dimostrano le sue posizioni sull’affare Dreyfus, le dimissioni dal giornale reazionario “Tempo nuovo” e dall’Accademia delle Arti per solidarietà con Gorki, che n’era stato espulso. Capì tra i primi che il vecchio mondo dei proprietari terrieri, abituati all’agiatezza ed allo sperpero, rappresentavano una classe sociale che andava spegnendosi, sostituita dalla classe degli affaristi. Quando morì sulla Russia soffiavano già i venti della rivoluzione che di lì a pochi anni avrebbe cancellato sia i proprietari terrieri sia i nuovi ricchi promettendo una liberazione che presto si trasformò in una nuova tirannia. Il suo ultimo lavoro, Il giardino dei ciliegi, che lo occupò per tre anni fino al 1904, rispecchia quel clima disfatto e torbido, tra dissipate famiglie e avidi speculatori. In una nuova edizione, per la regìa di Giancarlo Nanni, al Teatro Vascello di Roma, quel dramma è stato salutato ieri sera da un grande successo con particolari applausi a Manuela Kustermann e Paolo Lorimer (nella foto). Altri bravi interpreti: Giuseppe Antignati (un ottimo Lopachin), Gaia Benassi, Sara Borsarelli, Andrea Duroni, Massimo Fedele, Astra Lanz, Felice Leveratto, Sandro Palmieri, Alessandro Scalone,Tatiana Winteler), e spero di non avene dimenticato nessuno. Accanto a questa festa scenica, c’è però un’amarezza. Lascio la parola a Giancarlo Nanni: Con questo lavoro di Cechov prende vita nella nostra scena il paragone con la nostra situazione attuale, del nostro teatro Vascello. Questo teatro è il nostro “giardino dei ciliegi “ che deve essere venduto per i troppi debiti, che, forse, diventerà un garage o un supermercato. Forse tutte le nostre fatiche saranno immolate al nuovo Moloch, il dio denaro, a un nuovo capitalismo senza cultura, senza grazia, senza conoscenza, senza memoria.
Da parte mia, auguro a tutto il complesso del Vascello che il nuovo Lopachin che attenta alle loro vite artistiche sprofondi da qualche parte. Per i redattori della carta stampata, delle radio-tv, del web, l’Ufficio Stampa è di Marina Raffanini: org@teatrovascello.it Anton Cechov “Il giardino dei ciliegi” Al Teatro Vascello di Roma Fino al 27 aprile 2007
giovedì, 22 marzo 2007
Oltre la Via Lattea
Può una rubrica che si chiama Cosmotaxi trascurare l’uscita di un libro intitolato Oltre la via Lattea? No, che non può. Del volume, edito da Dedalo, ne sono autori i coniugi John e Mary Gribbin. Per essere più umili, capire che siamo ben minuscola cosa nell’Universo, abbandonare l’antropocentrismo che affligge tanti, basterebbe fissare il cielo e pensare l’infinita pluralità di mondi che contiene. Se questa cosa fosse praticata, sul nostro pianeta avremmo tanti Bondi di meno. Fissare il cielo. Meglio ancora con un telescopio. Arnese che permise a Galilei di convincersi vieppiù delle teorie dimostrate da Copernico e che per poco non gli costò la pelle perché al Vaticano quelle teorie garbavano poco. Quattro secoli dopo, a mezza bocca hanno ammesso d’avere esagerato. In pratica, solo pochi anni fa hanno accettato la (per loro) amara verità che sia il Sole al centro delle orbite degli altri pianeti, e non la Terra; in comicità involontaria sono imbattibili. Oltre la via Lattea Gli scienziati che hanno studiato l’Universo, è un libro che percorre la storia degli studi e delle vite di coloro (da Hubble a Wilson, da Hale a Humason) che hanno dedicato le proprie esistenze a misurare il cosmo, calcolando le distanze che separano stelle, pianeti e galassie. Volume di facile lettura, grazie a una scrittura chiara e rapida, è corredato da una essenziale cronologia delle scoperte e da un glossario che spiega i termini scientifici meno noti usati nel testo. Tutto questo lo rende anche molto adatto ad una lettura per ragazzi. Il libro dei Gribbin si ferma alle soglie del XXI secolo. Che cosa è accaduto dopo e che cosa dobbiamo aspettarci come prossimi traguardi? Per saperlo, mi sono rivolto a Elena Ioli. Laureata in fisica teorica a Bologna, studia il linguaggio della scienza, con particolare attenzione all’uso e al ruolo delle metafore. Autrice con Daniele Gouthier de Le parole di Einstein, è consulente scientifico di Dedalo. Così ha risposto a quella mia domanda.
Il libro dei Gribbin tratteggia la storia di una vera e propria rivoluzione nella comprensione dell’universo, degli oggetti che lo abitano. Questa rivoluzione è avvenuta nell’arco di circa un secolo: meno di 100 anni fa gli astronomi credevano che l’Universo fosse composto dalle stelle della Via Lattea, e alla fine del XX secolo avevano stabilito, grazie all’uso di telescopi sempre più potenti e sofisticati, che la nostra galassia è solo una fra centinaia di miliardi di altre. Oggi esistono numerosi progetti di telescopi più grandi, come per esempio l'OWL, un progetto dell'European Southern Observatory che prevede la costruzione di un telescopio con singola apertura di 100 metri di diametro. Inoltre, come i Gribbin suggeriscono nelle conclusioni del loro libro, un simile telescopio sarebbe in grado di analizzare spettroscopicamente pianeti simili alla Terra che orbitano intorno alle stelle simili al Sole più vicine a noi, per individuare così l’eventuale presenza di molecole legate alla vita. E’ questa la grande sfida che dovrà raccogliere l’astronomia nel prossimo futuro. È stato stimato che un telescopio di 80 metri potrebbe essere in grado di analizzare spettroscopicamente pianeti simili alla Terra in orbita attorno alle 40 stelle simili al Sole più vicine. In questo modo potrebbe essere più facile l'esplorazione di pianeti extrasolari e di vita extraterrestre. John e Mary Gribbin “Oltre la Via Lattea” Traduzione di Elisabetta Maurutto Pagine 112; Euro12:50 Edizioni Dedalo
L'accusa del sangue
Da secoli i bambini ispirano ricette gastronomiche redatte da chef che si sprecano in consigli su come cucinarli al meglio. Ad esempio, di recente, ad Arcore, un attento lettore della materia, consultando testi scritti dal suo stalliere, ci ha ricordato che in Cina i comunisti, evidentemente a corto di condimenti, usavano mangiarli lessi. Che crudeltà! Pari solo a quella di genitori che portano i propri pargoli a un comizio di Forza Italia. E’ vero però che i bambini talvolta con la loro irrequietezza fanno venire la voglia di farli in fricassea, ma è bene frenare tali impulsi perché si possono passare guai giudiziari. Ariel Toaff (docente di storia presso la Bar-Ilan University di Ramat Gan, in Israele e figlio del più famoso rabbino italiano, Elio Toaff) non ha passato guai giudiziari, ma è stato costretto a ritirare il suo libro “Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali” scritto mentre era vittima di un’overdose di carciofi alla giudìa; egli, infatti, in quel volume sostiene che gli ebrei si cibassero di sangue infantile durante loro riti. Scrive il grande studioso di religioni Massimo Introvigne: Per la storiografia accademica, la questione è risolta da molti anni. L’“accusa del sangue” – che prosegue una calunnia lanciata dai pagani contro i cristiani, basata su una maliziosa incomprensione della nozione di “bere il sangue di Cristo” nell’Eucarestia – è un mito antisemita, la cui genesi può essere spiegata con una serie di elementi storici e sociologici precisi […] ancora oggi la televisione degli Hezbollah al-Manar, il governo siriano e quello iraniano, e più in generale tutto l’ultra-fondamentalismo islamico, utilizzano l’accusa del sangue per la loro propaganda anti-ebraica.
Un’altra risposta la fornisce un libro degli Editori Riuniti scritto da Ruggero Taradel, titolo: L’accusa del sangue. L’autore ha studiato storia delle religioni e filosofia all’università La Sapienza di Roma, presso la quale ha tenuto seminari sul rapporto tra Shoà e memoria storica e sulle connessioni fra antisemitismo e pensiero teologico. È autore, assieme con Barbara Raggi, del libro “La segregazione amichevole. La civiltà cattolica e la questione ebraica 1850-1945”, pubblicato nel 2000 dagli Editori Riuniti. Nel testo si spiega come l'accusa del sangue, quella che attribuisce agli ebrei l'uso di commettere omicidi rituali, è stata per secoli una delle armi più micidiali della propaganda antisemita. Anticipata nell'età tardoantica, elaborata nel corso del Medioevo, sfruttata in Spagna per agevolare l'espulsione degli ebrei nel 1492, l'accusa del sangue fu poi accreditata da Lutero, rilanciata dalla Chiesa cattolica sotto Leone XIII, diffusa dai movimenti antisemiti europei, adottata dalla Russia zarista, ripresa, infine, dai nazisti nel corso dell'attuazione della Soluzione Finale e utilizzata in Polonia per fomentare i massacri contro i sopravvissuti della Shoah nel 1946. Il libro presenta una ricostruzione complessiva e analitica della storia di quest'accusa, che permette di osservarne sotto una nuova luce la genesi, l'evoluzione, e di comprendere le ragioni profonde della sua artificiale fortuna. Ruggero Taradel “L’accusa del sangue” Storia e politica di un mito antisemita Pagine 400; Euro 21:00 Editori Riuniti
mercoledì, 21 marzo 2007
L'oscuro scrutare di Philip Dick
Venticinque anni fa, moriva 54enne lo scrittore americano Philip Dick. Nelle sue opere ha visitato quasi tutti i temi del suo presente (dalla fisica teorica alla storia delle religioni, dalle neuroscienze alle teorie economiche), e tutti i possibili punti di fuga: utopie politiche, fede, droghe. Su di lui sono stati scritti molti saggi che hanno indagato sui suoi magnifici deliri in cui s’intrecciano spiritualismo gnostico, allucinazioni anfetaminiche, profezie distopiche. Ora un nuovo aspetto della sua produzione è studiato da Gabriele Frasca - traduttore italiano di Un oscuro scrutare - in un volume da pochi giorni in libreria edito da Meltemi: L’oscuro scrutare di Philip K. Dick. Gabriele Frasca, scrittore e docente di Letterature Comparate, si è occupato di Medioevo, Barocco, Realismo, Modernismo e di teoria delle comunicazioni. Con il suo saggio, “La lettera che muore. La “letteratura” nel reticolo mediale” (2005), ha vinto il premio Roberto Colombi Guidotti per la critica.
A lui ho chiesto: Il tuo saggio esplora un'angolazione finora inedita (e non solo in Italia) nei pur numerosi studi pubblicati su Philip Dick: la relazione con il neo-liberismo e la Scuola di Chicago. Parlacene... Diciamo che ho messo in evidenza tutti i discorsi scientifici che Dick, che era un lettore onnivoro e appassionato, ha in vario modo intrecciato per allestire i suoi “altri mondi presenti”: dalla fisica teorica alla storia delle religioni, dalle neuroscienze a, per l’appunto, le teorie economiche della scuola di Chicago, divenute dominanti in America proprio a partire dai primi anni ’60. Concetti come quelli di ‘capitale umano’ (Theodor W. Schultz), o di tempo libero da intendere piuttosto come ‘consumo intensivo di tempo’ (Gary S. Becker), sono alla base dell’ossessione di Dick per simulacri, androidi, mondi paralleli e droghe che fanno scorrazzare fra futuro e passato. La sua è una sorta di ‘economy fiction’ (ma la stessa teoria economica non è altro che questo, ‘fiction’), da cui emerge sempre uno stato ultraliberista, autoritario, biopolitico e fondamentalista (l’Unione Sovietica è per lo più scomparsa nei suoi mondi paralleli, e dire che si era in piena ‘guerra fredda’). E questo stato, che Dick ha oscuramente scrutato, ora è qui: è il Sacro Romano Emporio nel quale viviamo. Gabriele Frasca “L’oscuro scrutare di Philip K. Dick” Pagine 264; Euro 20:50 Meltemi
Saturno contro chi?
Saturno configura un brutto oroscopo per gli spettatori di tutti i segni zodiacali che si recano a vedere il più recente film di Ferzan Ozpetek – nato a Istanbul nel 1959 – regista pressoché monotematico nel girare storie gay. Stavolta, con Saturno contro siamo lontani dalla grazia che lo assisteva in alcuni suoi precedenti titoli come “Il bagno turco” e “Fate ignoranti”. Qui viene inflitta una storia in cui la sceneggiatura non riesce a tenere insieme i circa dieci personaggi della vicenda che si muovono nelle mura della casa di Ozpetek dove è stata girata la storia che meglio sarebbe stato per noi tutti fosse stata proiettata soltanto in quello spazio domestico. Bravi attori quali Stefano Accorsi, Elisabetta Buy, Ennio Fantastichini, Isabella Ferrari, non vanno oltre una prova di routine raggelati da una regìa leziosa troppo innamorata del tema trattato, troppo compiaciuta nel ritrarre personaggi omosessuali, troppo incantata sul melodramma da soap opera da loro agito. Va detto – è proprio vero che mai si può stare tranquilli – che c’è una bella interpretazione di Ambra Angiolini (in foto). Da notare anche un cammeo di Milena Vukotic. Il tutto fotografato da Gianfilippo Corticelli, lontano dalla bella prova fornita con “Paz!” di Renato De Maria, e su musiche ovvie di Neffa distante dalla riuscita colonna sonora che realizzò per i Manetti Bros in “Torino Boys”. A questo s’aggiunga che il film soffre, e gli spettatori col film, di un finale che riesce ad essere al tempo stesso lungo in minutaggio e affrettato narrativamente. Attenti a questo film: ci avete Saturno contro, e pure il regista.
“Saturno contro” Sceneggiatura: Gianni Romoli e Ferzan Ozpetek Regia di Ferzan Ozpetek Durata: 110’00” In circuito in Italia dal 2 marzo ‘07 Distribuzione Medusa
lunedì, 19 marzo 2007
Piccolo dizionario dell'inuguaglianza femminile
Questo il titolo del libro che l'Editrice nottetempo ha voluto in libreria l’8 marzo. Data che non è ricordata col fervore d’un tempo, tra le mimose fanno capolino le rose (particolarmente raccomandate da Forza Nuova), le feste sembrano celebrare più un calendario del passato che non un momento del presente. Eppure, quanta attualità c’è in quella data che festeggia le donne, prime vittime oggi della recrudescenza sessuofobica cattolica e musulmana. Anche musulmana, vorrei che le donne della Sinistra lo ricordassero più spesso, invece, serpeggia fra parecchie di loro alquanto giustificazionismo in nome di un’asserita “diversità delle culture”, alla comicità involontaria non c'è limite. In questo scenario, quell’Editrice ha fatto un gesto elegante, utile e ammonitorio al tempo stesso. Lo ha fatto pubblicando una grande autrice: Alice Ceresa (1923 – 2001). Scrittrice ticinese, dal 1950 trasferitasi a Roma, dove ha lavorato come giornalista e consulente letteraria per la Longanesi, ha lasciato un inedito sorprendente, conservato nell'Archivio di Letteratura di Berna, un'opera cui la scrittrice lavorava da anni: Piccolo dizionario dell'inuguaglianza femminile, uscito a cura diTatiana Crivelli e con una postfazione di Jacqueline Risset. La prima volta che lessi la Ceresa fu molti anni fa, nel ’67, allorché in una bella (e presto scomparsa) collana dell’Einaudi – ‘La ricerca letteraria’, a cura di Guido Davico Bonino, Giorgio Manganelli, Edoardo Sanguineti – pubblicò “La figlia prodiga” vincendo il Premio Viareggio Opera Prima. Romanzo che smentiva il genere d’appartenenza, di aspra scrittura, sperimentale (ma collaudatatissimo) perfino dagli accorgimenti grafici usati. Successivamente, ha pubblicato pochissimo. Prima di scrivere questa nota sono andato a rileggere alcune pagine de ‘La figlia prodiga’ e c’è da sgomentarsi pensando a quanto la scrittura sia arretrata oggi che vive (… vive, si fa per dire) tra pubblicazioni tamar(r)riche, falettiane e melissiane. Ecco perché amo le edizioni nottetempo, perché è casa editrice che come gia notavo (vedi QUI) perfino quando pubblica narrativa – genere da me non particolarmente amato – lo fa proponendo qualità di prim’ordine. Piccolo dizionario dell'inuguaglianza femminile consiste in una quarantina di voci che procedono dalla parola ‘Anima’ alla parola ‘Vita’, rivelando gàbole e trappole tese nella scrittura e nell’oralità non soltanto alla donna, ma a tutti gli esiliati dalla parte onorifica del linguaggio. "Per me," scriveva la Ceresa alla sua traduttrice francese, "l'inuguaglianza femminile è ancorata nella intera visione del mondo; ergo, se io faccio un dizionario, devo fare il giro anzitutto delle radici di quest'albero dell'inuguaglianza”. L’autrice nelle varie, brevi, voci di questo ragionato dizionario compone la pagina con lento, puntiglioso accanimento, per poi scattare sull’ala dell’aforisma, come, ad esempio, quando scrive: “Di femminile la Svizzera ha soltanto il nome”.
Alice Ceresa “Piccolo dizionario dell'inuguaglianza femminile” a cura di Tatiana Crivelli postfazione di Jacqueline Risset pagine 106; Euro 12:00 edizioni nottetempo
Shakespeare non abita più lì
E’ del tutto comprensibile che pur di ruspare soldi in Siae si presentino testi con un proprio “adattamento”. Non è cosa soltanto di oggi, anche se adesso è ormai impossibile vedere un “testo di”, ma solo “testi da”; tale cosa la si può fare bene oppure male, di solito la si fa male, talvolta, però, s’esagera. Nel mettere in scena è possibile operare scelte d’ogni tipo, e tutte possono avere degne ragioni: vestire in jeans e maglietta personaggi di Euripide, fare agire il malato immaginario di Moliére nella scenografia di una Asl del Tiburtino III, rendere ginnasti acrobati i beckettiani Hamm e Clov… una cosa soltanto è intollerabile: inventare d’insana pianta battute che nel copione originale non esistono; lo fanno in parecchi, citerò appresso un caso recente. E’ sleale. E, al tempo stesso, rivela che non essendo capaci di comunicare attraverso la regìa il senso della propria visione del testo, si scrivono battute che la giustificano. Se poi questo lo si fa con autori niente male, ad esempio Shakespeare, peggio mi sento. E’ capitato. Che gli inglesi siano robusti bevitori è noto, ma che i dirigenti della Royal Shakespeare Company deliberassero nel corso di una sbornia collettiva è una piccante notizia. Tacendo della etilica condizione in cui è stata presa una certa decisione, l’autorevole Franco Quadri, a sua volta vittima di un’overdose di melanzane alla parmigiana, c’informa commosso dell’edizione dell’Enrico V di Shakespeare allestita da Pippo Delbono ospitata proprio nella città natale del Bardo allo Swan Theatre. “L’allestimento prevede” – dice Quadri nella sua febbricitante cronaca – “l’attore-regista irrompere in scena gridando ‘Voglio la Francia!’, battuta che Shakespeare mai ha scritto”. E ci è andata bene, aggiungo io, quello lì era capace d’esclamare pure: “Voglio la Ciociaria!”. A quando una battuta che preceda il famoso monologo dell’Amleto e dica: “Mi sorge un dubbio”? E ancora Quadri intrepido: “Delbono sopprime al massimo i riferimenti e i particolari li semplifica”… ma certo, ha fatto bene, quel William lì ci ha il vizio di buttarla sul complicoso… pfui!. Il tutto – conclude Quadri in pieno trip melanzanico – tra “gridi e salti equini”, e qui il regista, candido, sembra voler dare ragione a eventuali maligni (ce ne sono in giro) sempre a consigliare di darsi all’ippica chi firma (a segno di croce) certe regìe. Si dirà: se la Siae paga bene traduzione e adattamento, meglio ancora paga un testo originale. La fate facile voi! Per scrivere un testo di proprio pugno dal principio alla fine è necessario aver fatto almeno una parte della scuola dell’obbligo.
venerdì, 16 marzo 2007
Artifex
Vecchia querelle quella del distinguo fra artigianato e arte. Dibattito che va dagli antichi filosofi greci fino ad oggi. E qui, forse, con i postmoderni c’è stata una svolta in quanto quei teorici (e perfino coloro che a quelli s’oppongono) affermano adesso che l’opera, qualunque opera, esprime un linguaggio; la lite poi continua sulla quantità d’informazione in essa contenuta, sulla trasmissione, e su altro ancora, ma almeno una cosa sembra assodata che “non è difficile vedere la parentela di sangue tra arte ed artigianato” come sostiene Janet Koplos. Insomma sembra definitivamente superata la distinzione prodotta dall’idealismo fra “cultura alta” e “cultura bassa” in un’epoca in cui i nuovi media propongono in campo artistico la cultura del “taglia e incolla”, la miscelazione dell’uso dei materiali e delle tecniche.
Una mostra che riflette su tali temi è Linea: il sottile confine fra artigianato e arte presentata a Napoli dalle Officine Abso nella loro sede. Saranno esposte le deliziose sculture in terracotta di Valentina Balsamo; le filologiche ricostruzioni di carri miniaturizzati di Lorenzo Caso; le danzerine d’ottica olografica (in foto) da antiche memorie oleografiche di Giada Morsillo; l’inventiva rivisitazione della pittura su “riggiole” (piastrelle) di Marco Salerno. Queste “Officine Abso” sono da tenere d’occhio perché propongono un progetto che operando sull’oggi lancia collegamenti espressivi fra ieri e domani; dicono, infatti, sul loro sito Marco ABbamondi e Attilio SOmmella , i due artisti che guidano ABSO: Ci piace fare scorrere su più cursori una molteplicità di esperienze estetiche, e anche in futuro accanto agli esiti artistici delle nuove tecnologie, ospiteremo la rivisitazione, in chiave contemporanea, di antiche pratiche creative. Officine Abso “Linea: il sottile confine fra artigianato e arte” Salita Betlemme 18, Napoli Info: ufficiostampa@abso.it Da domani fino al 25 marzo
Navigare necesse est
Pare che così disse Pompeo ai marinai che, spaventati da una tempesta, esitavano a salpare. Sembra che aggiungesse a quel motto: vivere non necesse. E qui il condottiero romano francamente esagerava perché come si faccia a navigare senza essere in vita è cosa risaputamene problematica. Sia come sia, il tema della navigazione, sia nel senso metaforico della ricerca sia in quello internettiano è stato assunto come perno del programma di Galassia Gutenberg che inaugura oggi la sua XVIII edizione. Tanti gli stands, tanti gli incontri in cartellone con autori ed editori, per saperne di più, cliccate QUI.
Fra i molti dibattiti previsti, ne scelgo tirannicamente uno ch’è centrato su di un tema al quale i media farebbero bene a dare più risalto: gli archivi musicali. Si svolgerà lunedì 19, alle ore 11.30 nella sala Robinson Crusoe. L’Italia, fra pubblici e privati, ne ha alcuni tra i maggiori al mondo, archivi che Rocco Buttiglione – durante il suo operato ai Beni Culturali – non è riuscito a distruggere, fallendo così quello ch’era uno dei suoi principali intendimenti. A dibattere: Goffredo Haus - Fabrizio Meli – Patrizia Rebulla – Luciano Scala. Dice acutamente Paola Mazzucchi che coordinerà l’incontro in collaborazione con il Giornale della Libreria: E’ evidente che il nodo cruciale del processo di valorizzazione degli archivi musicali attraverso l’uso delle tecnologie digitali non può che essere l’accesso: a che servirebbero degli archivi digitali se essi non fossero consultabili? Estremizzando ulteriormente il concetto: a che servirebbero 10, 100, 1.000 archivi, pur consultabili, se poi l’utente dovesse effettuare 10, 100, 1.000 ricerche per trovare ciò che sta cercando? Domande di buon senso che ne sottendono altre di portata «infrastrutturale». E’ ipotizzabile creare un network, italiano e internazionale, di archivi interrogabile e accessibile? E a quali condizioni? Come possono aiutare le tecnologie (standard, metadati, ontologie)? Tenendo presente che il settore della musica digitale sta acquisendo una quota di mercato molto interessante e che la partita i tra i competitor (Apple, le Telecom, ecc.) in futuro si giocherà anche sui servizi: certamente ampiezza del catalogo, o specializzazione spinta, ma anche ricchezza e attendibilità delle informazioni, possibilità di integrare l’offerta, ecc. E se dicessimo che il futuro degli archivi musicali è da ricercarsi nel percorso che da tutela (digitalizzazione) porta alla valorizzazione (accesso) e infine allo sfruttamento (commercializzazione), con tutte le gradazioni intermedie del caso, saremmo molto fuori strada? Per i redattori della carta stampata, delle radiotv, del web: Promozione eventi: Monica Zunica, monicazunica@fastwebnet.it Ufficio stampa: De Lucia Levèque Associati, delev@iol.it Galassia Gutenberg 16 – 19 marzo Expo Napoli, Palazzo dei Congressi Stazione Marittima - Molo Angioino
giovedì, 15 marzo 2007
Celluloide caprese
Uno scrittore che mai delude sia nelle sue pagine narrative sia in quelle saggistiche è Sergio Lambiase. Un anno fa m’occupai in questo spazio web del suo “Terroristi brava gente” (per saperne di più, cliccate QUI) romanzo fra il grottesco e l’icastico, una sorta di slapstick sul filo della Storia. Ora, è in libreria CapriMovies una memoria di Capri vista attraverso i film lì girati. Libro che è anche una ghiottoneria per i cinéphiles. Ho incontrato, dopo un viaggio spaziale di tempo fa, Sergio Lambiase.
Già in passato t’eri occupato di Capri… Si, mi sono in passato occupato di Capri e dei ‘Wandervögel’ (gli uccelli migratori) che trasformarono l’isola nella provvisoria dimora delle loro inquietudini d’artista. Questa volta ho voluto inseguire i modi e le forme attraverso cui il mito di Capri si è incarnato nel cinema fino ai suoi esiti più alti (vedi “Le mépris” di Jean-Luc Godard con Brigitte Bardot che si tuffa nuda dallo scoglio di Villa Malaparte). L’elenco dei film dedicati all’isola è lunghissimo a cominciare da una breve sequenza del 1903: “Tourists Landing at Island of Capri”, girata da Alfred C. Abadie, un operatore della Edison in viaggio di piacere nel Mediterraneo. Da quel momento l’isola diventa un enorme, suadente set all’aria aperta. E' possibile tracciare fra tanti autori che hanno girato film a Capri un minimo comun denominatore ispirato loro dall'isola? Anche i film più ‘sbarazzini’, da “Un jeans e una maglietta” con Nino D’Angelo al “Secondo tragico Fantozzi”, con Paolo Villaggio che va a sbattere con gli sci sui Faraglioni, sono dominati da quella sinfonia del blu – das blaue Licht - che suggestionò tanti artisti tedeschi, fin da quando August Kopisch penetrò nella Grotta Azzurra creando il mito artistico e turistico di Capri. Attraverso i film, dove comincia il declino di Capri come centro di mondanità e cultura? Curiosamente proprio “L’imperatore di Capri” con Totò ha suggellato, nel 1950, la fine di un’epoca e il tramonto dei ‘Wandervögel’. Il film di Luigi Comencini li trasforma infatti in gagà, in caricature della stravaganza, mentre sta per arrivare il turismo di massa. Sergio Lambiase "CapriMovies" Pagine 179; Euro 55:00 Volume in cofanetto con immagini a colori e in b/n Edizioni La Conchiglia
martedì, 13 marzo 2007
Street Art, Sweet Art
L’arte di strada ha varie declinazioni che vanno dall’improvvisazione teatrale, a quella musicale, dai numeri circensi di jongleurs e acrobati alle arti visive. La dizione “street art”, per convenzione, è però riferita a quella tendenza pittorica che si realizza, prevalentemente con vernici a spruzzo, su pareti di edifici, cabine telefoniche, convogli pubblici. Nata negli Stati Uniti a partire dagli anni ’70 nelle comunità afroamericane, esprimeva ansietà e rabbie delle aree sociali più disagiate. Successivamente si diffuse anche in Europa dove si legò ai movimenti della controcultura divenendo un mezzo per messaggi di natura politica, di protesta e irrisione verso governi, multinazionali, grandi marchi pubblicitari. Parallelamente allo spontaneismo di queste creazioni, alle tecniche graffitiste prese a interessarsi negli US il mondo dell’arte istituzionalizzata con i primi successi dei tags di Jean-Michel Basquiat (1962 – 1988) e dei pieces di Keith Haring (1958 – 1990). Tale appropriazione da parte dell’arte ufficiale determinò crisi e mutamenti in quella produzione anche se l’ideologia di base rimase, e rimane, la stessa di anni fa. Spesso tornano discussioni accese su chi vorrebbe questi artisti castigati dalle autorità cittadine, considerati, non di rado, vandali. Vandalo è chi deturpa monumenti o angoli di paesaggio urbano, ma non sono quelli della street art a farlo, bensì i partiti politici con i loro manifesti e la pubblicità. Il writwer sta al vandalo, come l’hacker sta al cracker. Altri nomi di quell’arte oggi sono venuti alla ribalta. Uno per tutti, il celebrato Banksy. Fa provocatorie installazioni urbane, combatte la sua guerra contro ipocrisie e orrori della società contemporanea. E se sceglie i musei al posto della strada, lo fa da clandestino, introducendo di nascosto le sue irriverenti tele in mezzo ai capolavori della storia dell'arte. La più recente delle tecniche di street art, s’affida non più alle bombolette ma a improvvise e gigantesche proiezioni laser che inscrivono sui grattacieli delle grandi imprese o enti governativi, immagini e scritte. A questo universo creativo è dedicata una mostra al Pac di Milano: Street Art, Sweet Art: dalla cultura hip hop alla generazione pop up. N’è curatore Alessandro Riva con il coordinamento di Davide "Atomo" Tinelli. Tra gli eccellenti nomi selezionati per quest’esposizione, noto con piacere un artista che molto stimo: Ozmo, non a caso lo invitai ad una piccola mostra dei suoi lavori in questo webmagazine; per vedere sue opere, cliccate QUI.
Il catalogo è stato stampato da Skira. Per i redattori della carta stampata, delle radiotv, del web: Ufficio Stampa De Angelis "Street Art, Sweet Art. Dalla cultura hip hop alla generazione pop up" Padiglione d'Arte Contemporanea Via Palestro, 14 Milano Info: 02 – 76 00 90 85 Fino al 9 aprile 2007 Ingresso gratuito
lunedì, 12 marzo 2007
Un italiano alla corte di Mayette
C’è un teatro che, pur apprezzato dai più raffinati intenditori, pur noto ai critici più attenti, non sempre lo si ritrova in cartellone nei più celebrati teatri italiani. A volte, però, basta mettere la punta del naso fuori dei nostri confini per avere conferma del suo valore e notare come altrove sia destinato al grande circuito e a grandi pubblici. E’ il caso di Spiro Scimone, autore che distilla i suoi testi con cadenza quasi triennale (cinque in dodici anni dal “Nunzio” dell’esordio nel 1994 al recente “La busta”) e gli spettacoli che ne nascono, realizzati da sempre con Francesco Sframeli, non si consumano in paio di stagioni, ma anno dopo anno sono ripresi in Italia e soprattutto all’estero. Proprio dall’estero, dalla più prestigiosa istituzione culturale d’oltralpe, arriva ora un riconoscimento che corona il lavoro di anni: La festa, scritto nel 1997, andato in scena per la prima volta nel 1999 alle Orestiadi di Gibellina, entra alla Comédie Francaise e viene rappresentato al Théâtre du Vieux Colombier da domani e per oltre un mese fino al 22 aprile. La festa è stato il primo copione scritto da Scimone in lingua italiana, un italiano con dialoghi brevissimi, con un uso molto musicale, quasi jazzistico, della frase, con un ritmo costruito sulla ripetizione tra domande e risposte, con momenti in cui la tensione drammatica sotterranea si traduce in vera comicità; va perciò sottolineato il riuscito lavoro della traduttrice Valeria Tasca. I testi di Scimone sono già noti in Francia e vengono pubblicati dalla storica casa editrice “L’Arche”, da sempre rivolta alla scrittura teatrale contemporanea con un catalogo di 700 titoli che raccoglie il meglio del teatro mondiale. E certo anche il prestigio dell’editore può aver influito sulla scelta di Muriel Mayette, prima donna a capo della Comédie, che ha voluto inaugurare con “La festa” una strategia dell’attenzione alla drammaturgia italiana, fin qui poco rappresentata, se si eccettuano i grandi classici Goldoni e Pirandello, il D’Annunzio della “Fiaccola sotto il moggio”, il “San Francesco giullare di Dio”, di Dario Fo, “Orgia”di Pier Paolo Pasolini. Ricordo ai più distratti che Scimone è anche autore di uno splendido film: Due amici. Nel giugno scorso, durante il Festival Asti-Teatro, gli chiesi: in che cosa è rintracciabile un'unità stilistica fra il tuo cinema e il tuo teatro?
Gli spettacoli teatrali che facciamo Francesco ed io e il nostro film sono sempre nati dal bisogno di voler comunicare attraverso l’essenzialità. Per raggiungere tale essenza e poter comunicare bisogna che, nel teatro e nel cinema, gli autori, gli attori, siano sempre in relazione tra di loro. Per poter comunicare è necessario saper ascoltare. Ascoltare le parole, il silenzio, il corpo, lo spazio. L’ascolto è indispensabile nel nostro modo di fare teatro e cinema.
Una matita scomparsa
Giorni fa se n’è andato Osvaldo Cavandoli, detto “Cava”. Forse ai più giovani e a coloro che non sono addentro al mondo dell’animazione o della pubblicità, il suo nome dice poco, ma tutti hanno visto il suo omino fatto di una linea che attraversa buffe avventure, ora imprecando ora ridendo e parlando con un vocabolario fatto di suoni onomatopeici dalla vaga cadenza milanese cui dava voce Giancarlo Bonomi. Nato a Maderno sul Garda nel 1920, Cavandoli, giovane disegnatore meccanico all'Alfa Romeo, un giorno seppe che Nino Pagot, un grande animatore di quei tempi (siamo negli anni ’30), cercava dei collaboratori; si presentò, fece qualche schizzo e venne scritturato. Negli anni ‘50 fonderà “Pupilandia” casa di produzione specializzata in animazione a pupazzi animati. La Linea venne ideata da Cavandoli solo nel 1968, un piccolo capolavoro premiato in numerosi festival, diffuso dalle reti tv di oltre quaranta di paesi, protagonista di numerose campagne pubblicitarie, libri, opere illustrate. Ad innamorarsi della ‘Linea’ fu per primo Emilio Lagostina, industriale e collezionista d’arte, e da lì nacque una fortunata serie di Caroselli. “L'associazione tra il personaggio e l'oggetto pubblicizzato” – scrive Marco Belpoliti – “diventa mortale per la creatura di Cava. Una sorta di puritanesimo antipubblicitario gli blocca la strada: l'accusa di pubblicità indiretta. Cava ne è amareggiato, ma incassa questa censura. Lavora per l'estero su temi comico-erotici: un approccio ironico all'eros per la televisione tedesca. Nel 1997 La Linea torna in televisione come sigla per Pinocchio, la trasmissione di Gad Lerner, di cui Cava disegna la sigla. Purtroppo Cava, che ha lavorato negli ultimi anni in uno studio a poche centinaia di metri dalla Rai milanese di corso Sempione, è stato cancellato dal paesaggio televisivo italiano, e non ha avuto la gioia di veder tolto l'embargo sul suo personaggio”.
Per vedere una sua famosa pubblicità del 1976, cliccate QUI.
venerdì, 9 marzo 2007
Una rondine bianca
La Galleria bresciana "Nuovi Strumenti", guidata da Piero Cavellini, in un nuovo momento della sua stagione espositiva presenta lavori di Cecilia Guastaroba. Nata nel 1967, è nel mondo dell'arte dai primi anni '90, dopo aver frequentato l'Accademia di Brera. E proprio a Milano Guastaroba ha cominciato il suo itinerario, appena uscita dal corso di pittura di Luciano Fabro. Fornita di una forte sensibilità teatrale, conferisce alle sue installazioni senso scenico dello spazio. Frequenti le sue incursioni nella dress art, come le lunghe vesti da lei stessa cucite o le scarpette rosse, qui in foto. Dice l'artista: "Le scarpette rosse di Andersen punivano la ragazza vanitosa, ora sono legate non possono più nuocere. Eppure l'orologio continua a girare senza fermarsi mai, non segna più l'ora (le lancette sono bloccate), le scarpette dondolano senza sosta"
In questa mostra in corso presenta una serie di apparizioni. La prima, che dà il titolo all'esposizione, deriva da un fatto di cronaca da lei raccolto tempo fa: un mattino nei cieli della provincia bresciana è comparsa una rondine totalmente bianca. Un'apparizione, forse una manifestazione degli dei: Avata Ra, come ha voluto intitolare con parola sanscrita la mostra. Ed ecco la sagoma della rondine ed una veste con ali della stessa. Una manifestazione più estrema si materializza in un'installazione sotterranea dove ricostruisce i resti di un corpo dilaniato da una bomba a frammentazione. Cecilia Guastaroba Avata Ra Galleria Nuovi Strumenti P. Tebaldo Brusato 2, Brescia Info:nuovistrumenti@pierocavellini.191.it Fino al 21 aprile
giovedì, 8 marzo 2007
Borat
E’ un’ingiustizia che non esista un Oscar d’assegnare agli uffici stampa. Mi piacerebbero dei premi (anche in àmbito letterario, teatrale, e così via) per chi svolge quel difficilissimo lavoro non sempre valutato dai committenti come ruolo strategico, qual è, tanto da affidarlo, in Italia soprattutto, spesso a degli incapaci. Non sai fare questo né quello? Bene, farai l’ufficio stampa. E seguono fatalmente gags. Tutt’altro discorso per l’ufficio stampa che ha curato Borat: meriterebbe l’Oscar. Mica scherzo, dico proprio sul serio. E’ riuscito, infatti, travolgendo anche menti di critici attenti, a farlo passare come una rivelazione, un capolavoro di comicità, una cosa da non perdere, puntando sul piccante di un politicamente scorretto che quel film proporrebbe. Ed è riuscito nell’intento. Chapeau! Borat forma estrema di politically incorrect? No, il solo scandalo che contiene è la bruttezza e l’insincerità di chi lo ha scritto, diretto e interpretato. Inoltre, s’afferma che sia girato con la tecnica della candid camera, non è vero, solo in pochi momenti. Perfino il taglio pulito delle inquadrature lo dimostra. Sono stati usati, a parte i due protagonisti, attori non professionisti che conferiscono con la loro naturale incertezza sul set un senso d’estemporaneità. Le sboccate battute contro ebrei, donne, negri, omosessuali, poi, non le fanno più neppure in un bar della Lega Nord perché, perfino là, sanno che sono vecchie e non fanno ridere. Fin qui ci troveremmo dinanzi solo un film volgaruccio e noiosetto, ma un’altra cosa c’è. Borat, interpretato dall’attore inglese Sacha Baron Cohen (autore del soggetto, partecipa alla sceneggiatura) nel ruolo di un reporter kazako che va negli States per girarvi un documentario tv, ha la presunzione di voler dimostrare quanto siano beceri gli americani e qui, ancora una volta, l’ufficio stampa ci ha preso. Ha battuto tanto su questo tasto da far parteggiare per il film, in America, tutti, o quasi, i liberals (e sono decine di milioni), in Europa la sinistra che detesta gli statunitensi e la destra - con alcuni che veramente si divertono e altri costretti a fingere di farlo - alle irrisioni di Borat. A dispiacersi, a fare proteste diplomatiche, sono stati i kazaki, ma si sa non contano, o meglio, con il loro risentirsi hanno dato un’involontaria mano a quell’ufficio stampa. Che in America ci siano fior di reazionari (... perché in altre parti del mondo no?) è risaputo, ma più di una volta nel corso della proiezione mi sono sentito dalla parte di quegli americani (non sempre reazionari) infastiditi nelle strade e nelle case da quel Borat che merita ampiamente calci nel sedere. Non credo che la cultura kazaka oggi sia evoluta quanto l’occidentale (il lontano passato dei paesi spesso è grandioso, ma Pericle oggi non passeggia per le vie d’Atene, né Orazio a Roma) e che vivere ad Astana sia meglio che vivere a New York, però ad ascoltare le usanze kazake proclamate con fierezza da Borat si forma nelle menti di molti verso quel popolo addirittura un’irrisione ben più potente di quella provata di fronte ad alcune aberranti dichiarazioni di americani fintamente intervistati e realmente esistenti. Uscendo dal cinema - solo qualche rara risata, mai collettiva, ma del solito tale che vuol far intendere che si sta divertendo tanto tanto - ho corso il grave rischio di rimpiangere il duo dei Fichi d’India. Poi mi sono detto: no, non bisogna darla vinta a Borat.
Borat Con Sacha Baron Cohen Regìa di Larry Charles Durata: 84’00” Protagonista doppiato da Pino Insegno Distribuzione 20th Century Fox Dal 2 marzo nelle sale italiane
Dreams up life
Una nuova rivista, Dreams up life, è nata da un progetto del fotografo Cristian Corradin. E' una operazione a mio parere di valore, che merita di essere seguita per un paio di motivi che vanno oltre quelli di una rivista di un settore - anche se di fascino -, il surf da onda. Da una parte una scelta di fondo "filosofica", che vede nel surf una disciplina con caratteristiche che vanno oltre il puro gesto sportivo o di costume, e che lo avvicinano a una forma d'arte in cui il rapporto uomo-natura è esaltato in sommo grado, dove i merli della corona del mare - le onde - vengono impreziositi da una figura che solca, assecondandola, la sua grande potenza. Su questo filo la rivista si propone con bellissime immagini e brevi testi, che parlano di mare, uomini, donne, di onde e passioni. Passioni come quella fotografica che fa esprimere a Corradin un suo credo nell'immagine su pellicola, non digitale, scelta o pensiero sicuramente controcorrente, coraggioso direi, che è implicitamente una dichiarazione di poetica nei confronti del mondo. Al momento, la rivista è al primo numero, gratuita, formato A4, con ipotetica cadenza trimestrale, e viene distribuita nei surf shop della penisola. Necessita ancora di piccole correzioni di tiro e una maggiore attenzione ai testi, ma si avvale già di un impianto grafico notevole, come di una straordinaria shock cover qui mostrata; la foto, è di Alessandro Puccinelli, premio al B&W Spider Awards. Con i migliori auguri per un radioso futuro, siamo già in attesa dei nuovi numeri.
mercoledì, 7 marzo 2007
Filosofia intorno al buco
Aldilà di riferimenti maliziosi, la parola “buco” compare spesso in questi tempi sulla stampa: buco nell’ozono… buco nero nei cieli… è di ieri la notizia di un buco negli abissi che permetterebbe di raggiungere il centro del nostro pianeta. Riflessioni sul buco le si ritrovano anche in filosofia.
Scrive l’epistemologo Roberto Casati: “Il buco rappresenta un caso paradigmatico a più d’un titolo per le sue implicazioni filosofiche e cognitive nella rappresentazione spaziale. Molte delle operazioni che effettuiamo nello spazio hanno a che fare, in un modo o nell’altro, con buchi di tutti i tipi. Vi nascondiamo dentro delle cose, ve ne facciamo passare attraverso delle altre, li riempiamo, li svuotiamo, li usiamo per tener fissi certi oggetti, e via dicendo. In molti casi, il concetto stesso che abbiamo di determinati oggetti - come i colapasta o lo stesso groviera - sembra il concetto di qualcosa che è intrinsecamente bucato. D’altro canto, i buchi costituiscono un perfetto esempio di entità che i filosofi hanno cercato di espellere dall’elenco degli oggetti che fanno parte del mondo. Da espellere, per esempio, seguendo una strategia che potremmo chiamare di “eliminativismo aggettivale”: provando cioè a dimostrare che ogni descrizione del mondo che fa riferimento implicito o esplicito a questi entia non grata (‘C’è un buco in quel pezzo di formaggio’) può essere parafrasata con pari potere espressivo da una descrizione che non vi fa riferimento (‘Quel pezzo di formaggio è bucato’). Si tratta di una strategia abbastanza comune, nelle sue linee generali, a molte forme di non-realismo. E nel caso dei buchi sembra suggerirsi da sola”. L’esempio sul formaggio portato da Casati s’adagia, manco a dirlo, come il classico cacio sui maccheroni in questa nota che ricorda l’originale concorso fotografico (scade il 30 marzo) ideato da Emmentaler; per saperne di più, cliccate QUI. Vedere l’insolito in ciò che è comunemente privo di ispirazione, cioè un buco, è anche il tema della mostra Buchi. Magia degli Spazi vuoti, in programma a Milano dal 17 al 29 aprile presso Forma. Un percorso visivo attorno al tema del buco visto come metafora dei nostri tempi. Oltre quaranta immagini, tutte provenienti dagli archivi di Reuters/Contrasto presenteranno il punto di contatto tra mondi differenti: un passaggio magico dove il buco è da considerare un “pieno” di significato anziché un “vuoto”. I lavori dei vincitori del concorso indetto da Emmentaler saranno visibili per tutto il periodo dell’esposizione. La mostra si articolerà in 4 categorie: * Sguardi Guardare, osservare, spiare, fissare, considerare, mirare, adocchiare, avvistare, contemplare, ammirare, sbirciare. * Pietre che parlano Concrezioni raccolte attorno a un foro, una corona minerale sul capo del vuoto per renderlo ancora più magnetico. * Magie rotonde Avvolto nel suo mistero, il cerchio magico inverte i poli magnetici, addomestica le fiamme, muta i sentimenti, incanta i serpenti. * Dall’altra parte Varco di passaggio, punto di transito che si trasforma – ad esempio, la pula in riso – in una catena infinita di mutazioni. Non tappa buchi, al contrario, è efficientissimo l’Ufficio Stampa di Costanza Zanolini: czanolini@eidos-pr.it , 02 – 89 00 870.
martedì, 6 marzo 2007
Io, l'erede (1)
Diceva Henri Bergson “L’assurdo nel comico appartiene alla stessa natura di quella dei sogni”. Ben s’attaglia quella riflessione dell’autore de “Il riso” ad una delle commedie di Eduardo dove l’assurdo pare a un tratto non più tale, come se la logica si fosse concessa un sogno mantenendo un nebbioso ricordo del suo rigore da sveglia. La commedia è Io, l’erede scritta in napoletano nel 1942 e riscritta in italiano nel 1968. Il sipario s’apre su Amedeo Selciano, riunito con la sua famiglia, da sempre impegnata in opere di beneficenza, che parla dei recenti funerali di Prospero Ribera il quale per trentasette anni era stato ospite in quella casa, grazie alla generosità del vecchio Selciano. Quand’ecco che si presenta il figlio di Prospero, Ludovico, ed esige il posto del padre, a suo avviso reso improduttivo dalla sfacciata magnanimità della famiglia. Nonostante un certo sconcerto e imbarazzo, nessuno dei Selciano riesce a contrapporre validi argomenti alle motivazioni addotte con forza da Ludovico. Dal paradosso iniziale si passa così alla vita quotidiana, che non manca di riservare sorprese al povero ospite: sarà veramente solo il buon cuore ad aver spinto la famiglia Selciano ad accogliere il padre in casa propria? "Io, l'erede", debutta oggi al Valle di Roma per la regia di André Ruth Shammah che nella sua lettura sviluppa la vicenda accentuandone i lati comici e grotteschi grazie a un cast di talento capeggiato da Geppy Gleijeses e con Leopoldo Mastelloni en travesti nel ruolo di zia Dorotea. Lo spettacolo, con la partecipazione di Marianella Bargilli, vede in scena Umberto Bellissimo, Margherita Di Rauso, Gabriella Franchini, Antonio Ferrante, Ferruccio Ferrante, Valentina Tonelli. E’ una produzione Teatro Stabile di Calabria – Teatro Franco Parenti.
Ufficio Stampa Simona Carlucci: carlucci.si@tiscali.it Ufficio Stampa Teatro Eliseo: Luana Nisi, uffstampa@teatroeliseo.it “Io, l’erede” Teatro Eliseo Roma Fino al 25 marzo ‘07 Poi prosegue in tournée
Io, l’erede (2)
Protagonista de “Io, l’erede” è Geppy Gleijeses attore, autore, regista, nato a Napoli nel 1948. Di lui scrissi qui già un anno fa allorché interpretò il ruolo del Dottor Higgins nel Pigmalione di Shaw, non mi resta che confermare quanto detto in quella nota. Anche per questa commedia di Eduardo, ha raccolto vasti consensi, ad esempio, scrive di lui Masolino D’Amico su La Stampa: “Geppy Gleijeses è un maestro di stile, e il suo Ludovico è un signore severo, determinato, persino inquietante…”. E Magda Poli su Corriere della Sera: “Geppy Gleijeses è un bravissimo Ludovico cesellato da toni di cattiveria acuminata, di disprezzo guidato da lucida intelligenza, di ironia con picchi di sarcasmo”.
A Geppy Gleijeses ho chiesto: come si situa “Io, l’erede” nella produzione eduardiana?
E’ l’ultimo testo della “Cantata dei giorni pari”, quelli della gioventù e della spensieratezza ma in realtà appartiene già alla “Cantata dei giorni dispari”, quella dei grandi capolavori, della maturità, del dolore, della riflessione e spesso della vendetta. Che cosa ti affascina del personaggio di “Ludovico”? E’ un grumo di passioni e di dolore inespressi, un finissimo ragionatore, spietato e affascinante, solo contro il mondo. Io l’ho incontrato e l’ho amato subito e porto con me il suo carico di sofferenza. Solo chi ha sofferto può interpretare un ruolo come questo. Mi ha dato nomination agli ‘Oscar Eti – Olimpici del Teatro’, primo napoletano ad averla, tanti premi, gioie e soddisfazioni ma condivido con lui tutta la sua profondità e il suo enigma. “Io, l’erede” fu una delle cause della separazione tra Eduardo e Peppino, che non gradì il ruolo che il fratello aveva scritto per lui. Che cosa, secondo te, non gradì? E invece Eduardo credeva di avere scritto per Peppino il ruolo più bello! Credo che comunque il problema non fosse il ruolo ma il logoramento inarrestabile del loro rapporto. Solo due anni dopo Peppino se ne sarebbe andato per sempre sbattendo la porta.
lunedì, 5 marzo 2007
Errore di Sistema (1)
Palazzo delle Papesse a Siena: è diventato uno dei centri italiani più vitali nell’area dell’arte contemporanea presentando, con assiduità di date e alto profilo qualitativo, una serie di mostre che documentano gli aspetti più interessanti di quanto va svolgendosi oggi intorno a noi, in Italia e all’estero nelle arti visive. L'edificio in origine era chiamato Palazzo Piccolomini in quanto costruito, tra il 1460 e il 1495 su disegno di Bernardo Rossellino, per Caterina Piccolomini, sorella di Pio II, da cui l'attuale nome Palazzo delle Papesse. Nel 1884 fu acquistato dalla Banca d'Italia, che fece eseguire diverse modifiche per renderlo funzionale alle nuove esigenze. Dal 1998, restaurato, è diventato l'attuale centro di cui prima dicevo. Tra i suoi tanti meriti, mi piace ricordare ch’è anche il primo, e finora unico, Museo d’Arte Contemporanea - a dirigerlo Marco Pierini - ad attrezzarsi in Italia con una propria radio ch’è anche ascoltabile sul web; l’antenna, oltre ad approfondire i temi delle mostre in corso, propone trasmissioni che dibattono sui temi emergenti delle arti dei nostri giorni esplorando le ibridazioni fra i generi e presentando performances acustiche di artisti, brani musicali, libri di critica. L’anno espositivo 2007, si è aperto con Errore di sistema-System Error, mostra che attraverso le opere di oltre 40 artisti provenienti da vari paesi europei ed extra europei ragiona sulla follia delle guerre in corso. Guerre spesso oggi oscurate da un’anestesia delle coscienze prodotta non solo dalla propaganda dei governi, ma anche dalle litanie dei media i quali dietro cronache dagli accenti rituali rendono sempre più fiacche le indignazioni, causando una sorta di rassegnazione dinanzi a fatti che ben altra reazione richiederebbero. Errore di sistema-System Error è ideata e realizzata da Lorenzo Fusi, curatore capo del Palazzo delle Papesse, e dall'artista Naeem Mohaiemen i quali nel selezionare i nomi presenti nella mostra, accanto alla generazione di pionieri internazionalmente riconosciuti (Chris Marker, Walid Raad, Lebbeus Woods), hanno posto artisti emergenti (Chris Naka, Rheim AlKadhi, Yara El-Sherbini), e – cosa rara ai nostri giorni nelle grandi istituzioni - anche artisti che non hanno mai esposto prima in contesti museali, ad esempio, Chaleerat Ngamchalee. La ricerca, però, non s’è fermata qui perché i due curatori hanno anche raccolto materiali durante manifestazioni di protesta, concerti, navigazioni su YouTube e Flickr. Particolare attenzione hanno dedicata ai lavori che utilizzano nuovi media. Animazioni in Flash (Young-Hae Chang), parodie hollywoodiane (Chris Naka, Jackie Salloum, Christopher Moukarbel), satira televisiva (Yara El-Sherbini), guerre via t-shirt (Usman Haque), fumetti (Joe Sacco, Dawolu Jabari Anderson), videogiochi (Jon Haddock), ricostruzione di biblioteche (Tom Nicholson), remix (DJ Spooky), performance di strada (Richard DeDomenici), pirateria radiofonica (Negativland), musical (Damir Niksic). Per un esaustivo elenco dei nomi presenti, cliccare QUI.
A supportare System Error - Errore di sistema c’è Tra Art. Il catalogo, in edizione bilingue italiano/inglese, è edito da SilvanaEditoriale. L’Ufficio Stampa è ottimamente guidato da Carlo Simula: stampa.papesse@comune.siena.it “System Error - Errore di sistema” Palazzo delle Papesse a Siena Via di Città 126 Per informazioni: info@papesse.org Fino al 6 maggio 2007
Errore di Sistema (2)
Ho avvicinato Lorenzo Fusi, questa che segue è una nostra breve conversazione sull’esposizione in corso e su alcuni aspetti delle arti visive d’oggi.
La mostra “Errore di Sistema” ha il merito di riproporre il rapporto, un tempo molto avvertito, fra arte e impegno politico. C’è un nuovo modo degli artisti d’oggi di guardare a quel rapporto? L’ attuale ‘stato delle arti’ non è altro che un riflesso della situazione socio-politica che stiamo vivendo. Molti artisti hanno scelto di incorporare nella loro opera strategie di comunicazione che hanno molto a che vedere con la denuncia sociale, l’attivismo politico, e che richiamano forme di contestazione pubblica o espressioni di dissenso. L’adozione di questo linguaggio multiforme (che spazia dall’uso del web, al graffitismo, alla musica, attraverso manifestazioni, boicottaggi, happening, dimostrazioni di forza, performance, hackeraggio e contro-informazione) deriva dalle sperimentazioni della fine degli anni Sessanta e dei primi Settanta (potremmo dire che la guerra in Vietnam costituisce il vero giro di boa). Così come il linguaggio dei media è cambiato (soprattutto grazie all’arrivo dei ‘new media’), anche quello dell’arte si è distaccato sempre più dalla tradizione: anche quella più spiccatamente progressista e innovativa. Il pensiero postmoderno ha, poi, influito molto nella ridefinizione di tutta una serie di nozioni. Pensiamo a tutta la cultura ‘hip-hop’ e all’uso del re-mixaggio di suoni e immagini. Sarebbero stati impossibili in una cultura dominata dal ‘culto dell’originalità’. Paul Virilio attacca l’arte moderna accusandola di “trascurare la figura rappresentata con tela e colori per imporre, complici i musei, come vincente l’immagine spettacolare della videoinstallazione fatta di foto, fasci laser, alta definizione”. Tu che ne pensi di quella critica? Non condivido affatto questa posizione. La realtà è che, nonostante il mercato e i critici che lo servono, gridino ciclicamente a una nuova rinascita della pittura, di fatto la pittura è un mezzo logoro. Ma, soprattutto, sono sempre meno gi artisti che sentono il bisogno o l’urgenza di esprimersi ‘solo’ attraverso una forma espressiva. Mi sembra che oggi gli artisti operino a progetto. Mi spiego meglio: hanno un’idea, sviluppano ed elaborano un concetto, una sensazione, un’intuizione, per poi cercare il modo espressivo che meglio si adatta al caso specifico. Nel caso della mostra “System Error”, il disegno e la pittura hanno molto più a che vedere con i comics, le fanzine, la stampa indipendente, e l’arte di strada che con il pennello o la spatola. Ed è questa una scelta che certo non è maturata nelle sale paludate di un museo. Il web quale influenza ha - e, soprattutto, potrà avere - sulle arti visive? Enorme. Ci sono interi progetti artistici che vivono solo sul web. La circolazione di idee e informazioni che c’è oggi (in ‘quasi’ tutto il mondo) grazie a internet sarebbe stata semplicemente impensabile nell’era ‘pre-web’. Ma soprattutto la rete ha permesso il veicolarsi rapido di immagini. Queste hanno contribuito a ridefinire velocemente l’immaginario collettivo. Con la rete è cambiato il modo di fruire il materiale visivo e scambiarselo. Pensa poi ai blog, ai siti personali, allo scambio di link, all’email… nel cyberspazio siamo ‘uni e trini’. Ma, non per questo, meno confusi. Mi pare interessante al proposito evidenziare che proprio in un momento storico in cui potremmo vivere isolati e gestire da casa lo smistamento dell’informazione, sempre più artisti avvertano l’esigenza di ‘scendere in strada’. Non avrebbe senso, altrimenti, questo novello interesse (da parte della comunità artistica internazionale) per autori come Toni Negri. E pensare che credevo che non se lo ricordassero più neanche gli italiani…. Altre dichiarazioni di Lorenzo Fusi sulla mostra in corso le potete ascoltare QUI.
sabato, 3 marzo 2007
FilosofArti
Uno degli aforismi di Shopenauer sulla saggezza del vivere dice: “Per molti uomini i filosofi sono degli importuni sonnambuli che li disturbano nel sonno”. Se alcuni di quegli uomini vivono a Gallarate, si preparino a passare notti insonni, perché, a partire da lunedì prossimo, lì si terrà FilosofArti, Festival – guidato da Cristina Boracchi – che studierà le intersezioni tra l’espressione filosofica e le arti (musica, cinema, fotografia, letteratura, net-art), cogliendone la capacità di comunicare e aprire nuovi orizzonti sui grandi temi dell’esistenza e del sapere. Non solo incontri, seminari, laboratori, ma anche mostre, spettacoli ed eventi in programma vedranno l’intervento di artisti e pensatori di fama internazionale. I nomi vanno da Maurizio Ferraris a Giulio Giorello, da Marta Morazzoni a Giovanni Reale, da Carlo Sini , a Fabio Sartorelli. Contributi verranno anche dalla mostra di Gianni Berengo Gardin, dalla lezione-concerto di Franco Cerri, dal laboratorio-stage teatrale di Daniele Braiucca fondatore nel 1973 del Teatro Instabile di Varese, dall’interpretazione de “Il Simposio” di Platone di Carlo Rivolta, attore che ai miei occhi ha tra i suoi meriti ha anche quello d’essersi rifiutato di recitare un suo spettacolo alla presenza di Dell’Utri. A cura di Emma Zanella, Claudio Prati, Vittoria Broggini, dall’8 marzo (e fino al 29 aprile) un eccezionale avvenimento, la mostra di Antunez Roca : “Interattività furiosa: Pre-interattività e sistematurgia" organizzata dalla GAM di Gallarate. E’ la prima grande occasione in Italia per vedere gran parte della produzione e delle opere dell’artista spagnolo, sicuramente uno dei più significativi autori nel panorama contemporaneo e una delle personalità più complesse e trasversali sulla scena delle arti visive. Marcel.lí è protagonista di quelle ricerche performative che attraverso l'interattività si sono spinte oltre le metodologie note unendo in un’unica opera globale il teatro, la pittura, la scena cinematografica, la sperimentazione tecnologica. Noto anche per aver fondato e diretto per dieci anni la Fura dels Baus, Antúnez Roca oggi prosegue la sua ricerca individualmente, aprendosi a nuove direzioni verso l’analisi del corpo, l’indagine elettronica e la drammaturgia che con lui si è spinta fino alla sistematurgia. Al Teatro del Popolo, venerdì 9 marzo alle 21.00 (con replica straordinaria alle 23.00) sarà presentata la performance Protomembrana, il più recente spettacolo/conferenza realizzato da Marcel.lí. Proprio alla “sistematurgia", è dedicato Corpi estesi un seminario coordinato da uno dei maggiori studiosi europei d’interlinguaggio: Carlo Infante che coinvolgerà alcuni significativi nomi della critica contemporanea con un dibattito sui performing media e sul rapporto corpo-macchina nella dimensione dell’arte contemporanea.
Per il programma completo del Festival, cliccare QUI. Per i redattori della carta stampata, delle radio-tv, del web, l’Ufficio Stampa è guidato da Sara Magnoli: stampa@comune.gallarate.it
venerdì, 2 marzo 2007
Lo specialissimo Arthur
Sta avendo successo sui nostri schermi “Arthur e il popolo dei Minimei” di Luc Besson. Larga parte di questo successo si deve agli effetti speciali che accompagnano il piccolo Arthur nella sua avventura. Sono stati realizzati dalla francese Buf Compagnie, una delle companies più innovative al mondo nel campo degli effetti visuali, all’avanguardia in tecniche rivoluzionarie quali il ‘camera mapping’ e lo ‘stereo modelling’. “La città dei bambini perduti” di Marc Caro e Jean Pierre Jeunet, i cui effetti speciali sono stati realizzati da Buf, è stato ad esempio molto apprezzato da David Fincher, tanto da fargli scegliere la Buf per gli effetti speciali di “Fight Club” e “Panic Room”. La Buf Compagnie ha realizzato inoltre effetti speciali fotorealistici per film quali “Batman and Robin”, “Matrix”, “Human Nature”. Pierre Buffin, presidente della Buf, ha realizzato con Arthur anche il sogno di ogni casa di produzione di effetti digitali: realizzare un film in animazione al computer. Geoffrey Niquet è stato il supervisore generale e direttore dell’animazione di Arthur; ha lavorato a stretto contatto con Luc Besson per la creazione degli effetti speciali di Arthur e per la realizzazione di tutta la parte animata. Buf Compagnie per Arthrur ha messo a punto una tecnica che ha permesso a Besson di trasferire la sua esperienza di regista live-action alle sezioni animate senza le costrizioni tecniche dell’animazione. Il regista ha realizzato innanzitutto il “dummy run” filmando l’intero storyboard insieme con un gruppo di attori senza set e senza attrezzi di scena. Le riprese sono state effettuate da più cineprese contemporaneamente in modo da registrare i movimenti degli attori e le espressioni facciali da più e diverse angolazioni. In seguito il materiale registrato è stato consegnato agli artisti dell’animazione responsabili della tecnica tridimensionale (CGI). La maggiore difficoltà presentata da “Arthur e il popolo dei Minimei” è stata proprio il passaggio dalle sequenze live-action a quelle in 3D. Per rendere meno marcato possibile il passaggio e la compresenza di live action e 3D sono stati realizzati dei modelli in scala che hanno permesso di combinare il 3D con elementi di vita reale. I modelli sono stati tradotti in 3D tramite la proiezione delle fotografie di tutte le parti del modello nell’inquadratura tridimensionale. La lavorazione del film è durata complessivamente 5 anni, 3 dei quali hanno impegnato le squadre della Buf Compagnie per la realizzazione degli effetti speciali con ben 20 supervisori e 100 artisti. Per il trailer del film, cliccate QUI.
giovedì, 1 marzo 2007
L'uomo a due dimensioni
In “The Plattner Story" (1896), H. G. Wells racconta come una figura bidimensionale ribaltata nella terza dimensione si trasforma nella figura simmetrica; Wells mise in parola, quindi, quanto già aveva illustrato in figura, tempo prima, il matematico Mobius. E’ l’avventura dello sguardo fissato su due dimensioni che può capitare a chi guarda le opere di uno dei grandi artisti contemporanei italiani: Renato Mambor. Il signor Gottfried Plattner, si tuffò poi nella quarta dimensione tornandone letteralmente rovesciato, ma questo non capiterà ai visitatori delle immagini di Mambor. Qui lo sguardo si rovescia soltanto concettualmente osservando la figura umana immaginata dall'artista: spersonalizzata e resa bidimensionale. A Roma, alla Galleria Nazionale d''Arte Moderna, è possibile vedere una mostra sul suo lavoro a cura di Marina Gargiulo e Angelandreina Rorro. In esposizione Separè, un’inedita installazione di Renato Mambor, composta da coppie di elementi che mettono in relazione la figura umana con materiali, colori e tecniche diversi: i pannelli antistanti, con al centro una sagoma d’uomo ritagliata e vuota, aprono lo sguardo dell’osservatore al fondale, di volta in volta variato con stelle, carte topografiche, legname grezzo e altro. In questo stesso magazine potete vedere alcune altre sue opere e una nota tracciata da Barbara Martusciello cliccando QUI.
La mostra è accompagnata da un catalogo edito dalla Palombi Editore presentato dalla soprintendente Maria Vittoria Marini Clarelli, con un saggio di Achille Bonito Oliva, testo critico e intervista a firma delle due curatrici della mostra, scritti dell’artista stesso. Renato Mambor “Separè” Gall. Naz. d’Arte Moderna Viale Belle Arti, Roma Fino al 29 aprile 2007 Infoline: 06 – 322 98 221
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