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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Conversazioni

Naturalizzato statunitense, il russo Iosif Brodskij (Leningrado, 24 maggio 1940 – New York, 28 gennaio 1996) è considerato uno dei grandi poeti del XX secolo.
Anche saggista e drammaturgo, fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1987 e nel 1991 nominato poeta laureato (United States Poet Laureate).
Scrisse principalmente in russo, fatta eccezione per i saggi, composti in inglese.
Fu perseguitato dal regime comunista che il 13 marzo 1964 lo condannò al massimo della pena prevista per il reato di parassitismo (sic!): 5 anni di lavori forzati in esilio nel distretto di Konoša. Prima dell’esecuzione della pena, è detenuto nell’ospedale psichiatrico Kaščenko di Mosca, nel manicomio Na Prjažke di Leningrado e nella grande prigione di Kresty (le Croci), sempre a Leningrado.
Morì per infarto cardiaco ed è sepolto a Venezia, all’isola di San Michele.
Per più diffuse notizie su di lui: CLIC.
Alcune sue composizioni poetiche sono su questo sito.

Ora Adelphi (che ha in corso la pubblicazione dell’opera completa di Brodskij) ha stampato un importante volume che permette di esplorare e approfondire il pensiero di questo maiuscolo autore: Conversazioni a cura di Cynthia L. Haven.
Un libro dal quale non potrà prescindere chiunque voglia conoscere le idee e la personalità di questo scrittore delicato sulla pagina quanto spesso brusco nei comportamenti.
Si tratta di lunghe interviste, diciotto per la precisione, che coprono l’intero periodo dell’esilio; l’ultima, infatti, risale a dieci settimane prima della morte.
Non solo interviste rilasciate a testate famose ma anche a redazioni di piccole pubblicazioni, ormai scomparse da tempo, conversazioni che se l’Haven non le avesse salvate dall’oblio avremmo perduto per sempre.
Secondo Andrej Rančin, professore di letteratura russa dell'МGU, Brodskij è l'unico poeta contemporaneo russo a essere già entrato di diritto tra i classici. Nessun altro scrittore è stato fatto oggetto di così tanta memorialistica e di una tale quantità di conferenze a lui dedicate. Quasi per paradosso, se da un lato si moltiplicano le opere e i convegni che hanno come soggetto Brodskij, tuttavia una richiesta dello stesso autore vuole che amici e parenti si astengano dalla stesura di una sua biografia, mentre una vera e propria disposizione testamentaria vieta tassativamente (complice anche la legge russa sulla privacy) che siano pubblicati materiali inediti e personali di Brodskij sino al 2071.

Tra le tante cose rilevanti contenute nelle varie interviste del volume, scelgo una riflessione di Brodskij rilasciata a Gabriella Caramore, l’unica intervistatrice italiana presente nel volume: Non sono le circostanze a creare uno scrittore, quanto piuttosto il contrario: uno scrittore, ciò che ha scritto, crea le proprie circostanze. Gli scritti di una persona non dipendono dalla sua biografia. È la biografia che deriva dagli scritti.
E ancora: Se dovessi definire la mia vita, forse la metafora più adatta sarebbe un’astronave: ricordo la stazione-madre, non conosco il luogo dove andrò a finire, ma è come se volessi andarci. Meno abitanti ci sono, più la cosa si fa interessante.

Iosif Brodskij
Conversazioni
A cura di Cinthia L. Haven
Traduzione di Matteo Campagnoli
Pagine 314, Euro 20.00
Adelphi


A teatro nelle case

Proprio vero che gli amori sfuggono ai tentativi di razionalizzazione.
Amiano assai spesso inspiegabilmente.
Ne sa qualcosa il povero Swann che nelle pagine di Proust dice a se stesso: “E pensare che ho rovinato tanti anni della mia vita, che ho desiderato di morire, che ho avuto il mio più grande amore per una donna che neppure mi piaceva, che neppure era il mio tipo!”.
Pur in modo decisamente meno drammatico e altrettanto decisamente meno fatale, è quanto càpita, ad esempio, a me col Teatro delle Ariette: fanno un teatro dal quale sono lontanissimo, essendo io vicino – anche per pratica personale – a una scena che vede robot al posto degli attori e le nuove tecnologie protagoniste.
Eppure… eppure non posso fare a meno di voler bene a quel Gruppo che conobbi in un lontano Festival di Santarcangelo quando rappresentarono Estate. Fine.
Voglio bene a quel Gruppo e lo stimo perché – sia pure in una modalità a me estranea – ha dalla sua una carica linguistica innovativa, una maniera di proporre teatro fuori del teatro generando una singolare drammaturgia. Per non dire – ma questo non riguarda soltanto le Ariette – del loro operare tenacemente in un’Italia con le difficoltà provocate da governi che trovano i soldi per acquistare aerei da guerra tagliando fondi alla cultura e che poi… “Ma che te lo dico a fare!” come nel suo famoso intercalare dice Lefty-Al Pacino a Donnie Brasco nel film omonimo.
Su questo sito, nel maggio 2006, dedicai un viaggio della mia Enterprise alle Ariette, ne trovate un resoconto QUI.

In quest’autunno, propongono la XIX edizione di A teatro nelle case progetto nato nel 1997, realizzato con il contributo di Regione Emilia-Romagna e Comune di Valsamoggia.
Attori, spettatori, casa, comunità: attorno a queste parole si fonda la nuova edizione del festival che ospiterà nella casa delle Ariette artisti e compagnie incontrate in questi anni, vicini per tensione etica e poetica e che da decenni praticano con dedizione, intelligenza e competenza, il proprio teatro.

Pensiamo il teatro in relazione al territorio – scrivono le Ariette - Portiamo il teatro fuori dagli spazi convenzionali. Cerchiamo l’incontro ravvicinato tra gli attori e gli spettatori nell’intimità di una casa, la condivisione delle esperienze. Lo facciamo da 18 anni dal 1997, quando per la prima volta abbiamo immaginato e realizzato il progetto “A teatro nelle case”. Da allora molto tempo è passato, molte cose sono cambiate, siamo cresciuti, ma continuiamo a mantenere giovane lo spirito della nostra azione. Il teatro è un’arte “al presente”, vive nell’oggi, nel momento in cui si fa, insieme, attori e spettatori. È anche un’arte molto sensibile, fragile e delicata. Ha bisogno di silenzio, attenzione e concentrazione, poco si adatta ai tempi frettolosi e urlati che stiamo vivendo. Il teatro è spazio del pensiero e non di chi alza la voce. Per questo vogliamo invitarvi a casa nostra, nello spazio silenzioso, semplice e un po’ francescano del Deposito Attrezzi.

Per il programma: CLIC!

Ufficio Stampa e comunicazione: Raffaella Ilari
mob. +39.333.4301603, raffaella.ilari@gmail.com

Teatro delle Ariette
A teatro nelle case
Info: tel. e fax +39.051.6704373
info@teatrodelleariette.it
1 > 15 novembre 2015


L'ora solenne (1)


“Un’ora solenne sta per scoccare nella storia della Patria”, con queste parole, Mussolini, con la faccia truce come documenta un filmato dell’epoca (lo stesso Mussolini che anni dopo, con volto probabilmente meno truce, se la dava a gambe travestito da soldato tedesco) annunciava il 2 ottobre del 1935 l’invasione dell’Etiopia. Le operazioni militari cominciarono il giorno dopo per concludersi con un altro tonitruante discorso la sera del 5 maggio 1936 quando ci fu la proclamazione dell’Impero.
Terminava così l’aggressione a uno Stato membro della Società delle Nazioni; eroica la resistenza degli etiopi contro i quali, in violazione della Convenzione di Ginevra, dagli italiani furono usati anche gas dai terrificanti effetti.
Una testimonianza dell’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié: “A Quoram squadriglie di 7 o 9 apparecchi sorvolarono il nostro quartier generale, le nostre truppe, i nostri villaggi per intere settimane, dall’alba al tramonto. Né gli uomini né le bestie erano più in grado di respirare. Ogni essere vivente che veniva toccato dalla leggera pioggia piovuta dagli aerei, che aveva bevuto l’acqua avvelenata o mangiato cibi contaminati, fuggiva urlando e andava a ripararsi nelle capanne o nel folto dei boschi per morire. Presto un odore insopportabile gravò sull’intera regione. Non si poteva, però, pensare di seppellire i cadaveri perché erano più numerosi dei vivi. Nel prato vicino al nostro quartier generale più di 500 cadaveri si decomponevano lentamente”.

Nella foto: guerriglieri fatti impiccare da Rodolfo Graziani.

A quell’invasione, Marco Palmieri ha dedicato un poderoso saggio pubblicato da Baldini&Castoldi: L’ora solenne Gli italiani e la guerra d’Etiopia.
L’autore, giornalista pubblicista e studioso di Storia contemporanea, ha lavorato per diverse testate; è membro del Centro Studi della Resistenza dell'Anpi di Roma-Lazio e ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla deportazione, l'internamento e le vicende militari italiane nella Seconda guerra mondiale. Per Einaudi ha pubblicato, con Mario Avagliano, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945(2009); Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia. Diari e lettere 1938 - 1945; e Voci dal lager (2012).
Nel catalogo 2013 di Baldini&Castoldi: Di pura razza italiana. L'Italia ‘ariana’ di fronte alle leggi razziali .

A quella guerra, fa notare Palmieri, non mancarono adesioni di nomi famosi quali Gabriele D’Annunzio, Filippo Tommaso Marinetti (che partì volontario), Guglielmo Marconi, Luigi Pirandello, e anche nomi che troveremo poi tra figure di spicco dell’antifascismo: da Vasco Pratolini a Elio Vittorini ad Achille Campanile
“Fu una guerra nazionale, combattuta da mezzo milione di italiani ansiosi di riscattare il prestigio compromesso dall’Italietta pre-fascista, umiliata dalla “vittoria mutilata”; una guerra moderna, col massiccio uso di mezzi meccanici e aviazione; una guerra criminale, con l’impiego sistematico dei gas nelle fasi più delicate. Fu poi una guerra dimenticata nel cono d’ombra dell’autoassolutoria vulgata del regime da operetta e degli italiani «brava gente». Ma dietro le canzoncine spensierate come Faccetta nera (canzone non gradita dal Regime tanto che fu composta anche una Faccetta bianca che, però, non ebbe successo), cosa pensavano davvero gli italiani di allora? Intrecciando abilmente tante fonti coeve, Palmieri dà voce allo spirito del tempo, per mostrarci un Paese illuso da quell’ora solenne, che non arrivò mai”.

Segue ora un incontro con l’autore.


L'ora solenne (2)


A Marco Palmieri ho rivolto alcune domande.

Un importante interrogativo storico s’impone fin dalle prime pagine del suo libro: perché la proclamazione dell’impero finì per diventare una delle pagine più dimenticate del dopoguerra? Escludendo la vergogna, purtroppo mai provata, per quanto avevamo combinato nell’”ora solenne”, qual è stata la principale causa di quell’oblio?

Gli italiani spesso hanno preferito non fare i conti con gli aspetti più sgradevoli del proprio passato fascista. A questo destino non è sfuggita nemmeno la guerra d’Etiopia, alla quale si è preferito togliere importanza, riducendo quell’imponente e spietata campagna militare a un piccolo conflitto coloniale passato alla storia più per i motivetti spensierati che l’accompagnarono (come Faccetta nera) che per i bombardamenti terroristici, il ricorso sistematico e a lungo negato alle armi chimiche, le migliaia di vittime provocate e i metodi feroci e razzisti adottati nei territori occupati. Questo ricordo imbarazzante, cioè, è stato rimosso lasciando prevalere nella memoria e perfino in una parte degli studi la comoda vulgata degli “italiani brava gente” e di un “colonialismo buono” e più umano rispetto a quello di altri Paesi verso le popolazioni locali che hanno beneficiato della costruzione di strade, ospedali e altre infrastrutture. Ma le cose non andarono proprio così.

Perché non c’è stata una Norimberga italiana? Eppure basterebbe pensare solo all’uso dei gas in Etiopia (proibiti dalla Convenzione di Ginevra), ma non è l’unico crimine da noi commesso, ne abbiamo praticati altri pure in Jugoslavia e in Grecia…

Nel dopoguerra si è assistito ad uno schiacciamento della memoria, e in parte degli studi, sul dissenso diffuso verso il fascismo, che in realtà si manifestò solo dopo il 25 luglio e soprattutto l’8 settembre del 1943, facendo passare in second’ordine il consenso e l’adesione zelante del periodo precedente e le relative responsabilità. Tuttavia gli studi più recenti hanno certamente avviato una “Norimberga delle coscienze”, nel senso che le ricerche approfondite e documentate che molti storici stanno portando avanti fanno giustizia della vulgata autoassolutoria che nel dopoguerra ha impedito la piena conoscenza di molte pagine nere della nostra storia nazionale, come il razzismo, la persecuzione degli ebrei, la partecipazione entusiastica alle campagne d’aggressione nella prima fase del conflitto mondiale, i crimini di guerra nei territori occupati e la collaborazione attiva della Repubblica di Salò all’opera nazista di deportazione e morte.

Le sue pagine riferiscono e documentano come negli ambienti cattolici vi fu dapprincipio una notevole freddezza nei riguardi dell’impresa armata del duce (Pio XI era intimamente contrario alla spedizione armata, don Sturzo esplicitamente avversava la guerra contro Selassiè), poi vi fu una progressiva adesione alle posizioni della politica fascista. Perché ciò avvenne, nella gran parte di quegli stessi ambienti?

Il consenso degli italiani verso la guerra d’Etiopia ebbe anche una matrice religiosa, poiché si diffuse anche l’idea di una missione civilizzatrice e cristiana in un territorio considerato barbaro e arretrato, dove ad esempio vigeva ancora la pratica della schiavitù, a scapito del pacifismo e dell’opposizione al riarmo. Ciò si inserì nell’ambito di una più generale adesione ad alcuni valori incarnati dal fascismo ed esemplificati nel motto “Dio, patria e famiglia”. Molti parroci e vescovi infatti presenziarono alle cerimonie per la partenza delle truppe e presero pubblicamente posizione in favore della guerra.

Durante la lettura del suo libro, anche per i frequenti riferimenti storici che lei fa all’epoca precedente l’avvento della dittatura, una domanda mi ha accompagnato: gli italiani erano fascisti già prima del fascismo?

L’entusiasmo e il consenso di molti italiani alla guerra d’Etiopia si basava anche su istanze e motivi pre-fascisti, già presenti nella cultura dell’Italia liberale, ma il fascismo li inserì nel proprio originale sistema valoriale incentrato sull’affermazione di un “ordine” e di un “uomo nuovo” che non potevano prescindere da una revisione dello status quo internazionale e dall’affermazione di una “coscienza imperiale” nazionale.

Marco Palmieri
L’ora solenne
Pagine 316, Euro 16.00
Baldini&Castoldi


Antologica di Spinosi


È in corso dal 12 settembre presso Augeo Art Space di Rimini una carrellata sui più recenti anni di lavoro, precisamente dal 1990 al 2015, di Graziano Spinosi.
Nato a Bologna (1958), dal 1994 insegna Ricerca Artistica Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Ravenna.
Caratterizza la sua ricerca per l’impiego di una pluralità di materiali.
Materiali di cui parla QUI in una nota che scrissi in occasione di una sua mostra dell’anno scorso.

Le tre aree dello Spazio Augeo, dove espone ora, ospitano opere di altrettanti periodi di Spinosi: dalle scarpe degli anni novanta, dedicate a maestri dell’arte, della danza e della letteratura, alle opere ferrose di grandi dimensioni dei primi anni duemila, fino alle attuali, realizzate con materiali naturali come il rattan e la cera d’api.

Dal testo critico di Massimo Pulini: Da molti anni, con una insistenza variopinta, con un’ossessione innamorata, Graziano Spinosi lavora e ricerca, progetta e costruisce intorno alla forma archetipica del nido. Ma si potrebbe dire intorno al grembo materno, alla crisalide, al guscio, alla barca, alla gemma, alle mani giunte, al vaso, al carapace, al gomitolo, al sacco, al seme, al cranio, al nodo, al pianeta. Sono tutte forme che, prima di giungere all’arte, contengono cose tra loro diverse: un nascituro, un navigante, un cervello, una preghiera o un fuoco, ma ognuna svolge un ruolo di protezione, di conservazione e riparo.

Il sito web di Spinosi contiene molte immagini di suoi lavori, non perdetevele, basta un CLIC!

Graziano Spinosi
Antologica 1990 - 2015
Augeo Art Space
Corso d'Augusto 217, Rimini
info@augeo.it
tel. 0541 – 53 720
Fino al 12 dicembre ‘15


L'omeopata Lorenzin


Beatrice Lorenzin, dapprima Forza Italia poi tra le firme fondatrici del Nuovo Centro Destra, può vantare d’essere una delle persone non indagate dalla Magistratura di un partito (alleato di Renzi) che, invece, ha – rispetto al numero dei suoi rappresentanti eletti – il più alto numero d’inquisiti.
Minore vanto è quello d’essere Ministro della Salute (prima con Letta poi con Renzi) perché in tale ruolo – pur non risultando suoi studi in medicina, ha come titolo di studio la maturità classica) – si è distinta per iniziative criticate dal mondo scientifico e amministrativo.
Adesso, ha trovato il tempo di scrivere la prefazione a un libro intitolato “Elogio dell’omeopatia” pubblicato dall’editore Cairo e scritto da Giovanni Gorga. Che l’editore stampi un volume che ritiene possa interessare molti lettori è cosa perfettamente legittima così com’è ben legittimo e comprensibile che l’autore – presidente di Omeoimprese, che raggruppa le principali aziende italiane produttrici di rimedi omeopatici – illustri in positivo le cure omeopatiche.
Ben strano, invece, che un Ministro della Salute spenda il proprio nome, impegnato in una carica pubblica di vertice nella sanità, per un tipo di terapia che da molti scienziati è ritenuto placebo vivacemente sconsigliato poiché può produrre danni se usato sostituendo altre cure.
La Lorenzin, invece, non ha dubbi e procede sicura; nel suo cognome – ah, prudenza anagrafica! - è incorporato renzi, la signora giustamente si sente tranquilla.

La cosa, però, non l’è andata del tutto liscia. Il CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle affermazioni sulle Pseudoscienze) è intervenuto e le ha indirizzato una lettera aperta che al momento in cui queste righe vanno on line è prossima alle 3000 firme.
Cliccando QUI si può sottoscrivere la lettera.


La speranza è più della vita


Questo sito si è spesso occupato di Emil Cioran (Răşinari, 8 aprile 1911 – Parigi, 20 giugno 1995) e segnala oggi una nuova pubblicazione delle edizioni Mimesis che hanno già in catalogo più titoli del pensatore rumeno scomparso vent’anni fa.
Per un esaustivo elenco dei titoli di Cioran tradotti in italiano fino a oggi, cliccare QUI.
Ora è in libreria La speranza è più della vita, a cura di Antonio Di Gennaro.

Dalla scheda editoriale.
Nel marzo del 1985, intervistato dal giornalista tedesco Paul Assall, Emil Cioran tenne presso la sede dell’emittente radiofonica “Südwestfunk” (Baden-Baden) un’importante conversazione, focalizzata sui temi della speranza, della storia e dell’utopia. In disaccordo con le voci imperanti del pensiero filosofico-teologico, moderno e contemporaneo, l’intellettuale rumeno illustra le principali linee guida della propria tragica Weltanschauung, fondata sul nichilismo e sul rifiuto totale di ogni prospettiva storicistica (ideologica, escatologica). All’idea di “progresso”, egli sostituisce il “regresso”, all’“utopia”, il “disinganno”. La storia, secondo l’eretico Cioran, da sempre magistra vitae, insegna come l’uomo sia ontologicamente macchiato, e quindi condannato ad un inesorabile “cammino verso il peggio”. In tal senso, inutile attendersi un miglioramento morale del genere umano o un’evoluzione della società. L’unica forma di “salvezza”, forse, è rassegnarsi al divenire assurdo del mondo, accettando la “caduta” e il “fallimento” come un’imperscrutabile fatalità.

Antonio Di Gennaro è uno dei più attenti studiosi in Italia di Cioran, segue un suo flash sul filosofo: Il discorso che Cioran porta avanti investe la totalità della vita ed è pertanto una metafisica del tragico, un’ermeneutica dell’assurdo. All’interno di questa visione nichilistica del mondo, dove nulla è eterno e dove anzi il nulla regna imperante sull’essere, l’uomo non è altro che «saliva sputata dalla vita». La condizione umana si presenta in Cioran in tutta la sua precarietà e finitezza in termini di solitudine, abbandono, disgregazione, disperazione. Una condizione sintetizzata, secondo il Nostro, dall’equazione: Esistenza = Tormento.

Una sua ampia intervista, si trova QUI.

Emil Cioran
La speranza è più della vita
A cura di Antonio Di Gennaro
Traduzione di Stefania Achella
Pagine 106, Euro 5.90
Mimesis


Nudi particolari


Cosmotaxi stima da tempo, e molto, Claudio Cravero fotografo torinese (con mostre in Italia, Francia, Portogallo, Repubblica Ceca, Argentina, Stati Uniti); trovate QUI un numero dedicatogli dalla Sez. Nadir di questo sito con immagini e dichiarazioni sul suo lavoro, sul suo stile.

Ora eccolo produrre un lavoro originale per concezione ed esecuzione che muovendosi dalla fotografia percorre tracciati psicologici e sociologici: Nudi.
Con un CLIC ne vedrete e saprete di più da lui stesso.


Gli amori di mia madre

Per decenni, una delle cose che a ogni trasloco ho portato sempre con me è stata una scatola da scarpe. Conteneva le lettere di mia madre, scritte in caratteri Sütterlin (per Sütterlin, si veda QUI, N.d.R.) a matita o a inchiostro, su carta bianca o gialla, spesso su fogli formato A5, che magari aveva strappato da un quaderno di scuola o da un blocchetto per appunti.

Settantenne, quell’uomo, diventato negli anni uno scrittore tedesco famoso, con l’aiuto di un’amica esperta di scrittura Sütterlin, decifra quelle lettere e gli si apre uno scenario di roventi passioni, complicità, ribellioni, vissute da sua madre che morì quando lui aveva otto anni. Quell’uomo è Peter Schneider che, con l’esperienza di un tumultuoso impegno politico nel ’68 berlinese, ha narrato l’avventura culturale e umana di una generazione nata durante la seconda guerra mondiale, ne ha raccontato le vicende, le utopie, le delusioni, pagando di persona con uno sbarramento all’insegnamento che gli fu imposto per la sua attività politica e rimosso solo nel 1976.
Della sua imponente produzione, in italiano abbiamo, o meglio più non abbiamo perché ormai introvabile, “Lenz” (Feltrinelli, 1973), reperibili, invece, Il saltatore del muro e Accoppiamenti.

Ora l’Editore L'Orma ha pubblicato Gli amori di mia madre che in modo emozionato e coinvolgente dispiega misteri e pulsioni rintanati per tanti anni in quella scatola da scarpe.
“Scoprii all'improvviso, leggendo tradotte quelle lettere ingiallite e sbiadite dal tempo, una donna libera e passionale. E insieme devota e sottomessa agli amanti, come le gentildonne dell'Ottocento. Tutto questo, ebbe la forza di vivere mamma attraverso le tragedie e la paura quotidiana della seconda guerra mondiale, senza nulla dire del clima di terrore anche provato sotto il nazismo”.
Quella donna, sposata con Heinrich, un direttore d’orchestra, tombeur de femmes e sospettato di simpatie per il nazismo, si lega, senza nasconderlo al marito, a uno dei migliori amici di lui, Andreas un regista teatrale; nel terzetto a un tratto avanzerà anche la figura di una grande amica della madre di Schneider, si chiama Linda e, s’intuisce, non respingerà la corte di Heinrich e di Andreas.
Tutto questo è raccontato in modo lontano da ogni cosmetica da romanzo e da ogni atmosfera torbida, ma con una forza d’introspezione psicologica di grande potenza e con una comprensione da parte di chi racconta del destino di quei personaggi che inseguono una felicità assoluta non curandosi d’occultare i più intimi sentimenti perché più audaci che sfacciati.
La protagonista si staglia nella storia come una donna capace di esporsi “senza difese all’oscillazione tra gioia di vivere e malinconia”, del padre Heinrich, Schneider dice: “Tra i costi che dovette pagare per la propria imperturbabilità ci fu anche il rifiuto, o l’incapacità, di abbandonarsi alla disperazione".
Prima e dopo Andreas, la madre di Schneider ebbe altri amanti, l’ultimo rimase accanto a lei sino alla fine insieme con Heinrich.
La figura di Andreas è quella che si presta ai più severi commenti: “Nell’enorme lascito di Andreas, che è custodito all’interno del museo di un teatro, il nome della donna che fu sua amante per così tanti anni non viene ricordato nemmeno con una sillaba”.

La casa editrice L'Orma ha l'ottima abitudine d'informare il lettore sul profilo di chi ha tradotto.
Qui si tratta di Paolo Scotini, germanista e lessicografo, ha studiato a Firenze e Colonia e ha insegnato all'università di Bonn.
E' autore di articoli e saggi sulla poesia e sulla narrativa tedesca del Novecento.

Peter Schneider
Gli amori di mia madre
Traduzione di Paolo Scotini
Pagine 312 , Euro 16.00
L’Orma Editore


BeatleStory

Anni ’60: un contenitore storico bollente.
Viene eletto Kennedy, primo presidente statunitense ad essere nato nel XX secolo ed il più giovane a morire ricoprendo la carica; 17 stati africani raggiungono l’indipendenza; in Cina la cosiddetta “rivoluzione culturale; Al Fatah inizia la guerriglia in Israele; diventa leggenda Che Guevara; a Parigi il maggio francese: è il ’68.
Molti altri avvenimenti sono inscritti in quegli anni, anche nelle arti e nelle scienze, per dirne due soltanto: esce il film “La dolce vita” e Watson pubblica “La doppia elica”, resoconto delle sue indagini sul DNA.
A segnare un’epoca, mentre esplodeva la moda del twist che durerà per anni, ci sarà pure la data del 17 agosto 1960 ad Amburgo. Là, in un locale chiamato “Indra” si esibisce un gruppo inglese, per la prima volta con il nome di Beatles.
Il successo del quartetto di Liverpool fu straordinario e determinerà un fenomeno non solo musicale per i pregi di novità e raffinatezza della loro musica, ma anche di costume, l'adorazione che suscitavano mai era stata prima conosciuta per dei divi.
Nacque un fenomeno di antropologia culturale che sarà studiato e provocherà articoli, libri, tesi di laurea, perché ha investito il merchandising, il fandom e il branding; si chiamerà Beatlemania.
La paternità del termine è reclamata da Andi Lothian, un promoter musicale scozzese.
Alla fine degli anni '60 lo sgretolamento del sogno consumistico e del benessere economico, portarono migliaia di giovani a riunirsi facendo emergere una nuova controcultura, che si oppose ai valori tradizionali attraverso la definizione di nuovi ideali di amore e spiritualità e, contemporaneamente, anche attraverso un nuovo stile artistico-musicale psichedelico che videro i Beatles protagonisti. Il clima di rivolte e repressione, delle proteste per la guerra in Vietnam e delle rivolte studentesche segnò, infatti, la loro produzione musicale.
Il resto è storia più vicina a noi e comincia con l’assassinio di Lennon, poi i contrasti nel gruppo, le avventure soliste.

Ora prosegue le sue repliche uno spettacolo, BeatleStory The Fabulous Tribute Show Tour, che di quel famoso gruppo ne ripropone la cipria del tempo, gli umori musicali che vanno oltre l’esercizio della cover, in uno spettacolo che si avvale delle nuove tecnologie sceniche.
Dopo le esperienze internazionali con il musical “Let it Be” in scena a Broadway e Londra, Roberto Angelelli e Patrizio Angeletti presentano, in collaborazione con la 2PIER e Giancarlo Bornigia, un nuovo spettacolo interamente dedicato ai Fab Four per far rivivere i “fantastici quattro” del pop mondiale.
QUIfoto e bio dei protagonisti.

Beatlestory, partendo dalle strade di Liverpool, attraversando gli anni della Beatlemania fino ai grandi capolavori in studio, porta in scena due ore intense di capolavori come ‘She Loves You’, ‘I Want To Hold Your Hand’, ‘Twist and Shout’, ‘Yesterday’, ‘Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band’, ‘All You Need Is Love’, ‘Come Together’, ‘Let It Be’, ‘Hey Jude’, per raccontare fedelmente al pubblico di giovani e meno giovani la più grande esperienza pop forse mai esistita.
Con video d’epoca, costumi, strumenti vintage e una scenografia in grado di proiettare lo spettatore nel clima della Swinging London dei primi anni Sessanta, passando attraverso spezzoni di filmati originali dei memorabili live, fino ad arrivare al viaggio psichedelico di Sgt. Pepper, alle atmosfere più hippy di Magical Mystery Tour e alle proteste studentesche anni Settanta, BeatleStory diventa così un ritratto fedele della band più influente della storia della musica, unendo la storia dei Fab Four, alla storia di un’epoca

CLIC per conoscere piazze e date del tour.

Ufficio Stampa HF4: Marta Volterra - marta.volterra@hf4.it - 340.96.900.12


Due traduzioni di Landolfi


La collaborazione fra lo scrittore, drammaturgo e librettista austriaco Hugo von Hofmannsthal (1874 – 1929) e il compositore e direttore d'orchestra tedesco Richard Strauss (1864 – 1949) è stato un sodalizio artistico complesso e felicissimo, testimoniato anche dall’imponente epistolario, pubblicato da Adelphi , a cura di Willi Schuh e Franco Serpa che vedono in quel binomio "... un’alleanza, talvolta una complicità, forse mai una vera amicizia: per oltre vent’anni Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss lavorarono insieme, quasi sempre restando lontani, l’uno in Austria, l’altro in Germania […] Nelle loro lettere il poeta viennese e il compositore bavarese si scambiano idee e progetti, ma anche gioie e malumori, incoraggiamenti e rimproveri, disegnando ciascuno un autoritratto segreto e dando uno sfondo ideale alle opere nate dalla loro collaborazione, interrotta nell’estate del 1929 dalla morte improvvisa di Hofmannsthal, che stava lavorando al libretto di Arabella”.
Morte tragica: il figlio Franz si uccise e due giorni dopo, mentre si preparava ad accompagnarlo al cimitero, Hofmannsthal venne colpito da emorragia cerebrale, morendo a 55 anni in poche ore.
Di solito, si considera il librettista quasi figura ancillare rispetto al musicista, però questo è il caso di una clamorosa eccezione perché s’incontrano due giganti, uno della letteratura l’altro della musica.
Hofmannsthal con la sua concezione aristocratica della cultura, con le sue pagine raffinate, ricche di vocaboli preziosi, fu testimone ed espressione della fine di un'epoca, quella dell'Austria asburgica.
Strauss, di lui è stato detto che fu erede schietto della linea “neudeutsche’ Liszt-Wagner; vanno ricordate anche due cose: con lui si ha una nuova configurazione sociale dell’autore tanto da portarlo a fondare la Società tedesca equivalente alla Siae italiana; le ombre di una sua presunta simpatia per il nazismo che nel 1947 lo vide imputato, assolto però, dall’accusa di collaborazionismo.
Hofmannstahl e Strauss, entrambi appartenenti a nazioni sconfitte nella prima guerra mondiale avevano conosciuto il vertice espressivo della loro collaborazione con Il Cavaliere della rosa nel 1911.

Proprio “Il cavaliere della rosa”, insieme con il meno noto “Le nozze di Sobeide”, troviamo in un'edizione Adelphi impreziosite da una traduzione di Tommaso Landolfi.
Come avverte un risvolto di copertina, tutte le opere e le traduzioni di Landolfi sono in corso di pubblicazione presso Adelphi. Benché apparse nel 1959, le due versioni d Hofmannsthal vanno fatte risalire alla metà degli anni Quaranta: in una lettera del 20 gennaio 1955 Landolfi le definisce, infatti, “cose di almeno dieci anni fa”.
Dal quarto di copertina: “Nel 1959 usciva, nella Collana Cederna di Vallecchi, il quinto volume delle Opere di Hugo von Hofmannsthal. Volume a dir poco eccezionale, che proponeva nella traduzione di Landolfi il Cavaliere della Rosa – con cui la vicenda mirabilmente complessa e armoniosa dei rapporti fra Hofmannsthal e Strauss tocca il vertice della perfezione – e insieme il meno noto Le nozze di Sobeide, un canto 'così colmo di parole profonde e grandi su grandi e profonde cose umane' ha scritto Theodor Lessing 'che nessuno l'ascolterà senza provarne meraviglia'. Un dittico sapientemente giocato sui contrasti, dunque: all'incantevole leggerezza del Cavaliere fa da contrappunto la cupa bellezza di un dramma in versi dove la temeraria sincerità di Sobeide, che confessa al Ricco Mercante sposato per desiderio del padre il suo amore per il giovane Ganem, e la malinconica lungimiranza del vecchio, che sceglie di lasciarla libera, trovano grazie alla versione landolfiana accenti di alta poesia".

Hugo von Hofmannsthal
Le nozze di Sobeide
Il cavaliere della rosa
Traduzione di Tommaso Landolfi
Pagine 202, Euro 12.00
Adelphi


Libri maledetti

Perché mai uno squisito libro come quello di cui sto per consigliare la lettura sia stato confinato nella collana “narrativa italiana” dal pur valoroso editore Cairo, resterà un mistero che meriterebbe d’essere indagato proprio dall’autore di Libri maledetti Storie di pagine che bruciano il volume che segnalo oggi.
L’autore è Luca Scarlini che, peraltro, mai si è macchiato di romanzerie come il suo curriculum letterario dimostra e, ovviamente, neppure in quest’occasione. Forse fedele a quel saggio avvertimento manganelliano: “Basta che un libro sia un ‘romanzo’ per assumere un connotato losco”.
Saggista, drammaturgo, comparatista, traduttore, storyteller in scena spesso insieme a cantanti, attori e anche in veste di interprete. Dopo aver insegnato all’Accademia di Brera e in altre istituzioni italiane e straniere, ora è docente allo IED e alla Scuola Holden. Collabora con RadioRai e allestisce mostre.
Tra i suoi più recenti libri “Lustrini per il regno dei cieli” (Bollati Boringhieri), “Sacre sfilate” (Guanda), “La sindrome di Michael Jackson” (Bompiani), “Il sesso al potere dall’Unità a oggi” (Guanda), “Siviero contro Hitler” (Skirà). Scrive su Alias del Manifesto e su il Giornale dell’Arte.
È stato più volte ospite di questo sito, la più recente QUI.
Perché è uno di quegli autori che piacciono a Cosmotaxi: uno che scrive leggendo.
Le sue pagine, infatti, sono spesso viaggi sulla corrente di fiumi sotterranei della storia e della letteratura, speleologia fra creature notturne oppure in grotte segrete dell’esistenza di personaggi noti, ad esempio Marlene Dietrich, Andy Warhol, Michael Jackson.
Leggeteli i suoi libri, servirà a rendervi lettori migliori.

Con “Libri maledetti”, compie un viaggio fra creature di carta segnate da un destino di nero inchiostro. Alcune di queste creature sono figlie di autori disdicevoli, altre condannate da lettori disdicevoli con il potere di censurare disdicevolmente. Altre ancora sono creature che, inesistenti, ebbero vite da fantasmi, spettri che molti dissero d’aver visto, ma in realtà mai palesatisi sia pure avvolte in un frusciante lenzuolo di cellulosa.
Dal quarto di copertina: “Sono tanti i libri che nel corso della Storia hanno determinato sommovimenti di popoli, diffusione di eresie, contrasti nazionali e politici. Pagine che sono state bruciate (e come dice un saggio cinese, si inizia dai libri e si finisce con gli autori) e altre che hanno ispirato l’universale rogo di uomini e idee. Da questa tumultuosa e affascinante vicenda, che unisce tutti i popoli del libro nella storia dell’umanità, nascono undici storie, per non farne dieci, in omaggio all’asimmetria del destino. Partendo da due incunaboli del passato (Il Libro di Toth e il Malleus Maleficarum, il famigerato Martello delle Streghe), seguono nove “esempi maledetti” dalla fine dell’Ottocento a oggi. Apre la fila l’infausta bufala dei Protocolli dei savi di Sion; seguono il Libro santo di Thelema di Aleister Crowley in celebrazione di Satana; il volume pubblicato dai due scopritori della doppia elica del Dna, Watson e Crick, rimasto ancora oggi fuorilegge in alcuni alcuni stati in cui impera il creazionismo; quello forse mai esistito, il Necronomicon evocato da Lovecraft; il letale Mein Kampf; lo sconosciuto e tuttora bandito Epimostro di Nicolas Genka; la scandalosa Lunga notte di Singapore di Bernardino Del Boca (fratello del più famoso Angelo), pioniere della liberazione omosessuale, libro sequestrato e bruciato nel 1953. Il testo “sacro” di Anton LaVey, fondatore della Chiesa di Satana, che lanciò il culto su larga scala del Signore del Male”. Chiude la rassegna l’incredibile caso di censura e boicottaggio che riguarda ‘Imprimatur’ un thriller storico di Rita Monaldi e Francesco Sorti su papa Innocenzo XI”.

Luca Scarlini
Libri maledetti
Pagine 144, Euro 12.00
Cairo Editore


Il Premio Gajani


La Fondazione Fotografia di Modena diretta da Filippo Maggia, ha assegnato mercoledì 7 ottobre, il “Premio Carlo Gajani” 2015 giunto alla sua seconda edizione.
Vincitrice è risultata Eleonora Quadri.

Carlo Gajani (1929-2009) abbracciò la carriera artistica dopo aver svolto per quindici anni la professione medica. Dedicatosi inizialmente alla pittura, sempre e comunque mediata dalla fotografia, dagli anni ’80 usò esclusivamente il mezzo fotografico.

In foto, un suo lavoro: “Autoritratto in Accademia”.

La sua opera si può ricondurre a quattro temi: i ritratti e i nudi con modelle in Accademia, le immagini e i paesaggi di pianura lungo il corso del fiume Po, l’esplorazione urbana di New York (di cui documenta per vent’anni lo stupefacente mutamento architettonico), e il lavoro sulle vecchie dimore nell’Appennino tosco-emiliano.
I suoi scatti sono stati esposti in Italia, in altri paesi europei, negli Stati Uniti.

Di lui, ecco un ritratto tracciato da Roberto Pasini: Elegante, suadente, estroverso ma silenzioso, inquietante ma rassicurante, sempre pronto a fuggire non si sa dove... maschile come ormai poco si riscontra nel panorama umano, Gajani lo vedo mentre se ne va da un Consiglio d’Accademia, lo sguardo un po' sornione, la battuta pronta, il sorriso piacevole e ricco di mondi. Lo vedo pure nella sua bella casa di montagna sull'Appennino fra Montombraro e Zocca, dove spesso ci incontravamo per dialogare – insieme alla ospitale presenza di Angela – della vita e della non vita, dei suoi viaggi e delle peregrinazioni nell'Altrove. Gajani potevi stare sentirlo parlare per ore, ma dopo pochi minuti ti aveva già fatto saltare da New York alla Transiberiana, da Saint Louis al deserto centro-australiano, con una nitidezza e calma serafiche, e soprattutto uno humour cui non resistevi... Con Gajani eri sempre "non qui, non ora". In quel Nonluogo felice dove non ti fermi mai.

La finalità del Premio – del valore di 3 mila euro – è sostenere un giovane artista nello svolgimento di un periodo di residenza operativa all’estero, consentendogli in tal modo di approfondire e confrontare le proprie inclinazioni e i propri orientamenti nel campo della fotografia in una prospettiva internazionale. Al termine della residenza il vincitore dovrà produrre uno o più lavori fotografici direttamente collegati a tale periodo.
A gennaio 2016, in contemporanea con Arte Fiera, una selezione del lavoro prodotto sarà esposta a Bologna nella sede della Fondazione intestata a Gajani.
Gli organizzatori del Premio tengono, inoltre, a porre l’accento sulle loro intenzioni affermando, Non vogliamo premiare un risultato già raggiunto, ma scommettere su un possibile risultato futuro. Il Premio vuole essere un frammento di gratuità, e quindi di libertà. Per questo, crediamo, Carlo Gajani l’avrebbe certamente riconosciuto come suo.

Fondazione Fotografia Modena
Via Emilia Centro 283, Modena
Ufficio Stampa: Cecilia Lazzeretti
press@fondazionefotografia.org; tel. 059 – 23 98 88


La storia della vita

Quanti anni ha la Signora Terra?
Dall’analisi di granuli di minerali fatta l’anno scorso in Australia, risulta che l’età (migliaio di anni in più o migliaio in meno) è di 4 miliardi 374 milioni di anni.
Mica tanti, se si pensa che l’universo di primavere paia ne conti 13 miliardi e 700 milioni.
La storia del nostro pianeta, delle sue trasformazioni dalla nascita ai giorni nostri, è ben descritta in un coloratissimo libro, pubblicato da Editoriale Scienza, destinato a ragazzi dagli 8 anni in su, di cui è autore Sandro Natalini: La storia della vita Dal brodo primordiale ai giorni nostri.
Brodo primordiale? Già, ma il brodo primordiale non era commestibile, eppure fu l’alimento dal quale sembra sia nata la vita. Agli inizi del '900 il biochimico russo Aleksandr Oparin e il biologo inglese John Haldane proposero, infatti, una nuova teoria: sostennero che l'atmosfera primitiva contenesse già le materie prime essenziali per la vita. I primi sistemi viventi si sarebbero cioè formati nel mare in una sorta di "brodo organico".

Natalini (QUI la sua biografia), autore anche delle illustrazioni, guida i lettori in un viaggio scandito dai nomi delle varie ere a partire dal caldissimo tempo geologico detto Adeano (dal greco Ade, "Inferi": mondo dominato dal calore), 4 miliardi e passa d’anni fa, fino a quello chiamato Olocene da 11 700 anni fa fino a oggi. Questo tempo è detto anche Antropocene, termine coniato negli anni ottanta dal biologo Eugene Stoermer che nel 2000 fu adottato dal Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen nel libro “Benvenuti nell'Antropocene”.
Titolo da leggersi forse come ironico perché l’autore nell’indicare la prima era geologica in cui una sola specie (il cosiddetto homo sapiens) governa l'evoluzione lo giudica sì abbastanza tecnologico da modificare il pianeta ma non lo ritiene abbastanza saggio da pilotare il cambiamento: buona parte delle modifiche, afferma, è involontaria e minaccia il futuro dell'umanità.
Anche in “La storia della vita” troviamo perplessità sul nostro agire perché accanto agli innegabili progressi avvenuti in tutti i campi, dall’agricoltura alla medicina, dalle costruzioni alle esplorazioni della terra e di parte dello Spazio, dalla diffusione della cultura agli evoluti supporti per la memorizzazione e trasmissione della stessa, … giorno dopo giorno stiamo consumando le risorse del pianeta così in fretta da esaurirle. Oltretutto negli ultimi decenni il clima si sta riscaldando a causa dei gas liberati nell’atmosfera dalle attività umane. Riusciremo noi che ci definiamo “Homo sapiens” a cambiare in tempo le nostre azioni? In altre parole: a meritare quell’aggettivo “sapiens”?
Il libro, per ogni epoca, apre un box chiamato “Scimmia curiosa” dove dispensa curiosità.
Eccone alcune: sapevate che le balene sono animali più grandi del dinosauro più grande? E che alcuni scienziati pensano esistessero dinosauri piumati forse per proteggersi dal freddo o per conquistare le femmine? E ancora: fra gli insetti più grandi mai esistiti c’è l’artropleura, ormai estinto, vegetariano, poteva misurare quasi due metri, rassomigliava a un millepiedi appiattito e con le sue trenta zampette quando si muoveva produceva un rumore simile a quello d’un treno.

Sandro Natalini
La storia della vita
Pagine 66, Euro 13.90
Editoriale Scienza


Il manichino della storia


Mata… no, non si tratta di Manuel Mata attaccante del Manchester United, né dell’agente segreto olandese Mata Hari, tanto meno quel nome ha a che fare con il terribile verbo spagnolo matar… Mata qui è un acronimo. Sta per MAnifattura TAbacchi ed è uno storico edificio modenese nato nel 1513 come Monastero di Santa Maria Maddalena e poi di Sant’Orsola, nel ’700 trasformato in ospedale, successivamente in magazzino di salnitro, e infine in Manifattura Tabacchi.
Ora il Comune della città ha destinato il complesso a sede espositiva esterna alla Galleria Civica di Modena, e dal 18 settembre è là in corso la mostra Il manichino della storia L'arte dopo le costruzioni della critica e della cultura.
Curata da Richard Milazzo – prodotta dal Comune di Modena con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna, in collaborazione con Apt Servizi Regione Emilia-Romagna, con il sostegno di Confindustria Modena – presenta 90 capolavori, appartenenti a collezioni private del territorio, realizzati nel periodo compreso fra gli anni Ottanta e i nostri giorni.
"Abbiamo chiesto alla città di fare emergere energie e competenze” – ha dichiarato il vicesindaco e assessore alla Cultura del Comune di Modena Gianpietro Cavazza – “di collaborare per realizzare un programma in occasione dell’Esposizione Universale che cogliesse il momento di attenzione internazionale per valorizzare il nostro territorio e che guardasse anche oltre l’Expo avviando un vero e proprio piano di promozione per Modena. È in questo percorso che alcuni collezionisti hanno proposto al Comune una mostra che permettesse ai visitatori di ammirare opere d’arte di straordinario valore altrimenti difficilmente accessibili al pubblico".

In quest’operazione ci sono due eccellenti zampini, quello del gallerista Emilio Mazzoli e quello del tristellato chef Massimo Bottura, di cui vanto l’amicizia, che regna all'Osteria Francescana.
Entrambi eccellenti collezionisti la presenza dei quali ha incoraggiato altri collezionisti a prestare preziose opere in loro possesso.
Ed ecco nel percorso espositivo dipinti, sculture, fotografie e installazioni, opera di quarantotto artisti protagonisti della scena artistica internazionale provenienti da 10 Paesi nel mondo (Italia, Gran Bretagna, Svizzera, Panama, Germania, Brasile, Giappone, Iran, Cina, e Stati Uniti d'America). Per citare solo alcuni nomi: Jean-Michel Basquiat, Alighiero Boetti, Jake and Dinos Chapman, Francesco Clemente Enzo Cucchi, Gino De Dominicis, Luigi Ontani, Mario Schifano, Wolfgang Tillmans.

In foto: un’opera di Francesco Clemente in mostra.

Le opere, realizzate negli ultimi tre decenni soprattutto in ambito newyorchese, fanno scorrere davanti agli occhi una rapida successione di stili e movimenti. Concettualismo, Appropriation art, Neo-Pop, Superkitsch, Arte povera, Transavanguardia, Neo-espressionismo, varie modalità di Realismo, YBA (Young British Artists), Scuola di Düsseldorf, Figurazione, Astrattismo, Iperrealismo, e via e via, etichette con cui la critica e l’organizzazione del mercato hanno tentato di effettuare una presa entro un divenire accelerato che ostenta sempre il superamento di un movimento sull’altro.
L'arte si è trasformata in uno spettacolo – dichiara Richard Milazzo – non solo per le case d'asta, le fiere d'arte, le gallerie commerciali, i musei e i collezionisti, ma anche per i critici, i curatori, i media, in larga parte per gli artisti stessi. L'arte, di conseguenza, in quanto spettacolo, è diventata un manichino.

Nell'opera di Goya, El Pelele (1791-92) – individuata dal curatore come metafora attorno alla quale gravita l'intera mostra – un manichino è lanciato in aria da quattro ragazze che reggono una coperta. La scena si svolge nel contesto rurale di una festa paesana e lascia presumere che le stesse giovani, nel momento in cui il manichino cadrà di nuovo a terra, saranno pronte a riprenderlo. Se noi leggiamo questa immagine in senso allegorico – prosegue Milazzo – la figura del manichino/arte viene scagliata in ogni direzione da tutti i soggetti coinvolti nella festa, nei giochi o negli spettacoli della critica e della cultura .
In occasione della mostra, sculture di grandi dimensioni firmate da alcuni fra i più importanti artisti della scena contemporanea internazionale saranno collocate negli spazi esterni della Manifattura Tabacchi. Si tratta della fontana di Enzo Cucchi intitolata "L'idolo della voglia" del 1992, del cavallo di Mimmo Paladino "Il cavallo di Modena" una fusione in bronzo realizzata ad hoc per questo evento e della scultura in bronzo di Sandro Chia del 1988 "Solitario".

All'evento si accompagna un catalogo, (Franco Cosimo Panini Editore, Modena), bilingue, che, oltre al testo critico del curatore, presenta circa trecento riproduzioni a colori e in bianco e nero, le biografie degli artisti presenti e l'elenco delle opere in mostra.

Ufficio Stampa Galleria civica di Modena: Cristiana Minelli
tel. +39 059 – 20 32 883, galcivmo@comune.modena.it

Galleria Civica Modena
Il manichino della storia
a cura di Richard Milazzo
Sede Mata
Via della Manifattura dei Tabacchi 83
Info: +39 059 – 20 32 911 / 20 32 940
Fino al 31 gennaio 2016


Creatività digitale (1)

Analogico e digitale, due parole che incontriamo spesso in articoli, libri, trasmissioni radiofoniche, televisive, e sulle schede stampate che accompagnano tante attrezzature.
Il termine “Analogico” è formato dall'unione di due parole greche e letteralmente è traducibile in "discorso simile" o "parola uguale" secondo il contesto in cui è inserito.
“Digitale”, invece, deriva dal termine anglosassone "digit" che significa "cifra".
Per capire la differenza fra loro, ecco un’esemplificazione tratta dal web: “Un orologio con le lancette è analogico, perché la posizione di ognuna delle sue 3 lancette (ore, minuti e secondi) può indicare uno qualsiasi degli infiniti punti che formano la circonferenza del quadrante dell'orologio stesso, punti che non sono numerabili. Al contrario in un orologio digitale le cifre che compongono l'ora, i minuti e i secondi indicano solo e soltanto gli 86.400 possibili momenti in cui può essere suddiviso, in secondi, un giorno (24 ore x 60 minuti x 60 secondi)”.
Da tempo la parola “digitale” la troviamo sempre più spesso, da quando il computer è diventato la macchina centrale dell’universo tecnologico di questa nostra epoca definita delle psicotecnologie. A questo proposito Derrick de Kerckhove, in una conversazione che ebbi su questo sito con lui, mi disse: “La relazione tra le persone e la conoscenza fissata su carta con l’avvento del digitale sta cambiando rapidamente. La nostra epoca vede una moltiplicazione di psicotecnologie, tipo tablet, phablets, e tanti altri gadget potenti che modificano simultaneamente il linguaggio e la nostra mente. La fonte di tutte queste innovazioni è il matrimonio del linguaggio con l’elettricità. Il massimo della complessità si sposa con il massimo della velocità. Esistono già sistemi di connessione diretta tra pensiero e rete”.

Su questi temi che uniscono scienza, arte e comunicazione disponiamo ora di un libro eccellente pubblicato da FrancoAngeli, è intitolato Creatività digitale Come liberare il potenziale delle nuove tecnologie.
Ne sono autori: Giulio Lughi e Alessandra Russo Suppini.

Giulio Lughi è professore di Teorie e Tecniche dei Nuovi Media presso l'Università di Torino. Ha operato come consulente editoriale, autore, traduttore, editor e direttore di collana nel campo della narrativa. Studia l'impatto delle tecnologie digitali nel settore umanistico. Ha lavorato fin dai primi anni '90 su cultura e tecnologia, formazione dell'immaginario, nuovi media, culture digitali, creatività in rete, interattività e storytelling. QUI il suo sito web.

Alessandra Russo Suppini è progettista senior freelance con ampia esperienza in ambito multimediale. Laureata in Scienze della Comunicazione, svolge attività didattica a livello universitario su temi di information, interaction e interface design. Ha pubblicato contributi e partecipato a progetti di ricerca nel settore dei media digitali. È consulente per l'area web e comunicazione d’importanti realtà aziendali e istituzionali.

Il libro, che si avvale di una sterminata bibliografia, ha il duplice merito d’essere una mappa della creatività digitale nelle sue plurali applicazioni e, al tempo stesso, un’interpretazione critica di quanto accade in quelle aree.
Volume utilissimo a tutti quelli che sono interessati a riflettere sul nesso strategico fra cultura e tecnologia, e alle figure professionali coinvolte operativamente: studenti, docenti, progettisti, pubblicitari, redattori del web, e creativi di professione unitamente a manager d’imprese innovative, organizzatori di eventi, raccoglitori di finanziamenti.

Segue ora un incontro con i due autori.


Creatività digitale (2)

A Giulio Lughi e Alessandra Russo Suppini ho rivolto alcune domande.
Li sentirete rispondere con una voce sola, prodigi della tecnologia a bordo di Cosmotaxi.

Che cosa vi ha principalmente spinto a scrivere questo libro?

Due motivazioni: una occasionale e concreta, una più generale e teorica.
La prima deriva dal fatto che qualche anno fa abbiamo condotto una ricerca sul campo, collaborando con uno dei Poli di Innovazione della Regione Piemonte, precisamente quello su Creatività Digitale e Multimedia: in quell’occasione abbiamo intervistato in profondità una serie di soggetti professionali (aziendali, museali, operatori culturali, decisori pubblici) attivi proprio nel campo della Creatività Digitale.
Da lì è emersa la consapevolezza che il tema era spesso affrontato in maniera approssimativa, ed è quindi scattata la seconda motivazione: trasformare la nostra l’esperienza sul campo in un contributo di riflessione e di organizzazione concettuale del tema
.

Innovazione e creatività. Perché tenete a sottolineare la diversità di quei due termini?

Perché ci siamo resi conto che sono termini che vengono usati troppo spesso come sinonimi, mentre è estremamente utile sia concettualmente sia praticamente distinguerli. Questa distinzione non è una nostra trovata: nel libro indichiamo diversi approcci disciplinari in cui essa è presente, l’abbiamo semplicemente estesa applicandola al campo del digitale. In estrema sintesi, se volessimo rappresentare la differenza con un’immagine, potremmo dire che l’innovazione è “fare nuovi passi avanti lungo binari collaudati”, mentre la creatività è “fare improvvisamente un salto laterale e uscire dai binari”: una differenza importante, tanto più nel campo del digitale in cui lo scenario è estremamente complesso e in continuo cambiamento.

Che cosa intendete per “Reincanto Tecnologico” dizione con la quale intitolate un capitolo?

Tutto parte dal celebre tema del Disincanto, enunciato originariamente da Max Weber nel 1919 con riferimento all’avvento dell’età industriale alla metà dell’Ottocento. Secondo Weber il Disincanto sarebbe un processo culturale legato alla fine della società contadina e del sistema produttivo pre-industriale; un processo che ha portato con sé la laicizzazione della cultura e il conseguente appannamento della dimensione magico-emozionale, con un forte spostamento verso la razionalizzazione e l’intellettualizzazione. Oggi, con il passaggio alla società post-industriale questo schema viene rivisto criticamente, tanto che da più parti (Maffesoli, ad esempio) si parla esplicitamente di Reincanto: a nostro giudizio gli sviluppi più recenti della tecnologia digitale, e soprattutto la diffusione del paradigma mobile-locative, portano verso una “presenza del corpo” nei processi culturali e comunicativi che recupera proprio quella sensibilità/sensitività estromessa finora dal paradigma industriale dei mass media: quello che abbiamo chiamato appunto Reincanto Tecnologico.

C’è un campo artistico fra arti visive, musica, video, tecnoteatro, eccetera… in cui trovate oggi una più consistente cifra di creatività digitale?

Ciò che caratterizza maggiormente il digitale è la cosiddetta “convergenza”, teorizzata da Jenkins ma diventata ben presto un paradigma esplicativo generale molto efficace. Siamo evidentemente in una fase di transizione, in cui il digitale va ad intaccare singolarmente tutte le arti, ma i fenomeni più interessanti sono invece quelli di ibridazione e contaminazione tra campi che la visione classica tiene separati. Il carattere onnivoro del digitale fa sfumare i confini codificati, ed è soprattutto il paradigma mobile-locative a risultare dirompente: i dispositivi digitali di fruizione mobile pongono il lettore/spettatore in una condizione ubiqua, dove la “presenza del corpo” dentro un preciso sistema di coordinate spazio-temporali, hic et nunc dà luogo a situazioni di esperienza estetica estremamente interessanti e non facili da classificare.

Net Art, Web Art... alla luce dei nostri giorni vanno ripensate? Se sì, perché?

Certamente: vanno ripensate perché rimandano ad una situazione di fruizione ancora “stand alone”, con il lettore/spettatore ancorato davanti al suo ingombrante computer fisso, probabilmente non collegato in rete (e non a caso le ricerche e le definizioni teoriche ormai assestate su quei temi risalgono ai primi anni 2000). Rispetto alle odierne esperienze più avanzate di arte interattiva urbana, l’idea di fare arte usando il mouse invece del pennello va sicuramente riposizionata. Ma attenzione, questo non implica una negazione di quelle esperienze: nel campo della creatività, come in quello della comunicazione, le forme nuove non cancellano quelle precedenti ma le obbligano a riconfigurarsi. Ecco perché è necessario considerare anche quelle esperienze nella loro precisa collocazione storico-culturale.

Giulio Lughi
Alessandra Russo Suppini
Creatività digitale
Pagine 154, Euro 20.00
FrancoAngeli


Il defunto odiava i pettegolezzi


A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol'dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un'esistenza decorosa, ti ringrazio. [...] Come si dice, l'incidente è chiuso. La barca dell'amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici”.

Furono queste le parole che Vladimir Majakovskij lasciò scritte la mattina del 14 aprile 1930 quando si uccise con un colpo di pistola al cuore.
Era nato a Bagdati, il 7 luglio 1893.
Su quella morte, disponiamo ora di un libro straordinario pubblicato da Adelphi: Il defunto odiava i pettegolezzi; è stato scritto da una grande slavista: Serena Vitale della quale ricordo un altro meritato successo Il bottone di Puškin.
La Vitale è professoressa ordinaria di lingua russa. Traduttrice e scrittrice, ha ottenuto nel 2001 il Premio Bagutta e il Premio Piero Chiara. QUI il suo sito web.

Perché ho definito questo libro straordinario? Perché attraverso un sapientissimo montaggio di documenti (rigorosamente citati nelle loro fonti in un’appendice di ben 31 pagine alla fine del volume), l’autrice illumina l’esistenza del poeta con i suoi amori, i suoi slanci rivoluzionari, le sue delusioni, i suoi drammi.
Fu amante di Lilja, sposata con Osip Brik, tessendo con loro un tormentato legame che lo portò fino alla coabitazione con la coppia che lo aiutò nel suo destino editoriale e Lilja non mancò di dargli – si direbbe oggi – un nuovo look: “via gli abiti da giullare, solo cravatte e non fusciacche o nastri, tagliare i capelli, curare quegli orribili denti marci”. Affetto e sostegno di Osip, consigli e passione di Lilja, solo una cosa Majakovskij ignorava: i due erano agenti della polizia segreta Ghepeù.
Altro legame – secondo molti, fatale – fu con l’attrice ventiduenne Veronica Polonskaja che uscì dalla stanza del poeta poco prima che risuonasse il colpo di rivoltella.
Fu il diniego di Veronica a separarsi dal marito e vivere con Vladimir la causa del suicidio?
Diniego perché Veronika capiva perfettamente che accanto a Lili Brik non poteva esserci nessuna esistenza comune tra lei e Majakovskij.
Furono le delusioni politiche che lo ferirono? Si pensi alla perfidia di Gorki che lo diceva malato di sifilide, alle accuse di alcuni occhiuti censori – ma il primo fu proprio Lenin che a proposito del poema “150 000” del 1921 sentenziò ‘spropositi, stupidaggini, infinita sciocchezza e pretenziosità… Stamparne al massimo 1500 copie per le biblioteche e per i matti’. Ecco come in sede editoriale si può operare la riduzione del 1% su di un titolo.
Molte le ombre sulla morte del poeta. Fu suicidio o assassinio? Oppure ancora, suicidio indotto dalla polizia segreta Ghepeù? Di sicuro tante le incongruenze, tutte rilevate dalla Vitale con documenti anche finora inediti. Ad esempio la pistola che in un rapporto è detta “Brownig modello 1900” e in un altro “revolver Mauser”; dall'arma era stato estratto il caricatore, c’era solo una pallottola in canna, cosa che riduce al 50% la possibilità di successo nello sparo: fu una roulette russa imposta?; se il biglietto prima di morire fu scritto il 12 aprile, è possibile che se lo sia portato in tasca per 48 ore?; perché quelle righe finali scritte a matita, lui che adorava la stilografica e sempre ne era fornito?
Fra coloro che nutrono dubbi sul suicidio c’è Sergej Eizenštein.
L’autrice, però, conclude: “Molto più della perizia grafologica, crediamo, rivelano la mano di Majakovskij l’ironia (‘Buona permanenza al mondo’), l’amarezza di quel ‘Compagno Governo’ rivolto a un governo che non lo considera affatto ‘compagno’”.
La Vitale, non ricostruisce soltanto vita e morte del poeta, ma scandisce i documenti con brevi, folgoranti intermezzi che a mo’ di torcia guidano il lettore anche nei sotterranei della creatività di Majakovskij.

Dal volume: uno dei tanti episodi riportati.
“Un giovanotto baldanzoso: Ma davvero pensate che siamo tutti idioti?
Majakovskij: Perché tutti? Per ora ne vedo uno solo”.

Serena Vitale
Il defunto odiava I pettegolezzi
Pagine 284, con foto
Euro 12.00, eBook 9.99
Adelphi


Elogio della gentilezza


Il 13 novembre si celebra la Giornata Mondiale della Gentilezza. Ricorre infatti in questa data l’apertura della Conferenza del “World Kindness Movement” tenutasi a Tokyo nel 1997 e conclusasi con la firma della Dichiarazione della Gentilezza.
Esiste anche un Manifesto della Gentilezza, si trova sul sito Gentletude.
Gentilezza: parola smarrita in un dedalo di scortesie e violenze.
Basta uscire da casa (o anche vedere la rappresentazione del mondo in tv e sui giornali) per notare episodi di villania, basta leggere in certe aggressive scritte sui muri la violazione di elementari norme di convivenza, per non dire del campionario di nefandezze esemplificato nel traffico automobilistico.
Si ha la sensazione che la gentilezza sia diventata per tanti, per troppi, sinonimo di debolezza, quindi, una cosa da non praticare, da occultare dietro gesti e parole arroganti che siano manifestazioni di forza. Atteggiamento “macho” nel quale talvolta vediamo cadere anche le donne. E che dire dei bambini? Quelli italiani scostumatissimi. Per via dei loro genitori che tirano su, compiacendosene, campioni di prepotenza e maleducazione.
In Italia molti cattivi esempi provengono dalla vita politica e da persone dette parlamentari: i vaffa urlati istericamente, le cene cosiddette eleganti, i rutti leghisti.
Molti sostengono che oggi l’impertinenza sia aumentata rispetto a ieri. Non sono d’accordo. È soltanto cambiata la forma in cui si presenta, si può solo dire che forse è più sfrontata, questo sì. Una volta la s’indossava, adesso si sfoggia.
Sia come sia, benvenuto è un volume pubblicato da Ponte alle Grazie intitolato Elogio della gentilezza Breve storia di un valore in disuso che studia la capacità d’ascoltare e accogliere le fragilità altrui, che è anche generosità, altruismo, solidarietà, amorevolezza. Inoltre, traccia una storia della gentilezza attraverso i secoli invitando a praticarla non solo per eleganza sociale, ma dimostrando quanto la gentilezza convenga, produca, faccia crescere.
Gli autori sono Adam Phillips e Barbara Taylor.
Adam Phillips, psicanalista, autore di numerosi saggi, curatore delle opere complete di Sigmund Freud per i Classici Penguin, già Primario di psicoterapia infantile al Charing Cross Hospital di Londra.
Barbara Taylor è una storica che ha pubblicato parecchi saggi di storia del femminismo e una biografia intellettuale di Mary Wollstonecraft, filosofa inglese considerata la fondatrice del femminismo liberale e madre di Mary Shelley l’autrice del famoso romanzo gotico “Frankenstein”.
Chi se la passa male nel libro è il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588 – 1679) nel pensiero del quale gli autori individuano una svolta in cui ”l’egoismo e l’aggressività vennero trasformati da vizi morali in fatti psicologici. La ricerca del piacere, a lungo condannata dalla morale cristiana, fu naturalizzata sotto forma di un istinto proverbiale, motore di ogni azione umana”.
Già, ma proprio quella morale cristiana non era stata forse più proclamata che osservata?
Non a caso sorgeranno dai Catari a Lutero a Calvino tanti movimenti che ne criticarono l’ipocrisia, ben ritratta poi da Jean-Jacques Rousseau di cui Phillips e Taylor riportano quest’illuminante brano: “… i preti dipingono tutti gli uomini come mostri la cui compagnia può solo corrompere il cuore e sprofondarci all’inferno […] e poi gli stessi ci esortano ad amare il nostro prossimo, cioè questo branco di farabutti verso cui hanno saputo ispirarci tanto orrore”.
Due pagani illuministi come gli scozzesi David Hume (1711 – 1776) e Adam Smith (1723 – 1790), pensano, invece, che “le persone sono gentili non perché glielo dicesse qualcuno, ma perché in questo modo diventavano pienamente umane. Amarsi l’un l’altro era una gioiosa espressione della propria umanità, non un dovere cristiano”.
Quest’”Elogio della gentilezza” è un libro che percorrendo la storia del comportamento di noi umani attraverso i secoli illumina figure di pensatori e l’influenza che ebbero sulla loro epoca e come quell’influenza, in modi talvolta contraddittori, arrivi fino a noi.
Gli autori notano che oggi “… non siamo mai così generosi come vorremmo, ma niente ci offende più delle persone che non lo sono con noi. Non vi è nulla di cui ci sentiamo più defraudati che di una gentilezza non ricevuta: l’ingenerosità verso di noi è diventata il nostro lamento contemporaneo”.

Lo scrittore francese Jules Renard (1864 – 1910), repubblicano, anticlericale e socialista, fu anche un brillante autore d'aforismi, come, ad esempio, di uno un po’ ruvido che così suona: “Non chiedetemi di essere gentile; chiedetemi solo di agire come se lo fossi”.
Ecco, mi contenterei di almeno tali comportamenti.

Adam Phillips – Barbara Taylor
Elogio della gentilezza
Pagine 120, Euro 12.00
Ponte alle Grazie


Come per una congiura

È questo il titolo di un epistolario curato da Gualberto Alvino, pubblicato dalle Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini.

Si tratta della corrispondenza tra Gianfranco Contini e Sandro Sinigaglia – iniziata nel 1944 e protrattasi quasi ininterrottamente fino al 1990.

Queste lettere costituiscono una vistosa eccezione nel folto epistolario di Contini, scaturendo non già, come negli altri casi, da ragioni d’ordine letterario o professionale, ma da un’intesa indomabile, un’amicizia profonda durata mezzo secolo senza l’ombra d’un attrito e scoccata da un gesto istintivo e disinteressato, compiuto all’insegna del pericolo e dell’avventura in uno dei frangenti più dolorosi della nostra storia nazionale.
Sinigaglia, infatti, partigiano nelle Brigate Matteotti, salvò la biblioteca di Contini costretto a riparare in Svizzera per sfuggire alla caccia che gli davano i fascisti di Salò.

Alvino, dottore di ricerca in Italianistica e in Filologia, linguistica e letteratura, si occupa da decenni di Contini e Sinigaglia; del primo ha pubblicato il carteggio con Antonio Pizzuto Coup de foudre, sul secondo la raccolta di saggi Peccati di lingua.
Collabora con scritti critici, filologici e linguistici a riviste accademiche e militanti, di alcune delle quali è redattore e referente scientifico.
QUI il suo sito web.

Gianfranco Contini - Sandro Sinigaglia
“Come per una congiura. Corrispondenza (1944-1989)”
a cura di Gualberto Alvino
Pagine XXXIV-288, Euro 45.00
Edizioni del Galluzzo


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