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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Ventriloqui di massa


Nel dizionario la parola ventriloquio è così spiegata: Capacità di alcune persone di parlare senza muovere le labbra, dando l'impressione che i suoni provengano da punti vicini o lontani dall’ascoltatore o appartengano ad altra persona oppure a pupazzi.
Ma che cosa ha in comune l'antica tecnica del ventriloquio con i mezzi di comunicazione di massa e i new media?
Questa domanda ha ispirato a Steven Connor un libro – Luca Sossella Editore – complesso e vertiginoso che lo ha impegnato in sei anni di lavoro; titolo: La voce come medium storia culturale del ventriloquio.
Steven Connor insegna Modern Literature and Theory al Birbeck College di Londra, ed è Academic Director del London Consortium.
Ha pubblicato studi e saggi su Dickens, Beckett, Joyce, il romanzo inglese contemporaneo e la cultura post-modernista. Questo è il suo primo libro tradotto in Italia; a farlo è Luciano Petullà che se n'è assunto il còmpito.
Il volume è frutto di una collaborazione tra l’Editore Sossella e l’Iris diretto da Alberto Abruzzese che ne firma con Davide Borrelli un’articolata prefazione.

Il libro ricostruisce la storia culturale del ventriloquio: dall'oracolo di Delfi, ai fenomeni del misticismo religioso e a quelli della possessione demoniaca, dalle prime macchine parlanti alle invenzioni moderne del telegrafo e del telefono. Non solo: il ventriloquio diventa, nel testo di Connor, la chiave interpretativa per spiegare i media. Come? Tutte le tecnologie di comunicazione di massa (la radio, il cinema sonoro, la televisione, internet) sfruttano il principio della voce dissociata, della voce altra di cui non si vede direttamente la sorgente. La voce disincarnata e smaterializzata dei nuovi strumenti tecnologici diventa così una parola alterata, "una parola altra, anzi la parola dell'altro che insospettabilmente si rivela abitare in noi": una forma di potere di cui questo libro ci rende consapevoli. Leggere ‘La voce come medium’ aiuta, infatti, a comprendere i principi su cui si fondano le tecnologie di comunicazione di massa e il perché della loro irresistibile capacità di affascinarci e incantarci.

In una recente intervista apparsa su Alias (5 – 1 – ’08) Massimo Gezzi (con Chiara Supplizi ha guidato la redazione italiana di questo libro) ha chiesto a Connor: “Il potere quasi magico e incantatorio della voce, scrive lei, è finito quando la si è potuta immobilizzare, cristallizzare in una registrazione. E però, per uno dei tanti paradossi che interessano i fenomeni che lei studia, questo evento ha contemporaneamente accresciuto il potere perturbante della voce. In che senso?”
Ed ecco la risposta.
Negli ultimi 150 anni siamo vissuti in un’epoca che non ha precedenti nella storia dell’umanità, un’epoca in cui la voce, che prima costituiva la prova indubitabile di una presenza umana nel raggio dell’udibile, ora può essere catturata e trasmessa a distanza considerevole dal suo punto di origine. Da un lato, questo ci rende immuni dalle sensazioni perturbanti che scaturivano dalle voci apparentemente senza sorgente prima dell’avvento della registrazione. Dall’altro, questo ci dà più opportunità che mai di rivivere o di costruire queste sensazioni. Basta un minimo stimolo perché questo perturbante ritorni. Forse l’esempio più familiare di tutti è quello di quando si ascolta la propria voce registrata. Pochissime persone, neppure i cantanti o quelli che parlano alla radio e alla televisione, abituati come sono ad ascoltare la propria voce in quella che l’autore Douglas Kahn ha definito una condizione “disossata” [deboned], riescono a identificarsi totalmente con questa voce, che suona sempre come quella di un impostore stridulo o rauco.

Marino Sinibaldi che guida Fahrenheit, uno dei pochissimi angoli di palinsesto ascoltabili della radio pubblica, ha dedicato al libro di Connor un ampio servizio; per ascoltare CLIC!

Steven Connor
“La voce come medium”
Traduzione di Luciano Petullà
Pagine 487, Euro 20:00
Luca Sossella Editore


Impubblicabile!


Perfino la dizione di ‘gonzo journalist’ – un tipo cioè che alla cronaca resa creativamente v’aggiunge proprie febbrili invenzioni, scarti e flussi di coscienza – spesso usata per Lester Bangs, gli va stretta. Perché è stato molto di più. Protagonista della controcultura nordamericana, ricordato anche nell’autobiografico film di Cameron Crowe “Almost Famous” (Bangs era interpretato da Philip Seymour Hoffman), è stato tra i fondatori della critica rock e superando i limiti di quel genere di scrittura si fa testimone di un’epoca, la vive intuendone gli sviluppi storici e le derive magnetiche, ne apostrofa le devianze (oggi diremmo ‘buoniste’) e n’esalta gli approdi anarchici.
Bangs, alcolista e strafatto di Darvon (ne morirà nel 1982 a 32 anni) scrive reportage, ricordi, recensioni e deliri su Clash, Lou Reed, Van Morrison, Kraftwerk, Jethro Tull, i movimenti giovanili, la cultura delle droghe, e ancora: la musica dei Searchers, degli Herman's Hermits, di Gerry & the Pacemakers; coglie per primo forme e stili nuovi quali garage band, protopunk, l'heavy metal. Il tutto in uno stile eccitato e eccitante posseduto fin dalle prime prove che gli aprirono le porte di riviste quali “Rolling Stones” prima e “Creem” poi.
Per una sua nota biografica: QUI.
Ora, minimum fax ha mandato in libreria Impubblicabile!, una raccolta di scritti di Lester Bangs che ne illuminano un aspetto, quello di autore letterario, che solo la breve vita dell’autore ha impedito che si sviluppasse appieno, certamente privandoci di pagine dal visionario valore.
La non facile traduzione è stata affidata ad Anna Mioni (ha in Rete un suo sito web) ed è stata ospite della mia taverna spaziale sull’Enterprise; se cliccate QUI la sentirete dire, sui temi della traduzione e su altro, di cotte e di crude, di coatte e di crudeli.
E’ stata già traduttrice, sempre per minimum fax, di altre due raccolte di articoli e saggi di Bangs: Guida ragionevole al frastuono più atroce (2005) e Deliri, desideri e distorsioni (2006).

A lei ho chiesto un flash su Lester Bangs.

Poco prima di morire, Bangs aveva annunciato di volersi dedicare soprattutto alla narrativa. Aveva in cantiere almeno 15 libri, alcuni dei quali completi. Stava per recarsi in Messico per scrivere un romanzo, “Tutti i miei amici sono eremiti”.
‘Impubblicabile!’ ci rivela il Bangs scrittore, oltre che critico musicale, offrendo frammenti tratti da quel libro, da “Drug Punk” (romanzo autobiografico in stile Beat scritto da adolescente) e altri testi sparsi. Troviamo frammenti di tono esistenziale o musicale, o fantasie erotiche, tutti con lo stile torrenziale e scoppiettante tipico della sua penna. Questo libro dimostra che Bangs poteva davvero aspirare al titolo di “miglior scrittore americano”, anche se “sapeva scrivere quasi esclusivamente recensioni di dischi”, per citare Greil Marcus, e che quindi merita un posto nel canone letterario americano del ‘900. Ci fa anche intravvedere quello che avrebbe potuto realizzare se fosse rimasto tra noi, lasciandoci un grande rimpianto
.

Una scheda sul libro: QUA.

Per un assaggio di lettura: CLIC!

Lester Bangs
“Impubblicabile!”
Traduzione di Anna Mioni
Pagine 137, Euro 12:00
Minimum Fax


L'Ingegnere in blu


In Italia viviamo un momento politico e culturale fra i più bassi della nostra storia. Ecco, in un periodo così (e che pare annunciare periodi ancora peggiori), ben venga un libro che parli di Carlo Emilio Gadda, uomo dai ribollenti vapori, acceso da un ardore morale d'altri tempi e di un suo doloroso sarcasmo, tutti momenti in cui si sostanzia il suo odio contro il fascismo come si rileva, ad esempio, nelle pagine di "Novelle dal ducato in fiamme" e "Eros e Priapo: da furore a cenere".
Il benvenuto volume lo dobbiamo ad Adelphi che pubblica L’Ingegnere in blu, libro che raccoglie saggi e riflessioni di Alberto Arbasino su quell’ingegnere babelico che in modo compostamente irrispettoso irride a gerarchie sociali e modelli linguistici scrivendo fra le più grandi pagine del nostro ‘900.
Per una scheda sul libro: QUI.
Questo lavoro di Arbasino è un poderoso invito a leggere Gadda perché del personaggio e della scrittura di quell’autore ne traccia un ritratto (nel quale lampeggia anche un largo autoritratto) che è fatto di passione e ragione.
Arbasino fu l’inventore della famosa espressione ‘i nipotini di Gadda’ anche se, talvolta, pare che lo zio sia lui.
Nel 1973 uscì Il gran Lombardo (oggi pressoché introvabile e che spero sia ristampato), autore Giulio Cattaneo che di Gadda fu amico e collega di lavoro alla Rai e ne ha fornito una larga testimonianza.
Ai più distratti ricordo alcune pubblicazioni di Cattaneo: nel 1957 “Bisbetici e bizzarri nella letteratura italiana”; nel 1968 “Esperienze intellettuali del primo Novecento”, “Da inverno a inverno”, L’uomo della novità (ripubblicato da Adelphi nel 2002, VEDI QUI); “Letteratura e ribellione” (1972); “ Lo specchio del mondo. Federico II di Svevia” (1974), “Insonnia” (1984); “Caterina mia figlia: vita, morte e miracoli di Caterina da Siena, patrona d’Italia” (1991); “Il lettore curioso: figure e testi della letteratura italiana” (1992).
Ho chiesto a Giulio Cattaneo di ricordare i suoi primi incontri con Gadda.

Negli anni immediatamente dopo la guerra io vedevo spesso a Firenze De Robertis che era docente di letteratura italiana all’Università e andavo insieme a lui in giro facendo ogni tanto incontri con personaggi di rilievo. Uno di questi era Gadda col quale si scambiava qualche parola. Poi l’ho ritrovato a distanza di qualche anno alla Rai. A un certo punto era accaduto che Gadda si trovasse in difficoltà economiche con scarse collaborazioni e allora Angioletti, all’epoca redattore capo ai culturali del Giornale Radio, lo fece assumere con l’aiuto di Leone Piccioni. Gadda arrivò lì e cominciò a fare l’impiegato modello: si presentava molto puntualmente, stava silenzioso, sempre attento. Poi, di lì a poco cominciò a tradirsi, a tirar fuori invenzioni continue con giudizi su personaggi e fatti del giorno, in modo sempre originale e divertente. Alla Rai restò 5 anni fino a quando Garzanti gli offrì di stampare il “Pasticciaccio”. Allora lasciò la Rai e si mise al lavoro di revisione di quel suo libro che era stato solo in parte pubblicato sulla rivista “Letteratura”.
E’ stato per me in quegli anni il maggior personaggio che si potesse conoscere per l’originalità e l’imprevedibilità del suo carattere e ho, quindi, di lui un bellissimo ricordo. E, nel libro che tu hai prima ricordato, “Il gran Lombardo”, ho riversato i tanti episodi che con lui ho vissuto, le cose da lui dette. E ho riferito anche d’incontri avuti con lui dopo che aveva lasciato la Rai
.

A Francesco Muzzioli, scrittore e saggista, docente di Letteratura italiana all’Università La Sapienza di Roma (la sua più recente pubblicazione è L'urbana nettezza) ho chiesto un flash sull’importanza di Gadda oggi.

Gadda è il virtuoso del romanzo, il maestro del plurilinguismo spinto, l’artificiere degli scoppi polemici contro l’insipienza e il cieco egocentrismo umano, l’acrobata della figurazione verbale sovrabbondante e parodica. Gadda racconta, sì, ma il suo narrare è grottescamente stravolto: non solo sotto la storia ce n’è sempre un’altra (non c’è mito che non si riscriva e non si demitizzi, alla fine), ma il suo corso deraglia, dirama, si acumina nelle asprezze invettivali, si allarga e si arriccia, 'en pastichant’, nelle volute iperbarocche della inesauribile carica espressiva. Inattuale, certo, in questa deprimente stagione di narratori che non reggono il minimo, ma tanto più attuale se riavesse campo l’intelligente invenzione tecnica: lui, l’ingegnoso ingegnere della scrittura in esubero.

Chiudo questa nota con un aforisma di Gadda che particolarmente mi pare rifletta lo spirito del gran Lombardo: "Il viale Giulio Cesare pone sempre capo a Largo Ermenegildo Fregnetti. E così è di noi. Amen".

Alberto Arbasino
“L’Ingegnere in blu”
Pagine 186, Euro 11:00
Adelphi


Le sciamanicomiche


In un’Italia letteraria afflitta da pagine di Moccia, Tamaro, e altri indigesti brodi più pensosi, ogni tanto spunta un titolo che riconcilia con la lettura.
Se ne volete una prova, leggete Le sciamanicomicheFoschi Editore – libro che della letteratura si fa beffe caprioleggiando in modo colto e irriverente, raffinato e birichino, tra modalità di scrittura che legano severe dizioni auliche a sapienti sberleffi.
Come sempre accade nelle grandi occasioni del Gioco, il discorso sotteso è serissimo, ricorda quanto diceva Bergson (se la memoria non mi tradisce, e lo fa spesso): “il comico è un tragico visto di spalle”.

Ha detto Alessandra Paganardi presentando il mese scorso il volume agli “Archivi del ‘900”: … il divertimento di queste Sciamanicomiche esclude l’evasione; permette, e anzi richiede, un affondo speciale. Non l’affondo doloroso del chirurgo o dello psicoanalista, non quello limpido ma freddo dello scienziato. E’ l’affondo del giullare e dello sciamano, quello che maggiormente ci fa capire il valore di quell’inimitabile vox media latina che è l’aggettivo “altus”: che, come si sa, significa elevato, ma in duplice verso di profondità

Autore di questa ballata impiccata a filastrocche e grotteschi eventi narrativi è Paolo Borzi, nato a Roma nel 1959, che nel 2006 pubblicò un libro in endecasillabi, Il Trivio dell’Innocenza, dove scoppiano cristalli gozzaniani fra tavole d’osterie e prostitute campagnole.
Pure lo scenario delle “Sciamanicomiche” ha per sfondo campagna e bevute, illustrate a un gruppo di punk dal narratore, tal Pollastri, ottuagenario cantastorie di cortile e poco magistrale maestro del protagonista Igo(r) Porcu.
Le avventure raccontate trascorrono tra riferimenti epici e precipizi icastici, tra Fate e Vatesse, si combatte in San Predasco “urbanistico gioiello, mezzo crollante e ben cintato in rosa”, sorprese ed epifanie si colgono tra suini filosofi, ninfe, e preti eterodossi.
Insomma, un viaggio la cui Itaca mi pare l’approdo ad un convincimento: esistere significa trascendere le vite degli uomini.
Le sciamanicomiche è libro che si presta a plurali considerazioni critiche sui suoi molteplici, continui, e appena elegantemente velati, rimandi letterari e filosofici, Luca Benassi s’è assunto il còmpito di farlo in un’illuminante postfazione.
Da parte mia, la chiudo qui invitando a leggere questa festa di pagine di Paolo Borzi e sono sicuro che se lo farete, mi ringrazierete.

Paolo Borzi
“Le sciamanicomiche”
Postfazione di Luca Benassi
Pagine 352, Euro 11:90
Foschi Editore


Soffi di vento


Non credo d’essere il solo a saperne nulla della letteratura vietnamita, mentre del cinema e delle arti visive di quel paese qualcosa conosciamo grazie a provvidenziali festival e mostre.
Volenterosi dizionari informano che in tempi antichi quella letteratura fu condizionata dall’egemonia culturale cinese. Dopo che acquistò autonomia di scrittura, viene ricordato un poema di Nguyên Zu (1765 – 1820) che racconta le tristi avventure di Kiêu, donna che ha scelto d’amare Kim, ma ne passa di tutti i colori per causa di un malvagio mandarino finché, indomita, si ricongiunge con l’uomo della sua vita col quale (non sappiamo se per sciagurata scelta o altri motivi) vivrà castamente.
Sempre soccorso da una Garzantina e siti web, apprendo che c’è un periodo, detto di transizione (1860 – 1913 ca.) in cui s’afferma la poesia satirica e con il dominio coloniale francese s’assiste poi a un fiorire di romanzi realistici.
Arrivando con tappe forzate a tempi più vicini spicca il nome di Pham Quynh che fra le due guerre promosse forme di modernismo pur sempre ispirate alla cultura francese.
Nel 1943 il partito comunista vietnamita elaborò un programma culturale che se da una parte reclamava un’autonomia dalle forme occidentali, dall’altra dettava linee tese ad esaltare il realismo marxista; a non seguire quelle linee, erano guai.
Ma che succede nella letteratura in Vietnam oggi?
Ora, grazie a O barra O – con traduzione direttamente dal vietnamita – possiamo leggere in lingua italiana Nguyên Huy Thiêp che, con l’autrice Duong Thu Huong, è considerato il maggiore scrittore vivente del Vietnam.
Fino al 2004, Nguyen Huy Thiep era sconosciuto in Italia. Ci ha pensato quell'Editrice a farcelo scoprire, pubblicando due sue raccolte: "Soffi di vento sul Vietnam" e "Il sale della foresta". Nato nel 1950 in un villaggio alla periferia di Hanoi, dopo essersi laureato in storia, Thiep viene mandato a insegnare presso le popolazioni tribali al confine con il Laos. La guerra lo investe indirettamente perché, secondo la legge della Repubblica Democratica, è esonerato a parteciparvi avendo un fratello arruolato nell'esercito.
Non se la passa troppo bene con i dirigenti comunisti: perquisizioni, domicilio coatto, ostracismo editoriale, perché come scrive Franco La Cecla in un’illuminante introduzione (cui segue un'intervista): “…Nguyên Huy Thiêp con la sua maniera di scrivere, i temi trattati, il discorso che sottende alle sue narrazioni, rappresenta l’antiepica per eccellenza”.
Soffi di vento sul Vietnam, il libro di racconti che ho appena finito di leggere, ha pagine di straordinario disincanto che mai però tracima nella disperazione, c’è un singolare, delicato, cinismo, un elegante modo di guardare alla vita e ai suoi meno lieti accadimenti che affascina.
Il racconto che apre la raccolta – Il generale in pensione - quando fu pubblicato nel 1987 “il Vietnam è scosso da un autentico terremoto” – ancora La Cecla – “i Vietnamiti vi riconoscono la descrizione precisa e tragica del periodo storico che stanno attraversando, il potere politico vede la messa in discussione dei ‘gloriosi’ valori morali e la loro sostituzione con il materialismo economico, i giovani vi trovano l’audacia di uno scrittore dallo spirito indipendente e critico, qualità sino allora inesistente nella letteratura pubblicata sotto il regime”.
Domani, Nguyên Huy Thiêp riceverà da Claudio Magris il Premio Nonino Risit d’Âur 2008.
La motivazione: Figlio di un Vietnam offeso e devastato da una grande guerra di liberazione Nguyên Huy Thiêp è riuscito, come narratore, a liberarsi dalla retorica e dai vincoli ancora sussistenti pur nella grande ricostruzione del Paese, ricercando tra le ceneri della sua Terra profondi valori millenari. Con i ritmi sintetici degli antichi cantastorie ha saputo descrivere mirabilmente la vita rurale immersa nella desolazione post-bellica in tutte le sue poliedriche sfaccettature.

Nguyên Huy Thiêp
“Soffi di vento sul Vietnam”
Traduzione di Tran Tu Quan e Luca Tran
Con uno scritto di Franco La Cecla
Pagine 140, Euro 11:90
O barra O edizioni


Corpi nel Cyberspazio


A Roma, tra poco il Maxxi chiude per consentire l’ampliamento di tutto l’impianto e sono fra i molti che si augurano di ritrovare alla riapertura la stessa intraprendenza e vivace linea culturale che lo hanno animato finora.
N’è testimonianza anche una mostra in corso – inserita, come vedremo, in un più ampio progetto – presentata da Pio Baldi (di recente sostituito fra non poche polemiche) Direttore generale della DARC e Anna Mattirolo direttore di MAXXI Arte: Corpi nel cyberspazio, nuovo ciclo nell’ambito di NetSpace: viaggio nell’arte della Rete, a cura di Elena Giulia Rossi.
Il progetto – gestito dal Servizio Educativo del Museo affidato a Stefania Vannini – è un prezioso strumento per conoscere la Net Art.

Elena Giulia Rossi lavora a Roma come curatrice indipendente.
Dal 2005 cura NetSpace: viaggio nell’arte della Rete al Maxxi con cui collabora dal 2002. Laureata nel 1999 in Storia dell’arte presso l’Università di Roma “La Sapienza”, nel 2002 consegue il Master in Ars Administration presso The School of The Art Institue of Chicago. Negli Stati Uniti ha collaborato con il P.S.1 Contemporary Art Center, New York (2001), la Renaissance Society presso The University of Chicago (2002) e la Joan Flash Artists’ Book Collection al The Art Institute of Chicago (2002).
E’ autrice di “Archeonet”, Siena (Lalli, 2003), uno dei primi scritti italiani sulla Net Art, e editor di “Eduardo Kac. Move 36”, Parigi (Filigranes Editions) 2005.
Tra i più recenti progetti realizzati: “Food in Bytes” nell’ambito di “Time in Jazz Festival” (Berchidda, Sardegna 2006); nel 2007, “Seven Ways to Say Internet with Net Art” (JavaMuseum.org 2007) e “She Devils” (Studio Stefania Miscetti, Roma); “Dalla video danza alla net.dance”, nell’ambito del Festival Maxxi Visioni (Maxxi, Roma 2008).

A Elena Giulia Rossi ho chiesto d’illustrare ‘NetSpace: viaggio nell’arte della Rete’.
Nella foto, un frame tratto da “Einstein Monster” di Chris Joseph, 2007.

E’ un progetto che intende offrire nuovi strumenti per avvicinare il pubblico del museo all’arte in Rete attraverso esposizioni, incontri con gli artisti, e la creazione di un archivio specializzato che la Biblioteca del MAXXI si sta impegnando a costruire.
La net art, termine con il quale si identificano quelle pratiche artistiche che utilizzano la Rete come unico strumento di creazione e diffusione, si avvicina, per la sua natura effimera, all’arte concettuale e alla Performance Art. Nata all’inizio degli anni Novanta, come arte underground, solo nel 2002, con l’acquisizione di due opere di net art da parte del Guggenheim Museum di New York, ha compiuto i primi passi verso l’ingresso nel “sistema dell’arte” e quindi del mercato artistico.
In Italia il MAXXI è stato il primo museo a dedicare una programmazione costante sull’argomento con l’obiettivo di far conoscere queste nuove pratiche espressive, ripercorrerne alcune tappe fondamentali, tracciare la loro storia e la continuità che le lega ad altre forme artistiche del passato.
Il progetto si divide in cicli. Per ogni ciclo sei lavori, selezionati nell’ambito di un tema specifico, sono presentati sui computer collocati all’entrata del museo (si favorisce così un’interazione ‘one-to-one’). Una semplice interfaccia guida i visitatori alle opere on-line. Sul sito della DARC è possibile approfondire l’argomento consultando saggi, biografie degli artisti e bibliografia specifica. Lo scopo è anche quello di incoraggiare i visitatori a navigare da casa consentendo così al pubblico di avvicinarsi più realisticamente allo spirito della net art

Quali opere sono presenti in “Corpi nel cyberspazio” e quale il loro profilo?

Esponiamo sei opere che percorrono il processo di dematerializzazione del corpo, analizzandolo sotto diverse sfaccettature: l’acquisizione di una nuova percezione della materia che continua ad evocare lo stato fisico; la trasformazione del corpo individuale in corpo sociale; l’impiego del corpo in performance virtuali e le trasformazioni della percezione del corpo fisico con la presenza sempre più invasiva delle tecnologie.
Le opere selezionate nella mostra in corso: “Scalpel” del francese Nicolas Clauss; “Big” degli inglesi Simon Fields e Katrina McPherson; “Portal” di Yael Kanarek; “Bodydrome” di Marcello Mazzella; “Elastic Body” del giapponese Yugo Nakamura; “Einstein Monster” dell’inglese Christopher Joseph
.

“Corpi nel Cyberspazio”
A cura di Elena Giulia Rossi
Maxxi, Museo nazionale delle arti del XXI secolo
Via Guido Reni 2f, Roma
Info: 06 – 32 10 181
Ingresso gratuito
Fino al 2 marzo 2008


Tafkav


La parola misteriosa che dà titolo a questa nota è un acronimo il cui svelamento è: The Artist Formerly Known As Vanda.
Poiché mi rendo conto che forse non siete soddisfatti dello svelamento da me promesso, aggiungo che è il nome di un’installazione di Francesco Monico invitata alla prestigiosa rassegna internazionale di Media Arts Isea 2008 che si svolge a Singapore.
Vanda non è il nome di una donna, ma di un bellissimo fiore: l'orchidea vanda cerulea.
Non basta ancora?
Allora ecco un link ad un’intervista, a cura di Teresa de Feo, che spiega Tafkav sia nel suo aspetto concettuale sia nella sua realizzazione tecnica: QUI.

Francesco Monico è stato recentemente ospite di Cosmotaxi e ci ha parlato dei Moist Media, nuove forme di una cultura post-biologica, e questo anche aiuta a profilare meglio la sua operazione ospitata all’Isea.


Voci dallo schermo


La radio pubblica italiana, un tempo (quando cioè le produzioni di prosa erano numerose, a differenza di oggi), era frequentata da attori famosi, e meno famosi, molti dei quali lavoravano al doppiaggio. Perciò ne ho conosciuti tanti e con tanti di loro ho lavorato.
Chi non è addetto ai lavori, forse, non sa che non tutti amavano – e amano – fare i doppiatori; alcuni, infatti, la consideravano – e la considerano – una necessità professionale svolta per integrare altre prestazioni (teatrali in primis, e poi radiotelevisive o cinematografiche) di gran lunga preferite.
Ma, aldilà di gusti ed esigenze, è un settore dello spettacolo che impegna un migliaio di voci, un centinaio di tecnici e oltre cento società strutturate in larga parte come cooperative.
A questo scenario è dedicato un libro – pubblicato dalle Edizioni Falsopiano – di recente uscita: Il chi è del Doppiaggio le voci del cinema di ieri e di oggi.
Lo ha scritto lo studioso di cinema Andrea Lattanzio.
Questo dizionario è composto con le biografie di 165 doppiatori e 25 interviste.
L’autore nella Premessa chiarisce che le pagine … per motivi di spazio hanno tenuto conto principalmente delle figure storiche del doppiaggio, sacrificando forse l’attualità.
Ma dei protagonisti di ieri non manca nessuno, ad ognuno di loro è dedicata una scheda che, oltre ai dati anagrafici, ricorda titoli e personaggi interpretati, presenze nei programmi radiofonici e televisivi.
Né manca un corredo fotografico in b/n che ritrae i volti delle tante attrici e attori che hanno reso famoso il doppiaggio italiano nel mondo.
Lattanzio, giustamente, nota che E’ un lavoro durissimo e sfibrante che richiede una tecnica fantastica, buona recitazione e molto talento. Basti pensare al fatto che recitare da fermo non è impresa facile. Un esempio: in un film movimentato, pieno di sparatorie, corse e salti, occorre stare in piedi in una sala buia a fingere di correre, sudare e avere il fiatone. Occorre saper creare il personaggio con le pause, i contro tempi e con le sfumature del vero interprete che appare nel film.
Tutto vero, ma non mancano coloro che, con serie argomentazioni, sono contrari al doppiaggio dei film; in Italia, per fare un solo esempio, Bernardo Bertolucci e, all'estero, i nomi dei registi e dei saggisti sono ancora più numerosi che da noi. Per dare un’efficace idea di questa querelle v’invito a leggere quanto, con la sua nota, e impagabile, verve polemica, scrive il musicista e mass-mediologo Sergio Messina sull'argomento.
Il fatto è che, aldilà perfino della questione estetica, il doppiaggio incrocia altri problemi, primo fra tutti l’esigenza di produttori e distributori che temono la sottotitolazione possa danneggiare gli incassi rendendo meno agevole la fruizione dei film.
Il chi è del Doppiaggio di Andrea Lattanzio è, comunque, uno strumento di documentazione (corredato da un’essenziale bibliografia e webgrafia) per gli amanti del cinema che fa conoscere i tanti che, spesso oscuramente, hanno dato voce a famosi divi.

Andrea Lattanzio
“Il chi è del Doppiaggio”
Pagine 239, Euro 20:00
Edizioni Falsopiano


Il Pesanervi


Quando Ginevra Bompiani , nella casa editrice del padre, a metà degli anni ’60, varò la collana il Pesanervi, segnò l’ingresso nello scenario letterario italiano (afflitto allora da tanta ‘scrittura militante’) del genere Fantastico.
Ne fui collezionista di quei titoli (il Golem di Meyrink, il Supermaschio di Jarry, il Vathek di Beckford, e parecchi altri), ma per un bizzarro disegno del destino, non ne posseggo neppure uno perché quegli agili volumetti sono andati perduti nella diaspora dei tanti miei traslochi.
Ora la collana rinasce nelle stanze delle edizioni nottetempo guidate dalla stessa Ginevra Bompiani e da Roberta Einaudi.
Le copertine – troppo spesso da tanti editori trascurate e, invece, rappresentano il primo impatto col lettore – sono state giudiziosamente affidate al raffinato segno di Jean Blanchaert.

Tra i titoli del nuovo Pesanervi, - insieme con Batya Gur Un delitto letterario e Josephine Tey Miss Pym segnalo oggi Sette racconti impossibili del debuttante 36enne cileno Javier Argüello che vive a Barcellona.
Sette percorsi attraverso cristalli enigmatici che sovvertono il reale trattenendoci ora tra i misteri di un narratore che si ritrova prigioniero della storia che sta raccontando, ora di una casa costruita alla rovescia, oppure a conoscere un grottesco incontro con Max Beerbohm o con James Joseph Zeezir, scrittore irlandese tanto inesistente quanto fantasmaticamente presente.
La scrittura di Javier Argüello sembra dedicata a un modo d’esistere quanto mai reale se “esistere significa trascendere le vite degli uomini”, com’è detto in una delle pagine del libro; se (sempre traendo da un angolo dei sette racconti) “sono le storie che contano, non i nomi di quelli che le scrivono”.

Per una scheda sul libro: QUI.

Javier Argüello
“Sette racconti impossibili”
Traduzione di Francesca Lazzarato
Pagine 161, Euro 12:00
Edizioni nottetempo


Rapsodia Babelica


In ogni campo espressivo, pur usando strumenti propri di quel campo, c’è la possibilità di smentirne l’area d’appartenenza superandone la specificità, facendosi beffe dei canoni allegramente cannoneggiandoli.
Larga parte delle avanguardie storiche e in tempi recenti la ‘bootleg culture’, lo hanno fatto con risultati straordinari.
Ad esempio, càpita – a me che amo il teatro di parola quanto si può amare una colica renale – di consigliare la lettura di un volume, intitolato Trompe l'oeil, trompe l'oreille, che è raccolta di testi usati in scena dal Gruppo Fonografico Rapsodi che, pur rientrando nel teatro di parola, in realtà lo eviscera lavorando puntigliosamente su assonanze, scomposizioni, dissezioni della parola stessa.
Il percorso intrapreso da questo Gruppo (meriterebbe un’attenzione ben diversa da quella finora riservatogli dai circuiti), è lodevolmente impervio perché le parole canzonate, di solito, si prestano poco alla scena; si pensi all’Oulipo che ha avuto proficui sconfinamenti (sia pure non eclatanti) perfino nelle arti visive e nella musica, ma in teatro ha prodotto pochino pochino perché è sulla pagina scritta (e oggi sarebbe la Rete il suo nuovo destino) che trionfa.
Rapsodi in scenaLuca Bombardieri e Tommaso Pippucci in scena, con il contributo di Duccio Ancillotti fuori scena, ci ricordano che, come disse Auden, “ogni parola è una puttana”, da creatura pia può trasformarsi in lieta bestemmiatrice, gli scivoloni di senso diventano slittamenti dei sensi.
Stefano Bartezzaghi ha scritto di loro: “A me sarebbe bastata anche una riga, per convincermi: è la riga che dice ‘Ho visto celibi pieni di nubili’. Sembra facile il gioco di parole: più è bello, più facile sembra e meno facile è […] A volte si pensa a Bergonzoni, altre a Flaiano: ma ‘Ho visto celibi pieni di nubili’ chi avrebbe potuto dirlo? Il gioco di parole è perfetto, nel suo piccolo, è impersonale e senza tempo”.

Al Gruppo Fonografico ho chiesto: le parole nascondono o rivelano?
Li sentirete rispondere con una voce sola. Prodigi della tecnologia di bordo di Cosmotaxi.

Nascondono o rivelano? Entrambe le cose. Visto che la parola seduce, sceglie o ti invita a scegliere per lei quanto scoprire e quanto invece lasciare coperto. Scoprire e coprire sono entrambi parte dello stesso gioco di seduzione: la parola si lascia tentare, si lascia catturare oppure si dilegua in mezzo ad altre e ti confonde. E' in questa continua oscillazione irrisolta tra il suo concedersi e negarsi che sta il 'logoequilibrismo'.

Teatro di avanguardia, sperimentazione, alternativo, e poi con i fatali prefissi neo, post, trans. insomma, che cosa vuol dire per voi "teatro di ricerca" oggi?

I prefissi e le etichette funzionano con i numeri di telefono o con i capi di moda. Con l'arte effettivamente un po’ meno, anche se fanno comodo. L'artista è o dovrebbe essere privo di etichetta, e non perchè maleducato, bensì perchè dovrebbe avere sempre in sé l'innata tentazione di violare le regole del cerimoniale vigente per crearne uno nuovo. E' questo che dovrebbe renderlo capace di scandalizzare o di stupire, e pertanto tutta l'arte, in questo caso il teatro, è istintivamente ricerca, originale e personale. Non ha nome, o se ce l'ha si è accontentata di uno che gli è stato messo da altri a posteriori.

Per entrare nel sito web del Gruppo, cliccate con fiducia QUI

L’Ufficio Stampa è giudiziosamente affidato a Ilaria Ceci.

Gruppo Fonografico Rapsodi
“Trompe l'oeil, trompe l'oreille”
Prefazione di Paolo Maccari
Pagine 84, Euro 15:00
Editrice Zona


Vestiti per il Master


L’Università della Calabria, in collaborazione con il Comune di Lamezia Terme, ha attivato un Master di Primo Livello dedicato alle Culture della Moda.
Il Master si tiene in una regione che proietta di sé immagini distantissime dai temi del sistema moda in Italia. In realtà - Versace a parte – la Calabria ha delle realtà aziendali in questo settore del tutto insospettate e paradossalmente più conosciute all'estero che in Italia.
Questa iniziativa, vuole creare figure professionali in grado di colmare questo difetto di visibilità e di far crescere localmente un settore in promettente espansione.
Il Master, infatti, è finalizzato alla formazione di figure professionali manageriali-creative in grado di operare per una cultura d’impresa che integri i valori dell’heritage storico-artistico del territorio con i linguaggi della contemporaneità, aprendosi a una prospettiva “glocale” di mercato.
Queste nuove figure professionali acquisiranno competenze specialistiche per operare in strutture pubbliche e private (settore tessile, abbigliamento, aziende artigiane, commercio, giornalismo, comunicazione, e-commerce, network d’imprese, merchandising, progettazione eventi) in modo da innestare un proficuo circuito comunicativo tra nuovi contesti tecnologici e produttivi, identità territoriale e cultura del progetto.

A dirigere il Master è l’antropologa Paola De Sanctis Ricciardone che è stata ospite di Cosmotaxi in occasione dell’uscita del suo recente libro Ultracorpi in cui si parla di figure e materiali diventati feticci da collezionisti, ripercorrendone storia, prodigi e significati.

Per informazioni sul Master: QUI.

Per contatti: unicalmastermoda@gmail.com


Bussate e vi sarà chiuso


A Roma, il cineclub il Labirinto, dopo 28 anni d’attività, è costretto a chiudere perché sfrattato.
Da chi? Dall’Ordine religioso dei Redentoristi proprietario dei locali ora destinati ad attività commerciali; Ici esente, naturalmente.
Dal 1979 a tutto il 2007 il “Labirinto” – in questi anni ha tesserato circa centomila associati – ha fatto conoscere a Roma pellicole rare, escluse dal grande circuito, ha ospitato rassegne e convegni di studi cinematografici, sostenuto con la sua programmazione molti giovani autori italiani, spesso, al loro debutto. Ma di tutto questo, poco anzi nulla importa all’Ente religioso che pure incassava un canone di locazione superiore ai cinquemila euro mensili.
L’Amministrazione capitolina farà qualcosa per il Labirinto oppure è troppo intenta a prendere, senza reagire, insulti pubblici dal Papa e a insultare coloro che non hanno voluto Ratzinger all’Università? A proposito, in tanti sui giornali di destra e di sinistra, alla radio e in tv, hanno ironizzato sul piccolo numero di professori universitari che hanno dato vita alla contestazione alla Sapienza; è bene ricordare che il numero fu ancora più piccolo (appena 12) dei professori che nelle Università si rifiutarono nel 1931 di giurare fedeltà al fascismo. Dobbiamo ironizzare anche su quel numero?
La Chiesa parla di degrado a Roma, ma “il degrado” – come scrive Massimo Fusillo su Repubblica riferendosi al “Labirinto” – “inizia anche e soprattutto da queste cose”.

Si può mandare un messaggio di sostegno a: crslabirinto@hotmail.it


Pittura performativa


E’ in corso allo Studio Ghiglione di Genova, a cura di Salvatore Galliani, una mostra personale di Angelo Pretolani dal titolo Pittura performativa.
Attivo sul versante della Performance dai primi anni Settanta, ha attraversato – producendosi in Italia e all’estero – diversi linguaggi: dalla pittura alla fotografia, dalla radio al teatro, dal video alla scrittura, affrontando temi diversi ma sempre riconducibili al concetto di identità e di luogo, privilegiando nelle sue opere l’aspetto processuale.
Il suo motto: “Io non mi esprimo, io mi espongo”
In foto: Pittura performativa (Rosso 1), 2007. Acrilico e foglie di alloro su tela, 80x60 cm.

Così scrive in catalogo Fabrizio Boggiano su Angelo Pretolani: Il suo percorso procede lineare e coerente attraverso trent’anni di esperienze e riflessioni durante i quali, incurante della spazialità e della temporalità, solca il solido terreno della presentazione, ma mai quello della rappresentazione […] i suoi ultimi dipinti, come questi delicati segni dell’anima, creano reticoli che, paradossalmente, liberano da prigioni mentali, attivando meccanismi di lotta e libertà contro una realtà manipolata e condizionata. Ancora una volta compare, nell’essere artista di Angelo Pretolani, un sentire inseparabile dal pensare e dall’agire, che giunge prima della tripartizione dell’essere umano in conoscenza, azione e sentimento.

Angelo Pretolani
“Pittura performativa”
Studio Ghiglione
Piazza S. Matteo 6, Genova
info@ghiglione.it; 010 – 2473530
Fino al 16 febbraio ‘08


Gioele e Giuseppe


Nel ricco cartellone del teatro Condominio “Vittorio Gassman” di Gallarate, a cura della Fondazione Culturale “1860 Gallarate Città” va in scena, in prima nazionale, un nuovo spettacolo di Gioele Dix: Tutta colpa di Garibaldi.
Gioele DixAutori del testo, oltre a Dix che n’è il protagonista, Sergio Fantoni e Nicola Fano.
Le vicende umane, le battaglie, i trionfi, le delusioni, gli incontri, le frasi famose, le opinioni, le stroncature e gli elogi rivolti a Garibaldi, sono miscelati in uno spettacolo veloce e pensoso, comico e ragionato.
La figura del nizzardo, trascorso un lungo periodo di reverenza e intangibilità, è stata oggetto di studi che hanno in parte messo in discussione alcuni aspetti della personalità e dell’operato di colui che trionfalisticamente fu chiamato l’Eroe dei due Mondi.
Non mi riferisco ovviamente al revanscismo neoborbonico né a berciate leghiste che puntualmente peccano di comicità involontaria, ma a seri studi che hanno esaminato il profilo di Garibaldi definito da Indro Montanelli un "onesto pasticcione" nel senso che per sé nulla tenne, però si circondò di personaggi i quali, tramite le sue dittature in Sicilia e a Napoli, ne combinarono di cotte e di crude.
Craxi Benedetto, detto Bettino, prima di fuggire da latitante all’estero trovò il tempo, di celebrare Garibaldi annegandolo in fiumi di retorica, ma ecco uno storico socialista (non craxiano) come Giovanni Lubrano che così scrive: … Non parlo male naturalmente di quanti tra i Mille, e furono la stragrande maggioranza, combatterono e morirono per una causa che ritenevano giusta. Mi riferisco ai trafficanti senza scrupoli che si infiltrarono nel movimento per pensare esclusivamente ai propri loschi affari, col denaro del Regno delle Due Sicilie. Fu in quel periodo tra l’altro, ma è elemento molto rilevante, che il nascente stato unitario si accordò, sul piano interno, con le mafie in Sicilia grazie ai cosiddetti ‘baroni’ e a Napoli, tramite il ministro di polizia Liborio Romano, con i camorristi cui fu delegato l’ordine pubblico dopo la partenza di Francesco II il 6 settembre 1860.
Un patto scellerato che, a parer mio, dura nei fatti, ancora oggi. Un accordo istituzionalizzato cui, del resto, ricorsero anche gli americani nel 1943 con gli accordi tra l’Amministrazione Roosevelt e Salvatore Lucanica detto ‘Lucky Luciano’ prima, durante e dopo lo sbarco in Sicilia. Fecero dunque scuola nel mondo i ‘trattati’ con i mafiosi dell’epopea dei Mille.
Garibaldi, temprato dagli anni di lotta in Sud America, fu un ottimo capo guerrigliero, un abile comandante sempre presente nei momenti più drammatici della lotta – lo riconoscono pure gli storici di parte borbonica – una persona, che ‘sentiva’ la battaglia come forse nessuno altro, non privo di visioni strategiche come quanto si trovò sul Volturno. Ma, impareggiabile sul terreno su cui si sentiva più a suo agio, quello degli attacchi rapidi, fu purtroppo un amministratore cui le ‘faccende’ di governo sfuggivano di mano
.

Insomma, ben venga uno spettacolo che, anche attraverso la lente dell’umorismo, faccia riflettere su di un personaggio e un periodo storico di cui ancora oggi registriamo conseguenze nel bene e nel meglio come nel male e nel peggio.

L’Ufficio Stampa è affidato a Sara Magnoli: magnoli@fondazioneculturalegallarate.it

“Tutta colpa di Garibaldi”
di Gioele Dix, Sergio Fantoni, Nicola Fano
con Gioele Dix
Teatro Condominio “Vittorio Gassman”
Via Sironi 2, Gallarate
Info: 0331 – 784 140
Sabato 19 gennaio ore 21.00
Domenica 20 gennaio ore 16.30
Poi in tournée


ll disgusto è in tavola


Esistono personaggi che hanno lasciato un’impronta linguistica ed etica anche aldilà del campo che li ha visti specialisti.
Uno di questi è stato Luigi Veronelli.
Il più grande scrittore d’enogastronomia dei nostri giorni, infatti, con il suo stile ha fatto scuola in plurali campi del giornalismo.
Era originario del quartiere Isola di Milano dove nacque il 2 febbraio 1926.
Compì studi di filosofia praticando in gioventù un’intensa attività politica. Si professerà per tutta la vita di fede anarchica; l’ultimo suo articolo, per la rivista ‘Carta’, lo scrisse il 15 ottobre 2004, dedicandolo a Gaetano Bresci.
Morirà 14 giorni dopo a Bergamo il 29 novembre 2004.
E’ una delle figure centrali nella valorizzazione e nella diffusione del patrimonio enogastronomico italiano. Facitore di nuove espressioni, entrate poi nell'uso comune della critica del settore, è stato protagonista di battaglie per la preservazione delle diversità nel campo della produzione agricola e alimentare, sia attraverso la famosa creazione delle denominazioni d’origine sia per le sue vivaci presenze a fianco delle amministrazioni locali e l'appoggio ai produttori al dettaglio.
“Il vino è un valore reale che ci dà l'irreale", così diceva.
Ora, la Casa Editrice Elèuthera ha mandato in libreria un delizioso librino di Veronelli: Tredici ricette per vari disgusti.
Può sembrare uno scherzo di marca rabelaisiana, ma si tratta di una raccolta di ricette, realmente esistenti in parti del mondo lontane da noi, con proposte di cibi che per le nostre abitudini appaiono tragicamente disgustose.
Fintanto che vengono descritti vari modi di cucinare i gatti (i vicentini – non so se ancora oggi – sono noti per amare quel piatto), passi - con mio orrore perché amo i gatti -, ma allorché le pietanze citate – con puntuali esposizioni sui modi di procedere in cucina – riguardano, ad esempio, involtini di bruco al cartoccio, o topi in casseruola, oppure cavallette in brodo, anche i più arditi esploratori di sapori esotici, credo, s’arrendano.
Il volume s’avvale di un’acuta post-fazione di Andrea Perin (di un suo libro mi sono già occupato in queste pagine web: QUI) che, alla luce del potere della globalizzazione, spiega come non ci sia da sorprendersi se quei piatti possano diventare in un tempo vicino quasi familiari.
Tredici ricette per vari disgusti si apre con una semiseria introduzione centrata sull’antropofagia, cioè l’interdetto per eccellenza delle pratiche alimentari.

Luigi Veronelli
“Tredici ricette per vari disgusti”
Postfazione di Andrea Perin
Pagine 62, Euro 9:00
Elèuthera


Biografie immaginarie


Da cinque anni esiste un’iniziativa editoriale che mi è cara, pubblica librini che viaggiatori metropolitani di alcune città italiane possono ritirare gratuitamente da appositi contenitori posti alle fermate di bus, metropolitane, traghetti.
E’ un’innovativa modalità distributiva – ideata dall’Associazione No Profit Laboratorio E-20 – riservata ad autori che abbiano meno di 35 anni ai quali è richiesto di cimentarsi in testi brevi tanto da potere essere letti durante un veloce tragitto.
Bella intuizione di promozione e comunicazione della scrittura, la si deve a Davide Franzini e Oliviero Ponte di Pino.
Anche in questo neonato 2008 è possibile inviare manoscritti; saranno esaminati da una commissione che deciderà quali pubblicare.
Per il bando di concorso, cliccare QUI.

Devo a Maria Turchetto la segnalazione di uno di quei librini che è un’irriverente festa di pagine: Grandi figure della cristianità, l’autore – presentato da una prefazione di Alessandro Zaccuri - è Raffaele Ventura.
Il suo lavoro è una vertiginosa serie di biografie immaginarie dove, come scrive Zaccuri, “il demone dell’ironia tallona l’angelo dell’erudizione”.
Navigazione colta e birichina che attraversa lo stretto fra i promontori Borges e Schwob che, si sa, sono Scilla e Cariddi d’ogni narrazione fantastica.
Le pagine di Ventura ci fanno conoscere personaggi ben strani, come, ad esempio, Albrecht Wittemberg che stampò bibbie per gli analfabeti; Thomas Edison che creò la vita artificiale; Pascal Armogathe che lucrò sulla teologia; Agobardo di Lisieux che morì infinite volte; e altre bizzarre vite.
Il tutto reso da una scrittura raffinata, divertita, divertente.
Questo Grandi figure della cristianità penso che meriterebbe di figurare sugli scaffali del burlone Conte Fortsas, creatore di una delle più famose biblioteche immaginarie che da lui prende il nome.

Per leggere prefazione e testo, cliccate QUI.

L’Ufficio Stampa delle pubblicazioni è affidata al Cantiere di Comunicazione, Tel: 02 – 87 383 180 e 347 – 96 48 650;
Mail: cantiere@cantieredicomunicazione.com

Raffaele Ventura
“Grandi figure della cristianità”
Prefazione di Alessandro Zaccuri
www.subway-letteratura.org


Manuela Kustermann


“Le canzonette, la musica da ballo, servono a conservare la memoria del passato, più della musica colta, per quanto sia bella”.
Così diceva Marcel Proust.
Una canzonetta che ha segnato un’epoca fu scritta da Galdieri e D’Anzi: “Ma l’amore no”.
Fu, infatti, la canzone italiana di maggiore successo e più trasmessa dall'Eiar nella primavera - estate del 1943. Tratta dal film “Stasera niente di nuovo” di Mario Mattoli, con Alida Valli, accompagnò lo sbarco degli alleati, la caduta del fascismo, la notte dell'8 settembre, l'armistizio, il governo Badoglio, la fuga del re, l'occupazione delle truppe tedesche, le deportazioni, la Liberazione.
Da un verso di quella canzone prende il titolo lo spettacolo, in corso di repliche, al Teatro Vascello di Roma: L’amore mio non può.
Il lavoro, è tratto dal romanzo omonimo di Lia Levi pubblicato dalle Edizioni e/o.
Per saperne di più su quelle pagine, cliccate QUI.
Manuela KustermannE’ portato in scena da Manuela Kustermannin foto – che ne ha curato adattamento e regìa, ed interpreta il personaggio dell’ebrea Elisa, vedova di un uomo suicida in seguito alle leggi razziali.
Particolare significato acquista la scelta di portare oggi alla ribalta quel dramma perché nel 2008 ricorrono 70 anni da quando Mussolini promulgò le famigerate leggi razziali, controfirmate dal re Vittorio Emanuele III, e avallate da nomi che ancora oggi sentiamo risuonare con un alone d’immeritato rispetto; uno fra tutti: il sacerdote Agostino Gemelli.
Un buon libro che ricorda quelle leggi infami è I Dieci: chi erano gli scienziati italiani che firmarono il Manifesto della Razza.
Per non dimenticare una delle pagine peggiori della storia italiana, non è un caso che Manuela Kustermann ha deciso di concludere le repliche romane proprio il 27 gennaio Giornata Mondiale della Memoria.

L’Ufficio Stampa è affidato a Marina Raffanini: 06 – 588 10 21.

Vi ricordo che è in atto una raccolta di firme per salvare il Teatro Vascello minacciato di chiusura; per saperne di più: QUI.
Sullo stesso argomento, ecco un video.

“L’amore mio non può”
da un romanzo di Lia Levi
adattato, interpretato e diretto da:
Manuela Kustermann
Teatro Vascello
Via Giacinto Carini 78, Roma
Fino al 27 gennaio


il Luogo


La “elle” maiuscola se la merita tutta questo Luogo guidato da Aimo e Nadia Moroni che dal 1962 dispensano a Milano delizie del palato.
Conosco quella cucina e sono uno, fra i tanti, suoi sostenitori; ebbi anche la gioia di ospitare sulla mia taverna spaziale un incontro con i Moroni che illustrarono la loro storia e il loro pensiero sull’enogastronomia.
Adesso mi è pervenuto dall’Editrice O barra O un libro che riassume le esperienze, intercalandole con 24 ricette, di 45 anni d’arte cuciniera praticata da quel locale di Via Montecuccoli 6 (chiuso sabato a mezzogiorno e domenica) meta dei ghiottoni non solo milanesi perché lì si va apposta, et pour cause, anche provenendo da altre città.
Il volume, a cura di Stefania Moroni, è intitolato Le squisitezze del cibo e dell’anima; s’avvale di una premessa di Carlo Petrini e interventi di Luciano Eletti e Marco Dotti.
Il libro – attraverso conversazioni a più voci – profila come si è formato lo stile di Aimo e Nadia, quali i motivi delle loro scelte tecniche e dei criteri di gestione che li guidano nella direzione del locale.
Il Luogo ha le pareti impreziosite da opere di Paolo Ferrari, presente nelle conversazioni, e un Dvd allegato al volume – per la regìa di Massimo Buda – che contiene anche sequenze dell’artista mentre realizza un suo lavoro.

A conclusione di questa nota, mi piace riportare quanto scrive Carlo Petrini nell’introduzione: Non è difficile sostenere che noi italiani non abbiamo una gastronomia nazionale, almeno intesa come la si intende per la Francia: in Italia si fanno pochi chilometri e tutto cambia a tavola e in cucina. E su questa identità vasta e mutabile, ma sempre riconducibile a un territorio, Aimo e Nadia hanno costruito una cucina fatta di sensazioni, rimandi, viaggi, prodotti che dal regionale, dal tradizionale si fanno italiani, nel senso gastronomico più complesso. Studiare e approfondire il loro percorso è un po’ come studiare e approfondire la gastronomia italiana degli ultimi cinquant’anni.

“Aimo e Nadia”
A cura di Stefania Moroni
Premessa di Carlo Petrini
Pagine 128, Euro 29:00
O barra O Edizioni


Jacques Rancière


Il filosofo Jacques Rancière, nato nel 1940, è docente all’Università di Parigi VIII St. Denis. Allievo di Althusser, ne prende le distanze dopo il maggio ’68 nel volume “La Leçon d’Althusser” (1974).
Ha espresso il suo impegno prevalentemente sul cursore estetica-ideologia, di lui, infatti, ricordo un libro “La favola cinematografica” (ETS, 2006) in cui, come scrive Sergio Di Lino: “Da Ejzenštejn a Murnau, da Lang a Anthony Mann, da Nicholas Ray a Roberto Rossellini e Chris Marker, transita per i fondativi concetti deleuziani di ‘immagine-tempo’ e ‘immagine-movimento’, per giungere a quel formidabile saggio critico-antologico in forma di film che è Histoire(s) du Cinéma di Godard; il lavoro di Rancière, pur parcellizzato in una serie di "saggi-cristallo" disegna delle coordinate interpretative di grande pregio e raffinatezza”.
Uomo mosso da una costante vis polemica, recentemente, pur sostenitore di Ségolène Royal e della sua idea di democrazia partecipativa, precisò di avere nessuna voglia, in caso di vittoria della Sinistra, di “mettersi a pensare per i dominanti”.
I risultati elettorali, poi, lo hanno messo definitivamente al sicuro da quella fatica.
Ora, Cronopio manda in libreria un saggio di Rancière intitolato L’odio per la democrazia in una scorrevolissima traduzione di Antonella Moscati… a proposito, colgo l’occasione per ricordare ch’è autrice di un gran bel libro di cui mi sono già occupato in queste pagine web: Una quasi eternità.
Non viviamo in una democrazia – afferma Rancière – ma in uno stato di diritto oligarchico.
E conclude: La democrazia è nuda nel suo rapporto col potere della ricchezza e col potere della filiazione che oggi lo asseconda o lo sfida […] la cosa non può non fare paura e quindi suscita odio in chi è abituato a esercitare il magistero del pensiero. Ma in chi sa condividere con chiunque il potere uguale dell’intelligenza può suscitare coraggio, e quindi gioia.

Jacques Rancière
“L’odio per la democrazia”
Traduzione di Antonella Moscati
Pagine 116, Euro 12:50
Cronopio


Pink Puffers


Presento oggi una brass band di undici elementi, con repertorio funk, jazz, blues e latin: Pink Puffers.
Nascono nel quartiere San Lorenzo di Roma alla fine del 2005 come quintetto (tromba, alto, trombone, tuba, batteria), ma dopo un anno di concerti decidono di allargare il gruppo, muovendosi marciando durante i loro concerti e fondando, nel 2006, una vera e propria marching band, ispirandosi alla tradizione delle bande di strada americane.
Ora è uscito il loro nuovo Cd intitolato Roooh!
Mi è pervenuto un comunicato web che volentieri rilancio.

Rieccoci! Ricaricati dal cenone di capodanno, che ovviamente da buona street-band abbiamo consumato per strada (non è vero, ma fa fico dirlo), siamo pronti per ripartire subito subito con un concerto a tutto volume (ma senza amplificatori, sennò è troppo facile).
Suoniamo venerdì 11 Gennaio 2008, alle 22:30, al “Lian” (Via degli Enotri 8, Roma), e, se vi piace, potrete finalmente portare a casa il nuovo cd registrato come cristo comanda (sempre che cristo comandi qualcosa) appena tornati dall'America, e ora ufficialmente pronto per voi
.

Per ascoltare il loro sound: QUI; fra i brani a questo links disponibili, quello che preferisco è “Kebabbaro”.

Per visitare il sito web: CLIC!


Eimuntas Nekrosius


Impugnando saldamente per il dorso un romanzo russo dell’800 e poi scrollandolo sentirete gran rumore di ferraglia ferroviaria e cadranno sul pavimento traversine e bulloni.
Non ricordo chi è l’autore di questa azzeccata e divertente riflessione, ma sta di fatto che i treni sono presenti assai spesso in quella narrativa e se, dati i tempi, non erano troppo puntuali (ma in Italia, oggi, anche noi non scherziamo), puntualissimi, nella fantasia di molti autori, quei convogli arrivavano agli appuntamenti con le disgrazie.
Il personaggio tolstojano Anna Karenina non fa eccezione e si darà la morte proprio gettandosi sotto un treno.
Anna Karenina, di Lev Nikolaevic Tolstoj (Jasnaja Poljana, 1828 – Astapovo Rjazan, 1910), scritto negli anni dal 1873 e il 1877 dopo l’altro grande romanzo “Guerra e pace”, ebbe sùbito un successo clamoroso e coincise con una grande crisi spirituale dell’autore che coinvolse tutta la sua esistenza e i suoi valori tanto da indurlo negli anni ’80 a dedicarsi a opere morali e religiose, ma con un deciso rifiuto della teologia e del clero. La cosa influenzò anche la vita privata: divenne vegetariano, non voleva proventi dal suo lavoro di scrittore cosa questa che piacque per nulla alla moglie e non ci vuole molto per capirne le ragioni e un periodo di aspre liti in famiglia.
Ora la vicenda dell’adultera Anna Karenina viene portata in palcoscenico dal regista lituano Eimuntas Nekrošius (Pažobris, 1952) in una produzione dell’Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Biondo Stabile di Palermo, in collaborazione con Aldo Miguel Grompone, debuttando domani al Teatro Storchi di Modena
Mascia MusyProtagonista Mascia Musy (in foto); altri interpreti: Annalisa Amodio, Corinne Castelli, Nicola Cavallari, Vanessa Compagnucci, Alessandro Lombardo, Paolo Mazzarelli, Paolo Musio, Renata Palminiello, Paolo Pierobon, Alfonso Postiglione, Nicola Russo, Stefano Vercelli, Gaia Zoppi.

Nekrošius, formatosi all’Istituto d’Arte Teatrale Lunačarskij, ha acquisito fama mondiale già negli anni Ottanta, quando Arthur Miller, dopo averne visto a Vilnius “Pirosmani Pirosmani” (1981), lo definisce esplicitamente geniale.
“I suoi spettacoli” – scrive Claudio Longhi – “sono caratterizzati da un rapporto assai peculiare con il testo, che li rende molto più di altri accessibili anche a chi non ne capisca la lingua. Da un lato, infatti, le sue scelte cadono per lo più su classici della letteratura, da Shakespeare a Čechov, che il pubblico già ben conosce, dall’altro la rielaborazione drammaturgica che ne offre tende a ridurre l’importanza della parola recitata in favore dell’immagine, del gesto, del paesaggio sonoro […] In una delle sue rare dichiarazioni, rilasciata nel 2000 a Oliviero Ponte di Pino, aveva affermato di voler portare in scena un classico della narrativa: “Mi sono stufato di portare in scena testi teatrali, mi sembra arrivato il momento di lavorare su un testo di prosa, prendere un romanzo e metterlo in scena. Ci sono poche pièce di buona qualità, mentre ci sono numerosi romanzi interessanti”

Ufficio Stampa: Simona Carlucci; tel. 0765 - 423364 e 335- 5952789
mail: carlucci.si@tiscali.it

“Anna Karenina”
di Lev Tolstoj
regìa di Eimuntas Nekrošius
Teatro Storchi di Modena
da domani 10 gennaio
Poi in tournée


La voce di Henri


Pochi giorni fa – il 3 gennaio – è morto, a Dereham, nel Norfolk, Henri Chopin, nato a Parigi nel 1922.
Henri ChopinE’ stato uno dei fondatori della poesia sonora, artista che ha reso al meglio l’arte poetica affidata a mezzi diversi dalla parola, o che della parola svelavano altri significati e valenze espressive.

Ha scritto di lui Giovanni Fontana: Partendo dalle “particulae” sonore pressoché inavvertibili che pervadono i sentieri del nostro organismo, talora microfonando direttamente organi fonatori e non, riusciva a congegnare aggressivi concerti di poesia dove il suono assumeva consistenza materica; sapeva ingigantire magistralmente l’universo microacustico, rendendolo palpabile e trasferendogli addirittura valori cromatici, come se il tutto fosse filtrato attraverso un enorme caleidoscopio delle sonorità.

Parecchi video di performances di Chopin sull’ottimo sito Erratum.


Compleanno editoriale


Da cinque anni le edizioni nottetempo ci viziano con pubblicazioni raffinate che spaziano dalla narrativa alla saggistica alla poesia.
La casa editrice è stata fondata ed è diretta da figlie d’arte: Ginevra Bompiani e Roberta Einaudi (in foto).

A Ginevra Bompiani ho chiesto: quale bilancio tracci dopo cinque anni di lavoro di questa vostra storia editoriale?

A un bilancio preferiamo una festa, quella che abbiamo dato il 6 dicembre, e che si chiamava appunto “5 anni, 100 titoli”. A questa festa hanno partecipato tanti amici, librai, editori, scrittori, giornalisti, e alcune autrici e autori 'nottetempo' hanno letto dai loro libri passati e futuri nel meraviglioso teatro Goldoni di Palazzo Altemps. Poi si è mangiato, bevuto e chiacchierato. Sì, mi sembra più allegro di un bilancio.

Dall'esperienza di questi 5 anni, che cosa dobbiamo aspettarci da nottetempo per il prossimo futuro?

Abbiamo appena varato una nuova collana, che ne richiama una vecchia, forse non dimenticata, “Il Pesanervi”. Fu il mio primo lavoro editoriale presso la casa editrice Bompiani e introdusse in Italia la letteratura fantastica. Oggi, il nuovo Pesanervi, con le belle copertine di Jean Blanchaert, spazia dal fantastico al noir, dalla fantasciena al poliziesco, esplora quel che mette alla prova i nostri ‘nervi’, esorcizza l’ansia e la paura e li trasforma in divertimento.
Nei primi mesi del prossimo anno, avremo bellissimi libri di narrativa (Lidia Ravera, Céline Curiol, Enza Buono e Gianrico Carofiglio), di cronaca (Erri De Luca), sassi (Agamben), gransassi (Frieda Kahlo e Diego Rivera), altri Pesanervi, un libro sull’Afasia, e molte altre cose...
Uscirà il terzo romanzo di Milena Agus, “Ali di babbo”, contemporaneamente in Italia e in Francia.
Speriamo sia una bella stagione, come lo è stata il 2007, e forse più bella
.

Lo sarà di sicuro.


Pordenone legge


E’ dal settembre 2000 che si svolge il Festival Pordenone legge e da allora il successo è stato crescente fino a registrare nella più recente edizione oltre 80.000 visitatori in una città che conta 60.000 abitanti.
A dirigere l’iniziativa: Gian Mario Villalta (Visinale di Pordenone, 1959), Alberto Garlini (Parma, 1969), Valentina Gasparet (S.Vito al Tagliamento, 1973) con la collaborazione di Sara Moranduzzo e Elisabetta Pieretto.
Per saperne di più, ho invitato Gian Mario Villalta.
Qualche rapido cenno biografico su di lui.
Ha scritto in poesia: “Vose de vose / Voci di voci” (Campanotto 1995), “L'erba in tasca” (Scheiwiller 1992); ha curato, con Stefano Dal Bianco, la pubblicazione del ‘Meridiano Mondadori’ dedicato a Zanzotto: ”Le poesie e le prose scelte” (1999) e, dello stesso poeta, l'Oscar Mondatori "Scritti sulla Letteratura" (2001). Ha scritto il saggio “Il respiro e lo sguardo. Un racconto della poesia italiana contemporanea” (Rizzoli, 2001) e i romanzi “Tuo figlio” (2004) e “Vita della mia vita” (2006), entrambi editi da Mondadori.
La sua più recente produzione letteraria, è la raccolta di poesie Vedere al buio (88 pagine, euro 12:00), primo volume di una nuova collana pubblicata da Luca Sossella. Qui è possibile leggere la dichiarazione d'intenti dell’editore su quella collana che s’avvale di una raffinata scelta grafica dovuta alla creativa mano di Alessandra Maiarelli.
“Vedere al buio” è giunto in pochi mesi alla seconda edizione, cosa che non succede tutti i giorni per un libro di versi.

A Gian Mario Villalta, ho chiesto: in che cosa “Pordenone legge” si differenzia dagli altri Festival letterari dello scenario italiano?

Nelle nostre intenzioni e, mi pare, anche nei risultati, per il clima che si viene a creare. L’abbiamo chiamato “Festa del libro con gli autori”, e quest’atmosfera di festosità, pur nella serietà delle molte proposte, è parte essenziale della manifestazione: una vera e propria ricreazione per tutti gli appassionati del libro. Tutto il centro storico di Pordenone si anima di una partecipazione sentita, poiché siamo preoccupati dello star bene dei nostri ospiti quanto della bontà delle proposte culturali. Un’altra particolarità è l’attenzione per il territorio, per le sue proposte migliori e per le sue esigenze culturali più vive. Inoltre, la scelta degli autori è dettata da una vera curiosità e da una vera passione, che ci porta a coinvolgere nel nostro progetto chiunque, tra gli amici e i conoscenti, sia animato dalla nostra stessa volontà di realizzare qualcosa di nuovo e di interessante.

Traccia un rapido bilancio della più recente edizione.

L’edizione del settembre duemilasette ha dimostrato che la Festa del libro con gli autori è una manifestazione matura, che ha saputo selezionare nel tempo i suoi frequentatori, richiamandoli anche da regioni lontane dalla nostra. Giunti all’ottava edizione, possiamo dire che è un evento ormai atteso e prediletto da moltissimi lettori, come confermano, del resto, le davvero numerose visite al sito durante i mesi di agosto e settembre, alla ricerca di informazioni e contatti per meglio orientare le proprie preferenze. L’affluenza notevole (più di ottantamila persone) ci ha fatto ragionare sulla necessità di dare ancora maggiore equilibrio tematico alle proposte, in modo da facilitare un avvicinamento più razionale tra i visitatori e i loro interessi, ma senza perdere di vista la possibilità che si lascino sorprendere e coinvolgere da curiosità nuove.


Il velo svelato


Il Cesac (Centro Sperimentale per le Arti Contemporanee) propone una mostra singolare. E’, infatti, dedicata al Velo.
Questo abbigliamento siamo abituati oggi a vederlo spesso in foto che ritraggono scene raramente liete, ma l’esposizione che si tiene al Filatoio di Caraglio, vicino Cuneo, solo in una sua sezione si sofferma sul mondo musulmano perché spazia tra paesi, epoche, occasioni, indicando i tanti modi d’intenderlo, indossarlo, immaginarlo, dall’antichità fino all’interpretazione data dagli artisti delle arti visive dei nostri giorni.
“Trasversalità di culture, di mezzi espressivi, di intenti” – scrive Sara Giorgia Battaglia – “Si potrà incontrare la pittura stratificata, ‘velata’ di Alessandro Bulgini e il caleidoscopico velo di Kimsooja, la Veronica di El Greco accanto al Cristo morto del Mantegna, la splendente e vitale Madonna nera di Vanessa Beecroft e, dall’altra parte, l’intensa verità della morte rappresentata da Andrés Serrano. E ancora, Toulouse-Lautrec e Tiziano, Parmiggiani e Franko B, Albrecht Durer, la coppia Christo e Jeanne-Claude, ma anche le testimonianze dell’uso civile, nelle varie culture, del velo”.

La mostra s’articola in sette percorsi ciascuno dei quali ha un titolo: “Velature”, “Memoria e traccia”, “Purezza e candore”, “Soglie”, “Eros e Thanatos”, “Orientalismi/Occidentalismi”, “Il velo globale”.
A illustrare le intenzioni di queste sette strade, è il curatore della mostra Andrea Busto; per leggere, cliccare QUI.

Il catalogo – ricco di saggi dovuti a molti autori, nonché di un imponente apparato iconografico – è edito da Silvana Editoriale.

Per i redattori della carta stampata, delle radiotv, del web, l’Ufficio Stampa è guidato da Giuseppe Galimi di TAI (Turin Art International): giuseppegalimi@taiagency.it

“Il Velo”
Il Filatoio, Caraglio (Cn)
Tel: 0171 – 618 260
Mail: info@marcovaldo.it

Fino al 24 febbraio 2008


Effetto Pop


E’ in corso presso la nuova sede della Galleria Colossi Arte Contemporanea di Brescia la prima mostra antologica, dedicata ad uno dei maestri italiani della pop art: Roberto Malquori.
LiùFiorentino, classe 1929, unico artista italiano ad entrare nel Bauhaus Situazionista Scandinavo, movimento internazionale fondato nel 1959 da Jörgen Nash e da Asger Jorn, personaggi centrali del movimento internazionale teorizzato da Guy Debord.

Esposte oltre cento “Iconosfere”, figlie eclettiche e seducenti dell’Effetto Malquori, Effetto Pop - è il titolo della mostra - nell’arte: opere dove si sommano, e rigenerano, un insieme di immagini tratte dal mondo dei mass-media: parole, volti, loghi riuniti e trasformati sulle tele attraverso un particolare décollage.
Sul sito della Galleria c’è un video con un’intervista – condotta da Ilaria Bignotti (che è anche, con Daniele Colossi e Walter Guadagnino, curatrice del catalogo – nella quale Malquori illustra il percorso da lui seguìto in quarant’anni d’attività.

Roberto Malquori
Colossi Arte Contemporanea
Corsia del Gambero 13
Brescia
Tel. 030 – 37 58 583
info@colossiarte.it
Fino al 25 gennaio 2008


Anniversario Thriller


Il 1982 va ricordato in Italia soprattutto per quattro episodi: l’assoluzione di tutti gli imputati per la strage di Piazza della Loggia, l’assassinio per mano mafiosa del deputato del Pci Pio La Torre, l’uccisione del generale Dalla Chiesa e di sua moglie, il ritrovamento del cadavere di Calvi impiccato sotto un ponte sul Tamigi.
All’estero le cose non vanno meglio, s’assiste all’inizio della guerra delle Falkland voluta dalla dittatura militare argentina.
Eppure quell’anno recò anche immagini di gioia come quelle della vittoria della nazionale di calcio ai campionati del mondo in Spagna.
Altri fatti di rilievo avvennero nello spettacolo. Il cinema, ad esempio, vide nelle sale quel capolavoro che è “Blade Runner”, il raffinato “I giardini di Compton House” e nella musica un avvenimento s’incise in modo maiuscolo nel calendario.
Venticinque anni fa – per l’esattezza l’1 dicembre 1982 – nasceva, prodotto da Quincy Jones, Thriller di Michael Jackson.
In origine doveva intitolarsi “StarLight”, ma poi il cantante (nato a Gary, Indiana, il 29 agosto 1958) scartò quel titolo.
E’ stato dichiarato dal Guinness dei Primati (libro dei record, non delle scimmie) come il disco più venduto con 104 milioni di copie nel mondo, delle quali 27 milioni solo negli Stati Uniti.
Michael JacksonNella settimana dall’11 febbraio 2008 sarà in vendita una nuova versione che conterrà remix di Akon, will.i.am e Kanye West, oltre a un Dvd con i videoclip fra i quali quello celebre girato da John Landis; un vero e proprio mini-film contornato da coreografie – ispirate alla street dance – divenute famose e prese ad esempio tutt'oggi da artisti e registi.
Il video si fece notare anche per l'uso di effetti speciali – d’avanguardia per quel tempo – in uno dei quali Jackson si trasformava in zombie.
La cosa si prestò ad una velenosa battuta del critico William Bride il quale scrisse che la cosa poi non doveva essere stata tanto difficile per Michael.
Co-starring la bella Ola Ray.
La risata che si sente nel finale è di Vincent Price Jr. (1911 – 1993), attore famoso per i tanti film horror da lui interpretati; la sua altezza di 193 cm. ed i suoi modi raffinati e raggelanti lo resero il contraltare statunitense di Boris Karloff.

Per vedere il famoso video (v’avviso: la copia non è un granché), cliccate QUI.


Due saggi da M&V


L’Editrice Moretti&Vitali fa uscire contemporaneamente due saggi.
Cominciamo da Abitare la terra Ambiente, Umanesimo, Città, di Félix Duque; per una sua biobibliografia, cliccare QUI.
Quest’opera, non priva di qualche ermetismo, nel criticare la presente condizione umana, non vagheggia ritorni al passato, ma si augura che le forme tecnologiche e sociali attualmente praticate abbiano la forza d’annunciare un’altra storia dell’essere. “Più speranza che fiducia”, nota nella prefazione, Vincenzo Vitiello, mentre Flavio Ermini, con pagine lucenti, firma una post-fazione alquanto tecnofobica dai cui contenuti io sono lontano come tutto questo sito web dimostra.


Di più amichevole lettura risulta, grazie anche ad un avvincente stile di scrittura, Narrazioni del fervore Il desiderio, il sapere, il fuoco di Jean-Luc Nancy del quale potete trovare un profilo cliccando QUI.
In questo libro, Nancy ha selezionato narrazioni, scritte nell’arco degli ultimi vent’anni, per il teatro, riviste, cataloghi d’arte, prefazioni ad altri autori.
E’, quindi, un versatile e stereoscopico strumento che permette di conoscere il suo pensiero attraverso plurali momenti di riflessione.
“Narrazioni” – precisa Nancy nella Premessa – “non sono racconti, ma ‘comunicazioni a proposito di’, ‘rapporti’, ‘spiegazioni’ […] non raccontano vicende, inviano e vogliono comunicare una passione, un’emozione, il moto da cui fu afferrato un pensiero”.
Anche questo volume, come il precedente, è accompagnato da un saggio di Flavio Ermini che scrive: “Il tempo narrato da Nancy non è quello lineare della successione, bensì quello della simultaneità, dove ogni battito temporale convoca, ogni volta, l’irruenza della sfera genitale e le figure coinvolte nello slancio: il desiderio, il sapere, il fuoco”.

Félix Duque
“Abitare la terra”
Traduzione di Lucio Sessa
Pagine 158, Euro 16:00

Jean-Luc Nancy
“Narrazioni del fervore”
Traduzione di Alberto Panaro
Pagine 133, Euro 14:00

Moretti&Vitali


Fresu in Dvd


Dopo il successo della rassegna Le cinque giornate del jazz (per notizie dettagliate, cliccate sul sito Kiasma), l’Ufficio Cultura della Ripartizione italiana della Provincia di Bolzano ha realizzato – in coedizione con Auditorium – un libro dal titolo Paolo Fresu racconta il jazz attraverso la storia dei grandi trombettisti americani.
Cinque capitoli dedicati a Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Miles Davis, Chet Baker, Fra Wynton Marsalis e Dave Douglas.
Il libro contiene un Dvd che raccoglie i momenti più significativi della rassegna bolzanina.
Da alcuni anni a questa parte, la Ripartizione Cultura italiana della Provincia di Bolzano ha sviluppato un metodo di avvicinamento ai consumi culturali fondata sulla scomposizione delle tradizionali modalità di presentazione dello spettacolo.
Le cinque giornate del jazz è una delle più recenti iniziative.
Paolo Fresu, accompagnato dal suo quintetto e con l’aiuto di esperti di jazz, ha fatto vivere al pubblico un’esperienza intensa che ha offerto cospicui mezzi per comprendere un genere musicale amato da giovani e meno giovani.

La cosa non mi sorprende, è, infatti, uno dei più apprezzati musicisti jazz europei, dalla metà degli anni ottanta è sempre stato presente ai vertici delle classifiche del "Top Jazz" della rivista Musica jazz sia come miglior musicista sia come leader di gruppi o con proprie produzioni discografiche.
Tanti i campi, praticamente tutti, nei quali si è prodotto con le sue composizioni: dal teatro al balletto, dal cinema di lungometraggio al documentario, dalla radio alla tv. Inoltre, molte le sue sortite a fianco di poeti, videomaker (e qui voglio ricordare la sua collaborazione con un mio amico che purtroppo non c’è più: Alberto Grifi) , pittori, performers.

Dice Paolo Fresu a proposito dell’occasione delle 5 giornate del jazz a Bolzano: Cinque storie e cinque personalità completamente diverse tra loro per raccontare un’epoca irraccontabile e sfuggente, fatta di porte aperte e altre chiuse o socchiuse, di stili che si perdono in mille rivoli musicali; fatta di storie tristi e dure e di poesia, di suoni laceranti a volte terribilmente sereni e delicati. Un’epoca fatta di voci, di gesti, di fotografie e smoking, ma anche di corpi multicolori tra il bianco e il nero della storia recente.

Paolo Fresu
Pagine 124 con Dvd, Euro 18:00
Auditorium
Casanova e Chianura Edizioni


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