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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Bibliomania

La casa editrice Lindau tra le sue collane ne ha una che è uno scrigno di voluttà letterarie. Si chiama ‘Piccola Biblioteca’ ed è presentata come contenente "lettere, commenti, brevi saggi critici, divertissements, piccole perle di grandi autori".
Torno oggi su quella collana già altre volte visitata come, ad esempio, quando consigliai la lettura del sapiente Giro di boa di Davico Bonino, e Ancora libri di Santoni su di un testo di Lorca, o sulle lacerazioni della memoria contenute in Non mi lasciare d’Oddone di Camerana.
Oggi è la volta di Bibliomania un’antologia di scritti su Dell’amore per i libri e per la lettura come recita il sottotitolo.
È a cura di Mirella Alessio che su quel tema ha estratto testimonianze da pagine di grandi autori dì ieri e di oggi.
Pensate che la bibliomania sia una cosa innocente? Vi sbagliate. Può portare al delitto.
Un terribile esempio è dato da un parroco del ‘700, Johann Georg Tinius, che per saziare la sua sete di nuovi volumi arrivò alla rapina e all’omicidio; quando lo arrestarono ne aveva raccolto ben 65mila e mai letto neppure uno, come confessò.

In questo librino “Bibliomania”, ricco di luminosi spunti, troverete i giudizi più disparati sul collezionismo di libri, perfino quello che può ai più distratti apparire sorprendente: Lucio Anneo Seneca che raccomanda: “Troppi libri opprimono”. In realtà, invita a ben meditare sui libri che si hanno a disposizione senza affannosamente cercarne altri solo per ingozzarsene. Insomma, si è lontani dalla spensierata leghista Lucia Borgonzoni che a Radio 1, nel corso della trasmissione “Un giorno da pecora” affermò «Non leggo un libro da tre anni» e a quel tempo era sottosegretaria (molto sotto) alla cultura.

Quanto a me, amo i libri, naturalmente. Ma se qualcuno volesse a me fare dono del volume che più mi piacerebbe avere, so qual è. È quello letteralmente illeggibile intitolato “Agrippa: a book of the dead”. Fu esposto al Victoria & Albert Museum in una mostra dedicata appunto al libro, alla sua storia e al suo futuro. Autori due artisti contemporanei – William Gibson e Tennis Ausbaugh – il cui testo su dischetto si cancella per sempre man mano che si legge. Libro che pur avendo un passato si ritrova senza presente e senza futuro, una sorta di libro di sabbia di borgesiana memoria, infinibile e infinito.

In “Bibliomania” testi di Walter Benjamin, William Blades, J.-B. Le Rond d’Alembert, Denis Diderot, Federico García Lorca, William Ewart Gladstone, Rudyard Kipling, Charles Lamb, Giacomo Leopardi, Francesco Petrarca, Marcel Proust, Theodore Roosevelt, John Ruskin, Lucio Anneo Seneca, John Collings Squire, Gaetano Volpi, Edith Wharton, Oscar Wilde, Leonard e Virginia Woolf.

Traduzioni di D. Platzer Ferrero, L. Santoni, C. Sargian, M. Scorsone, S. Verdiani e F. Zaniboni

Dalla presentazione editoriale.
«Come definire la bibliomania? Una passione sfrenata per i libri, certo, ma non solo.
Essere un bibliomane significa vivere di un amore viscerale per le storie che stanno dietro, dentro, intorno ai libri, amarne la forma quasi quanto il contenuto.
Oggetti di culto, beni di prima necessità, piccole grandi ossessioni: i libri ci accompagnano per tutta la vita con la loro presenza silenziosa ed eloquente, talvolta anche scomoda.
Innumerevoli scrittori hanno cercato di catturare quella strana alchimia che si crea tra noi e le nostre librerie, la gioia che proviamo nell’arricchirle, la vertigine del riordinarle e le difficoltà di preservarle da molti, insospettabili «nemici»…
Questa piccola antologia raccoglie le voci di grandi autori alle prese con questi oggetti così quotidiani e al contempo misteriosi, in un intreccio di aneddoti e consigli, elogi e invettive che ruotano intorno al nostro vizio preferito: quello della lettura».

Bibliomania
A cura di Mirella Alessio
Pagine 92, Euro 9.50
Lindau


Sulle tracce del Dna (1)


“Imparare a scrivere fumetti è così dannatamente difficile perché si tratta di una forma strana che in realtà ti rende un po' più adattabile per le altre forme di scrittura”.
Così dice Warren Ellis fumettista e scrittore britannico. Una grande verità. Perché il fumetto ha un’estensione espressiva che giova a più campi della comunicazione e, anche quando non è protagonista con le famose nuvolette, influenza plurali modulazioni espositive, dalla poesia visiva alla pubblicità attraversando anche varie tipologie di narrazioni: si pensi a Robbe- Grillet che afferma “L’ecole du regard” deve qualcosa anche al fumetto”, oppure all’Oulipo (acronimo dal francese Ouvroir de Littérature Potentielle) con Raymond Queneau che dice “La letteratura potenziale ha un rapporto primo con la matematica e forse sotterranea con la comicità del fumetto”.
Il semiologo Paolo Fabbri a proposito delle nuvolette: “Credo che la valorizzazione culturale del fumetto sia iniziata proprio con la semiotica. […] Nel suo romanzo "La misteriosa fiamma della regina Loana", Eco sostiene che Dick Tracy gli ha fatto capire Picasso, e che le gambe delle eroine nel "Corriere dei Piccoli" degli anni '30 lo hanno aiutato a scoprire emozioni sentimentali o perfino sessuali. Flash Gordon era un eroe che combatteva contro la tirannia sebbene fosse letto in Italia da un pubblico che viveva sotto una dittatura […] Mi torna in mente Italo Calvino, il quale mi diceva di aver scritto Il castello dei destini incrociati - basato sulle immagini dei tarocchi - dopo aver ascoltato una mia conferenza sul linguaggio degli emblemi. Lui avrebbe voluto scrivere "Il motel dei destini incrociati" in cui i personaggi interagiscono tra loro utilizzando pezzi di fumetti. Il fumetto a quel punto è già mito”.

Il fumetto ha un grande impatto poi nella didattica perché come bene scrive Ilaria Tiberio è “familiare, intuitivo, motivante, inclusivo. Permette di cogliere meglio le abilità degli alunni che altrimenti si troverebbero limitati ad un solo codice di trasmissione dei concetti (quello linguistico), su cui – troppo spesso – quelli più in difficoltà si arrendono”.
Un ottimo esempio dell’efficacia didattica del fumetto viene da un libro per ragazzi dagli 11 anni in poi di Editoriale Scienza che ha mandato nelle librerie (e tutti speriamo che possano presto riaprire al pubblico) Sulle tracce del Dna.
Ne è autrice Claudia Flandoli.
Torinese di nascita e pisana di adozione, Claudia Flandoli attualmente vive a Cambridge. È fumettista e illustratrice scientifica. Ha conseguito la laurea in biologia all’Università di Pisa e in Progettazione grafica all’Isia di Urbino (Istituto superiore per le industrie artistiche); si è diplomata al master in Illustrazione al MiMaster di Milano.
Collabora come illustratrice con vari ricercatori dell'Università di Cambridge, di centri di ricerca legati all'ateneo (The Gurdon Institute, CIMR - Cambridge Institute for Medical Research, Lmb - Laboratory of Molecular Biology) e di altre università italiane ed europee.
Ha pubblicato fumetti a tema scientifico per Mondadori, Sironi e per il Cnr – Consiglio nazionale delle ricerche, e ha collaborato con Zanichelli e la Royal Society of Chemistry.
Per visitare il suo sito web: CLIC!

Dalla presentazione editoriale
«Una graphic novel per ragazzi dove la scienza si scopre grazie ai fumetti e dove la penna ironica di Claudia Flandoli racconta la genetica con brio e competenza.

Ambra e Blu, due gemelle curiose e un po’ impertinenti, partono per un rocambolesco viaggio alla ricerca del misterioso Dna insieme a Pio, un pulcino saggio che sa rispondere a tutte le loro domande.
Diventati microscopici, i tre protagonisti esplorano una cellula popolata da repressori intrattabili, ribosomi alle prime armi, proteine tuttofare e tante altre buffe molecole e strutture cellulari, che hanno un ruolo chiave nei processi alla base della genetica.
Che aspetti? Parti con loro e immergiti nelle pagine di questo libro, dove la scienza si intreccia con il fumetto: scoprirai com’è fatta una cellula e cosa sono i cromosomi, a cosa servono le proteine e che cos’è il fenotipo, chi era Mendel e come avviene la trasmissione dei caratteri ereditari.
Divulgare la scienza attraverso i fumetti è il binomio realizzato con efficacia da Claudia Flandoli in questa graphic novel per ragazzi. Laureata in biologia, ha poi studiato illustrazione e grafica: la duplice formazione le ha permesso di coniugare al meglio il rigore scientifico con il codice comunicativo, e di costruire una narrazione tanto coinvolgente quanto precisa e chiara, in grado di ricorrere all’ironia senza mai inficiare la finalità divulgativa. Il libro è diviso in 7 capitoli e ciascuno si conclude con un focus sui concetti appena incontrati: oltre a riprendere i termini scientifici, queste pagine approfondiscono nozioni e punti chiave».

Cliccare QUI per le prime pagine del libro.

Segue ora un incontro con Claudia Flandoli.


Sulle tracce del Dna (2)


A Claudia Flandoli (in foto) ho rivolto alcune domande.

Da quali occasioni è nato questo libro?

Il progetto è nato da una fortunata coincidenza: la genetica e la biologia molecolare sono discipline che mi sono sempre interessate molto, e Editoriale Scienza era interessata a arricchire il suo catalogo su un tema simile. Insomma, ci siamo trovati a vicenda.

Nell’accingerti a questo lavoro sul Dna spiegato a giovani lettori, qual è la prima cosa che hai deciso da farsi assolutamente per prima e quale quella per prima assolutamente da evitare?

Ho da subito deciso che avrei cercato di evitare il lessico più difficile della biologia (ad esempio il nome di alcune proteine), o al massimo di introdurlo con gradualità, per evitare di disorientare il lettore. La cosa che invece volevo assolutamente fare era rendere viva la biologia cellulare, e per questo ho animato DNA, ribosomi e proteine e ne ho fatto i personaggi del libro.

Tra Il fumetto destinato allo svago e quello didattico possono (o devono) esistere convergenze?

A volte ho visto fumetti didattici sacrificare il ritmo di lettura per poter condensare molte informazioni in un unico “baloon” o in una pagina, cosa che succede più raramente nei fumetti che raccontano storie. Più che un confronto fra scopi narrativi, ne farei un discorso di grammatica del fumetto come linguaggio, che va usato per le sue potenzialità e non per fini esclusivamente estetici.

L'immaginario infantile nel tempo è stato attraversato da vari passaggi di segno: dal racconto orale a quello solo a stampa, da quello integrato con immagini ai cartoon del primo '900 fino alle forme più recenti, dalla tv ai videogiochi. Che cosa ha significato in quell'immaginario l'ingresso del digitale nelle sue varie applicazioni?

Credo che, come ogni supporto, il digitale abbia proposto nuovi stratagemmi comunicativi: ad esempio, banalmente, la possibilità di interazione del lettore con la storia o con il concetto proposto (penso al libro-videogioco Florence, o a un’immagine in 3D da poter esplorare autonomamente). Anche il poter combinare parti di storia statica a parti animate, come gif o video, come fa a volte il fumettista Boulet, è interessante, e aggiunge narrazione.

Sono ben felice che in sede editoriale la produzione fumettistica di tipo didattico sia applicata in massima parte alla divulgazione scientifica. Mi chiedo anche perché non ce n’è pure un’altra destinata a quella letteraria. Mi riferisco, ad esempio, alla maniera di evitare gli errori di ortografia, di grammatica, il modo di comporre una lettera, una mail… hai una spiegazione?

Uhm, una domanda interessante. Non sono una linguista e quindi la mia risposta potrebbe essere molto sbagliata, perché io vedo i potenziali del fumetto come mezzo narrativo nella scienza dato che so di cosa parla la materia stessa. Nell’apprendimento di materie scientifiche uno degli ostacoli sta nel riuscire a darsi una rappresentazione mentale di concetti che a volte appaiono troppo lontani e astratti. Il fumetto colma questo problema dato che descrive anche visivamente i concetti.

In questa nostra epoca, per me benvenuta, di rivoluzione informatica che vede fra i protagonisti i cosiddetti nativi digitali, in virtù di quale meccanismo psicosociale i personaggi dei fumetti e dei videogiochi hanno conquistato spazio e successo superando anche famosi e popolari personaggi delle favole e delle fiabe di un tempo su carta?

Forse più che per una questione di rivoluzione informatica è per via delle storie che raccontano: un ragazzo di oggi potrebbe riconoscersi meno in una fiaba di Andersen e amare di più un personaggio raccontato e inventato in tempi più recenti. Credo poi che ci sia l’effetto del gruppo: ti interessa e vai a scoprire le cose di cui parlano i tuoi amici, perché la condivisione è un modo di amare una cosa.

…………………………..

Claudia Flandoli
Sulle tracce del Dna
Pagine 192, Euro 16.90
Editoriale Scienza


Breve storia della questione antisemita (1)


La casa editrice Bompiani ha varato una nuova collana.
Scrive l’art director Francesco Messina: “I proiettili erano e sono fatti di piombo (anche se poi rivestiti di un materiale più duro), esattamente come lo sono le parole composte in tipografia. Ebbene, quando Roberto Saviano, uno che gli argomenti giusti sa dove trovarli, ha scelto Munizioni come nome per una nuova collana editoriale (da lui stesso diretta) dedicata a storie che chiedono giustizia, abbiamo pensato che meglio dei proiettili avrebbero fatto le parole”.

Merita risalto anche un’altra pubblicazione Bompiani: un poderoso saggio storico che ha una duplice importanza sia per il tema trattato con abbondanza di documenti sia per il momento politico, spesso tenebroso, in cui viviamo.
Si tratta di Breve storia della questione antisemita.
Ne è autore Roberto Finzi (Sansepolcro, 1941).
Ha insegnato Storia economica, Storia del pensiero economico e Storia sociale negli atenei di Bologna, Ferrara e Trieste. Ha pubblicato con alcune fra le maggiori case editrici italiane e in numerose riviste italiane e straniere. Suoi lavori sono stati editi, oltre che in Italia, in Argentina, Belgio, Brasile, Cina, Francia, Gran Bretagna, Giappone, Spagna, Stati Uniti. Per Bompiani ha pubblicato Il pregiudizio. Ebrei e questione ebraica in Marx, Lombroso, Croce (2011), L’onesto porco. Storia di una diffamazione (2014) e Asino caro. O della denigrazione della fatica (2017).
Da poco è in libreria per Einaudi: Cosa mai hanno fatto gli ebrei. Dialogo fra nonno e nipote sull’antisemitismo.

“Breve storia della questione antisemita” apparve con successo nel 1997 ed ebbe traduzioni negli Stati Uniti, Gran Bretagna e in Cina.
Ora è ripubblicato, come spiega in una nota l’editore, in una rielaborazione vasta e profonda avvalendosi di un esteso aggiornamento di quel testo.
Troviamo, infatti, integrazioni che arrivano fino a fatti dei nostri giorni.
Solo due esempi: le infelici pagine del 2002 di Alberto Asor Rosa nel suo libro “La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana”, oppure l’episodio del 2017 quando tifosi della Lazio misero in giro, diretti a quelli della Roma, adesivi di scherno con il volto di Anna Frank in maglietta giallorossa.

Fra i testi che ragionano sull’antisemitismo dalle origini fino ad oggi, questo di Finzi è tra i più incisivi anche perché oltre all’imponente documentazione cui ho accennato prima, si avvale di una scrittura rapida, scorrevolissima, ben lontana da certe uggiosità di cui soffrono purtroppo molti libri sull’argomento. Qui la storia è esemplificata con numerosi episodi e aneddoti che rendono avvincente la lettura.

Dalla presentazione editoriale.
«Dai pogrom in Russia al caso Dreyfus, dall’idea di un ''complotto sionista'' ai lager nazisti, il XX secolo ha registrato un agghiacciante salto di qualità nella violenza degli attacchi. Proprio quando l’integrazione nelle società contemporanee sembrava un fatto acquisito, l’antiebraismo di matrice religiosa ha ceduto il passo all’antisemitismo fondato su presunte basi razzistiche. Finzi ci conduce alla scoperta di questo male oscuro strisciante nella storia dell’umanità, di cui l’antisemitismo moderno è solo una parte della vicenda. ''Conoscere la punta dell’iceberg può essere utile a far cogliere a ognuno di noi, nella società e in noi stessi, pure gli elementi che ne compongono il grande corpo immerso. E anche a far riflettere sulla paura del da noi diverso che pervade le società persino in questo inizio del terzo millennio, meraviglioso per le straordinarie innovazioni tecniche ma ancora impregnato di una moltitudine di antichi, radicati pregiudizi».

Segue ora un incontro con Roberto Finzi.


Breve storia della questione antisemita (2)

A Roberto Fiinzi (in foto) ho rivolto alcune domande.

La principale motivazione che ha determinato la scrittura di “Breve storia della questione antisemita”?

Beh! C’è stato intanto uno stimolo esterno. Di colleghi che s’occupano di organizzare seminari con i docenti delle scuole medie sullo sterminio degli ebrei d’Europa che hanno per anni e anni usato un mio libretto del 1997 “L’antisemitismo. Dal pregiudizio contro gli ebrei ai campi di sterminio” ormai introvabile. Ha anche giocato, ovviamente, il persistere e il crescere di fenomeni antiebraici. Ma soprattutto, lavorando in questi anni sui pregiudizi e sui linguaggi che lo veicolano, volevo – come si evince dal titolo - fare circolare un nuovo modo di esprimersi, quindi una diversa ottica, a proposito dell’avversione nei confronti degli ebrei.

Quando si è accinto a questo lavoro quale cosa ha deciso era da farsi assolutamente per prima e quale per prima era assolutamente da evitare?

In parte le ho già risposto. Per sintetizzare: annullare – per così dire – l’espressione “questione ebraica”, che anch’io in passato, errando, ho largamente usato. Non c’è una “questione ebraica”, c’è una “questione antisemita”. Lo aveva detto Sartre già negli anni Quaranta del Novecento. Ma la sua indicazione si era quasi volatilizzata con il passare degli anni. Mi ha fatto piacere vedere che lo stesso ha pensato un personaggio come Delphine Horvilleur, rabbina di quel che è definito Mouvement juif libéral de France. Contemporaneamente alla mia Breve storia è infatti uscito per Grasset nel gennaio 2019 un suo volume dal titolo Réflexions sur la question antisémite. In più credo che sia non utile ma indispensabile porre il tema tremendo dello sterminio degli ebrei d’Europa nel tempo lungo. Quando trionfa l’odio antiebraico fondato sul paradigma razzial/razzista da secoli e secoli gli ebrei sono oggetto di disprezzo, ostilità, avversione, persecuzione perché – scrive Paolo di Tarso – “hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti” e per questo “non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini”. È su questo humus che si innesta e germoglia l’antisemitismo incardinato sul concetto di razza. Che è una visione validata dalla scienza. Vale a dire da una delle più forti basi della modernità. E la caratteristica dello stermino degli ebrei d’Europa è appunto questa: si serve di metodi che di certo possiamo definire barbari ma che in realtà sono espressione della modernità. La “soluzione finale” rappresenta, è stato scritto, la degenerazione della società industriale europea. Invece di migliorare le condizioni di vita cominciò a distruggere se stessa. Auschwitz fu anche una estensione del moderno sistema di fabbrica, dove non si producevano merci ma si utilizzavano gli esseri umani come materia prima e si sfornava la morte come prodotto finale. Lo stesso progetto complessivo era un riflesso del moderno spirito scientifico deviato dalla propria strada.

In Italia, vede un terreno che ha favorito il risorgere del neonazismo e dell’antisemitismo cui oggi assistiamo?

Nonostante la mole di lavori che sono apparsi dalla fine degli anni Ottanta in avanti sulla persecuzione antiebraica in realtà l’Italia non ha mai fatto veramente i conti con i propri profondi pregiudizi razzisti, antisemiti, antimeridionali e via elencando. Il mito degli «italiani brava gente» è appena scalfito. È vero, ad esempio, che durante l’occupazione tedesca, non pochi ebrei furono salvati da italiani. Ma da qui a farne un popolo che ha rifiutato l’antisemitismo ce ne passa di acqua sotto i ponti… Potrei raccontare molti episodi, accaduti a me personalmente già dagli anni Cinquanta, che mostrano come un sottofondo antisemita e razzista permei l’immaginario collettivo italiano. Ora la situazione è cambiata…

… in quale senso?

… in senso negativo, perché nel discorso pubblico è stata di fatto sdoganata, e anzi è in certo senso esaltata, l’avversione per l’altro, per il da te diverso. Del pregiudizio antiebraico scrivo da almeno una quarantina d’anni. Come mai solo ora – in particolare a proposito di “Cosa hanno mai fatto gli ebrei?” scritto con mia nipote Sofia e ai ragazzi rivolto – in rete recensori e commentatori sottolineano, magari nell’ambito di un giudizio positivo, che mio padre era ebreo?

Esistono colpe della Sinistra? Se sì, quali?

La risposta è sì senza dubbio. Specie nella sua parte a parole “estrema”, che ascrive agli ebrei una sorta di mutazione genetica: da vittime a carnefici per le politiche di Israele nei confronti dei Palestinesi. Non può che venire alla mente il famoso aforisma attribuito ad August Bebel: “l’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli”. Ma proprio pensandovi ci si trova dinanzi a una storia complicata e tortuosa che nel libro cerco di affrontare sia pure sinteticamente. Non dimenticando mai che è la destra che ha prodotto lo sterminio. Intanto la massima attribuita a Bebel è essa stessa l’approdo di una lunga storia e battaglia fondate e combattute sul e contro il cosiddetto “antisemitismo economico”, imperante in parte cospicua del primo socialismo. Nel 1891 il congresso di Bruxelles dell’Internazionale socialista condanna l’antisemitismo e proclama che per la classe operaia non possono esistere e non esistono rivalità di razza, di religione, di nazionalità. Gli stereotipi sono però duri a morire. Restano perché nel quotidiano si ha un esercizio insufficiente delle facoltà razionali. Si pensi solo all’immagine degli ebrei dominatori della finanza. Nell’ottobre del 1897, ad esempio, l’“Avanti!” in un articolo sul caso Dreyfus parla di “alta bancocrazia semita di Francia”. E oggi ogni volta che si parla di poteri forti, a sinistra come a destra, salta fuori il nome di Soros. Perché non, ad esempio, quello di Bill Gates?
Insomma, parafrasando Freud, il progresso intacca meno il tabù di quanto lo faccia col totem.

E più precisamente fra Sinistra ed ebrei?

Tra Sinistra ed ebrei le cose poi si ingarbugliano e perché una parte degli ebrei introietta e assume per sé l’idea di nazione, negata dal Partito bolscevico, e in seguito per il trasformarsi dello Stato nato dalla Rivoluzione d’ottobre in tirannia sempre più truce che si serve a piene mani dell’uso classico dell’odio antiebraico per tentare di orientare il malcontento verso un capro espiatorio. Da settant’anni infine c’è la questione dello Stato d’Israele oppressore dei Palestinesi. Meno ignoranza gioverebbe soprattutto in quelli che pensano di battersi per la giustizia e l’eguaglianza. A cominciare dal punto cruciale: Israele fa da molti anni politiche per me errate ma è possibile combatterle proclamando la necessità di “ricacciare” i sionisti a mare e dire che l’esistenza di Israele è frutto del disegno di dominio del mondo da parte degli ebrei che addirittura avrebbero inventato lo sterminio nazista per approfittarne propagandisticamente? Tra l’altro dimenticando che moltissimi ebrei sionisti non sono.

In un altro suo libro "Il pregiudizio. Ebrei e questione ebraica in Marx, Lombroso, Croce", lei sostiene sull’antisemitismo, come nota in prefazione Claudio Magris, una tesi diversa da quei tre nomi del titolo. In che cosa consiste?

In quel libro semplicemente mostro quello che racconto nella Breve storia attraverso un’analisi, credo abbastanza approfondita, dell’opera di tre grandi rappresentati di alcune delle culture fondamentali dell’Ottocento e del Primo Novecento – marxismo, positivismo, idealismo liberale. Anche in grandi menti si annidano pregiudizi che drammaticamente agiscono in modo, per così dire, automatico, non razionale.

Molti sostengono che l’Italia non è un paese razzista. Ma è proprio così?

Cosa significa essere razzisti? Una risposta adeguata ci porterebbe lontano. Rammento solo due cose piccole, piccole. Il giornale ‘La libre parole’ di uno dei più noti e duri propagandisti dell’antisemitismo in Francia, e in Europa, Édouard Drumont, portava come sottotitolo “la France aux français”. Ci ricorda nulla? E cosa dire di un’icona del giornalismo nostrano, Indro Montanelli, che ufficiale nella spedizione contro l’Etiopia “sposa” una dodicenne che, naturalmente, lascia al rientro in Italia e decenni dopo la ricorda in un’intervista televisiva come una “bestiolina” accoppiata a un aggettivo che voleva essere un complimento, non ricordo più se bella, graziosa o gentile?

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Roberto Finzi
Breve storia della questione antisemita
Pagine 240, Euro, 12.00
Bompiani


I sorsi di Scardigli e Sbaratto

L’irriverente Coluche amava ripetere nei suoi recital: "Gesù trasformava l’acqua in vino. Non mi stupisce che dodici discepoli lo seguissero dappertutto".
Che il vino, aldilà dei famosi 12, abbia un fascino straordinario è fuori discussione.
Prima d’inoltrarmi in questa nota che del vino parla bene, ho il dovere sociale di segnalare quanto dice l'Organizzazione Mondiale della Sanità, in sigla OMS (da me colpevolmente inascoltata) sull’alcol.
In Italia uno dei testi importanti sui danni provocati dall’alcol (“Il trattamento farmacologico dei pazienti alcoldipendenti") è stato scritto da un medico di nome ‘Giovanni’ che – sarà un caso? – di cognome fa ‘Addolorato’.
Basta con tendenziose premesse, ed ecco il libro che presento oggi; ha a che fare, l’avrete già capito, con bevute e bicchieri.
L’ha pubblicato la casa editrice Interlinea, ha per titolo Sorsi, per sottotitolo Come farsi una cultura alcolica.
Ne sono autori Marco Scardigli e Roberto Sbaratto che nell’Introduzione dicono di loro: “non siamo tecnici, né sapienti, né barman, sommellier e nemmeno veri intenditori (…) però accreditati a parlare di alcolici da un notevole vissuto di bottiglie vuote”. Attenti a quei due! Verrebbe da aggiungere.

Scardigli è nato, vive e lavora a Novara. Storico militare, ha pubblicato per Mondadori la trilogia sulle battaglie nella storia d’Italia, per Rizzoli “Le grandi battaglie del Risorgimento” (2010); per Utet “Viaggio nella terra dei morti” (2014), “Le armi del diavolo” (2015) e “Il viaggiatore di battaglie! (2017). È anche appassionato di gialli e questa è la seconda avventura con protagonisti Tina, Stoffel e Marchini dopo Celestina. Il mistero del volto dipinto (Mondadori, Milano 2016). Oltre che di storia e narrativa, è anche appassionato di giochi e di cultura gastronomica.

Sbaratto è nato e vive a Vercelli. Attore, regista e musicista, inizia la carriera da professionista all’inizio degli anni Ottanta. Lavora con la Banda Osiris, con l’attore scozzese Johnny Melville e allo Stabile di Torino con Ugo Gregoretti. Partecipa come attore a decine di film e di fiction, lavorando, tra gli altri, con Alberto Sordi, Alberto Negrin, Eugene Levy, Carlo Verdone e Saverio Costanzo.

Al libro è stata data una struttura che si articola in 5 lezioni (tanto ben sapienti quanto per niente sussiegose, anzi birichine assai): Storia, Italiano, Tipologia dei bevitori, Metodologia del bere, Filosofia del bere.
Mentre nell’Introduzione ci si prepara a bere con loro, nell’Epilogo, fatalmente, i due intrattengono i lettori sui postumi del bere, le spiacevoli conseguenze e i rimedi per fronteggiare quello stato fisico e psichico che attanaglia (e sembra punire) il bevitore troppo assetato la sera prima.
Non conosco l’inglese ma so – et pour cause! – che esiste una parola in quella lingua per definire precisamente il malessere del giorno dopo: hangover.
“Sorsi” deriva da una conferenza-spettacolo tenuta dai due autori e ha una caratteristica che me lo fa vivacemente raccomandare alle redazioni di quotidiani e periodici, radio-tv, web. È, infatti, sostenuto e intessuto da un grandissimo numero di riferimenti letterari e musicali che possono risultare utilissime nel comporre “pezzi” che richiedano citazioni sul tema alcolico.
Tutti i brevi capitoli del volumetto sono godibili, ma in conclusione voglio sottolineare quello che si riferisce al “con chi bere”. Importantissima cosa. Gli autori giustamente notano che una cattiva compagnia può guastare un vino eccellente e che, invece, una buona può far diventare stellato un vino senza pretese. E se beviamo con una compagnia occasionale? Non trovate impreparati Scardigli e Sbatratto. Rispondono che se è buona ringraziate gli dei, se è cattiva vi consoli il fatto che occasionale è stata e non si ripeterà.
Qui succede come con altre sostanze, ad esempio uscendo da un bar notturno dopo aver trincato con un casuale vicino: ingrana bene oppure male una canna o una striscia di coca (in verità, è più facile avvenga il secondo dei due consumi citati che non il primo che reclama più intimità, ma soprattutto più tempo). Però qui il discorso si allarga in plurali parallelismi che il libro non propone e, quindi, mi astengo dal prospettarli.
“Sorsi”: una deliziosa lettura, avercene!

Dalla presentazione editoriale
«Per gli amanti del vino e dei liquori ma anche dei libri: il volume racconta le bevande alcoliche nella nostra cultura. Come se fosse una grande degustazione, fra le pagine si assaggiano vari punti di vista (letterario, religioso, poetico, storico, umoristico), modi espressivi differenti (la citazione, la canzone, l’aforisma, la poesia) e si assaporano classici come Omero e Orazio o moderni come Hemingway e Simenon, passando da Lorenzo il Magnifico ad autori minori ma comunque divertenti e un po’ brilli».

Marco Scardigli – Roberto Sbaratto
Sorsi. Come farsi una cultura alcolica
Con due disegni di Valeria Bosco
Pagine 112, Euro12.00
Interlinea


Radio Gamec


Bergamo è una delle città italiane più colpite dal virus e lì è nata il 20 marzo Radio GAMEC la nuova piattaforma per il live streaming della Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea disponibile sui canali social del museo e presto anche on air
Domenica 22 marzo c'è stata la prima puntata con Lorenzo Giusti, Direttore della GAMeC, e Giorgio Gori, Sindaco di Bergamo

Dal comunicato dell’Ufficio Stampa di Lara Facco.

«Un’emittente dal fronte, come Radio Londra, creata nei giorni difficili della battaglia, ma pensata anche per le stagioni che seguiranno.
Un luogo per condividere testimonianze da una delle città più drammaticamente colpite dall’emergenza sanitaria in corso e, parallelamente, per spostare il punto di vista grazie a storie provenienti da tutto il mondo.
Un modo per fare muovere il pensiero e continuare a respirare cultura, per raccontare il presente e immaginare un futuro tutto da costruire.

“In queste settimane di chiusura ci siamo interrogati molto su cosa possa e debba fare un museo in un momento così difficile” – dice il Direttore della Galleria Lorenzo Giusti – “La prima cosa è stata lanciare una campagna di raccolta fondi a sostegno dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII, per supportare medici, infermieri e volontari che in queste ore drammatiche stanno lottando per tutti noi. Ma il ruolo di un museo a Bergamo, in questa fase, non è solo quello imprescindibile di stringersi attorno alla sua comunità: è anche quello di aiutarla ad alzare lo sguardo e a lavorare fin da subito alla sua rinascita”.

Ogni giorno alle 11.30, in diretta dalla pagina Instagram del museo – e in differita su tutti gli altri canali – mezz’ora di informazione e approfondimenti tra cronaca, arte, letteratura e, come avrebbe detto Italo Calvino, “società”. Un flusso di voci vicine e lontane per gettare nuovi ponti e non smettere di creare.
‘All we hear is Radio ga ga’, cantava un indimenticabile Freddy Mercury, mentre sugli schermi della Tv si susseguivano le immagini di una Metropolis – quella leggendaria di Fritz Lang – tossica e soggiogata. Oggi che le maschere antigas del video dei Queen ci parlano del nostro presente, la radio torna a essere un avamposto, la prima linea di una battaglia civile e culturale da affrontare fianco a fianco.
Tra gli ospiti della prima settimana: Alessandro Sciarroni, danzatore e coreografo Leone d’Oro alla carriera della Biennale danza di Venezia 2019; Michela Moioli, medaglia d’oro olimpica di Snowboard cross; Leonardo Caffo, filosofo e saggista; Francesco Micheli, direttore del Teatro Donizetti; Paolo Fresu, musicista; Michela Murgia, scrittrice e drammaturga; Formafantasma, designer.
Radio GAMeC, con il suo palinsesto, accompagnerà prossimamente la campagna di raccolta fondi a favore dell'Ospedale Papa Giovanni XXIII, lanciata sul profilo Instagram della Galleria la scorsa settimana.
Alla campagna – che coinvolge persone di tutto il mondo vicine alla GAMeC – ha risposto anche l'artista romeno Dan Perjovschi (Sibiu, 1961), già chiamato in passato a collaborare con la Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea. Perjovschi ha generosamente realizzato ex novo una serie di disegni (uno è in foto) che esprimono l'amore per Bergamo e il ringraziamento ai medici e agli operatori sanitari, trasformati in moderni eroi che lottano quotidianamente per la vita delle persone.
L'invito che la GAMeC rivolge a tutti è quello di contribuire con una donazione al lavoro dell'Ospedale della città, impegnato strenuamente a fronteggiare l'emergenza Coronavirus.

#PLEASEDONATE
ASST Papa Giovanni XXIII
IBAN: IT52Z0569611100000012000X95
Swift Code: PosoIT22
Causale: Donazione Covid-19

A condurre la diretta in studio, partita ieri, c’è Leonardo Merlini, critico letterario e culturale, caposervizio milanese dell’agenzia di stampa nazionale Askanews. Cronista nel mondo dell’arte contemporanea, Merlini ha scritto due guide alla lettura di Franz Kafka e David Foster Wallace. Scrive regolarmente per Minima&Moralia e collabora con Internazionale, Ossigeno, IL Magazine e Vanity Fair. Conduce su Radio Raheem il programma di libri Tralfamadore».


Da Ilaria Bignotti


Ho ricevuto ieri sera da Ilaria Bignotti che è anche curatrice scientifica dell’Associazione Paolo Scheggi una mail in cui dà notizia della morte di Franca Scheggi Dell’Acqua (in foto).
Da quella mail estraggo alcuni, intensi, passaggi.

«Carissime e carissimi, In questo momento terribile e durissimo, sono a comunicare, a nome di Cosima Scheggi Merlini e dell'Associazione Archivio Paolo Scheggi, che è venuta a mancare Franca Scheggi Dall'Acqua (...)
È mancata nella notte in cui nasce la primavera una donna dell’arte e della cultura italiana.
Colta ed elegante, di una intelligenza rara e raffinata, Franca Dall’Acqua è stata la moglie e compagna di vita di Paolo Scheggi. A Milano si erano incontrati e poco dopo erano convolati a nozze. Giovanissimi, era il 1964 (…) Franca ha scelto di unirsi a un giovane artista che sapeva di morire giovane: gli avevano diagnosticato un problema al cuore che prima o poi avrebbe potuto essere fatale. Paolo scelse di non limitarsi, di correre in quegli anni in corsa, di sperimentare in quegli anni vulcanici ed eccitanti: Franca scelse di volere un figlio da Paolo, e questo figlio nacque un anno e qualche mese prima che Paolo scomparve: nacque il 25 marzo 1970, e si chiamò Cosima Ondosa Serenissima. Scelsero assieme un nome lungo che riecheggiava della poesia, dell’arte, della cultura italiana nei secoli che assieme condividevano e portavano avanti, con coraggio e passione.
Paolo mancò il 26 giugno 1971 (…) Franca tirò su una figlia da sola, da sola viaggiò un’altra volta in mezzo mondo, a recuperare le opere di suo marito, a mantenere in vita i legami che loro avevano costruito in nemmeno sette anni assieme. Ha continuato a farlo. Nei decenni.
Ho conosciuto Franca nel 2005. Nel suo salotto, a Milano, mi diede una lunga occhiata. Composta e impeccabile, mi fece parlare, mi raccontò tante cose; la guardavo affascinata, impaurita, e già ero completamente imbevuta della sua personalità.
Franca era una donna carismatica.
Non potevi starle vicino senza sentirti in qualche modo parte della sua aura.
Decise lei che dovevo lavorare con lei: mi diede, nel tempo, il compito di rivedere il sistema di archiviazione dei materiali e dei documenti di Paolo (…) Franca è stata un Maestro. Lo scrivo al maschile. Un Maestro di vita e di rigore, di perseveranza e di passione (…) A noi, che la abbiamo conosciuta e amata, il compito di continuare a trasmettere il suo insegnamento. Di vita e di arte. Che per lei, sono state la stessa cosa.

Milano, 21 marzo 2020».


Vestimenti e Abitamenti

Il 4 febbraio ho pubblicato una nota sulla mostra Vestimenti di Sissi.
L'esposizione, a cura di Antonio Grulli, ha visto il vernissage nelle sale di Palazzo Bentivoglio a Bologna.

Poi, accaduto quanto sappiamo, l’accesso al pubblico è stato chiuso in seguito alle giuste disposizioni governative per combattere il contagio del Covid-19.
L’Ufficio Stampa della mostra è guidato da Sara Zolla che ora, in un comunicato pervenutomi, annuncia un’interessante iniziativa.
Per reagire in maniera creativa alla sospensione delle attività culturali ed espositive nel nostro Paese, Palazzo Bentivoglio userà temporaneamente il suo profilo Instagram trasformandolo in uno spazio espositivo on line.
La mostra di Sissi, si tramuta, quindi, in un diario giornaliero che l’artista realizzerà dalla sua abitazione per vestire il tempo che passa.
Ogni giorno, fino al 19 aprile, data in cui sarebbe dovuta terminare l’esposizione “Vestimenti” – in modo frizzante adesso chiamata nel nuovo spazio web “Abitamenti” – verrà presentata un'opera inedita dell'artista.

Basta un CLIC.


Razzismo (1)

La casa editrice Dedalo ha mandato nelle librerie un libro importante, specie nel clima politico che vive l’Italia (ma si può ben dire l’Europa) di oggi.
È intitolato: Razzismo Gli atti, le parole, la propaganda.
Ne è autrice Annamaria Rivera.
Già docente di Etnologia e Antropologia sociale nell’Università di Bari, vive a Roma, è saggista, attivista, collaboratrice di alcune testate giornalistiche.
Fra le sue opere nel catalogo Dedalo ”La città dei gatti” (2016); “L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave” (con R. Gallissot e M. Kilani, 2012); “Il fuoco della rivolta” (2012). È anche autrice del romanzo Spelix (2010).

I razzisti, quelli dichiarati, quelli occulti e quelli che lo sono e forse non lo sanno, nonostante il progresso scientifico smentisca ancora più chiaramente di ieri le loro convinzioni, continuano a diffondere rabbioso furore.
“Eppure” – scrive Umberto Veronesi in un articolo in cui tratta del razzismo – “Darwin, oltre ai riconoscimenti scientifici ricevuti, sarebbe oggi assai più soddisfatto del fatto che adesso la scienza non deve più accontentarsi delle scoperte dei paleontologi: la conferma della spiegazione darwiniana ci viene dalla grande scoperta del Dna".
Questo testo di Rivera attraverso una serie di saggi condotti con scrittura rapida, incisiva, affronta il tema del razzismo sotto plurali aspetti: da quello sociale a quello linguistico giovandosi di precise esemplificazioni che provengono dalla cronaca e da indagini statistiche.
Inoltre, lancia uno sguardo sulla contiguità specismo/sessismo/razzismo che concorre a formare quel pensiero unico tanto tragico quanto catastrofico.

In Italia, nonostante una vocazione autoassolutoria diffusa in più strati sociali, abbiamo clamorosi precedenti che fanno riflettere. Un precedente maiuscolo è il Manifesto della Razza, pubblicato il 14 luglio 1938, fu la premessa alle leggi razziali promulgate il 6 ottobre dello stesso anno che comportarono la perdita dei diritti civili per 58mila italiani, parte dei quali poi deportati in Germania e 8mila di loro morti nei lager.
Quel Manidesto fu firmato da dieci uomini. Non solo mai furono processati, ma sono state loro intitolate strade, borse di studio, aule universitarie.
I nomi: Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Dosaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari.
A questi vanno aggiunti altri 329 che sottoscrissero il Manifesto.
Franco Cuomo in "I dieci” così scrive: “Volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. E ci riuscirono, in prima persona. Perché lo furono”.

Dalla presentazione editoriale di “Razzismo”.
«È su una montagna costituita anche da cattive parole e pessime retoriche che si è sedimentato, riprodotto e legittimato il razzismo quale oggi si manifesta in Italia: un sentimento di ostilità verso tutti gli estranei, i diversi, gli Altri, occupanti abusivi del “nostro territorio”.
In questa raccolta di brevi e interessanti saggi, Annamaria Rivera porta avanti un’analisi puntale del circolo vizioso che alimenta il razzismo, attraverso riflessioni colte che colpiscono per la loro originalità e la loro attualità. Mostra così la dialettica perversa fra il razzismo istituzionale, il ruolo dei media e della propaganda, e le forme sempre più diffuse di xenofobia “popolare”. Negli ultimi anni tale dialettica si è mostrata nel modo più palese (basti pensare alle ultime politiche contro l’immigrazione o ai recenti episodi di violenza raccontati dalla cronaca), e tuttavia essa ha antecedenti qui ricostruiti con precisione, per evidenziarne la lunga durata.
L’autrice decostruisce inoltre pseudo-nozioni quali “razza”, “etnia”, “colore”, “identità” e mette in luce l’apparato lessicale e comunicativo che contribuisce a riprodurre discriminazione, ineguaglianza ed emarginazione.
Un’opera fondamentale per riflettere su quello che sta accadendo oggi attorno a noi».

Segue ora un incontro con Annamaria Rivera.


Razzismo (2)

Ad Annamaria Rivera (in foto con uno dei suoi gatti) ho rivolto alcune d omande.

Da quali motivazioni nasce questo libro?

È da un trentennio che, da antropologa e attivista, sono impegnata contro il razzismo, con parole e opere, come si dice. E questa non è certo la mia prima pubblicazione sul tema. Con questo volume, costituito da un breve saggio introduttivo e dalla raccolta di scritti pubblicati su riviste nel corso del tempo, non solo cerco di mostrare la lunga durata del razzismo italiano, ma anche di analizzare il decadimento teorico-politico, almeno in Italia, del ‘discorso’ sul razzismo. Come esempi basta citare la tendenza a ridurre a odio o paura un tale sistema complesso (ideologico, politico, sociale, mediatico, istituzionale); o a definire come "guerra tra poveri" gli atti di razzismo, anche violenti, se compiuti da gruppi o individui appartenenti a classi subalterne.

Perché, come si legge nel volume, “il nuovo razzismo è già vecchio”?

È il titolo di uno degli scritti raccolti nel volume, pubblicato per la prima volta dieci anni fa. Con quel titolo ironico intendevo polemizzare contro una tendenza che perdura tuttora e che altrove e più volte ho definito "la retorica della prima volta": allorché si manifestano forme di razzismo pur gravi o estreme, fino all'omicidio e alla strage, a prevalere − nella coscienza collettiva, tra i media, anche tra le istituzioni − è perlopiù la tendenza a rimuoverne i precedenti, la catena di antefatti, la propaganda e le politiche che li hanno favoriti o almeno hanno contribuito a creare un clima propizio all'espressione del razzismo, anche il più violento.
Ogni volta è "la prima volta", per l'appunto. Eppure, è almeno dagli anni '70 del Novecento che in Italia ciò che definimmo “neorazzismo” si manifesta in forme anche le più brutali…

… qualche esempio...

Il 25 agosto 1977, a Verona, la prima vittima di "Ludwig", sanguinaria banda neonazista, costituita da due giovani borghesi, fu il rom Guerrino Spinelli, bruciato vivo nell’auto in cui dormiva. La notte fra il 21 e il 22 maggio 1979, nel pieno centro di Roma, un cittadino somalo di trentacinque anni, Ahmed Ali Giama, di fatto rifugiato politico eppure costretto a dormire per strada, venne anch'egli arso vivo molto probabilmente da quattro giovani italiani, che pure saranno assolti in Cassazione, nonostante le testimonianze.

Fra i tuoi scritti selezionati per questa pubblicazione è difficile sceglierne uno più importante di un altro. Corro il rischio e ci provo. L’analisi da te condotta in “Attenti alle parole! Frammenti sulla costruzione linguistica dello Straniero” è quello a me sembrato il più interessante. Del resto, "La lotta contro il razzismo comincia con un lavoro sul linguaggio”, scrive Tahar Ben Jelloun.
Puoi dire in sintesi perché hai dedicato al linguaggio quelle pagine
?

Perché ritengo che il linguaggio e il lessico siano parte integrante del “sistema-razzismo”. In quello scritto, pubblicato per la prima volta ben vent'anni fa, criticavo anzitutto il perdurare dell'uso della categoria di razza. Eppure, a partire dagli anni '40 del '900, essa è stata via via decostruita e abbandonata da gran parte delle stesse scienze sociali e biologiche che avevano contribuito a elaborarla. Nondimeno ancor oggi ci tocca ascoltare, per esempio, dalla bocca dell'attuale governatore della Lombardia, Attilio Fontana, proclami sulla "nostra razza bianca" che sarebbe minacciata da orde d'immigrati.

In quello scritto ti soffermi anche su alcuni svarioni lessical-razzistici

… per esempio, del politologo Giovanni Sartori, a quel tempo assai apprezzato; nonché sulla categoria di "clandestino", inventata di sana pianta per ignobili ragioni politiche (un tempo si parlava non già di "clandestinità", bensì d'immigrazione "spontanea", "non assistita", "non protetta"). Scrivo anche a proposito del nome, ingannevole e quasi grottesco, attribuito a quelle strutture detentive ‘extra ordinem’, destinate a persone migranti "irregolari" da espellere, che furono istituite per la prima volta dalla legge del 1998, detta Turco-Napolitano. Quei quasi-lager, che tuttora perdurano con un nome diverso, furono allora denominati “Centri di permanenza temporanea e assistenza” (CPTA), una formula che coniugava un eufemismo con un ossimoro.

Sostieni che esiste una contiguità/continuità fra specismo/sessismo/razzismo.
In che cosa consiste
?

In sostanza ritengo, al pari di altre studiose e studiosi, che il processo di dominazione, reificazione, sfruttamento dei non-umani possa essere considerato il modello o l’archetipo dei processi di gerarchizzazione, subordinazione, svalutazione, discriminazione, reificazione cui sono sottoposte talune categorie di umani: riguarda, in particolare, ciò che definiamo sessismo e razzismo. A mio parere, la de-umanizzazione degli ‘altri’ e delle ‘altre’ ha come presupposto la “bestializzazione” dei non-umani. A istituire analogia e continuità fra specismo, sessismo e razzismo v'è anche la tendenza a disconoscere individualità e singolarità a categorie umane che siano state “alterizzate”, così come abitualmente si fa nei confronti dei non-umani.

In Italia, a chi riferisci le principali responsabilità del risorgere del neofascismo del neonazismo e dell’antisemitismo cui oggi assistiamo? Esistono colpe della sinistra?

Anche questa è una lunga storia, tanto che non sono certa si possa parlare di un risorgere attuale del neofascismo, del neonazismo, nonché dell'antisemitismo e, io aggiungerei, dell'antiziganismo. In Italia le formazioni di estrema destra si sono ricostituite sin dall'inizio del secondo dopoguerra e hanno continuato ad esistere fin'oggi, sia pur con vicende alterne, con maggiore o minore evidenza e intensità. Basta dire che l'Msi nacque il 3 dicembre del 1946 e che il Movimento Politico Ordine Nuovo, costituito ufficialmente il 21 dicembre 1969, è stato tra i gli attori principali della “strategia della tensione” e del conseguente stragismo…

… e quanto all'antisemitismo e anche all'antiziganismo da te citato prima…?

… sono tendenze quasi strutturali del nostro Paese (e non solo). Il secondo spesso è stato attivamente condiviso anche dalla sinistra "moderata" e/o di governo. Basta ricordare quel che si scatenò dopo l'omicidio di Giovanna Reggiani, compiuto, a Roma, nel 2007, da un rom di cittadinanza romena.
Certo, con il primo governo Conte e soprattutto con l'opera svolta dal ministro dell'Interno, il leghista Matteo Salvini, si è praticata una sorta di razzismo di Stato. Ma va ricordato che a legittimare la Lega (allora detta Nord) hanno contribuito personaggi quali Massimo D'Alema, che nel 1995 la definì una "costola della sinistra", e Pierluigi Bersani, che nel 2011, in un'intervista ‘esclusiva’ sulla prima pagina de “La Padania”, lodava il Carroccio denegandone il carattere razzista. I due non sono i soli del Pds-Ds ad aver manifestato atteggiamenti quanto meno ondivaghi nei confronti del Carroccio.

Uno dei temi portati avanti dalla Sinistra è quello imperniato sul concetto di “integrazione”. Perché lo critichi nel tuo libro e lo ritieni di nessuna utilità per difenderci dal razzismo?

Lo critico anzitutto perché nella variante italiana è perlopiù inteso e adoperato come sinonimo di ‘assimilazione’: per essere accettate, le persone "non-autoctone" dovrebbero adeguarsi unilateralmente ai valori, costumi e modelli di comportamento della società detta ospitante, rinunciando totalmente ai propri.
In secondo luogo, cerco di dimostrare con esempi concreti che, al contrario di quel che pensano i più, l'integrazione, anche quella correttamente intesa, non necessariamente mette le persone immigrate e rifugiate o appartenenti a minoranze al riparo da discriminazioni e perfino da violenze estreme. Basta citare la strage di Firenze del 13 dicembre 2011 ai danni di cittadini di origine senegalese, appartenenti cioè a una delle minoranze più "integrate", in particolare in quella città. Per non dire dell'assassinio di stampo razzista che si consumò a Udine il 9 luglio 1985: a essere ucciso da due suoi compagni di liceo fu il sedicenne Giacomo Valent, figlio di un italiano, funzionario d'ambasciata, e di una principessa somala.

Spesso si sente dire che l’Italia non è un Paese razzista. Ma è proprio così?

Non porrei la questione in termini assoluti. A essere certo è che in Italia discorsi, discriminazioni e violenze di stampo razzista, fino all'omicidio e alla strage, hanno costellato almeno l'ultimo quarantennio, pur con un andamento variabile. Tutte le fonti disponibili documentano una crescita allarmante degli atti di violenza razzista, in particolare in taluni periodi: per esempio, secondo l'associazione Lunaria, nel 2018 i reati di matrice razzistica e xenofobica sono stati 801, pari al 72,1% del totale; nel 2019, sono stati 726, corrispondenti al 74,9% del totale.
E ciò grazie al ruolo svolto da "imprenditori politici del razzismo", anche istituzionali, governativi, mediatici; nonché grazie a una propaganda e delle retoriche politiche violente e aggressive verso persone immigrate e rifugiate, e verso talune minoranze.
In Italia, come in altri Paesi europei, la forma più persistente e strutturale è quella che ha per bersaglio rom, sinti e caminanti…
.
… ci sono cifre al riguardo?

Sì, lo confermano, anno dopo anno, i sondaggi del “Pew Research Center”, riguardanti i sei Paesi europei più popolosi (Francia, Germania, Italia, Polonia, Spagna e Regno Unito), se l'antiziganismo è ovunque assai diffuso, più che altre forme di razzismo, tuttavia a occupare il primo posto è il nostro Paese.
Ugualmente inquietante è da noi (e non solo) l'attuale impennata di antisemitismo. Nel corso del 2019 ci sono stati almeno 252 episodi di discorsi e atti antisemiti, rispetto ai 197 del 2018 e ai 130 del 2017: dalla denegazione della Shoah, soprattutto tramite il web, alla distruzione di pietre d'inciampo, dalle minacce a Liliana Segre fino a due casi di aggressione fisica.
Infine, a tutto quel che ho detto finora occorre aggiungere che il sistema-razzismo è riprodotto, avvalorato, legittimato anche da un complesso di leggi, norme, procedure: ciò che viene detto “razzismo istituzionale”. Anche rispetto a questo la sinistra "moderata" di governo ha dato un contributo rimarchevole, come documento in questo volume.

…………………………...

Annamaria Rivera
Razzismo
Pagine 176, Euro 17.00
Dedalo Edizioni


Tautogramma

Un giocologo si aggira per l’Europa…
Per indovinare chi è avete un nanosecondo… mi dispiace, tempo scaduto. Ci vuole, infatti, un nanosecondo per indicare il nome di Ennio Peres (in foto) che è il più famoso “giocologo” (la definizione è sua) di lettere e anche numeri che esiste al mondo.
Forse non sapete che è anche astronauta, infatti, se cliccate qui troverete un nostro colloquio che si svolse nell’enoteca da me gestita sull’Enterprise di Star Trek.
A proposito di Peres, non perdetevi il suo più recente libro Che cosa sono gli algoritmi.
A un tipo così poteva sfuggire un intervento sul Coronavirus? Certo che no.
Ha lanciato in Rete uno delle sue elettriche composizioni. Eccola qui di seguito.

Per sdrammatizzare un po' la situazione (e per occupare creativamente il tempo libero), Mario Rosati, responsabile della Cooperativa Sociale Opera di Urbino, ha proposto di cimentarsi con il gioco del tautogramma; ovvero con la composizione di un testo tematico, composto unicamente da parole che iniziano con la stessa lettera. Non ho potuto resistere alla tentazione di raccogliere tale sfida, scegliendo la lettera «C». Qui di seguito, riporto il frutto delle mie elucubrazioni

Che colossale casino combinasti, criminale Coronavirus!
Cominciasti contagiando comuni cittadini cinesi. Continuasti corrompendo circostanti comunità. Con cinica caparbietà, corrodesti confini custoditi con caduchi controlli, creando catastrofi cosmiche (clonando Chernobyl...).
Con consumata capacità, consulenti clinici competenti curano cagionevoli casi critici; comunque, crescono considerevolmente capitolazioni cruciali. Colpiti con cocente crudezza, ci cogliamo confusi, cercando confortanti consigli concreti.
Come contrastare cotanto cataclisma?
Con chiari comunicati convincenti, capo carismatico Conte chiede cortesemente: cambiamo contegni collettivi, coltiviamo classici costumi casalinghi, cauteliamo continuamente candore corporeo, cospargiamo con candeggina cose contaminate, cassiamo confidenziali contatti con cento centimetri carenti... Chiudiamo chiese, cinematografi, club, circoli culturali, caffè, centri commerciali; congeliamo concorsi, campionati, competizioni; cancelliamo concerti, convegni, congressi, conferenze... Certamente, causeremo consistente crisi congiunturale. Ciononostante, cooperiamo correttamente con civica consapevolezza. Con codesti coraggiosi comportamenti, circoscriveremo convenientemente calamitosi contagi.
Confido che così, crudele Covid-19, contorcendoti creperai!
Ci conto...


Il virus in platea

Da alcuni decenni faccio parte della famiglia dello Spettacolo e dal basso dei miei ultratrentennali contributi Enpals so bene che cosa significhi attraversare i giorni tremendi che stanno vivendo chi lavora nei cinema, nei teatri, nelle compagnie, al doppiaggio, negli studi radiofonici, nelle troupe cinetv, al montaggio.
Fra le tante categorie colpite dall’emergenza sanitaria, si è parlato poco sui media di quanti lavorano su scene e set. Non è cosa nuova. Probabilmente accade perché il pubblico, e chi fa informazione, pensa alle star, ai loro lauti cachet, non a quanti svolgono, pur valorosamente, ruoli sia artistici sia tecnici non retribuiti con scritture dorate.
Aldilà di questo momento particolare, la situazione anche in altri periodi di queste migliaia di donne e uomini non è tra le migliori.
Ecco perché presento oggi un’intervista che proprio di questi problemi tratta.
La raccolgo da una segnalazione dell’ApTI (Associazione per il Teatro Italiano), una sede eccellente per il lavoro che produce a favore delle categorie artistiche.
Noto dai comunicati che mi raggiungono che molto si deve all’attrice Benedetta Buccellato che, sottraendo tempo alla sua vita professionale e privata, anima l’Associazione. E la trovo anche impegnata in una difficile vertenza che riguarda la Fondazione Piccolomini sulla quale troverete, trascorso questo periodo terrificante, una nota su queste pagine web.

L’intervista cui accennavo prima è stata rilasciata a Emanuele Ghiani dall’attore Massimo Dapporto presidente dell’ApTI.
L’ha pubblicata il quotidiano on line “Il Diario del Lavoro”.

CLIC per leggere.


L'impagabile Messina


In alcune righe scritte giorni fa, ricordavo i benefici che hanno apportato nelle nostre vite le nuove tecnologie, lo ricordavo ai tanti oscurantisti e parrucconi che le odiano e le incolpano d’ogni male dei nostri giorni.
Oltre alle ricerche scientifiche (utili quant’altre mai in questo periodo di Covid-19) alle tante altre cose pratiche che ci permettono, indicavo in quel pezzo anche le non poche possibilità di svago che ci consentono.
Ne abbiamo bisogno soprattutto nella forzata clausura che siamo costretti ad osservare a causa dell’epidemia in corso.
Tra le occasioni citate allora, non conoscevo un’altra (di non solo svago) che segnalo adesso.
Si tratta di una diretta Facebook che ogni giorno alle 19.00 (ma è possibile ascoltare la registrazione anche il giorno dopo) Sergio Messina mette on line dal suo sito web.
Ascolto di una cosa al giorno profilata in maniera colta e non culturale fra due brani musicali in tema con quella cosa tirannicamente scelta da Sergio.

Basta un CLIC per godere una festa acustica di 30 minuti.


Upgrade in Progress


A Modena, a causa dell’emergenza sanitaria, è stata sospesa la mostra dell’artista coreana Geumhyung Jeong, a cura di Diana Baldon, intitolata Upgrade in Progress.
La Fondazione Modena Arti Visive, però, ha lanciato FMAV InsideOut, un palinsesto online attraverso cui il pubblico, potrà continuare a visitare le mostre, partecipare ad attività e laboratori didattici a distanza collegandosi QUI e ai canali social della Fmav: Facebook, Istagram, Youtube.
Daniele Pittèri, direttore generale della Fondazione, ha presentato l’iniziativa con un video.

Torniamo a Jeong.
È questa la sua prima personale in un’istituzione d’arte contemporanea italiana. Nell'occasione presenta una nuova installazione site-specific, commissionata dalla Fondazione Modena arti Visive.
Nata nel 1980 a Seoul, dove vive e lavora, Jeong ha studiato recitazione alla Hoseo University di Asan (Corea del Sud), danza e performance alla Korean National University of Arts e cinema di animazione alla Korean Academy of Film Arts (entrambe a Seoul).
Fin dall’inizio della sua carriera, l’artista ha dedicato il suo lavoro allo studio del rapporto tra il corpo umano e gli oggetti quotidiani inanimati attraverso delle produzioni che combinano linguaggi e tecniche provenienti dagli ambiti della danza contemporanea, del teatro di figura e delle arti visive.
L’artista si è distinta a livello internazionale nell’ambito delle arti performative in cui si esibisce con apparecchi elettronici dalle sembianze umanoidi.
La sua può essere vista come un’operazione ponte fra l’asserito controllo tecnologico della realtà e le modificazioni che la realtà stessa nell’epoca delle “psicotecnologie” (copyright Derrick de Kerckhove) impone invece alla nostra percezione sia fisica sia psicologica.
“Upgrade in Progress” è un aggiornamento in corso del rapporto storico ed esistenziale fra i corpi e gli oggetti nel mondo contemporaneo fatto di tecno-realtà che, come tutti i momenti del progresso alterna cose buone ad altre meno buone, ma – quello che segue è un parere personale – rispetto ad epoche passate ha un bilancio largamente positivo.

Estratto dal comunicato stampa
«Upgrade in Progress è l’ulteriore sviluppo di Homemade RC Toy, una serie di sculture meccaniche a controllo remoto realizzate dall’artista nel 2019 per la sua personale alla Kunsthalle Basel, e di Small Upgrade, presentato lo stesso anno alla 5° Ural Industrial Biennial of Contemporary Art (Russia). Per via della loro realizzazione fai-da-te con componenti acquistati online, e avendo Jeong imparato da autodidatta codici meccanici e di programmazione, i suoi “robot” risultano estremamente amatoriali e i movimenti ad essi infusi alchemicamente dall’artista appaiono imprevedibili e sgraziati.
Come suggerisce il titolo della mostra, questo nuovo gruppo di opere è il prosieguo di una narrativa allegorica intrapresa lo scorso anno. Questi robot meccanici a controllo remoto sono costruiti con caratteristiche visive e strutturali simili a quelle dei “modelli” precedenti, ma possiedono una maggiore varietà di movimenti grazie a una progettazione che, oltre ad aumentarne la flessibilità, controlla anche lo strano aspetto di alcune parti del loro corpo. Le sculture sono collocate su una serie di piani di lavoro modulari che trasformano le sale della Palazzina dei Giardini in un unico palcoscenico e al tempo stesso in un’officina che l’artista utilizzerà concretamente nel corso della mostra. Grazie a questa specifica ambientazione spaziale, l’opera non è solo una statica rappresentazione del luogo in cui Jeong svolge test ed esperimenti sui propri “giocattoli”, ma si trasferisce, tramite l’azione dell’artista, in una serie di video che agiscono come tutorial, appositamente prodotti e disposti lungo il percorso espositivo».

La curatrice Diana Baldon conclude: “Trasformando questa scenografia ipertecnologica con il solo potere dell’immaginazione creativa, la mostra di Jeong rivela ciò che sta oltre la profonda materialità del corpo tecnologico: una gabbia che ha bisogno di riappropriarsi sia del corpo mortale che del suo controllo, di cui però solo la mente dell’artista ha la chiave”

Ufficio Stampa: Irene Guzman, i.guzman@fmav.org

Geumhyung Jeong
Upgrade in Progress
A cura di Diana Baldon
Fondazione Modena Arti Visive
Palazzina dei Giardini
Corso Cavour 2, Modena
Tel. 059 - 239.888
Mail = info@fmav.org
Fino al 2 giugno 2020


Palpebre

La casa editrice Fefè nella collana Superfluo Indispensabile ha pubblicato Palpebre confine mobile tra visibile e invisibile.

L’autore è Domenico Massaro.
Docente di logica filosofica, è stato membro del direttivo nazionale della Società filosofica italiana. Dirige il Corso di filosofia dell’Università età libera di Arezzo-Bibbiena.
Tra i suoi libri: “Il filo di Sofia. Etica, comunicazione e strategie conoscitive nell’epoca di Internet” (Bollati Boringhieri); “Questioni di verità” (Liguori); “Dialoghi con la regina” (Guida); “La filosofia, una cura per la vita” (Marinotti Edizioni); “Leggere Nietzsche” (Helicon Edizioni); “La comunicazione filosofica, in tre volumi per i licei” (Pearson); “Il pensiero che conta” (Pearson); “La meraviglia delle idee” (Pearson); “A spasso con Socrate”; “L’uomo della luna, Giordano Bruno e l’infinito” (narrativa per ragazzi); la pièce sulla vita di Giordano Bruno intitolata “La notte prima”.

CLIC per la presentazione editoriale.

Domenico Massaro
Palpebre
Pagine 154, Euro 12.00
Fefè Editore


Debre Libanos 1937 (1)

La casa editrice Laterza ha pubblicato un poderoso saggio che ricorda una strage compiuta da noi italiani tanto tempo fa e risulta quanto mai necessario in un momento come quello che viviamo in cui il risultato della fusione di un enfatico sovranismo con un nazionalismo dalle voci patriottarde è un’aria avvelenata che rende la nostra società sempre più intollerante e rabbiosa.
Titolo del libro: Debre Libanos 1937 Il più grave crimine di guerra dell’Italia.
L’autore è Paolo Borruso.
Professore associato di Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica di Milano, è studioso dell’Africa contemporanea, ha svolto le sue ricerche tra Roma, Londra e Addis Abeba, occupandosi dell’espansionismo coloniale italiano ed europeo, delle missioni cattoliche, delle sorti dell’impero etiopico lungo il ’900, dei processi d’indipendenza e dell’Africa postcoloniale.
Tra le sue pubblicazioni: “L’ultimo impero cristiano. Politica e religione nell’Etiopia contemporanea (1916-74)” (Guerini e Associati 2002); “L’Africa al confino. La deportazione etiopica in Italia (1937-39)” (Lacaita 2003); “Il PCI e l’Africa indipendente. Apogeo e crisi di un’utopia socialista (1956-1989)” (Le Monnier 2009); ha curato nel 2015 per Cedam “L’Italia in Africa. Le nuove strategie di una politica postcoloniale”.

Leggendo le avvincenti pagine del lavoro di Borruso, mi è venuto alla mente un ricordo. Assistevo alla tv a un dibattito tra Zagrebelsky e Renzi. A un tratto costui, con quell’aria falsamente indignata che spesso assume, a una pacata verità esposta dall’illustre costituzionalista, lo interruppe dicendo “Lei offende l’Italia!”. E quella battuta suscitò in me un altro ricordo televisivo. Una puntata di “Tribuna politica” di tanti anni fa. Ingrao accennava a misfatti combinati dalle nostre truppe in guerra, un tale saltò su e lo interruppe dicendo “Lei offende l’Italia!”.
Insomma, ogni volta che non ci si gonfia il petto d’ambiguo patriottismo cantando inni con la mano destra sul cuore (dalle parti dove c’è anche il portafogli), “si offende l’Italia”.
Ben vengano quelle offese se documentano nostre colpe passate o presenti, perché servono a renderci coscienti non solo e soltanto delle nostre glorie, e sono tante, ma anche dei misfatti, e sono tanti, da noi compiuti, nella speranza che la lezione morale – come quella che proviene dal libro di Borruso – faccia riflettere proficuamente su quegli orrori commessi.

Dalla presentazione editoriale

«Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche».

Segue ora un incontro con Paolo Borruso.


Debre Libanos 1937 (2)

A Paolo Borruso (in foto) ho rivolto alcune domande.
Da quali motivazioni è nato questo libro?

Dall’esigenza di far conoscere al largo pubblico una tragica vicenda, nota solo agli studiosi, di cui si erano perse le tracce nella memoria storica collettiva e di fronte alla quale le stesse istituzioni non hanno mai preso una chiara posizione, nonostante le dichiarazioni di impegno espresse nel 2017. L’Italia, infatti, nonostante la propaganda di guerra avesse insistito sulla “missione civilizzatrice ed evangelizzatrice”, è stata la responsabile diretta del più grave eccidio di cristiani in Africa, il cui numero di vittime ha superato quello delle stragi compiute dai nazifascisti sul territorio italiano durante la seconda guerra mondiale. Si è trattato – come recita il sottotitolo – di un vero e proprio crimine di guerra dell’Italia, il più grave, mai riconosciuto pubblicamente e i cui responsabili non furono mai processati.

Nell’accingersi a scrivere questo saggio quale cosa ha deciso fosse necessaria da fare assolutamente per prima e quale da evitare assolutamente per prima?

Da storico contemporaneista, e in particolare dell’Africa, ho ritenuto necessario seguire una rigorosa metodologia, che consentisse di focalizzare la vicenda in un preciso contesto storico, evitando una narrazione “semplificata” della sola vicenda, senza l’analisi di un quadro più ampio e una solida base documentaria. Ho proceduto, pertanto, ad una ricognizione delle fonti bibliografiche e d’archivio, che avevano reso nota la vicenda agli studiosi, a partire dagli studi di Angelo Del Boca, collegandoli con la storiografia successiva sia italiana che europea, in particolare anglo-sassone e francese.

Perché fu scelto il bersaglio Debre Libanos?

Debre Libanos è il più celebre monastero dell’Etiopia, fondato nel XIII secolo dal santo Takla Haymanot, e il cuore del più antico cristianesimo africano, radicatosi in Etiopia fin dal IV secolo d.C. non per l’azione missionaria europea ma proveniente direttamente dall’originaria area mediorientale. Lungo i secoli, la Chiesa etiopica aveva stretto un legame vitale con l’istituzione imperiale, di cui rappresentava una fonte di legittimazione, e l’imperatore stesso – negus neghesti (Re dei Re) – ne era di fatto il “protettore”, nonostante la formale dipendenza della Chiesa etiopica dal patriarcato copto di Alessandria d’Egitto. L’Etiopia è stato l’«ultimo impero cristiano», come ho scritto qualche anno fa in un mio precedente libro. Quando l’Italia fascista ha occupato l’Etiopia nel 1935-36, il maresciallo Rodolfo Graziani, nominato viceré per l’Africa Orientale Italiana, decise di stroncare definitivamente la Chiesa etiopica e di asservirla al regime coloniale, quale pericoloso elemento di continuità con quell’impero etiopico appena estromesso. Oltretutto, la Chiesa venne accusata di connivenza con la Resistenza etiopica, che si era andata organizzando dopo il ’36…

… era visto quindi come un nemico pericoloso

Peggio. Era un nemico interno da eliminare. L’attentato subìto da Graziani il 19 febbraio ’37, dal quale si salvò, fu il pretesto per mettere in pratica una strategia repressiva, che mirava a colpire la Chiesa etiopica nel suo cuore pulsante: Debre Libanos è anche il più frequentato santuario d’Etiopia come meta di pellegrinaggio. Non a caso, Graziani scelse il 21 maggio come data dell’operazione in quanto festa del santo Takla Haymanot, giorno di massima affluenza di pellegrini. L’azione prese corpo anche sulla base di pesanti giudizi di disprezzo sulla fama di “eretici”, scismatici o, comunque, rappresentanti di un cristianesimo non autentico, attribuita agli etiopici e alla loro Chiesa, già emersi nella propaganda di guerra messa in atto dal regime nel ’35 – a cui non fu estranea la Chiesa cattolica –, ma che legittimarono la necessità di una soluzione militare. Come ho raccontato, l’azione andò molto al di là della logica militare, provocando un vero e proprio eccidio di vittime inermi, sacerdoti, monaci, laici e giovanissimi diaconi, con molti danni collaterali, come la deportazione dei sopravvissuti e il trafugamento di beni preziosi e sacri conservati nel villaggio monastico.

Perché non c’è stata una Norimberga italiana?

Per motivi diversi. Il negus Haile Selassie rientrò in Etiopia nel ’41, durante la seconda guerra mondiale, con l’aiuto degli inglesi: fu l’inizio della disfatta degli italiani. Nel dopoguerra, l’Etiopia sollevò la questione delle responsabilità italiane alla commissione per i crimini di guerra delle Nazioni Unite, sulla base della documentazione in suo possesso, con una precisa lista di ufficiali militari. Ma le dinamiche burocratiche e procedurali, nonché la persistente ostruzione britannica, costrinsero gli etiopici a rinunciare all’incriminazione delle autorità italiane per i fatti di guerra. Oltretutto, il sovrano intendeva riprendere il processo di modernizzazione dello Stato, iniziato nei primi decenni del ‘900 e interrotto bruscamente dall’occupazione italiana e dalla guerra mondiale. A questo scopo, mirò a rivitalizzare l’identità cristiana quale fondamento dell’unico Stato a non aver subìto l’assoggettamento coloniale avvenuto nel resto dell’Africa: Debre Libanos tornò ad essere centrale per la ripresa della devozione popolare, e l’imperatore diede avvio ad una ricostruzione dell’intero monastero, distrutto dagli italiani. È da ricordare che il negus, anche al momento della resa italiana, non ebbe mai sentimenti anti-italiani, e anche al suo popolo raccomandò questo atteggiamento di clemenza…

… e per quel che riguarda l’Italia?

… per quel che riguarda l’Italia il trattato di pace del febbraio ’47 impose la rinuncia alle ex colonie, nonostante l’aspirazione a rientravi in possesso, e la obbligava a restituire i beni trafugati. Questo impegno fu disatteso fino al 2008, quando fu restituito il solo obelisco di Axum, mentre gran parte dei beni non fu mai ritrovato. L’Italia del dopoguerra, del resto, andò concentrando l’attenzione sulla ricostruzione politica e civile del paese, sulla base di una cultura resistenziale. La questione coloniale, nel suo complesso, fu accantonata e i responsabili dell’eccidio non furono mai processati. Il passato coloniale rappresentò un tema imbarazzante per quanti ne erano stati coinvolti e si preferì evitare una seria ricostruzione storica. Questo mancato dibattito favorì il mito dell’«Italiano brava gente». Fu solo alla metà degli anni ’60 che, con il primo coraggioso studio di Angelo Del Boca sulla guerra d’Etiopia, prese avvio un percorso di studi sull’Italia coloniale sulla base di documentazione d’archivio inedita, svelandone le logiche di sopraffazione e le violenze delle azioni repressive.

Prima lei ha ricordato una dizione divenuta popolare: “Italiani brava gente”, titolo d’un film di Giuseppe de Santis. Com’è nata la leggenda “Italiani brava gente”… il mito dell’italiano buono, portatore di civiltà?

Certamente, l’Italia del dopoguerra, provata dalla dura esperienza della guerra, aveva bisogno di un’autorappresentazione positiva da proporre come modello antropologico per la ricostruzione civile del paese. Il film di De Santis, con il dramma della partecipazione alla campagna di Russia, mostrava un italiano «vittima» di una logica bellicista, coinvolto in una guerra di cui scopre sul terreno tutte le durezze e le atrocità, e la falsità dell’esaltazione propagandata dal regime fascista. Il confronto con le sofferenze del passato portava così a valorizzare la forte ripresa economica degli anni ’60, vista come una pagina nuova e tutta positiva della condizione di una nuova Italia, democratica e divenuta potenza industriale. Fu un’immagine particolarmente efficace, tanto che finì per essere trasferita sul tema coloniale ed essere assecondata da quanti ne erano stati diretti protagonisti, esorcizzando il senso dell’onta subita. Il richiamo più comune e ricorrente di questo colonialismo “bonario” riguardava, ad esempio, le opere pubbliche costruite dagli italiani, come le strade asfaltate e le aziende agricole con nuove tecniche di coltivazione della terra.

Piero Gobetti: "La storia è sempre più complessa dei programmi".
“La Rivoluzione liberale”, 1924.

Alain: "La storia è un grande presente, e mai solamente un passato".
“Le avventure del cuore”, 1945

Elias Canetti: "Imparare dalla storia che da essa non c'è niente da imparare".
“La tortura delle mosche”, 1992.

E per Paolo Borruso la Storia che cos’è?

A questa domanda, vorrei rispondere richiamandomi a due grandi maestri, come Henri Marrou e Marc Bloch, per dire che la storia è “conoscenza” del passato ed ha per oggetto anzitutto gli uomini e le donne del passato e le loro relazioni nel tempo, è alla base di una visione umanistica… ma, come Marrou e Bloch hanno insegnato, una definizione della storia è strettamente legata alle sue funzioni: a che serve la storia? La conoscenza del passato getta luce sul presente, permette di comprenderne le dinamiche e la complessità, e consente di intuire possibili esiti nel futuro… oggi, in un’epoca particolarmente dominata dalle semplificazioni mediatiche, può avere una insostituibile funzione di ricostruzione civile, cioè di rifondare una sensibilità dell’umano contro potenziali derive disumanizzanti: c’è stato infatti un progressivo distacco tra cultura e conoscenza del passato, che ha lasciato spazio a letture semplificate e rozze della realtà, quali si percepiscono ad esempio in certi “stereotipi del passato” sul nero e sull’africano, che riemergono con volgarità nei confronti degli immigrati… in questo senso, la conoscenza storica ha un’importante funzione di resistenza civile. “Debre Libanos” assume così un valore più profondo della pur tragica vicenda in sé, perché impegna a riconoscere oggi le responsabilità di ieri e a fare i conti con quel passato, in una storia di lungo periodo di cui facciamo parte.
………………………
Paolo Borruso
Debre Libanos 1937
Prefazione di Andrea Riccardi
Pagine 244, Euro 20.00
Laterza


Livori e rancori

L’epidemia in corso ha dato l’occasione a molti tecnofobi di sbraitare sulla inutilità dei nuovi sistemi tecnici quando si è colpiti da un avvenimento in corso come il Covid 19. Ed ecco: “la mobilità è il morbo”, “l’uomo che torna solo”, “l’impotenza delle macchine”, “la morte che vince il nuovo”, e via strepitando. E, ovviamente, colpevolizzando i difensori e propugnatori delle nuove tecnologie come chi sta scrivendo ne fa parte.
La rapidità della circolazione raggiunta da noi umani se favorisce tantissime cose può anche favorire avvenimenti negativi: terrorismo, contagi.
Bene ha spiegato il sociologo francese Paul Virilio che la velocità, figlia della modernità, ha un prezzo. In pratica, il volo dell’aereo – sostiene – comprende la caduta, l’automobile lo scontro, il treno il deragliamento.
Aggiungo: possiamo fare a meno dell’aereo, dell’automobile, del treno?
Dobbiamo essere contro l’elettricità perché è usata anche per la sedia elettrica?
L’’energia atomica ha provocato disastri bellici e industriali però esistono grazie a quel tipo d’energia applicazioni nell’area medica e biologica senza la quale non potremmo combattere parecchi tumori, in chimica quelle applicazioni favoriscono la nascita di nuovi farmaci, in metallurgia abbiamo la produzione di leghe che rendono possibili nuovi contenitori per difenderci da sostanze nocive o per realizzare protesi robotiche che ridanno passo e movimenti ai paralizzati.
Che oggi si viva meglio di ieri è innegabile.
Pensateci, cari oscurantisti, com’è comoda la scoperta dell’anestesia mentre state seduti dal dentista. Quando potete giovarvi del trapianto di alcuni organi. E in tante altre occasioni che non riguardano il corpo.
Il Covid-19 ha dato la stura a risentimenti da sempre malcelati. Eppure, anche in questo caso sventurato del Coronavirus le speranze di vincerlo stanno proprio sul nuovo delle ricerche. Il vaccino utile, dai nuovi strumenti verrà.
E ancora: in questi giorni che ne sarebbe stato della scuola senza l’attivazione del web per la didattica a distanza? E restando sull’informatica che odiate tanto: ai supermercati si può, standosene a casa, riducendo contagi, ricevere a domicilio la merce più necessaria ordinata via mail. È stata resa possibile la visita telematica gratuita messa su da musei e gallerie private. Tante case editrici offrono possibilità di sconti con consegne a domicilio, così come altre addirittura e-book gratis. Si possono vedere film anche oltre la programmazione tv. Senza dire poi dei lavori svolti da sedi domiciliari (da decenni, meritevole di ben altro ascolto, esistono studi e proposte applicative di Domenico De Masi sul telelavoro) che, pur tardivamente utilizzati, hanno impedito lo stop a tante produzioni. La clausura può essere alleviata da tante attività ludiche: QUI uno sguardo.
Chiaro che corrono, circa questo virus, anche sui computer cose false o inesatte, ma è pure possibile sbugiardarle. Cito due occasioni.
Primo esempio: la smentita ad una pubblicazione a dir poco spericolata, e un secondo che replica addirittura ad un’istituzione; proviene dall’impagabile sito web di Sergio Messina, interprete dell’intermedialità dei linguaggi, musicista notato da Frank Zappa.


Lo schermo dell'Arte

A proposito di quanto ho scritto nella nota precedente, voglio citare un esempio.
Non è il solo, ma: a) non posso citarli tutti; b) proviene da una sede eccellente.

Uno dei più affermati Festival che punta da anni alla verifica delle relazioni fra arti visive e cinema è .Lo schermo dell'Arte.
Ho ricevuto un comunicato che volentieri rilancio.

«Lo schermo dell’arte reagisce alla gravità della situazione e all’annullamento delle manifestazioni culturali nel nostro paese, con una proposta attiva di condivisione pubblica per portare l’arte e la cultura nella vita quotidiana: lo streaming gratuito di film d’artista del suo archivio grazie alla partnership con MYmovies e alla generosa concessione delle opere da parte degli autori.

Dal 12 marzo al 3 aprile 2020, alcuni film dall’archivio dello Schermo dell’arte saranno visibili in streaming gratuito sulla piattaforma MYmovies.
Ad oggi hanno aderito: Phil Collins, Jordi Colomer, Jeremy Deller, Rä di Martino, Rebecca Digne, Omer Fast, Flatform, Alfredo Jaar, Adrian Paci, Martina Melilli, Luca Trevisani.

L’arte sa inventare soluzioni in grado di oltrepassare le difficoltà. Chiamati dallo Schermo dell’arte gli artisti hanno immediatamente aderito mettendo a disposizione i propri film.
A loro va la nostra più sincera gratitudine.
L’arte è sempre frutto di urgenza. Un’urgenza intima espressiva che dà risposte creative in forma di opera alle sollecitazioni del tempo. Attraverso gli strumenti che le sono propri, l’arte genera riflessione e socialità diventando di proprietà collettiva. Oggi tale dimensione ampia e aperta è annullata, sostituita da un nuovo tipo di emergenza collettiva dalle conseguenze sociali potenzialmente devastanti. È a questo che vogliamo reagire.
Se tanti musei, fondazioni, mostre e teatri chiudono, se molte iniziative vengono rimandate è necessario dare un segnale forte e portare l'arte nella vita quotidiana delle persone affinché la cultura continui a nutrire l’anima e lo sguardo».

Ufficio Stampa: Studio Ester Di Leo
Via Francesco Petrarca 60 | 50124 Firenze | +39 055 223907
ufficiostampa@studioesterdileo.it

Film dall’archivio dello Schermo dell’arte
Streaming gratuito su MYmovies
12 marzo – 3 aprile 2020


Mostra su Ernesto Rossi


Forse ai più giovani il nome di Ernesto Rossi (in foto) può essere poco noto o addirittura sconosciuto. Eppure, una parte delle libertà (che vanno oggi paurosamente restringendosi) dei nostri tempi la dobbiamo proprio ad uomini come lui che opponendosi al fascismo, alle politiche del Vaticano, e a ogni forma di pensiero unico (anche quando proveniente da sinistra) hanno creato presupposti di pensiero libero.
Rossi pagò cara la sua onestà morale e politica: ostracismo, 9 anni di carcere, confino.
Ho cari sui miei scaffali vecchie edizioni di due suoi grandi libri “Il Sillabo” e “Il manganello e l’aspersorio”, difficili da trovare, ma QUI, forse, ci sono ancora.
È importante ricordare la sua vita e le sue opere come fa una mostra a Pontassieve intitolata Utopie e Riforme. L'insegnamento di Ernesto Rossi (1897 - 1967).a cura di Enzo Marzo e Franco Corleone.

A Enzo Marzo ho rivolto alcune domande.
Ai più distratti ricordo che già giornalista al Corriere della Sera, è direttore di Critica Liberale e della preziosa testata on line “Non Mollare” che si richiama alla omonima famosa pubblicazione clandestina antifascista https://it.wikipedia.org/wiki/Non_Mollare
In tanti suoi interventi parlati e scritti ha manifestato sempre il coraggio delle proprie ragioni anche a costo di patire talvolta solitudine; non è un caso che il motto da lui scelto su facebook sia “etsi omnes, ego non” che mi ricorda tanto il Berenger di Ionesco che decide di resistere, mentre tutti si piegano ai rinoceronti che hanno invaso il paese.

Enzo, qual è stata l’importanza di Ernesto Rossi e della sua azione politica?

Perché è la testimonianza italiana più rigorosa di un liberalismo non solo “pensato” ma vissuto fino in fondo, senza mai compromessi. Dal carcere fascista alle battaglie settimanali sul “Mondo” e sull’”Astrolabio”, che costituiscono quasi un unicum di impegno giornalistico fatto di conoscenza minuziosa di ciò che si scrive. Il suo impegno riformatore è stato determinante in quei pochi mesi di vero centrosinistra che ha vissuto l’Italia in tutto il dopoguerra. Le sue proposte riformatrici, dopo decenni, sono ancora valide. Purtroppo, come quelle del suo maestro Luigi Einaudi, sono state soltanto Prediche inutili, così la storia del nostro paese è stata ed è quella che abbiamo vissuto e stiamo vivendo. Sarebbe fondamentale riprendere lo spirito di Rossi e riportarlo nel dibattito pubblico così degradato.

Perché ancora oggi (o, forse, specialmente oggi) è legittimo parlare dell’attualità del suo pensiero?

Noi abbiamo vissuto, dalla Thatcher e da Reagan in poi, un periodo che è durato decenni dove hanno trionfato un pensiero e delle politiche pubbliche di stampo liberista, più o meno selvaggio, che hanno fatto strage dello stato sociale keynesiano. Il risultato lo abbiamo davanti agli occhi. E paradossalmente questa politiche si sono chiamate “liberiste”, anche se sono state esattamente il contrario del liberismo classico. Quindi non è stato solo Keynes la grande vittima del reaganismo, ma anche i liberisti alla Ernesto Rossi: Ernesto Rossi, fu liberista tutta la vita, ma per tutta la vita fu il più acceso avversario del protezionismo e dei monopoli. Mi sembra che ora il fallimento del capitalismo senza regole sia evidente. L’affermazione di una economia di mercato regolato che tenga conto delle disuguaglianze sociali, che tenti di ridurre il divario ingigantito tra ricchezza e povertà, che rimetta in modo l’ascensore sociale tanto caro a Rossi, sia ormai un compito urgente, a meno che non si voglia consegnare l’Occidente ai nazionalismi che così “bei” risultati ha prodotto nel Novecento.

Come nasce la mostra in corso e su quale concetto è imperniata?

La mostra "Utopia e Riformei" è una nuova edizione di quella realizzata da Critica Liberale e dal Club il Politecnico nel 1984, a cura mia e di Franco Corleone.
I pannelli della attuale mostra furono realizzati nel gennaio 1998 in occasione del convegno di Verbania, nei locali dell'ex carcere di Pallanza dove Ernesto Rossi sposò Ada Rossi, che concluse gli eventi per il centenario della nascita. Negli anni la mostra, conservata e promossa dalla Fondazione Rossi-Salvemini, ha avuto esposizioni a Torino, Bologna, Firenze…

… e ora Pontassieve

… sì, adesso l’esposizione di Pontassieve. È stata realizzata in collaborazione con il Circolo Rosselli Valdisieve. A corredo dei testi i 20 pannelli della mostra sono illustrati con documenti provenienti da una bellissima collezione fotografica resa allora disponibile da Ada Rossi e oggi conservata presso gli Archivi Storici dell'Unione Europea insieme a tutte le carte dell'Archivio Rossi. La mostra vuole proporre e riproporre al pubblico, ed in particolare nella presente occasione alle molte decine di giovani che giornalmente frequentano la Biblioteca, il percorso umano, intellettuale e politico di Ernesto Rossi, antifascista democratico, economista, giornalista, federalista ed estensore, con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni del "manifesto di Ventotene". Corredano la mostra anche copie di libri di Rossi che resteranno in dotazione alla Biblioteca, e una sezione storico documentaria dedicata alle origini piemontesi della famiglia Rossi della Manta.
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Ernesto Rossi: Utopie e Riforme
a cura di Enzo Marzo - Franco Corleone
Biblioteca Comunale, via Tanzini 23, Pontassieve
Info: Tel. 055 8360255
biblioteca@comune.pontassieve.fi.it
Fino all’1 aprile 2020

Informarsi per eventuali proroghe della data di chiusura.

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Nel rispetto del Decreto 8 marzo 2020 firmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, al fine di contenere la diffusione del contagio da Coronavirus, da domenica 8 marzo a venerdì 3 aprile compresi, è sospesa l'apertura di musei e biblioteche e di tutti gli altri luoghi della cultura (archivi, aree e parchi archeologici, complessi monumentali), sono sospese inoltre le manifestazioni, gli eventi e gli spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali, svolti in ogni luogo, sia pubblico sia privato.
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Ionisation

Sean McCann è titolare delle Edizioni Recital di Los Angeles e presenta il primo LP di Adriano Spatola. È la sua prima monografia sonora in assoluto. Ha, infatti, sempre pubblicato brani disseminandoli qua e là, specialmente in cassette, ma mai in un'opera organica.
Questa edizione l'ha curata Giovanni Fontana un protagonista della poesia sonora che sperimenta da decenni le risorse dell’intercodice con le sue plurali possibilità, in primis tecnologiche, offerte da tutti gli spazi, i supporti e le tecniche della multimedialità artistica.

A lui ho chiesto di parlare su “Ionisation”.

«All'interno della custodia, oltre al vinile (che ormai sta riprendendo il volo, specialmente tra i collezionisti) c'è un CD (per coloro che preferiscono questa modalità di ascolto) e un libretto con un mio testo di presentazione, uno scritto di Adriano, biografia, dati tecnici, foto e poesie concrete.
Fortunatamente ho incontrato l'entusiasmo di questo giovane editore, che, con i tempi che corrono, non esiterei a definire eroico.
Nel testo in inglese McCann traccia un rapido percorso biografico e si sofferma sulla qualità dei brani raccolti nel disco, sottolineandone l'ironia, il suo particolare umorismo, il suo carattere dissacrante. E sottolinea che l'LP si conclude con il brano intitolato "Ionisation" (che dà il titolo alla raccolta), registrata poco prima della sua morte prematura nel 1988. È la sua ultima performance, tenuta a Roma, a piazza Margana, nella quale si batte il corpo con il microfono. Strano ma vero, Adriano annuncia al pubblico il suo intervento dicendo : "Mi onoro di questa morte. Farò una marcia funebre sul mio corpo".
Nel disco ci sono anche cose rare e un paio di inediti. Tra coloro che collaborarono alle registrazioni ci sono Gian Paolo Roffi, Giulia Niccolai, Paul Vangelisti, Tiziano Spatola, fratello di Adriano, Giuliano Zosi, e perfino Steve Lacy, che in "Hommage à Eric Satie" (un pezzo originariamente registrato per la mitica raccolta "Futura", curata da Arrigo Lora Totino per la Cramps di Gianni Sassi), suona oltre al sassofono, anche forbici e coltello!
Nel suo testo di presentazione McCann dichiara, tra l'altro, di essere nato subito dopo la morte di Adriano, il che ha un gran significato poetico per lui. Egli scrive : "Sono in debito con lui, con i suoi modi maliziosamente dolci. L'opportunità di pubblicare queste opere sonore, in gran parte sconosciute, è un onore che mi riscalda il petto"».

Cliccare QUI per un ascolto.


Muntadas Interazioni

Promossa da Istituzione Bologna Musei | MAMbo - Museo d'Arte Moderna di Bologna, in collaborazione con Artium, Centro-Museo Vasco de Arte Contemporáneo di Vitoria-Gasteiz, Álava, con la partnership della Fondazione Federico Zeri e il patrocinio del Dipartimento delle Arti Alma Mater Studiorum Università di Bologna, la mostra di Antoni Muntadas. Muntadas Interconnessioni segue la personale allestita nel museo basco d'arte contemporanea dal 4 ottobre 2019 al 12 gennaio 2020. Le due esposizioni gemelle si differenziano per il rapporto con gli spazi espositivi
L'allestimento di Bologna, infatti, è stato pensato appositamente per la dimensione “domestica” della settecentesca Villa delle Rose, sede esterna del MAMbo, dando vita a un percorso che favorisce un rapporto intimo con il visitatore, a partire dall'avvertenza che lo accoglie all'entrata "Attenzione: la percezione richiede impegno”.

La mostra – a cura di Cecilia Guidi e Lorenzo Balbi presenta un’analisi trasversale del lavoro dell’artista (per un suo profilo biografico e leggere un'intervista CLIC) che va dai primi anni Settanta a oggi, stabilendo nuovi campi di significato e relazioni puntuali tra i temi ricorrenti nella sua analisi interdisciplinare: la globalizzazione, il capitalismo transnazionale, la nozione di dispositivo, la relazione pubblico/privato, i rapporti tra monumenti e memoria, le “microfisiche” del potere, l’interrogazione dell’archivio, i processi della traduzione, la circolazione delle informazioni, l’immaginario politico veicolato dai media.

In occasione di “Muntadas. Interconnessioni” è stata realizzata una pubblicazione trilingue (italiano / inglese / spagnolo) per Corraini Edizioni, con testi critici di Beatriz Herráez, Lorenzo Balbi, Cecilia Guida, Arturo fito Rodríguez Bornaetxea, Roberto Pinto, Gabriel Villota Toyos.

Ufficio Stampa Istituzione Bologna Musei
Elisa Maria Cerra – Silvia Tonelli
tel. 051 6496653 / 6496620
ufficiostampabolognamusei@comune.bologna.it
elisamaria.cerra@comune.bologna.it
silvia.tonelli@comune.bologna.it

Nel rispetto del Decreto 8 marzo 2020 firmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, al fine di contenere la diffusione del contagio da Coronavirus, da domenica 8 marzo a venerdì 3 aprile compresi, è sospesa l'apertura di musei e biblioteche e di tutti gli altri luoghi della cultura (archivi, aree e parchi archeologici, complessi monumentali), sono sospese inoltre le manifestazioni, gli eventi e gli spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali,svolti in ogni luogo, sia pubblico sia privato.

Antoni Muntadas
Interconnessioni
A cura di Cecilia Guida e Lorenzo Balbi
Villa delle Rose, Via Saragozza 228/230, Bologna
Fino a domenica 22 marzo 2020


Ridere degli dèi, ridere con gli dèi



Diceva Gilbert Keith Chesterton: “La prova della bontà di una religione è il poter fare delle battute su di essa”.
Forse quello scrittore inglese sarebbe curioso di leggere un libro pubblicato da poco dalla casa editrice il Mulino intitolato Ridere degli dèi, ridere con gli dèi L’umorismo teologico.
Il volume è firmato da tre autori: Maurizio BettiniMassimo RaveriFrancesco Remotti

Maurizio Bettini, classicista e scrittore, è professore emerito di Filologia classica dell’Università di Siena; fra i suoi libri con il Mulino: «Elogio del politeismo» (2014), «Radici» (2016), «Il grande racconto dei miti classici» (nuova ed. 2018), «Viaggio nella terra dei sogni» (2017), «Dai Romani a noi» (2019).

Massimo Raveri, professore ordinario di Religioni e filosofie dell’Asia Orientale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha pubblicato fra l’altro «Il pensiero giapponese classico» (Einaudi, 2014).

Francesco Remotti è professore emerito di Antropologia culturale dell’Università di Torino; il suo libro più recente è «Somiglianze. Una via per la convivenza» (Laterza, 2019).

Proprio Remotti in una brillante Introduzione scrive: “Questo volume nasce dalla convinzione che in una non esigua minoranza, bensì nella maggior parte delle società umane il binomio «scherzo e religione» sia una costante che appare con tale frequenza da ribaltare il presupposto secondo cui la religione sia sempre e ovunque un fenomeno improntato al massimo della serietà (…) oppure si vuol sostenere che le “joking religions” – così le chiameremo – sono religioni di second’ordine, meritevoli di essere gettate nelle pattumiere della storia? Sant’Agostino era esattamente di quest’opinione”.
Già, perché i monoteismi non sono giocosi. Per niente. Teterrimi, s’arrabbiano di brutto se qualcuno osa ridere, sia pure bonariamente, del loro dio. Secoli di stragi ce lo dimostrano, e appena ieri per delle vignette su Maometto degli islamisti hanno fatto un massacro nella redazione del giornale francese ‘Charlie Hebdo’.
Va precisato che i tre autori si riferiscono a fedi, africane o orientali, vissute giocosamente dove perfino un rito come la circoncisione è commentato con aneddoti divertenti (credo, però, che il bambino si diverta molto meno).
Occorre dire che il libro, nelle tre parti in cui è diviso, prende in esame vere religioni e non quelle che hanno volutamente assunto forme ironiche e canzonatorie.
Il Cielo – a sentire gli autori – risuona di risate divine.
In Grecia, si pensi a quanto riferiscono Omero e Aristofane. Nell’antica Roma troviamo descrizioni di Tertulliano sulle derisioni del dio Mercurio durante i ludi meridiani, e che dire di Plauto che fa ridere addirittura a spese di Giove con gran spasso della platea e nessuna conseguenza penale per il commediografo. Né in oriente si ride meno. È frequente il caso che l’”illuminazione” sia accolta da una fragorosa risata. Famosi maestri zen affermano che il comico rappresenti una percezione molto più seria della realtà che appare sotto i nostri sensi.
Due mondi, quindi, sono messi a confronto: uno popolato da gente che ridono degli dei e con gli dei senza per questo essere blasfemi, dall’altra gente ben rappresentata da quel padre Jorge che nel “Il nome della rosa” di Eco distrugge il secondo libro della Poetica di Aristotele proprio per impedire che il mondo conosca le teorie sul comico, giudicate pericolose. Difatti, secondo i padri della Chiesa, Gesù mai aveva riso, giacché il riso è segno di libertà suprema dell’uomo, il ridere desacralizza il mondo.
Visto che ci siamo, in onore di questo bel libro, concediamoci una storiellina, sperando che nessuno s’offenda.
In paradiso Gesù e San Pietro stanno chiacchierando. A un tratto vedono arrivare un vecchietto. E Gesù gli dice: “Eppure mi sembra di conoscerti... ma tu non facevi il falegname?”. “Sì”, risponde il vecchietto. “E non avevi un figlio molto, ma molto particolare?”. “Sì” risponde il vecchietto. “Papà!” – esclama allora Gesù, commosso. E il vecchietto, abbracciandolo, replica: Pinocchio!

Dalla presentazione editoriale
«Scherza con i fanti, lascia stare i santi…», ovvero sacro e profano non vanno mescolati. Ma è sempre vero? Ebraismo, cristianesimo e islam escludono che si possa ridere di Dio. Il monoteismo non ride. Originata da vignette che deridevano Allah, la strage di «Charlie Hebdo» è lì a ricordarcelo. Vi sono però religioni che danno spazio allo scherzo e alla comicità, in cui gli dèi ridono e anche gli uomini possono e sanno ridere degli dèi: sono le joking religions. Ponendole a raffronto con i tre monoteismi abramitici gli autori raccontano queste «religioni umoristiche»: il politeismo del mondo classico, le religioni orientali e in particolare del Giappone, le «religioni senza nome» dell’Africa e del Nordamerica. Desacralizzando gli dèi esse li avvicinano agli uomini e per ciò stesso, al contrario dei monoteismi di per sé esclusivi, sono inclusive e aperte ai valori della convivenza».

In questo video Francesco Remotti tratta il nucleo dei ragionamenti che attraversano il libro.

Ancora una cosa. Da tempo combatto una battaglia che mi vede sconfitto tutti i giorni.
Vale a dire l’ormai diffusa abitudine degli editori di non mettere l’Indice dei Nomi.
Il Mulino, invece, è uno dei pochissimi che negli apparati raramente lo omette.
E pensare che in un volume – specialmente di saggistica – quell’Indice è utilissimo ai lettori per rintracciare pagine da rileggere o consultare rapidamente.
Oggi mi è andata bene. Lode a il Mulino!

Maurizio Bettini
Massimo Raveri
Francesco Remotti
Ridere degli dèi, ridere con gli dèi
Pagine 242, Euro 22.00
Il Mulino


Terry Rudolph e i Quanti


La casa editrice Adelphi ha pubblicato Quanti di cui è autore Terry Rudolph.
Il volume tratta di fisica quantistic… non scappate!... perché se avrete la pazienza di leggere qui ancora qualche rigo vedrete che forse c’è qualcosa di divertente da conoscere.
Prima, però, d’addentrarmi in questa nota di oggi sono necessarie due premesse.
La prima. Erwin Schrödinger è stato un fisico austriaco, di grande importanza per i contributi fondamentali alla meccanica quantistica e in particolare per l'equazione a lui intitolata, per la quale vinse il premio Nobel per la fisica nel 1933. Morì nel 1961 a 64 anni.
Autore del famoso esperimento mentale noto come “Paradosso di Schrödinger” in cui si dimostra che un gatto può essere contemporaneamente vivo e morto.
Ne trovate QUI una spiegazione.
Lasciamo quel micio in quella singolare situazione e riveliamo che l’autore di “Quanti”, Terry Rudolph, è proprio nipote di Schrödinger e insegna fisica quantistica (poteva mai insegnare swaihili o ginnastica?) all’Imperial College di Londra.
“Quanti” (titolo originale “Q Is for Quantum”, ora tradotto in italiano da Matteo Polettini) è apparso per la prima volta nel 2017.
Seconda premessa.
Sfogliando in libreria questo volume, vedrete nelle pagine qualche formula e qualche disegno… don’t panic please!... acquistatelo vincendo perplessità per non perdervi qualcosa di divertente come scrivevo righe fa.
Perché la fisica quantistica (o teoria dei quanti) propone ipotesi controintuitive che sfiorano certi lampi surrealisti (“Immaginario è il vivere e il cessare di vivere. L'esistenza è altrove", André Breton) o storielle zen (“L’acqua che scorre in una grondaia lo fa in senso orario o antiorario?”).
Ma per convincervi meglio mi faccio aiutare in questo video da Margherita Mazzera ricercatrice di fisica sperimentale

Intorno alla quantistica sono fiorite tante polemiche, ricorderete il famoso detto di Einstein che esprimendo perplessità su quella teoria affermò: “Dio non gioca a dadi”. Gli rispose Niels Bohr: “Piantala di dire a Dio che cosa fare con i suoi dadi”.
Anni fa, partecipai a un convegno sugli stati di coscienza e lì incontrai un fisico della Normale di Pisa al quale chiesi se poteva produrre un esempio in grado di farmi capire che diavolo fosse quel tipo di fisica. Il professore, abituato probabilmente a quella domanda, rispose indicando un tavolo e vi batté una mano sopra. Poi, cito a memoria ma non sbaglio nel riferire, disse: “La mia mano ovviamente si è fermata sul ripiano. Ma immagina di ripetere quel gesto milioni di miliardi, di miliardi, di miliardi, di miliardi di volte. Bene, ci sarà una volta che la mano attraverserà quel piano di legno”.
La fisica dei quanti non è intuitiva – perché il mondo subatomico si comporta in modo piuttosto diverso dal mondo classico che ci è familiare.
Non crediate, però, che non abbia avuto applicazioni pratiche. Una buona parte delle tecnologie moderne sono basate, per il loro funzionamento, proprio sulla meccanica quantistica. Per esempio: il laser, il microscopio elettronico, la risonanza magnetica nucleare, molti calcoli di chimica computazionale si basano su questa teoria, inoltre si preparano tempi duri per gli intercettatori grazie alla crittografia quantistica.

Dalla presentazione editoriale
«Un mondo dove l’unica cosa certa è l’incertezza, dove vale tutto e il contrario di tutto, dove non esiste un prima e un poi e un oggetto può trovarsi nello stesso tempo in posizioni differenti: è il mondo della meccanica quantistica. «Non mi piace, e mi spiace di averci avuto a che fare» disse Erwin Schrödinger, uno degli artefici della prima rivoluzione quantistica, ribellandosi all’idea di un universo governato dai capricci del caso. Spirito scanzonato e irriverente, Terry Rudolph trae invece uno speciale piacere dalle bizzarrie di questa affascinante teoria che da ormai un secolo appassiona e divide il mondo della fisica, e vorrebbe condividerlo con il maggior numero possibile di persone, convinto com’è che persino un lettore ignaro di conoscenze matematiche (se si escludono le quattro operazioni) possa essere introdotto ai suoi misteri. Ha scritto così un libro sorprendente dove, evitando scrupolosamente quelle espressioni di gergo specialistico il cui uso improprio è spesso fonte di confusione, utilizza mezzi semplicissimi: palline bianche e nere che entrano ed escono da scatole in luogo di fotoni ed elettroni; simpatiche figure in luogo di pesanti apparati matematici e lunghi ragionamenti; e divertenti, piccole storie che vedono protagonista il lettore stesso. Altro non serve. Al termine della lettura scopriremo di essere stati iniziati, senza accorgercene e in maniera quasi indolore, ai concetti chiave del mondo quantistico: sovrapposizione, separabilità, azioni a distanza, non-località. E la nostra percezione della realtà fisica, ereditata dalla tradizione occidentale degli ultimi due o tre millenni, non sarà più la stessa».

CLIC per leggere le prime pagine.

Terry Rudolph
Quanti
Traduzione di Matteo Polettini
Pagine 230, 75 immagini b/n
Euro 14.00
Adelphi


Cartoon educativi (1)


La casa editriceFrancoAngeli ha pubblicato un libro che è di grande attualità, al centro di dibattiti didattici e sociologici: Cartoon educativi e immaginario infantile Riflessioni pedagogiche sui testi animati per la prima infanzia.
Il volume è a cura di Cosimo Di Bari
Ricercatore di Pedagogia generale e sociale presso l'Università degli Studi di Firenze e docente di Pedagogia delle differenze presso l'Università degli Studi di Parma.
Si è occupato, tra gli altri temi, di media education, di pedagogia dell'infanzia, di neo-Bildung e di ‘pedagogia delle differenze’. Tra le sue ultime pubblicazioni, “Media Education 0-6” (con Alessadro Mariani, Roma, 2018), “La neo-Bildung negli USA” (Roma, 2019),”Il valore delle differenze” (con Damiano Felini, Parma, 2019).

Il libro contiene saggi firmati oltre che dal curatore, in ordine d’apparizione nel volume, da Franco Cambi – Luana Di Profio – Anna Antoniazzi – Elena Falaschi – Chiara Lepri
– Irene Biemmi – Francesco Manfio – Sergio Manfio
.

Dalla Presentazione editoriale.

«I cartoon sono testi di animazione costruiti appositamente per l'infanzia, spesso definiti "educativi". Si tratta però di una definizione spesso attribuita dai produttori e non formulata dagli esperti che sarebbero deputati a valutarli.
Masha, Peppa, Gattoboy, Cilindro & C., i personaggi dei cartoon contemporanei, sono ormai presenti in modo sempre più pervasivo nella vita quotidiana delle bambine e dei bambini, colorandone in profondità l'immaginario. Essi popolano il loro tempo libero non solo tramite gli schermi - potenzialmente disponibili sempre e ovunque grazie alla fruizione attraverso dispositivi mobile come tablet e smartphone - ma anche attraverso gadget, giochi, app e marchi di abbigliamento.
Come possiamo valutarne dunque la qualità educativa dal punto di vista pedagogico?
Le quattro parti in cui si articola il volume analizzano il rapporto tra testi animati e letteratura per l'infanzia, i cartoon rivolti al piccolo schermo, i lungometraggi e i cortometraggi d'animazione e infine la presenza "ingombrante" degli spot in TV: ne risulta un quadro che, mentre consente di metterne a fuoco i rischi, ne esplora le potenzialità, evidenziando ancora una volta come, pur in presenza di contenuti specificamente progettati per l'infanzia e talvolta in grado di offrire contenuti didattici o educativi, l'adulto mantenga comunque un ruolo fondamentale, ovvero quello di accompagnarne la fruizione da parte delle bambine e dei bambini per arricchire le loro esperienze e per promuovere in loro - con gradualità, ma già dall'infanzia - la formazione di uno spirito critico».

Segue ora un incontro con Cosimo Di Bari.


Cartoon Educativi (2)

A Cosimo Di Bari (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro?

Il volume è uno degli esiti delle ricerche pedagogiche condotte sul rapporto tra prima infanzia e media negli ultimi anni: dopo aver organizzato un Convegno presso l’Università di Firenze proprio sul rapporto tra i cartoon e l’immaginario infantile, visto l’interesse riscontrato, ho pensato di raccogliere alcuni contributi sul tema. Conoscere i testi rivolti all’infanzia è un compito sempre più urgente per gli adulti: tanto dal genitore che rischia di lasciare il bambino solo davanti agli schermi per svolgere altre attività, quanto per educatrici, educatori e insegnanti. Alcuni personaggi dei cartoon per la prima infanzia sono particolarmente significativi per interpretare l’infanzia di oggi: essi sono da un lato lo specchio dei bambini di oggi, dall’altro sono un modello che al quale gli stessi bambini si ispirano. Descrivendo il personaggio di Gattoboy a un’educatrice che non aveva mai visto i ‘PJ Masks’, questa mi ha detto di aver compreso finalmente alcuni dei comportamenti di uno dei suoi bambini. Ovviamente possiamo rivolgere riflessioni simili intorno a molti dei personaggi, su tutti ‘Peppa Pig’, che, al pari di molti bambini, oggi è lo specchio di un’infanzia egocentrica che rischia spesso di farsi “tiranna” all’interno delle famiglie.

Il concetto di "bambino" è cambiato nel corso dei secoli.
Ad esempio, l'età di 5 anni in epoca medievale è ben diversa da quella vissuta nell'800.
Lei nell'indicare l'età infantile oggi, quale spazio anagrafico crede sia opportuno indicare
?

Neil Postman a riguardo sosteneva negli anni ’80 che l’infanzia non sia stata “scoperta”, ma “inventata”: secondo questo punto di vista, essa non è sempre esistita nella società. Per quanto esistessero i bambini anche nell’antichità e nel Medioevo, mancava un “sentimento dell’infanzia”. Sotto alcuni aspetti, paradossalmente, l’infanzia di oggi somiglia molto più a quella medievale, che girava per le città senza nessun filtro e, dunque, senza segreti, che a quella della modernità, “coccolata” e “idealizzata” dalla borghesia. Al di là dei confini anagrafici e biologici, che possiamo ancora collocare entro i primi sei anni di vita (almeno come “prima infanzia”), ritengo importante che si pensi dell’infanzia in termini “culturali” e che l’adulto continui a pensare a quella fascia di età come bisognosa di cure e di attenzioni, che non possono essere delegate agli strumenti tecnologici.

Qual è il suo giudizio su quanti (in primo piano va messo necessariamente Karl Popper) avversano la tv primariamente come mezzo prima ancora dei contenuti trasmessi?

La tesi degli anni ’60 di McLuhan per la quale il medium costituisce già di per sé un messaggio è tutt’altro che superata. E la televisione, in questo è emblematica, perché costituisce uno strumento che prevede una minima interazione; tra l’altro, le statistiche ci dicono che gli schermi touchscreen vengono spesso usati come televisioni portatili, con video e cartoon disponibili ovunque. Ritengo che le critiche alla tv e ai media digitali (da Popper e Postman, passando oggi per Spitzer e Carr) non siano da trascurare; al tempo stesso, però, dato che la tv fa parte della quotidianità, è opportuno che l’adulto cerchi di comprendere e di selezionare i contenuti per l’infanzia. La citata tesi di McLuhan è valida oggi se pensiamo al fatto che qualsiasi contenuto, se passa dalla televisione si trasforma rispetto al testo scritto o ad altri media; non è valida se pensiamo che qualsiasi contenuto che veicola la televisione sia pericoloso e dannoso per i bambini. La tv è uno strumento e, di per sé, non è né una “buona” né una “cattiva maestra”: la differenza è rappresentata dall’uso che ne viene fatto e dalla presenza di un accompagnamento adulto durante la sua fruizione.

L'immaginario infantile ha conosciuto – come lei illustra nelle pagine – vari passaggi dal racconto orale a quello solo a stampa, a quello integrato da immagini, ai cartoon del primo '900, alla tv. Che cosa ha significato in quell'immaginario l'ingresso del digitale nelle sue varie applicazioni?

Si è soliti pensare alla rivoluzione digitale come la presenza delle tecnologie touchscreen. In realtà Negroponte parla di “essere digitali” già a metà degli anni ’90, in quanto iniziano a diffondersi i “bit”: tra le conseguenze principali per l’infanzia abbiamo l’aumento esponenziale di immagini e di informazioni a disposizione, oltre alla possibilità di fruire in modo interattivo di strumenti che risultano sempre più intuitivi e semplici da utilizzare e la possibilità di utilizzare linguaggi multimediali. L’immaginario infantile tende sempre più a nutrirsi anche di quelle narrazioni e di quei personaggi che abitano gli schermi. Pensiamo a riguardo ai cartoon, ma anche, nelle fasce di età successive ai videogiochi, che rendono il fruitore sempre più attivo. Anche questa novità non deve essere accolta necessariamente come negativa: dovremmo invece preoccuparci qualora il “nuovo” finisse per sostituire il “tradizionale”. Cioè se queste nuove forme di narrazione sostituissero quelle orali o quelle lette ad alta voce. La definizione che è circolata molto in ambito giornalistico e in ambito pedagogico di “nativi digitali” è senza dubbio pericolosa a riguardo: non dobbiamo pensare a questi bambini come a soggetti che sono competenti nell’uso delle tecnologie, altrimenti rischiamo di sopravvalutarli. In realtà sono soltanto “confidenti” nell’uso della tecnologia; per renderli competenti durante la fruizione di un device digitale oppure durante la visione di un cartoon continua ad essere determinante il ruolo della scuola (prima dei sei anni di nido e scuola dell’infanzia) e della famiglia.

Anche nei cartoon umoristici ci sono scene di violenza e alcuni adulti ne temono gli effetti sui più piccoli. Hanno ragione o torto?

La diffusione di canali tematici per l’infanzia avvenuta negli ultimi anni ha promosso un esponenziale aumento di contenuti per bambini e per ragazzi: i cartoon umoristici rientrano tra i contenuti pensati per ragazzi e non dovrebbero rivolgersi all’infanzia o alla prima infanzia. Fino a qualche anno fa, in fascia protetta (o comunque in orari in cui molti bambini di età inferiore ai sei anni erano davanti allo schermo) andavano in onda cartoon umoristici non idonei a bambini in età prescolare. Penso ad esempio a I Simpson, testo molto raffinato che però richiede una capacità critica significativa per essere compreso efficacemente. Oggi il genitore ha la possibilità di scegliere tra un numero maggiore di contenuti, individuando quelli più adatti al target dei figli. Detto questo, è opportuno non abbassare la guardia: anche se non ci sono presenti esplicitamente scene di violenza fisica, siamo sicuri che in alcuni stereotipi di genere non si annidino forme implicite di “violenza simbolica”? Penso, ad esempio, alla tendenza di mostrare all’infanzia soltanto modelli di famiglia tradizionali, oppure di rappresentare le bambine secondo canoni di bellezza che sembrano anticipare quell’immagine del corpo della donna ormai da anni radicata nei programmi della televisione generalista, come ha efficacemente sottolineato Lorella Zanardo.

Non esiste, quindi, un grande rischio…?

… Il grande rischio di fronte al quale si può trovare l’adulto oggi è quello di pensare che, vista la presenza di contenuti pensati per la prima infanzia, si possa lasciare il bambino da solo con lo schermo. Anche contenuti pensati per la prima infanzia possono provocare nel bambino stati emotivi difficili da gestire, come nel caso della paura: non è raro vedere un bambino tremare durante la visione di un cartoon all’arrivo di un personaggio nuovo che all’adulto non sembra affatto insidioso. Come nella narrazione delle fiabe, lo spiegava efficacemente Bettelheim, era determinante il ruolo dell’adulto per “mediare” la paura, allo stesso modo sarebbe auspicabile prevedere un accompagnamento durante la fruizione da parte dell’adulto.

Può sintetizzare alcuni consigli

Dovendo sintetizzare possiamo indicare: 1) cercare di conoscere i contenuti che guardano i propri figli, pertanto provando a valutare se la storia risulta semplice da comprendere, se ci sono stereotipi di vario tipo, se i valori rappresentati all’interno della narrazione sono significativi; 2) prevedere una regolazione dei tempi e dei luoghi, cioè far sì che il bambino comprenda che lo schermo si accende e si spenge quando e dove decide l’adulto, anche a costo di dover combattere con “bizze” e cercando di far sì che gradualmente questa regolazione si trasformi in “autoregolazione” da parte del bambino; 3) evitare che la visione diventi un flusso continuo di cartoon in sequenza, ma prevedere un’interruzione dopo la visione di uno o due episodio: questo è sempre più possibile vista la diffusione dei contenuti “on demand” e porterebbe a evitare o almeno a contenere quelle forme di “incantamento” al quale il bambino potenzialmente può essere esposto; 4) favorire, da quando il bambino è in grado di parlare, una verbalizzazione di quanto è stato visto, portandolo a farsi egli stesso narratore attivo, in modo da promuovere una rilettura dell’esperienza della fruizione; 5) utilizzare i cartoon come pre-testi per giocare e collegare quanto più possibile ciò che viene visto sullo schermo con la realtà quotidiana con la quale il bambino entra in contatto, ma anche cercare di inventare altre storie, di produrre disegni, di cucinare i cibi visti nel cartoon, di cercare nei libri gli animali presenti nella storia, ecc.; 6) offrire al bambino alternative: tanto a casa, quanto in altri contesti (il ristorante, le sale di attesa, le auto, eccetera) in cui la visione degli schermi è in costante aumento, cercare di pensare che l’accensione dello schermo non sia l’unica soluzione per evitare la noia del bambino. Certo, forse, può risultare la più “comoda” per l’adulto, ma non è detto che sia la preferita o tantomeno la più significativa per il bambino.

………………………………………………

Cartoon educativi e immaginario infantile
A cura di Cosimo Di Bari
Pagine 144, Euro 19.00
FrancoAngeli


Pinocchio e Collodi (1)


Qui comincia, aprite l‘occhio, / l’avventura di Pinocchio, / burattino famosissimo / per il naso arcilunghissimo…”.
Mi piace cominciare queste note dedicate a un libro su Pinocchio con l’inizio della famosa Filastrocca che Gianni Rodari dedicò al più famoso burattino di tutti i tempi.
Personaggio che mi ha da sempre affascinato, conservo (miracolosamente, visti i tanti traslochi che nel corso degli anni ho subito più che voluti) ancora una copia delle sue Avventure illustrate da Attilio Mussino, Editore Marzocco, anno 1943. È stata una delle mie prime letture. Allora accadeva a tanti fra quelli nati come me negli anni ’40. Ero, però, destinato ad altri incontri col Burattino. Con Giorgio Manganelli in un’intervista girata per la tv sul suo “Pinocchio: un libro parallelo”, un burattino cupo e metaforico. Qualche tempo dopo fui regista a RadioRai di “Pinocchio con gli stivali” (Pinocchio fu interpretato da Dario Penne, voce protagonista del doppiaggio italiano d’oggi), atto unico affidatomi da Gigi Malerba tra la fine dei ’70 o i primi ’80, in un anno che non ricordo con precisione. Malerba fa evadere Pinocchio dalla cella 36 (o capitolo 36, ultimo del libro) immaginando che non gli "vada punto diventare un ragazzino perbene". Da latitante cerca di nascondersi presso altre favole, ma non gli riesce perché non ha fatto i conti con le ferree strutture della morfologia della favola studiate da Propp.
Non basta. Altro incontro importante col Burattino quello favorito dal sodale Lamberto Pignotti – uno dei padri della poesia visiva, fondatore del Gruppo '70 – con le sue vertiginose composizioni dedicate al libro di Collodi: “Il campo dei miracoli” (sta in “Parola per parola, diversamente”, edito da Marsilio). Lamberto opera una raffinata operazione, attraverso un montaggio di passi tratti da Pinocchio, in cui rigorosamente non ci sono aggiunte né interpolazioni, rivela così nuove epifanie linguistiche e stilistiche di quel capolavoro.
Negli anni ho chiesto a tanti, in programmi radiofonici e televisivi oppure conversazioni sul web, di esprimere un giudizio o un’immagine su Pinocchio. Ne cito adesso uno per tutti, appartiene alla fantasia del sociologo Derrick de Kerckhove che in quest’epoca delle “psicotecnologie” (copyright di de Kerckhove stesso) mi pare particolarmente adatto. Mi disse: “Sai Armando, mi piace immaginare quel burattino che torna meccanizzato nella valle del Po, al suo villaggio toscano, ancora agrario. Non si ritrova più nei ritmi della natura. Per tornare umano deve superare varie prove fino all’ultima passando attraverso il ventre della balena. Un Pinocchio 2.0 profilato da “Blade Runner” ad “Avatar”, a tanti altri film: “Atto di Forza”, “Essere John Malkovich”, “The Matrix”, “AI”, eccetera. Pinocchio dal passato al futuro”.

Mi sono avvicinato, quindi, con plurali curiosità a una pubblicazione che non mi ha deluso firmata com’è da una grande studiosa della letteratura italiana e che ha dedicato particolari, brillanti, studi a quel burattino e al suo autore: Rossana Dedola.
Già ricercatrice e docente della Scuola Normale di Pisa, analista didatta e supervisore dell’Istituto C. G. Jung e dell’International School of Analythical Psychology di Zurigo, ha pubblicato tra gli altri “La via dei simboli. Psicologia analitica e letteratura italiana” (Franco Angeli, Milano); “La musica dell’uomo solo. Saggi su Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Primo Levi e Giovanni Orelli” (Polistampa, Firenze); “Pinocchio e Collodi” (Bruno Mondadori, Milano); “La valigia delle Indie e altri bagagli” (Bruno Mondadori); Introduzione a Vivian Lamarque, “Poesie” (A. Mondadori, Milano); “Giuseppe Pontiggia. La letteratura e le cose essenziali che ci riguardano”, II ed. con Introduzione di Gianfranco Ravasi (Avagliano, Roma); “Roberto Innocenti. La mia vita in una fiaba” (Della Porta, Pisa); tr. francese Gallimard (Parigi), tr. spagnola, Kalandraka (Barcellona), “Grazia Deledda. I luoghi gli amori le opere” (Avagliano, Roma); Prefazione a Grazia Deledda, “Tutte le novelle”, v. II, (Il Maestrale, Nuoro).
Ha curato “Incollare mondi cucire parole. Blandiana Anedda Mezzaqui Gisiger” (ETS, Pisa).

Adesso, con la casa editrice Bertoni ha pubblicato un poderoso saggio intitolato Pinocchio e Collodi Sul palcoscenico del mondo.

Ha scritto Paolo Fallai sul Corriere della Sera: «“La storia di un burattino che voleva diventare un bambino vero viene applaudita ancora oggi sui palcoscenici di tutto il mondo anche per merito di grandi illustratori, scrittori, artisti, scultori, registi, attori, che continuano a creare opere d’arte, pescando a piene mani da quel capolavoro”. Rossana Dedola torna ad occuparsi di Pinocchio riprendendo alcuni suoi saggi e aggiungendone di nuovi. Pinocchio non ha solo oscurato personaggi fiabeschi ma è giunto persino ad eclissare la fama del suo autore: Carlo Lorenzini, detto Collodi.
Diviso in tre parti, il libro riequilibra le sorti di autore e burattino, Collodi e Pinocchio. Nella prima parte l’autrice ripercorre la biografia di Collodi attraverso aneddoti, dettagli inediti, curiosità, testimonianze che fanno di lui una figura tutt’altro che marginale nel panorama letterario risorgimentale, dotata di grande umanità e umorismo.
La seconda parte è invece una puntuale rivisitazione della favola di Pinocchio in chiave psicoanalitica, che consente di entrare in contatto con la varietà di simboli e simbologie di cui la favola si compone.
Nella terza parte affronta la fortuna del libro nel mondo tra illustratori, artisti e registi».

Segue ora un incontro con Rossana Dedola.


Pinocchio e Collodi (2)


A Rossana Dedola (in foto) ho rivolto alcune domande.

Com’è nato questo libro?

La mia avventura con le «Avventure di Pinocchio» è cominciata con gli illustratori di Pinocchio per un corso alla Normale di Pisa. Avrei dovuto occuparmi degli illustratori stranieri (dalla tedesca Friedrichsohn e dal lituano Kasparavicius al bulgaro Giuselev e tanti altri), ma proposi ai miei colleghi di parlare anche di un italiano, Roberto Innocenti, che allora in Italia era pressoché sconosciuto. Non era una scelta sbagliata, Roberto si considerava quasi straniero e si divertiva a ricordare che l’unico riconoscimento ufficiale venuto dall’Italia gli era stato dato dalla rivista “Lo straniero” di Goffredo Fofi. È stata una vera avventura inoltrarsi nel mondo dei grandi illustratori e in quello di Roberto Innocenti, con cui la collaborazione è andata avanti per anni ed è approdata al nostro «Entretiens avec Roberto Innocenti. Le cont de ma vie», uscito in Francia da Gallimard.
Quando poi mi sono occupata dell’autore Carlo Lorenzini, mi sono accorta degli avvenimenti straordinari che avevano attraversato la sua vita. Per esempio, i vari lutti da cui era stata funestata la sua infanzia, i problemi scolastici, l’aver vissuto per tutta la vita accanto ai marchesi Ginori che erano i padroni dei suoi genitori, la sua partecipazione a due guerre d’indipendenza eccetera. Non mi sembrava affatto una vita grigia e senza avventure, come qualcuno l’aveva definita. E ho anche capito che per scrivere sulla vita di un grande umorista mi sarei dovuta divertire anch’io

E come?

Per prima cosa, mi sono messa a camminare per le strade di Firenze e ho notato che ancora oggi si sente una forte differenza tra due strade vicinissime, via Taddea, dove Carlo era nato, e via de’ Ginori, dove si trova ancora il palazzo Ginori in cui i suoi genitori avevano lavorato come cuoco e come cameriera. E ho cominciato anche a chiedermi come poteva essere stata l’esperienza infantile del piccolo Carlo che aveva visto con gli occhi di un bambino il contrasto fortissimo tra la vita misera della propria famiglia e l’opulenza della nobiltà. Non nasceva proprio da qui la sua spinta inarrestabile a combattere contro una condizione di sudditanza e per la conquista invece di libertà e di diritti? Qui infatti c’è già tutto lo spirito di Pinocchio, il bisogno di cambiamento e di crescita che permette di venire fuori dalla condizione di burattino costretto a muoversi grazie a fili mossi dal burattinaio.

Già… ma perché Collodi, nonostante tanti tributi critici, non ha il posto che gli spetterebbe nella storia della letteratura italiana?

Collodi è stato considerato come un autore per bambini, ed è vero, lo è stato, per «Minuzzolo», «Giannettino» e per gli altri manuali scolastici, grazie ai quali ha avuto il grande merito di far echeggiare nelle tetre aule dell’Italia della sua epoca e delle epoche successive, ancora più tetre se non del tutto nere, grandi risate. «Pinocchio» invece è un grande classico della letteratura, ecco perché è limitativo relegarlo tra i banchi delle elementari, dimenticando che i suoi lettori sono sia grandi che piccini. È un libro inesauribile, tanto che ogni anno nel mondo grandi illustratori si misurano con le sue tante figure. Ma in Italia si studia ancora la storia della letteratura italiana? Non solo Collodi, nelle scuole italiane, anche le scrittrici sono bandite dai programmi scolastici, credo che sia presente solo Elsa Morante. Sarebbe una bella sfida far leggere ‘Le avventure’ alle superiori, anche sulla scia di altri libri molto belli, penso al libro di Giorgio Manganelli, «Pinocchio: un libro parallelo», al «Pinocchio con gli stivali» di Malerba, alle riflessioni di Paul Auster in «L’invenzione della solitudine».

Pinocchio personaggio d’innocenza anarchica è stato usato dalla propaganda fascista nelle cosiddette ‘pinocchiate’: “Pinocchio balilla”, “Pinocchio squadrista” e via via... Pinocchio può trasformarsi in figure anche lontane dalle sue origini?

Durante il fascismo si è compiuta un’operazione di pura propaganda, sfruttando il fascino del personaggio picaresco per tarparlo di tutto ciò che di inquientante, irridente e libertario poteva comunicare e per adattarlo a un modello, il balilla, addirittura il fascista, censurando il fatto che Pinocchio non vuole affatto conformarsi a un modello esteriore, non camminerebbe mai inquadrato a passo di marcia, ma corre sfrenatamente verso il futuro per diventare se stesso. La mancanza di libertà e di democrazia del fascismo e un superficiale gusto goliardico per la barzelletta facile è ciò che c’è di più lontano dall’umorismo geniale di Collodi, con cui ha sempre cercato di esprimere i suoi ideali democratici e anticlericali.

Il finale di Pinocchio vede contrastanti pareri.
Ma quel finale è di Collodi oppure no
?

La discussione sul finale di Pinocchio riguarda solo l’Italia, all’estero nessuno lo ha mai messo in dubbio e, a scanso di equivoci, bisogna ricordare che sono anche le uniche pagine scritte da Collodi di suo pugno che sono arrivate sino a noi. Ma come si può pensare che un autore che ha creato un capolavoro indiscusso per l’umanità possa fallire così clamorosamente nel finale? E poi perché dovrebbe essere considerato un male diventare una persona perbene? Mi sembra che tutta questa discussione nasconda in realtà un forte tratto di infantilismo in chi pensa che sia un bene un ribellismo fine a se stesso che non permette di crescere, di cambiare, di diventare coscienti e di incidere sul proprio destino. Mi ricordo la forte impressione che mi fece vedere la scultura del neozelandese Ron Mueck dedicata a Pinocchio, un semplice bambinetto in slip dall’aria sbarazzina e fragile che si chiama Pinocchio, ne ho colto con emozione tutta la forza e la fragilità e ho capito che quello è il vero miracolo, non essere un burattino, ma un vero bambino.
L’artista francese Annette Messager, intervenendo più volte su Pinocchio, ha messo in scena la grande trasformazione del legno in organismo vivente, la fecondazione, la gestazione prima di essere precipitati nel mondo degli errori, dei fallimenti, delle conquiste e delle trasformazioni che è la vita umana.
Il libro di Collodi finisce con i puntini di sospensione, non sappiamo e non sapremo mai che cosa accadrà a Pinocchio dopo la parola “fine”, esattamente come nelle fiabe. Ma dopo aver scritto la parola “fine”, Collodi lo ha affidato all’umanità e alle interpretazioni che nelle epoche successive alla sua sarebbero state date alla sua creatura. E oggi possiamo dire che, entrando nell’epoca dell’intelligenza artificiale, anche la sua creatura pare destinata a nuovi mutamenti, se non a vere e proprie mutazioni.

Nell’ultima parte del libro illustri il Pinocchio al cinema, a teatro, in tv e nelle sue presenze negli spettacoli all’estero, anche in Oriente.
Come spieghi questa universalità del personaggio
?

Mettendo in evidenza la distanza del testo di Carlo Collodi dalla prima versione cinematografica in cartoni animati, quella di Walt Disney, due studiosi americani hanno sottolineato la modernità del libro; nonostante la presenza di una pedagogia che si può considerare datata, Collodi riesce a rappresentare l’ambivalenza dei sentimenti, non una netta e chiara distinzione tra bene e male già data a priori e a cui basta adattarsi, ma la difficile ricerca della propria strada personale irta di errori, di ripensamenti, di delusioni. Accanto al piccolo Pinocchio, che sembra avere tutte le caratteristiche del ‘Puer’ di cui parla la psicologia del profondo, l’ingenuità, il coraggio, l’onnipotenza, la mancanza di inibizioni, la voglia sfrenata, c’è il vecchio, il ‘Senex’ Geppetto, che invece appare contrassegnato da forti limiti, e proprio questa coppia di opposti mostra in modo straordinario la difficoltà di diventare padri, di essere figli, e di diventare padri dei propri padri, come accade nel finale. Tutti nel mondo vi si possono riconoscere. Proprio l’attenzione per la dimensione della vecchiaia ha avuto un forte impatto per esempio in Giappone dove è da mesi in cartellone uno spettacolo teatrale tratto da Pinocchio con la regia della regista italiana Teresa Ludovico…

Il burattino diventato cittadino del mondo

… sì, il burattino di Collodi è diventato cittadino del mondo ed è per questo che nelle diverse culture i traduttori si sono sforzati per rendere la traduzione molto vicina alla cultura e alle usanze del proprio paese. Nei paesi arabi, dove non ci sono grilli, il Grillo parlante è diventato uno scarabeo, in India, dove non si mangia la polenta, la parrucca di Geppetto è arancione come un cibo indiano. L’ edizione illustrata di Roberto Innocenti ha avuto il grande merito di riproporre nel mondo la versione originaria e di porsi come alternativa mondiale alla versione americana di Disney dove le contraddizioni profonde dell’essere umano sono bandite.

I tempi di edizione non hanno permesso di conoscere nel libro il tuo pensiero sul recente Pinocchio di Matteo Garrone. Quale giudizio ne dai

Mi ha colpito molto quanto Garrone sia rimasto fedele alla versione originale rispetto ad altre recenti trasposizioni cinematografiche straniere. Ho trovato molto affascinanti il Giudice scimmione, la Lumaca, il Gatto e la Volpe. Pinocchio, invece, prima della sua trasformazione in bambino, mi è sembrato un po’ troppo “legnoso”, ma ho l’impressione che fosse proprio quello che intendeva trasmettere il regista, il piccolo attore ha dovuto sottoporsi a un trucco durato ore. Nel testo collodiano Pinocchio è invece un po’ più duttile, è lui stesso a sentirsi a volte come un ragazzino, oppure sono gli altri che lo considerano un ragazzo. Mimmo Paladino ha realizzato una scultura in cui si percepisce nel legno del burattino lanciato in una corsa sfrenata la presenza umana nel particolare della mano perfettamente formata. È affascinante, inquietante e sta già correndo verso il futuro.
.............................................

Rossana Dedola
Pinocchio e Collodi
Pagine 282, Euro 18,00
Bertoni Editore


Res Pubica

No, non ho dimenticato una “elle”. La mostra in corso a Genova presso lo Studio Prisma (Spazio Interdisciplinare per la promozione delle arti visive e la diffusione della cultura nei linguaggi contemporanei), si chiama proprio Res Pubica come peraltro chiarisce il sottotitolo De Occulta Lanugine.
A cura di Ferruccio Giromini, è una selezione d’opere di artisti associata all'omonima pubblicazione curata proprio da Giromini, edita da Prisma Studio.

Avrete già capito che non si tratta di un’esposizione scientifica sull’irsutismo, fenomeno di crescita anomala di peli in persone di sesso femminile, in sedi dove normalmente è assente. Ma se v’incuriosisce quel disturbo sappiate che il Libro dei Primati (è il libro dei record non quello delle scimmie) attribuisce alla thailandese Supatra “Nat” Sasuphan lo scettro dell’adolescente più pelosa del mondo secondo l’Indice Ferriman-Gallway.
Pare sia ancora imbattuta dal 2010, francamente non ho controllato di persona.

I peli li troviamo in tanti motti popolari: Cercare il pelo nell’uovo, Il lupo perde il pelo ma non il vizio, Fare pelo e contropelo, Prendere uno per il verso del pelo, Peli e guai non mancano mai, ma esiste anche chi ha svolto riflessioni sul pelo come il filosofo Francesco Forlani: Il pelo è misura di tutte le cose, madre di tutte le battaglie, straordinaria figura dialettica. Dai barbudos rivoluzionari cubani ai barbus dell’Iran di Khomeini, dalla rappresentazione di questo perturbante nella pittura, nella letteratura o nel cinema (Silvana Mangano, Sofia Loren e altre), all’ésthétique poilue, espressione usata da Dalì per celebrare l’architettura di Gaudì, fino alle nuove dive Julia Roberts o Lady Gaga, sostenitrici del ritorno sulla scena del pelo ostentato, l’osceno (Peli, Fefé Editore)

Dal comunicato stampa.
«De Occulta Lanugine è nato su sollecitazione del venerabile Collage de 'Pataphysique, che nelle parole della sua Fondatrice, Provveditrice e Rogatrice Tania Sofia Lorandi «è un progetto di cooperazione artistico/scientifica attorno alla 'Patafisica' e "favorisce il pensiero patafisico con particolare attenzione a tutte le forme artistiche, letterarie e scientifiche in ambito nazionale e internazionale". E la patafisica, ovverosia la 'scienza delle soluzioni immaginarie' cui diede origine e forma il geniale scrittore francese Alfred Jarry (1873-1907), tra le altre cose ebbe modo di mostrare una particolare attenzione anche nei confronti del pelo presente sul corpo umano. Valeva quindi la pena di omaggiare l'ineffabile creatore di Père Ubu con una nuova indagine aggiornata su tale argomento insolito.
Il giornalista poligrafo e storico dell'immagine Ferruccio Giromini ha accettato la sfida di raccogliere e ordinare opere e immagini incentrate, secondo la richiesta iniziale del Collage de 'Pataphysique', sul “pelo pubico”. Il risultato è un'ampia, ironica e variegata carrellata parascientifica – o meglio patascientifica».

Tanti gli artisti presenti nell’esposizione (QUI per leggerne i nomi e avere altre notizie), alcuni, per spirito patriottico li cito a parte perché sono stati ospiti di questo sito nella sez. < Nadir: Emanuela BiancuzziSaturno ButtòGiovanna TorresinDebora Vrizzi

QUI una videopasseggiata per raggiungere Prisma.

Come accade da qualche settimana, avverto che, a causa della diffusione del Coronavirus, è possibile che disposizioni locali vietino l’accesso a mostre, stadi, teatri. Consiglio, quindi, a chi voglia recarsi nei luoghi segnalati da Cosmotaxi a informarsi prima sull’agibilità degli stessi.

Res Pubica
A cura di Ferruccio Giromini
Prisma
Info: studioprismagenova@gmail.com
Fino al 14 marzo 2020


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