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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Luna Zero


Si apre domani il Festival di Locarno in un’edizione dalla cifra tonda perché questo Festival dalla prestigiosa storia compie nel 2007 sessant’anni.
Per il programma, cliccate QUI.
Noto con piacere che vi partecipa con un suo nuovo video Antonello Matarazzo che invitai nel lontano 2003 (… insomma, pur non essendo stato il primo, ci avevo visto giusto) a presentare in questo sito certe inquietanti, immagini da lui prodotte.
Il titolo del lavoro che sarà presentato a Locarno il 4 agosto è: Luna Zero.

Ho chiesto ad Antonello di parlarcene in sintesi.

Un mio recente viaggio nelle isole di Capo Verde, ­ il cui paesaggio è quanto di più lontano lasci immaginare il nome, ­ mi ha ispirato "Luna Zero".
L'intera sequenza è una soggettiva di un equipaggio spaziale americano di cui si sentono le voci confuse e disturbate al pari delle immagini, su un pianeta che sembra la Luna ma in realtà è l'Africa. Una modestissima personale riflessione su una società, quella americana, i cui cosmici sogni di conquista, dal 1961 ad oggi, hanno subito una pericolosa contrazione ai danni di un unico pianeta: la terra
.

L’esploratore di “Luna Zero” dispone di un suo sito in Rete, per visitarlo: CLIC.


Scrivere per Second Life


In apertura di questa nota, desidero ancora una volta precisare che questo webmagazine non dà notizia di concorsi e rassegne per i quali è richiesta una quota d’iscrizione.
Ringraziandoli dei loro messaggi, mi scuso con i tanti che inviano richieste di diffondere notizia su iniziative che prevedono spese di partecipazione per concorrenti ed espositori, ma questa è la linea che ho da sempre qui adottato.

L’occasione per scrivere quanto ho esposto poco fa, mi è fornita da un concorso (ovviamente con partecipazione gratuita) letterario particolare.
Foto di Giff ConstableE’, infatti, se non sbaglio, il primo in Italia ad occuparsi della narrativa su Second Life.
E’ organizzato da un sito che ha un nome francamente allarmante: tuttiscrittori.
Necessitiamo, si sa, più di lettori che di scrittori e, inoltre, troppi ritengono d’essere creature vocate all’inchiostro; “In molti rispondono all’appello dell’Arte senza essere stati chiamati”, diceva l’aspro Longanesi.
Ciò detto, tuttiscrittori però, a correzione dell’incauto nome impostosi, si dimostra ben fatto, con giudiziose selezioni dei testi presentati, e una ben articolata presenza in Rete, una vera e propria agenzia letteraria che offre servizi di lettura critica, editing, e, con onestà rara a trovarsi, nessuna promessa di pubblicazione presso editori celebri o meno celebri.
Professionisti veri, insomma.
Da quel sito – in collaborazione con la Biblioteca Archimedica e il Second Life Lab – è stato bandito il Concorso Letterario Second Life – La scoperta del Metaverso; per informazioni: QUI.
Come già si capisce dal titolo del concorso, sono ammesse alla partecipazione narrazioni che trattino, da qualsiasi punto di vista ed utilizzando qualunque genere letterario, il tema di Second Life, con riferimento alla “scoperta del metaverso”.
Che cos’è il metaverso?... certo, se state messi così cominciate male… ma don’t panic please, per un pronto soccorso CLIC.

A proposito di Second Life, vi segnalo in queste pagine un recente incontro con il maggiore studioso italiano di quel mondo virtuale: Mario Gerosa.


Dante nella toilette


Verona è venuta sulle cronache recenti per via di un sindaco che insieme con altre discutibili decisioni, ha perfino affidato l’Istituto di Storia della Resistenza a un’aennina (rimproverata persino da Fini per il suo estremismo) e in quell’Istituto ha anche tentato di dare ruolo a un naziskin autore, fra l’altro, di un brano musicale che esalta Priebke.
E’ questo un aspetto del dramma politico italiano: l’assenza di una destra appena decente. Sicché il voto cosiddetto conservatore si trasforma in un voto di fatto neofascista; di questa cosa largamente ne approfittano (e, forse, ne gongolano) i dirigenti del centrosinistra perché sanno quanti di noi, pur d’evitare che accada quanto prima esposto, votino, pur controvoglia, per uno schieramento che poi ci rifila patacche in quantità industriale.
Si ricordino però che, come diceva il grande Totò, “Ogni limite ha una pazienza”.

Girando da quelle parti, a Vicenza, ho visitato, mentre mi trovavo lì per lavoro, il cafè ristorante dai Nodari, a due passi dalla centrale Piazza dei Signori, luogo civilissimo per accoglienza e qualità delle proposte enogastronomiche.
Accanto a piatti della tradizione ben eseguiti, c’è pure qualche (talvolta spericolata) puntata nel nuovo. Buona la carta dei vini. Sterminata quella dei distillati. Ottimi i prezzi.
Discorso a parte merita l’ambientazione. Centinaia di libri consultabili sugli scaffali, alle pareti opere grafiche d’autore e d’artisti emergenti, nonché una piccante sonorizzazione in toilette dove in quella per uomini s’ascolta Carmelo Bene recitare Dante, e in quella delle donne è registrata la voce di Alda Merini che dice suoi versi; niente d’oltraggioso, anzi reverente omaggio.
Ho avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con Mauro Sassano che guida il locale; uomo di raffinata cultura, scrittore di pagine oniriche, fotografo eccellente, è lui l’autore della foto che vedete in questa nota.
Solo applausi? No. Una cosa di cui, horresco referens, c’è. Nel menu ho trovato una pagina con frasi di Madre Teresa. Colgo l’occasione per ricordare che a quel personaggio è stata dedicata dall’Editrice Minimum Fax una biografia intitolata “La posizione della missionaria” in cui s’apprendono cose che smentiscono l’asserita bontà di quella suora.
Se capitate a Vicenza, vi consiglio – sia per trascorrere un’ora felice e sia per superare lo sgomento di certe notizie che funestano le cronache di quella città – il locale di cui finora ho scritto. Sfogliando il menu, però, saltate una certa pagina. Vi ho avvertito.

Dai Nodari
Contrà do Rode 20
(vicino P. dei Signori)
Tel/Fax: 0444 – 54 40 85
Vicenza


Dieci anni di Volume!


La Fondazione Volume! s’è affermata come uno dei centri espositivi più interessanti in Italia e proprio in questi giorni compie dieci anni d’attività.
A dirigerla, Angelo Capasso che dispone in Rete di un suo sito personale; tempo fa, in queste pagine web presentai il suo recente volume: Opere d'arte a parole.
La Fondazione ospita fino a settembre Jimmie Durham nativo americano Cherokee nato in Arkansas (USA) nel 1940; ha partecipato a numerose mostre internazionali, tra cui Documenta IX (1992) e la 50° Biennale di Venezia (2003).
Jimmie DurhamNon è soltanto artista visivo, ma anche saggista e attivista politico dell’American Indian Movement.
Nel 1997, alla XLVII Biennale di Venezia, con la performance ‘Frigo’, Durham scagliava pietre contro un frigorifero fino a distruggerlo in segno di protesta contro la società tecnologica e il consumismo che produce.
Oggi ripropone un’arte che s’oppone al mondo globale.

Ho chiesto ad Angelo Capasso: ha ancora un senso, oggi, nell’epoca della rete e delle reti, una condotta artistica così improntata? E, se sì, quale?

Il lavoro di Jimmie Durham è molto complesso, non si limita alla protesta, così come tutta l'arte normalmente non è semplicemente una provocazione. La mostra da “Volume!” propone una mitologia aperta fondata sulla cultura personale e sulla cultura individuale. Credo che sia un tema sostanziale del mondo globale: l'unica opposizione certa è la questione del singolo rispetto al mondo. La sua origine Cherokee ovviamente segna il luogo con elementi propri della cultura nativa americana: la grande immaginazione sugli oggetti. Ogni oggetto rimanda ad un paesaggio molto più ampio e complesso. Così come ogni individuo, del resto. Quindi il lavoro di Durham è antropologico, anzi direi etnoantropologico, perché prende in consegna le questioni dell'etnoantropologia relative alle relazioni sociali, ai comportamenti, usi e costumi, agli schemi di parentela, alle leggi e istituzioni politiche, all'ideologia, religione e credenze, degli schemi di comportamento nella produzione e nel consumo dei beni e negli scambi e nelle altre espressioni culturali. Con la novità che la tribù di riferimento, non è una tribù culturale di una qualsiasi civiltà tradizionale (quella degli indios ad esempio), ma la tribù totale del mondo globale, che si fonda su un immaginario naturale, ormai sostenuto dall'economia industriale.

Jimmie Durham
“Templum: il sacro, il profano, e altro”
A cura di Angelo Capasso
Galleria Volume!
Via S. Francesco di Sales 86/88
Roma
Fino al 30 settembre ‘07


Il canto armonico di Laneri


In occasione dell’apertura della VII edizione del Festival CapalbioArt (quest’anno dedicato al tema dell’Integrazione e Pari Opportunità), il compositore Roberto Laneri presenterà Breath, una performance per canto armonico, soprano sax, didjeridoo, tanpura, bilma.

Roberto LaneriA Roberto Laneri (nella foto) che tempo fa ebbi a compagno di viaggio in un volo spaziale, ho chiesto: da oltre trent’anni tu studi e proponi in concerti il canto armonico.
Puoi dire da dove ha origine quella tecnica vocale e, in sintesi, con parole semplici (sennò tutti capiscono e io no) in che cosa consiste?

Per canto armonico si intende un corpus di tecniche vocali che consentono di separare e rendere udibili le componenti del suono (suoni armonici). Questi ultimi vengono percepiti chiaramente al disopra del suono fondamentale.
Il canto armonico viene praticato in contesti musicali tradizionali (Asia centrale: Tuva, Mongolia, Altai, Tibet, ma si ha ragioni di ritenere che la sua pratica fosse anticamente diffusa anche altrove, pur se tenuta segreta) e di musica contemporanea.
Favorisce gli stati di coscienza profondi in quanto riduce il dialogo mentale, e quindi può essere praticato a scopo di meditazione e autoconoscenza
.

In Rete, Laneri dispone di un sito web personale.

Roberto Laneri
“Breath”
Al Festival di Capalbio
28 e 29 luglio ‘07
Info: 0564 – 89 77 26 e 328 – 54 13 637
Ufficio Stampa del Festival: Serena Cinquegrana, s.cinquegrana@gmail.com


Dalla parte del giallo


Disse un giorno Sciascia: “Il giallo è la forma più onesta di letteratura, perché lettore e scrittore sono su un piano di parità: al lettore si richiede un esercizio intellettuale pari a quello di chi ha scritto la storia”.
Forse, chissà, così la pensa anche Elisabetta Bucciarelli che ha scritto Dalla parte del torto, Editore Mursia.
Elisabetta BucciarelliPer la biografia, il recente libro e le recensioni ottenute, c’è in Rete il sito web dell’autrice.

A Elisabetta Bucciarelli (nella foto) ho rivolto la domanda che segue.
Chiedo a te che pratichi la letteratura gialla: in Italia, da qualche tempo, è esploso il fenomeno di quel genere letterario. A che cosa è dovuto? Perché proprio adesso?

Il successo del giallo in Italia lo spiego, da narratrice, per l'unico motivo che sento, cioè il colore nero che mi circonda. Credo che si scrivano sempre più gialli, noir e affini proprio perchè sono il modo più efficace per rappresentare e raccontare le sfumature del nostro presente, che non è affatto simile a un romanzo rosa.
Da lettrice, invece, credo che il boom della letteratura di genere si spieghi solo per il processo di immedesimazione che consente. Le parti ombra di ciascuno di noi sono ben rappresentate da questo tipo di narrazione, e in una società dove il senso di colpa è sempre più messo al bando, leggere un giallo può servire a prendere le distanze da quello che non siamo ma che abbiamo la consapevolezza di poter essere.
Una sorta di funzione catartica assolta dal libro. Molto meglio della psicoanalisi
.

Elisabetta Bucciarelli
“Dalla parte del torto”
Pagine 408; Euro 17:00
Mursia Editore


Il gabbiano abbattuto


L’Editrice Derive Approdi ha stampato un delizioso librino di Paolo Nori intitolato: Tre discorsi in anticipo e uno in ritardo.
Poco più di appunti di lavoro. Ma che appunti!
CopertinaRiflessioni fatte nei cantieri dei ponti costruiti a Reggio Emilia – per una visione (si fa per dire) da webcam QUI – dall’architetto Santiago Calatrava; note sulla canzone popolare; pagine su Cechov (lo sapete che hanno chiamato Cechov un cratere su Mercurio?), di cui vi dirò fra breve; uno struggente resoconto del rapporto con la piccola figlia in cui senz’alcun sentimentalismo è trasmesso il dolore del tempo che passa, di un’età vista e perduta con il progressivo, quotidiano, abbandono degli incanti e delle cattiverie infantili; un pezzo questo da non perdere.
Cechov. Se la nostra società letteraria non vaneggiasse dietro i Moccia e le Tamaro, le righe che scrive Nori meriterebbero l’apertura di una quanto mai benvenuta polemica. Ma non è più tempo, si faceva una volta, mo’ tutti (o quasi tutti) corrono dietro a robe dolciastre o maleodoranti d'incenso.
Nori, a proposito di Cechov dice che non gli piace.
Sono d’accordo con lui, e con entusiasmo, sulla parte teatrale, mentre il Cechov narratore a me piace, un esempio su tutti il racconto: "Voglia di dormire".
Ecco come senza smenarla tanto si può fare eccellente critica. Scrive Nori: Il Gabbiano di Cechov è come Il giardino dei ciliegi, solo voltato. Nel Giardino dei ciliegi c’è il giardino di qua, nel Gabbiano di Cechov c’è il lago di là. Nel Giardino dei ciliegi gli attori si girano di qua, nel Gabbiano di Cechov gli attori si giran di là. Il resto è uguale.

A Paolo Nori – è prevista l’uscita del suo nuovo lavoro “Mi compro la Gilera” nel 2008 – ho chiesto: perché non ti piace il teatro di Cechov? E fai un distinguo di valore, oppure no, fra il Cechov narratore e il Cechov drammaturgo?

Cechov la prima volta l'ho visto rappresentato a Mosca, allo Mchat, se non mi ricordo male, all'inizio degli anni novanta, e ero dentro una cosa molto bella, era la prima volta che andavo in Russia e mi sembrava un posto incantevole, e Il giardino dei ciliegi di Cechov là dentro ci stava benissimo. Quest'anno, invece, a Reggio Emilia, vedere la messa in scena del Gabbiano fatta da Konchalovsky mi è sembrata una cosa vecchissima. Ho pensato che paragonato con Beckett, il teatro di Cechov sembra di due secoli prima. Non so, c'è un mio amico regista, Gigi Dall'aglio, che dice che dipende dal modo in cui lo mettono in scena.
La sua prosa, invece, di Cechov, non mi ha mai attirato molto. Non c'è compassione. Nei suoi racconti tratta i personaggi come delle marionette, viene da dirgli Ma chi ti credi di essere? Ed è una cosa strana, perché a andare a leggere le lettere, ci sono delle cose memorabili, come quando dà dei consigli a uno scrittore e gli dice Per il consenso del pubblico, non si preoccupi. Qualsiasi fesseria venga stampata, si trova subito qualcuno pronto a giurare che è un capolavoro
.

Per una scheda sul libro e un assaggio di lettura: QUI.
Poche, preziose pagine. Godibilissime. Da leggere.

Paolo Nori
“Tre discorsi in anticipo e uno in ritardo”
Pagine 62; Euro 7:00
Derive Approdi


Aimez-vous Jung?


Se amate Carl Gustav Jung il libro che segnalo oggi fa proprio al caso vostro.
Al caso mio non tanto, perché sono molto lontano dalle teorie di quello studioso, ma ho letto con interesse I nomi della sincronicità a cura di Stefano Baratta e Flavio Ermini; psichiatra e psicoterapeuta il primo, poeta e saggista il secondo.
Teorie che, aldilà degli addetti ai lavori presso i quali sono stati sempre fervorosi gli studi e i dibattiti sul pensiero di Jung, conobbero popolarità alla fine degli anni ’60 allorché s’affermarono orientamenti giovanili tesi a riscoprire le religioni orientali e praticare viaggi in India d’approfondimento spirituale. Ricordo che a quel tempo in molte case, tanti armati di carta, matita e apposite monetine, interrogavano con aria seria seria "I Ching" (allora pubblicato da Astrolabio nella collana diretta da uno studioso junghiano: Ernst Bernhard), libro divinatorio cinese che s’avvaleva proprio di un’ampia e convinta prefazione di Jung.
Di recente, sempre riferendomi a diffusione popolare (non di rado distorta), Jung è tornato protagonista fra le convinzioni dei sostenitori della New Age; piace loro quell’aria sciamanica, quell’interrogare il profondo attraverso l’immaginazione mitopoietica.
Copertina_foto_di_Sirio_TommasoliI nomi della sincronicità è un volume che raccoglie 35 microsaggi di altrettanti autori, fra i quali i curatori che firmano anche una prefazione e una postfazione, s’avvale in copertina di uno scatto fotografico di Sirio Tommasoli (recentemente mio ospite in queste pagine: QUI) ed è pubblicato dagli editori Moretti&Vitali.
La sincronicità, è un termine introdotto da Jung nel 1950 per descrivere una connessione fra eventi, psichici o oggettivi, che avvengono in modo sincrono senza relazione tra causa ed effetto nei quali vi si legge una comunanza di significato.
Da un punto di vista editoriale, il volume va lodato perché viene condotta un’esplorazione non solo da parte di psicologi e psicoanalisti, ma anche da artisti visivi, filosofi, poeti, narratori, fisici, orientalisti, musicologi, docenti di estetica. Tale molteplicità d’angolazioni permette al lettore d’inserire la teoria junghiana della sincronicità in uno scenario multidisciplinare. Per studiosi specialisti, o lettori appassionati di Jung, una vera chicca.

Una scheda sul libro: QUI.

A cura di Stefano Baratta e Flavio Ermini
“I nomi della sincronicità”
Pagine 156; Euro 15:00
Moretti & Vitali Editori


Festival Azioni Inclementi

Cosmotaxi Special

Schio, 18 - 22 luglio 2007


Festival Azioni Inclementi. Presentazione


Questo Festival – giunto alla sua ottava edizione – si svolge a Schio.
E’ organizzato dall’Associazione Atoz che s’avvale del sostegno del Comune.
LogoQuesta “darsena culturale”, come la definiscono i suoi promotori, è, infatti, un riparo sicuro dai venti e dalle mareggiate delle mode, ed ecco che fa ruotare quest’edizione di “Azioni Inclementi” intorno ad una grande figura letteraria: lo scrivano Bartleby.
Uno dei capolavori assoluti della letteratura, non ricordato quanto meriterebbe nei programmi scolastici, dalle librerie invase dai Moccia e dalle Tamaro.
Questo il principale motivo che mi ha spinto a dedicare uno “special” di Cosmotaxi a questo avvenimento che fa onore a quanti lo hanno ideato e realizzato.
Ce n’è anche un altro di motivo, ma ve lo dico fra poco.
“Bartleby lo scrivano”, fu scritto dal newyorchese Herman Melville nel 1853.
Bartleby, assunto in uno studio legale, dapprima esegue diligentemente il lavoro di copista, poi, sorprendendo tutti, comincia ad opporre un delicato quanto fermo rifiuto d’eseguire quanto gli viene detto di fare con la risposta inflessibilmente ripetuta: Preferirei di no.
Come va a finire? Leggete il racconto e lo saprete.
Dopo, venite qui a Schio e assisterete ad un’esplorazione condotta intorno a quella celebre figura e la sua non meno celebre battuta, attraverso esercitazioni non solo letterarie, ma anche di arti visive, cinema, musica, teatro.
Variazioni sul tema sui plurali significati di quel personaggio e della sua ostinata ribellione.
Significati sui quali i critici vanno ipotizzando da oltre un secolo (ne riferirà qua a Schio Adone Brandalise); scrive la studiosa Rossella Bernascone: “… forse Melville ha davvero scritto un racconto perfetto che, come il delitto perfetto, induce solo a speculazioni e mai a chiarimenti”.
In Bartleby, trionferebbe, quindi, un famoso motto di Magritte: “L’importante è il mistero, non la sua soluzione”.

Dicevo poco fa, che c’è un altro motivo per cui mi sono cari questo Festival e l’Associazione che lo promuove; se volete saperlo, leggete la prossima nota.


Festival Azioni Inclementi. Un nome spaziale.


Chi conosce questo webmagazine già sa che s’avvale di ambientazioni spaziali.
Ian WolfeLe conversazioni con i miei ospiti, ad esempio, si svolgono in un’immaginaria taverna da me aperta nel febbraio 2000 a bordo dell’Enterprise di Star Trek.
Ebbene, anche Star Trek c’entra nella mia scelta di dedicare questo ‘special’ ad “Azioni Inclementi”.
Perché l’Associazione che organizza il Festival si chiama Atoz ch’è anche un il nome di un bibliotecario (quale nome più adatto di A to Z, cioè dalla A alla Zeta per un bibliotecario?) interpretato in quella famosa serie dall’attore Ian Wolfe che vedete nella foto.

Atoz , sempre in Star Trek, appare anche come titolo di un libro di astronomia in un teaser della celebre serie tv.
Quanto al bibliotecario, lo si è visto nell’episodio “Un tuffo nel passato” in cui sul pianeta Sarpeidon tutti gli abitanti, sapendo prossima l’esplosione del sole, per salvarsi si sono rifugiati in varie ere di un tempo loro anteriore.
Su Sarpeidon c’è solo il bibliotecario Atoz che mestamente dice: Una biblioteca non è di alcuna utilità se nessuno la usa.


Festival Azioni Inclementi. Motivazioni e scelte.


Mi pare d’avere fin qui spiegato tutto, o quasi, di “Azioni Inclementi”.
Manca ancora, però, la voce di Atoz, non il bibliotecario di Star Trek, dell’Associazione.
Poiché è un collettivo e farne parlare uno alla volta di quel gruppo avremmo fatto notte, ecco che parleranno tutti insieme con una voce sola. Prodigi della tecnologia di bordo di Cosmotaxi. Seguono domande e risposte.

Qual è l’aspirazione espressiva di questo Festival?

Il festival è dedicato nella sua totalità a un’opera letteraria, il racconto di Herman Melville “Bartleby lo scrivano”. La nostra prima, primissima aspirazione è farlo conoscere a un pubblico più vasto. Proponiamo spettacoli e riflessioni sulla figura di Bartleby, per stuzzicare in chi ci segue il gusto dell’interpretazione, dell’approfondimento. Per provare a creare fra il pubblico una condivisa passione estetica e morale per un personaggio tanto straordinariamente enigmatico e fraterno. “Bartleby lo scrivano” è una storia attorno alla quale si può meditare per una vita intera.

Perché tra le figure letterarie avete scelto proprio quella del melvilliano Bartleby.

Perché è un personaggio che ha rinunciato al diritto di parola e con questa rinuncia è riuscito a ergersi a emblema di un mondo in cui non è la prepotenza o la filiera del comando a prevalere, ma la singola volontà individuale.
Bartleby è pacifico, acquietato, incapace di fare del male.
Con il suo “no”, riesce a creare un mondo alternativo, in cui il non-fare e il fare si riuniscono in un nuovo spazio di libertà. Con il suo rifiuto ostinato, è capace di mostrarci che ci sono dei “no” che vanno portati avanti con caparbietà e dolcezza. L’avvocato che narra in prima persona la storia finisce per essere completamente trasformato dall’incontro con Bartleby. Finisce per arrendersi di fronte alla constatazione di quanto siano molteplici le forme di “umanità” (l’ultima parola del testo melvilliano): tutte da rispettare, tutte capaci di arricchirci
.

Per il programma completo del Festival, cliccate QUI.

Per i redattori della carta stampata, delle radiotv, del web, l’Ufficio Stampa è curato da Charta-Bureau
Info: 041 – 51 28 217; fax 041 – 51 02 766; info@charta-bureau.com


Festival Azioni Inclementi. Bartleby, una disputa


Ho già detto che la celebre battuta con la quale Bartleby si oppone a eseguire gli ordini del suo capo è Preferirei di no.
Battuta centrale, centralissima, di tutto il racconto. Quieta. Educata. Fermissima.
Beniamino PlacidoIntorno a quelle tre parole, nel 1991, in occasione di una nuova traduzione di Gianni Celati del testo, nacque una contestazione mossa da Beniamino Placido.
Era successo, infatti, che Celati aveva ritenuto di tradurre I would prefer not to con Avrei preferenza di no.
Così scrisse su Repubblica Beniamino Placido: “La soluzione proposta da Celati non è convincente. Per niente. Nessuno si esprimerebbe così, o si sarebbe mai espresso così. Nemmeno ‘Policarpo de Tappetti, ufficiale di scrittura’ ai suoi tempi.
Difficile tradurre I would prefer not to?
Tecnicamente difficile non dovrebbe essere […] ma c’è quel to finale che pare anticipare, o presupporre, un verbo. Preferirei non dire, non rispondere, non andare? La prima frase che viene (e rimane) alla mente è ‘Preferirei di no’. Il primo a rendersene conto – quando vorrà ripensarci – è lo stesso Celati. Tanto più bravo e informato di tutti noi”.

E anche questa è fatta. Alè!


Festival Azioni Inclementi. Teatro No


Niente di giapponese.
In quel caso, ci avrei messo l’accento circonflesso sul la O, vi pare?
Si tratta di un laboratorio teatrale presso Casa Basaglia e sullo spettacolo “NO (a story of Wall Street)” prodotto nel 2005 e ispirato a “Bartleby lo scrivano”.
Nazario Zambaldi – Alessio Kogoj – Marco Fasan propongono questa che definiscono, tanto per farla facile, una: “azione inazione”.
Lecito chiedere: cioè?

NO (A Story of Wall Street)" non vuole essere semplicemente un’azione teatrale, porsi come rappresentazione; è prioritaria una ricerca di "senso" (e intorno al senso), in cui la partecipazione allo "spettacolo" di pazienti psichiatrici, non-attori insieme ad attori professionisti, risulta funzionale alla messa in scena di realtà, vita, finzione.

Stringatissima risposta. Se invece andate sul sito di Teatro Pratiko vedrete che sullo spettacolo sono loquacissimi.


Festival Azioni Inclementi. Arti visive


L'Associazione Menadito è nata nella primavera del 2004 diventando in breve tempo sul territorio vicentino un punto d’incontro e diffusione d’esperienze creative indipendenti.
Vampira_di_Marco_ZoiPromuove “progetti e forme che prediligono l'arte d’informazione e di movimento liberata dalle incombenze dell'arte business”, com’è detto in una loro dichiarazione.

In questo Festival propongono esposizioni d’immagini (nella foto: ‘Vampira’ di Marco Zoi), oggetti sonori, performances audiovisive.
Il tutto all’insegna del multicodice, della pluralità e dell’intersezione dei linguaggi.
Il titolo della mostra è I'D PREFER NOT TO ed è abrasivamente riconducibile alla logica della sottrazione.

Tanti gli artisti impegnati.
Per sapere chi sono, conoscere le traiettorie espressive che si sono date, e leggere il piano espressivo che ha ispirato l’Associazione Menadito in quest’operazione: CLIC.


Festival Azioni Inclementi. La logica della sottrazione


Nella mostra allestita dall’Associazione Menadito, c’è un angolo che invita a trafugare l’opera esposta.
L’autore che autorizza (anzi, impone) il furto è Vittore Baroni.
Da rubareIl suo lavoro è intitolato Preferirei di no(n vendere la mia arte).

Ho chiesto a Vittore Baroni di parlare su questa sua operazione.

Lo scrivano Bartleby di Melville, che ben conosco dai miei studi di Lingua e Letteratura Americana, prima di esser impiegato presso un notaio, lavorava all’ufficio delle “lettere morte”, dove aveva il compito di distruggere quelle missive che era impossibile recapitare o restituire al mittente. Esiste insomma un legame preciso tra la celebre short story e lo specifico postale, che da trent’anni frequento assiduamente in veste di “mailartista”. Nella mia partecipazione per via postale alle Azioni Inclementi di Schio, ho voluto però ispirarmi più direttamente al dettato proposto da ‘Menadito’ che invita gli artisti misurarsi con la “logica della sottrazione”. Perciò metto in scena il furto autorizzato di un numero simbolico di banconote d’autore delle Nazioni Unite Funtastiche (F.U.N.): “I visitatori sono pregati di sottrarre dall’installazione la banconota relativa al giorno corrente: dodici lavori per dodici giorni di apertura, alla fine non ne rimase nessuno.”
La mail art, movimento artistico planetario erede di Dada e Fluxus, antenata dei social network internettiani, della street art e di altre pratiche alternative che si sottraggono ai meccanismi elitari del sistema dell’arte, ha sempre avuto un rapporto conflittuale con il mercato e il denaro. Lo scambio gratuito e il confronto paritario di esperienze viene privilegiato, nell’ambito della “rete eterna” dell’arte postale, a qualsiasi opera-feticcio. Per dirla con i Beatles, “Money can’t buy me love”.
Gioca su questa contrapposizione paradossale e utopica la mia micro-provocazione: arte da rubare/sottrarre e non da acquistare, secondo una scelta al tempo stesso “insensata” e liberatoria. Proprio come Bartleby, ma in questo caso per sentirsi un po’ meno “assolutamente soli nell’universo”
.

Non una parola di più. Vado via. Devo andare a rubare quanto mi spetta.


Festival Azioni Inclementi. Bartleby in scena


Per scelta, e pratica professionale, sono molto lontano dal teatro di narrazione e, in genere, dal teatro di parola.
Proprio, però, perché sono un professionista, come testimoniano gli oltre trent’anni (sigh!) di contributi versati all’Enpals, ho profondo rispetto per tutte le tendenze espressive sceniche; specialmente se condotte con rigore come nel caso che segue.
Andrea PennacchiSi tratta di uno spettacolo intitolato Bartleby lo scrivano (una storia di Wall Street), rilettura teatrale del racconto di Melville interpretata e diretta da Andrea Pennacchi con accompagnamento musicale del fisarmonicista Sergio Marchesini.

A Andrea Pennacchi, ho chiesto: in un tempo come il presente in cui anche in scena sono assai spesso protagoniste le tecnologie, quale ruolo ritieni che abbia il teatro di parola?

A mio avviso le tecnologie sono al servizio dell'uomo, anche in scena. Il teatro è ancora un luogo dove gruppi umani si interrogano su sé stessi, la propria storia, la propria memoria, i propri sogni, e io vedo i nuovi strumenti tecnici come un ausilio, di portata enorme e senza precedenti, certo, alle storie che gli uomini si raccontano. Che siano le scenografie virtuali che a Londra fanno da sfondo a The Coast of Utopia di Stoppard, o gli ausili che permettono le magie de La Fura dels Baus, o ancora le strane protesi meccaniche di alcuni performers, gli ausili tecnici sono supporto agli uomini, ai loro corpi e alle loro parole. In questo contesto si inserisce anche il teatro di narrazione, a cui, forse, non è estranea una forma di "rigetto" dell'eccesso di tecnologia, in un ritorno - un po' reazionario - alla prima forma di teatro conosciuta, ma anche in un recupero di parole dotate di senso, di emozioni, come antidoto alla logorrea che ci inonda da tutte le parti appena usciti da teatro.

Andrea Pennacchi è attivo anche in Rete dove conduce un frizzante blog.


Festival Azioni Inclementi. Valori


Tra le presenze qui a Schio, c’è quella maiuscola di Erri De Luca.
Per sapere di lui in modo pressoché esaustivo, consiglio questo sito in Rete a lui dedicato.
Erri De LucaLo scrittore leggerà e commenterà la sua traduzione dall’ebraico del libro dell'Antico Testamento detto ‘Nomi’, conosciuto poi come ‘Esodo’.
De Luca, unico napoletano alpinista che io sappia (raro quanto un marinaio svizzero), predilige i luoghi simbolici del viaggio tra fuga ed espulsione, luoghi metaforici di chi “ha scelto la strada della solitudine estrema” – come scrive di lui Generoso Picone – “dell’estraneità assoluta alla maniera di un Bartleby di oggi che si manifesta in reticenza chiusa, in silenzio orgoglioso”.
E vita è un rigo lungo filato e morire è un andarsene a capo senza il corpo, scrive De Luca in “Tre cavalli” (Feltrinelli, 2000), e questo sembra quasi un pensiero dello scrivano Bartleby.

In un video dice in versi che cosa considera un valore: QUI.


Festival Azioni Inclementi. Conclusioni


Quella che vedete in foto è la prima pagina di “Bartleby” nella prima edizione.
Quella che state leggendo, invece, è l’ultima pagina di questo ‘special’ dedicato ad “Azioni Inclementi”.
Non mi sono occupato di tutti gli avvenimenti in cartellone perché sono tanti e tirannicamente ne ho scelto solo alcuni.
Giusto ancora un’occhiata al programma per ricordare che sono ospiti a Schio con loro performances: Daniele Sepe; Ginevra Di Marco; Rezza e Mastrella; Teatro Valdoca; e ancora teatro con “Cercivento”; Riccardo Maranzana e Massimo Somaglino raccontano la storia di un “no”, un episodio di diserzione nella guerra del 15’–18’.
Per la parte cinematografica sono presenti due documentari. Il primo: Per sempre di Alina Marazzi dedicato a suore di clausura le quali hanno detto un “no” che, francamente, in virtù del mio ateismo apprezzo poco e mi commuove ancora meno; il secondo: Checosamanca, intensamente politico, realizzato da un collettivo di giovani registi presentati da Andrea Segre.
Su la vita di Melville e la storia dei suoi libri, interviene Emanuele Trevi.

Durante tutto il periodo del Festival, grazie al Centro Biblioteche Lovat di Villorba (Treviso), sarà possibile trovare libri nuovi in grande quantità e con ghiotti sconti.

Un grazie assolutamente non formale a Antonio Tosi di Charta-Bureau il cui contributo è stato prezioso nella realizzazione di questo ‘special’.
Ora vi saluto e me ne vado al bar.


Festival Azioni Inclementi


Cosmotaxi Special

Schio, 18 - 22 luglio 2007


Fine


The dark side of the show


“Io sono sempre grande. E’ il cinema che è diventato piccolo”.
Così dice l’ex attrice Gloria Swanson allo sceneggiatore William Golden, in ‘Viale del tramonto’, (1950).
E’ una battuta di copione che descrive perfettamente l’idea di diva.
A dive di ieri e di oggi, a Roma, a Villa Medici, è dedicata una rassegna cinematografica dalla particolare angolazione: dive come Marilyn Monroe, Jane Russell, Gloria Swanson, Brigitte Bardot, e stelle emergenti quali Elisabeth Berkley, Naomi Watts, Laura Harring, alle prese con il mondo spietato dello show.
Ma se il cinema è stato, ed è, spietato con tante dive, è bene ricordare che le stesse non sono (film in programma a parte) nella realtà troppo innocenti col mondo che le circonda.
Cristina Jandelli in un suo saggio a proposito delle stars d’un tempo scrive: “Le attrici cinematografiche più famose dettavano moda, spadroneggiavano sui set, sceglievano i collaboratori, supervisionavano i soggetti; tiranneggiavano i produttori e arrivarono a estendere il loro dominio sulla regia utilizzando lo strumento formale dell’inquadratura come elemento di verifica del loro statuto divistico o allontanando registi sgraditi”.
Le cose non sono molto cambiate oggi. Campo nello spettacolo da oltre trent’anni e so bene come le attrici (ma vale anche per gli attori, s’intende) con un nome di cartello, spesso, sono arroganti e bizzose.
Semmai c’è da dire che una volta non tutte le dive erano brave attrici, mentre oggi è meno difficile che accada la coincidenza fra popolarità e bravura.
Sia come sia, questo piccolo festival è un ghiotto boccone e non solo per cinéphiles.

A Lili Hinstin e Andrea Minuz che curano la rassegna, ho posto qualche domanda.
Lili Hinstin è la responsabile del cinema a Villa Medici dall’ottobre 2005.
Andrea Minuz insegna Storia delle teorie del cinema all'Università La Sapienza di Roma.
Rispondono con una sola voce. Prodigi della tecnologia di Cosmotaxi.

In tutti i paesi, cresce il numero di donne che stanno anche dietro la macchina da presa e dirigono film. Questo benvenuto fenomeno quale contributo sta portando al cinema?

È un fenomeno interessante, innanzitutto perchè è uno dei rari casi in cui abbiamo assistito ad una convergenza di intenti tra la critica, la teoria cinematografica e la prassi. In questo senso è stata fondamentale l’esperienza della Feminist Film Theory, che per prima ha riflettuto sulla donna come spettatrice e sulla rappresentazione del cinema classico hollywoodiano costruita per uno sguardo maschile. Da qui a pensare ad una pratica femminile che opponesse uno sguardo “altro” sul racconto, sulle storie, e sullo stesso lavoro della macchina da presa, il passo non è stato breve, certo, ma indubbiamente nel panorama internazionale (sia dei festival sia dei circuiti più ampi) crediamo che la situazione sia decisamente migliorata rispetto a prima, e soprattutto si sia progressivamente depurata da certi eccessi della “militanza”, tipici degli anni Settanta.

A proposito di cinema al femminile, voglio ricordare che mesi fa è scomparsa Daniele Huillet. I media italiani, con qualche rara eccezione, hanno rimediato una figuraccia ignorando la notizia. Proprio a Villa Medici, invece, la Huillet è stata ricordata con una serie di proiezioni nell’ottobre scorso.
Vorrei un flash sull’importanza di quest’autrice.

All’occasione della retrospettiva che avevamo dedicata a Danièle Huillet e Jean-Marie Straub nell’ottobre 2006 e che era iniziata, per un caso morboso, l’indomani della morte di Danièle Huillet, avevamo scelto queste righe di Péguy per illustrare il senso del loro lavoro. Questo testo ci sembra oggi più che mai d’attualità:
"In un popolo ogni giorno più spezzato e ogni giorno sempre più dissolto nel fendersi e nel liquefarsi di tutte le demagogie, noi rappresentiamo, dobbiamo proprio rappresentare, un nucleo di resistenza, quasi fisicamente, siamo un corpo, un focolaio di resistenza alla demoralizzazione crescente, per così dire almeno a questa disintegrazione, a questa debacle, a questo disastro per così dire crescente ; a questa defezione perpetua, a questo smarrimento degli spiriti e dei cuori”.
Charles Péguy, ‘Siamo dei vinti’, 1909
.

Per il Programma: QUI.

“Dive in scena a Villa Medici: The dark side of the show”
A cura di Lili Hinstin e Andrea Minuz
Villa Medici – Roma
Info: 06 – 67 61 291
Da oggi a venerdì 20 luglio – ore 21.30


La fisarmonica nel Jazz


E’ uno strumento che non è facilissimo incontrare nelle esecuzioni jazzistiche.
Pare che il primo ad inserire la fisarmonica in un'orchestra jazz fu il batterista di New Orleans Benny Peyton (1890 - 1965), così come spiega Salvatore Cauteruccio sul sito di Jazz Italia indicando i momenti essenziali di quella storia e i principali personaggi che l’hanno animata.
Renzo RuggieriProprio la singolarità nel jazz di quello strumento, rende prezioso un Festival che si svolge a Pineto.
Il Pineto Accordion Jazz Festival – quest'anno alla sua terza edizione – difatti è unico nel suo genere in tutto il panorama internazionale.

Presidente Onorario del Festival è Peppino Principe, la direzione artistica è affidata a Renzo Ruggieri (nella foto).

Per il programma e le indicazioni per arrivare a Pineto: QUI.

Ufficio Stampa: Giovanna Nigi 339 – 52 64 933 *** Marta Volterra: 340 – 96 90 012

Pineto accordion Jazz Festival
Dal 20 al 22 luglio

Ingresso libero


Lui non ha paura


Dal 25 giugno è in libreria il più recente lavoro di Mario Bortolotto: La serpe in seno, per una scheda sul libro cliccare QUI.
Oggi notissimo musicologo, compì gli studi musicali presso il Conservatorio di Venezia.
Ha tradotto testi di Adorno e Stockausen e scritto diversi libri; per consultare la sua bibliografia più recente: CLIC.
Dal 1966 al 1972 ha diretto la rivista “Lo spettatore musicale”. È accademico effettivo dell’'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, una delle più antiche istituzioni musicali al mondo.
Nell’occasione dei suoi 80 anni compiuti giorni fa, ha ricevuto un ragionato omaggio da un gruppo di critici e artisti in un volume – pubblicato da Edt editrice – che riflette sul profilo della sua opera critica: Vivere senza paura, a cura di Jacopo Pellegrini e Guido Zaccagnini.
CopertinaSi tratta di saggi scritti all'insegna del motto di Theodor Wiesengrund Adorno ‘Leben ohne Angst’ (Vivere senza paura), che rimanda al valore dell'esercizio critico libero nel pensare e nel fare.
Pellegrini insegna all’università di Venezia, svolge attività di critico su “Classic Voice”, è conduttore di programmi d’argomento musicale per Radiorai; Zaccagnini, musicista e musicologo, ha tradotto e curato La generazione romantica di Charles Rosen ed è autore di un saggio su Berlioz: Hector en Italie (altre notizie di lui sul prossimo link che s'apre su di una mia intervista con GZ in cui si parla di Nietzsche, rock, musica etnica, e anche di Star Trek).
A Guido Zaccagnini, ho chiesto di tracciare sinteticamente l’importanza della figura di Mario Bortolotto nello scenario degli studi sulla musica contemporanea.

Nel 1969, per Einaudi, Bortolotto pubblicò “Fase seconda Studi sulla Nuova Musica”. Mai, prima di allora, uno studioso - e non solo italiano - aveva affrontato in modo tanto articolato e approfondito la musica del XX secolo: delle sue radici, dei suoi nessi, delle sue implicazioni teoretiche e sociali, delle sue prospettive. Da allora Bortolotto, anche nello svolgere attività di critico, direttore artistico, conferenziere, si è posto come un ineludibile termine di confronto, se non addirittura punto di riferimento per tutti coloro che si sono occupati negli ultimi cinquanta anni di esegesi e di analisi musicale inerenti la cosiddetta musica colta contemporanea. A buon diritto, può essere considerato l'unica personalità italiana (e tra le pochissime in ambito internazionale) che, partendo dalle ferree posizioni di Adorno - massimo indagatore e commentatore della musica del Novecento -, si sia dimostrato capace di indicarne l'evoluzione, ovvero dimostrarne il superamento storico e filosofico.

Per una scheda sul libro: QUI.

Jacopo Pellegrini – Guido Zaccagnini
Vivere senza paura
scritti per Mario Bortolotto
Pagine 332; Euro 20:00
Edt Editrice


Ultima India


Voltaire ha scritto: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”; Benjamin dirà che “Si viaggia per scoprire la propria geografia”.
In epoca recente, Giuliana Bruno, dall’Harvard University, ha lanciato la teoria post post-moderna della ‘geografia emozionale’ che consiste nel dislocare non più la memoria nel tempo ma nello spazio.
Tanti i modi di viaggiare e i luoghi scelti, e oltre alle prenotazioni in corso per trasferte turistiche nello Spazio, già oggi esiste un’agenzia attrezzata per rotte in mondi virtuali come la Sinthravels.
Dai viaggi di ieri e di oggi (ma succederà anche nel futuro) scaturiscono libri che raccontano inedite esperienze, come accade nel volume di Sandra Petrignani, edito da Neri Pozza, intitolato Ultima India.
Libro che domani 14 luglio riceverà il Premio Fregene e che è stato, inoltre, lo spunto per un’intervista all’autrice nel recentissimo volume Laterza Ogni viaggio è un romanzo di Paolo Di Paolo.
Sandra PetrignaniMeritati riconoscimenti a un lavoro di una scrittrice che molto stimo; tempo fa la ebbi a compagna di viaggio in un volo spaziale (una così la potevo mai incontrare nel reparto casalinghi della Standa al Tiburtino III?).
Più terrestre fu un altro incontro allorché vi parlai in queste pagine di un altro suo viaggio fra strane creature (che poi tanto terrestri non erano): Care Presenze.
Ultima India è un reportage alla ricerca di una verità non solo spirituale ma anche di concrete scoperte da cogliere in una terra lontana dall’Occidente non soltanto per distanza geografica. Mi è piaciuto il modo in cui la viaggiatrice racconta l’India perché, a differenza di altre pagine simili di pur nobili firme (Hesse di ‘Siddharta’, ad esempio), nel registrare e restituire alla pagina ciò che di stuporoso vede, resta occidentale, memore, in ogni suo sguardo, della cultura dalla quale proviene, né da disprezzare né da esaltare. Attraversa le terre d’India con il fido autista Ayyappam (scegliere per autista uno che abbia un nome che contenga la parola ‘mappa’ mi pare saggio in terre sconosciute) e s’immerge in “questa affabilità del divino, questo spirito in cui s’inciampa, questa terrestre celestialità che è il fascino più forte dell’oriente”.

A Sandra Petrignani ho rivolto la domanda che segue.
Dice Robert Escarpit: “Il racconto di viaggio vive tra altre due macchine letterarie: l'autobiografia e il diario; ci sono autori più apparentati alla prima, altri alla seconda, dipende dal rapporto che hanno con se stessi prima ancora del rapporto con le terre visitate”. Tu, come hai vissuto l’esperienza di scrittura di “Ultima India”?

"Ultima India" è esattamente questo: un libro fra autobiografia e diario di viaggio. E' la registrazione fedele dello stupore che mi ha suscitato l'India al mio primo incontro con lei. In questi dieci anni ho fatto molti altri viaggi nel Subcontinente indiano (altri cinque) e quel primo stupore è andato perduto. Anche perché l'India sta cambiando rapidamente, è già molto cambiata. Ci somiglia un po' di più, pur restando misteriosamente se stessa. Del resto è tante cose diverse. La realtà dei villaggi, più antica, quasi immobile, è altra cosa dalle metropoli. Forse quel che è rimasto intatto è la capacità di "credere" del popolo indiano. Credere non in un senso superstizioso ma con la purezza di un rapporto diretto e inevitabile con la divinità. Un rapporto, direi, primordiale.

Per una scheda sul libro, cliccare QUI.

Sandra Petrignani
“Ultima India”
Pagine 143; Euro 14:50
Neri Pozza Editore


Frank Zappa e i sinantropici


Molti sanno chi è Frank Zappa, ma pochi sanno (io fra quelli fino a poco fa) chi sono i sinantropici.
Ecco una definizione: Animali che restando nel loro ambiente naturale occupano zone frequentate dall’uomo (o s’insediano in ambienti creati artificialmente dall’uomo) e lo costringono a una convivenza non voluta e inopportuna.
Ad esempio, topi, scarafaggi, zecche, vespe, meduse, pipistrelli, piccioni… piccioni, e qui spiego perché ho citato Zappa.
Dopo aver visitato Piazza San Marco, il musicista compose un brano il cui titolo già annuncia lo scarso gradimento per quei volatili: Questi cazzi di piccione; lo potete videoascoltare, diretto da Peter Rundel, QUI.
CopertinaDi animali sinantropici si occupa un utile e divertente libro,edizioni nottetempo, intitolato Ospiti ingrati come convivere con gli animali sinantropici, sottotitolo parzialmente bugiardo perché nelle pagine sono descritte anche tecniche per come liberarsene in modi spicci.
Il birichino e documentatissimo autore è Emanuele Coco. Insegna Storia e Filosofia della Scienza nelle Università di Catania e Firenze, collabora stabilmente con la Maison des Sciences de l'Homme di Parigi. Autore di narrativa e saggistica ha pubblicato recentemente “Etologia” (2006) e “Animali sociali” (2007), entrambi per Giunti; è in corso di stampa presso Bruno Mondadori “Egoisti, malvagi e generosi”.

Ospiti ingrati è di scorrevolissima lettura illustrando cose assai serie come le leggi dell’evoluzione, la storia di quegli animali tanto fastidiosi, il loro modo di organizzarsi, e anche la maniera di come portare loro guerra quando straziano i nostri giorni e le nostre notti.
Ma è tutta colpa dei sinantropici l’insidiosa vicinanza con noi umani? L’autore ha una risposta che in parte li assolve. Perché più che venire nelle nostre case, siamo stati noi a invadere il loro territorio, a distruggere il loro ambiente, cementificando, deforestando, inquinando acque.
Il libro così diventa un divertito incrocio fra il manuale scientifico e il trattato filosofico, operando anche deliziose scorribande fra esempi tratti dal cinema e dalla letteratura.

Emanuele Coco
“Ospiti ingrati”
Pagine 238; Euro 15:00
edizioni nottetempo


Sconsigliato alle brave bambine


Il problema della ‘fellatio’, secondo me, è la sua mancanza di onomatopea. Prendete parole più schiette come ‘succhiare’ o ‘gargarizzare’, o ‘gorgogliare’ e… voilà! I loro significati sono tutti ben riassunti nel suono. Mentre ‘fellatio’, lì da sola, potrebbe lasciarvi all’oscuro. Soprattutto la settimana prima del vostro quindicesimo compleanno.

Sono queste le prime righe di un effervescente (qui l’onomatopea c’è, e aggiungo anche ‘frizzante’ tanto per andare sul sicuro) libro pubblicato da Alet: Le dodici perle di saggezza di Rosie Little.
E’ il debutto in Italia di Danielle Wood, nata a Hobart nel 1972; ha vinto, con “The Alphabet of Light and Dark”, il Vogel Literary Award per il miglior esordio narrativo in Australia, insegna scrittura creativa all’Università della Tasmania.

Sùbito un elogio. Il volume non ha sottotitolo. Se nella saggistica quel momento di paratesto ha una sua sopportabile funzione, nella narrativa è una dichiarazione d’impotenza del titolo, un affannarsi dell’autore, suona come sgradita raccomandazione; eppure, noto che oggi è forse più usato che nel periodo ‘400-‘700 quand’era praticato in modo leggiadro e spesso umoristico, mentre mo’ sottotitolazioni da mattone pesante.
Rosie Little – alter ego negato dall’autrice – è protagonista di quel che si dice un “romanzo di formazione”, racconta, infatti, il cammino intrapreso nella vida loca da una ragazza, delle sue prime esperienze professionali, sentimentali, sessuali.
Il tutto è descritto con leggerezza, in modo né greve né grave; le riflessioni anche nei momenti più spigolosi ed espliciti del racconto sono improntate, con vena talvolta umoristica, a una levità ben lontana da quella di tanti narratori (non solo italiani, ma da noi ce ne sono d’imbattibili) che perfino se scrivono di quando inforchettano una matriciana vogliono fare intendere profondità abissali di pensiero.
Danielle Wood, invece, pure nel riferire di ferite patite non ostenta stimmate, neppure se parla delle cicatrici di un aborto; Rosie Little non singhiozza, si curva e allaccia strette le stringhe dei suoi scarponcini rossi Doc Martens. E riprende la sua avventura su ritmi slapstick.
Eppure, quante ne passa! Leggete le sue avventure e ve n’accorgerete. E forse concluderete con me dicendo: le brave ragazze, si sa, vanno in paradiso, ma Rosie Little dappertutto.

Per una scheda sul libro: QUI

Danielle Wood
“Le dodici perle di saggezza di Rosie Little”
Traduzione di Beatrice Masini
Pagine 229; Euro 13:00
Alet Edizioni


Il museo nascosto


Il museo è un bene culturale, peccato che sia amministrato dai Beni Culturali. A questo pensavo leggendo un recente volume della casa editrice Elèuthera che manda in libreria una pubblicazione che di musei parla; ne aveva pubblicato anche un altro sullo stesso argomento, ma con diverso taglio, lì, infatti, il museo era a luci rosse; me ne occupai tempo fa in queste pagine.
Ci sono musei non famosi che sono vere ghiottonerie e fanno la mia felicità quando ci vado. Qualche esempio: il Museo Guatelli
con i suoi detriti di mondi marginali; la collezione di scooter di Vittorio Tessera; il Museo del Giocattolo a Zagarolo tra vecchie bambole e prime playstations; le macchine per il caffè raccolte da Enrico Maltoni; le stuporose lanterne magiche di Laura Minici-Zotti; le migliaia di bottoni classificati da Giorgio Gallavotti; il Museo delle impronte di fuoco delle Anime del Purgatorio.
E gli esempi, solo per citare luoghi italiani, ce ne sarebbero ancora tanti e tanti.
CopertinaMa dietro le quinte di un museo grande e famoso che cosa si nasconde? Com’è organizzato? Com’è ripartito il prezzo del biglietto? Come sono gestiti in quel luogo bookshop, bar, ristoranti? Quali criteri presiedono agli acquisti e alle donazioni? Che cosa è esposto e che cosa no, e perché? Quali i problemi del microclima nelle sale e della sicurezza? Esistono opere falsamente attribuite nei musei? Come s’allestisce una mostra? A questi interrogativi risponde Cose da museo; titolo non seducente e anche fuorviante (però… il sottotitolo è peggiore: Avvertenze per il visitatore curioso); unica pecca dell’autore perché si tratta di un libro prezioso, scritto in modo brillante e scorrevole da Andrea Perin. Architetto museografo, vive a Milano. Per mestiere cura l'allestimento di mostre, di musei d’archeologia, d’arte e d’antropologia. Per passione si occupa di tradizioni alimentari, infatti, proprio presso Elèuthera ha pubblicato La fame aguzza l'ingegno.
Cose da museo è ricco d’informazioni e aneddoti, con i capitoli intercalati (ottima idea) da interviste a guide, custodi, editori di cataloghi. Il volume s’avvale pure di un’articolata bibliografia e di una ghiotta appendice dedicata al cinema (con abbondanti citazioni di pellicole), cioè al modo in cui i cineasti hanno ambientato i musei nei loro film.
Da tutto questo, viene fuori il ritratto gestionale, politico e sociale di un’istituzione culturale molto amata e anche, da parecchi guardata con obbligatorio rispetto ma, spesso, noioso obbligo nei viaggi turistici. Viaggi che attraverseranno anche musei virtuali, come già accade con l’iniziativa di Mario Gerosa che ha intrapreso il primo progetto museale al mondo per preservare il patrimonio dell'architettura e dell’arte digitale creata su Second Life.

Per una scheda sul libro e l’Indice: QUI.

Andrea Perin
“Cose da museo”
Pagine 134; Euro 12:00
Elèuthera


Mamadou va a morire


Siamo quotidianamente raggiunti da una massa d’informazioni attraverso i media, è senza dubbio un bene perché permette di cogliere i tanti aspetti del mondo, talvolta, però, di fronte a notizie ripetute (perché la cronaca lo impone) sullo stesso argomento si determina un’assuefazione che anestetizza l’attenzione.
Càpita anche con cose gravi come, ad esempio, le morti di tanti che partono dai paesi più poveri per raggiungere l’Europa e che per sciagurati naufragi o, più spesso, per volontà degli scafisti, muoiono in mare.
Le notizie in tal senso, purtroppo, sono assai frequenti e non suscitano l’orrore che meritano proprio per quella perniciosa assuefazione cui mi riferivo prima.
Bene ha fatto, quindi, la Casa Editrice Infinito a pubblicare un prezioso volume che su quelle tragiche avventure fa luce con cifre e racconti agghiaccianti.
Il libro si chiama Mamadou va a morire La strage dei clandestini nel Mediterraneo; e n’è autore Gabriele Del Grande. Nato a Lucca 25 anni fa, lavora per l’agenzia stampa ‘Redattore Sociale’ ed è il fondatore di Fortress Europe osservatorio sulle vittime dell’immigrazione clandestina.
Delle tante cifre accuratamente rilevate nel libro, ne cito due che da sole danno la dimensione della tragedia: 2.178 vittime soltanto nel Canale di Sicilia, tra il 1994 e oggi, di quelle ben 1.316 sono disperse sui fondali.
Nel suo libro-reportage, Gabriele Del Grande parla anche di un aspetto meno noto dei tentati esodi, cioè la deportazione a Kufrah, un centro di detenzione finanziato dall’Italia, secondo un rapporto Ue. A Kufrah sono denunciate torture ed abusi, documentate anche da Human Rights Watch.
Mamadou va a morire è un libro che, per la documentazione espressa, segnalo come prezioso specialmente alle redazioni della carta stampata, delle radio-tv, del web.
Nell’introduzione, scrive Fulvio Vassallo Paleologo docente di Diritto privato e di Diritti umani presso l’Università di Palermo: Rassegnarsi alla normalità delle tragedie dell’immigrazione descritte in questo volume, sarebbe come lasciare morire ancora una volta le persone vittime dell’immigrazione irregolare. Ancora peggio sarebbe ritenere, come pure qualcuno sembra fare, che queste tragiche storie possano avere un effetto “pedagogico” sui candidati all’emigrazione clandestina.

Per leggere tutta l’introduzione: QUI.

Per una scheda sul libro: CLIC.

Gabriele Del Grande
“Mamadou va a morire”
Introduzione di Fulvio Vassallo Paleologo
Pagine 158; Euro 14:00
Infinito Edizioni


Siena Jazz


E’ in corso di svolgimento uno dei più interessanti Festival del panorama jazzistico italiano: Siena Jazz.
Al Presidente Franco Caroni, ho chiesto qual è il segno che distingue questo Festival dagli altri dello stesso campo musicale.

La Fondazione Siena jazz fin dalla sua nascita ha fra i suoi principali obiettivi quello della diffusione e valorizzazione della musica jazz con particolare riguardo alla promozione del jazz italiano.
La presenza predominante dei jazzisti italiani è la caratteristica principale che distingue i concerti di Siena Jazz.
Non vuole assolutamente essere una chiusura verso il mondo del jazz internazionale, che è comunque sempre presente nelle rassegne e nei festival organizzati dalla Fondazione. Vuole invece essere un riconoscimento dovuto alla qualità dei musicisti italiani che sempre più si impongono all'attenzione della stampa, degli esperti e degli appassionati del settore. L'altro aspetto è la sempre più frequente presenza nei concerti di musicisti che oltre ad essere degli splendidi jazzisti sono anche dei notevoli didatti e leader stabili di formazioni, mai quindi troppo estemporanee. La progettualità nel jazz oggi è fondamentale, ma deve andare di pari passo anche con l'esecuzione e l'improvvisazione del musicista su un repertorio jazzistico storico e conosciuto.
L'ultimo aspetto particolare infatti è la scelta di musicisti che amino il bop come il free, lo swing come il modale o la fusion o la musica latina o la musica improvvisata contemporanea. Musicisti eclettici, mai troppo rigidi negli stili di riferimento, ma abbastanza per salvaguardare il loro originale orientamento stilistico, senza rinnegare la tradizione. Un jazzman di oggi, ma pur sempre un jazzman
.

Per il programma cliccare QUI.

Ufficio Stampa: Massimo Biliorsi per l’Agenzia Freelance
Tel. 0577 – 21 92 28 *** 0577 - 27 21 23 *** 329 – 74 47 613; Fax: 0577 - 247753

Siena Jazz
Tutti gli appuntamenti sono ad ingresso libero
Info: sienanews@iol.it
Fino al 13 luglio ‘07


Cartesio non balla


Sarà che preferisco Lara Croft, la creatura di Toby Gard, con i suoi pixel che lèvati, all’altra Lara, quell’Antipov di Boris Pasternak, funesta crocerossina full time dello sfortunato Dottor Zivago, sarà che un laboratorio della Nasa ha per me lo stesso fascino del Louvre, sarà che gli studi sulla genetica m’interessano più della filologia romanza, sarà che dei Brecht amo George e detesto Bertold, sta di fatto che ho accolto con entusiasmo il recente libro Cartesio non balla definitiva superiorità della cultura pop più avanzata scritto con ragionata e trascinante energia da Franco Bolelli.
L’autore, è nato nel 1950 e vive a Milano. Da sempre scrive e parla di frontiere avanzate, mondi creativi, nuovi modelli umani. Ha scritto numerosi libri, tra cui “Vota te stesso” (1996), “Live” (1998), “Più mondi” (2002).
Con Garzanti, nel 2005, ha pubblicato “Con il cuore e con le palle”.
Ha ideato e messo in scena festival sperimentali e pop, come, ad esempio, “Frontiere”, tra filosofia, rock e nuove tecnologie, luogo assolutamente unico della nuova progettazione.

CopertinaL’assunto di quest’imperdibile volume che vi consiglio di leggere, l’estraggo da una delle pagine più folgoranti: Che la cultura accademica e tradizionale sia affetta da genetica incapacità di guardare al di là del passato, questo credo che tanti siano disposti ad ammetterlo. Ma c’è di più. E’ ignorante, per esempio. Perché quella che si pretende e si spaccia come unica filosofia non sa proiettarsi oltre i confini – sempre più limitati e provinciali – della vecchia Europa, ignorando migliaia di anni di filosofie orientali, ignorando i paradigmi a tutto campo della cultura americana, ignorando interi mondi creativi e comunicativi […] Il difetto genetico che affligge le culture istituzionali e intellettuali è ancora più grave: perché da sempre si formano e si affermano lontano dal biologico, e di tutte le patologie questa è la più devastante .
Una cosa mi va qui di sottolineare: non crediate che Bolelli sia un tipo che s’entusiasma di fronte a tutto ciò che è nuovo. Distingue – e lo fa con piglio guerriero – ciò che appartiene ai pattini della moda preferendo il surf sulle onde mosse dalle correnti autentiche di “una selvaggia innocenza, di incontenibile energia vitale”, come quelle forza che vede nei Red Hot Chili Peppers mentre cantano sulla Piazza Rossa “Blood Sugar Sex Magik”.
E per dissipare altri dubbi, aggiungo: il libro non è scritto da un post-freak in adorazione di culture orientali o sciamaniche, Bolelli, infatti scrive: …qui in Occidente tante cose possono essere sbagliate o ingiuste, ma è qui che nasce il novanta per cento delle nuove scoperte scientifiche e tecnologiche, delle invenzioni comunicative, dei nuovi linguaggi, dei movimenti più energetici e creativi.
Ah, finalmente qualcuno che lo dice!
La Rete è ricca di suoi illuminanti interventi, ad esempio: CLIC e RICLIC

A Franco Bolelli ho chiesto: “Molte persone sono sgomente di fronte al nuovo, a me sgomenta il vecchio”. Così diceva John Cage.
Perché, invece, in tanti arretrano di fronte al nuovo (anche fra quelli che un tempo lo hanno proposto), lo contrastano, arrivano perfino a negarne l’esistenza dicendo di avere già fatto ciò che vedono oggi praticato? Perché tanta paura?

Credo che quella fra sperimentazione e conservazione, fa dinamismo e stasi, sia la vera grande separazione antropologica, oggi più che mai. Oggi l'evoluzione è così impetuosa e travolgente che molti ne sono spaventati e spiazzati. Ne è spaventato e spiazzato (e reagisce o con risentimento o con rassegnazione) chiunque non è assolutamente indipendente, chiunque non sa scegliere fra così tante opzioni, chiunque è legato alle vecchie identità, chiunque è abituato a cercare le soluzioni nel passato. Nel mio libro racconto che la più indipendente e inventiva cultura pop ha il grande merito di familiarizzarci con il nuovo. Non tutto il nuovo è buono, ma gli umani non hanno alcuna chance di farcela nel nuovo mondo connesso e globale senza un'attitudine di apertura verso il nuovo. Oggi è tempo di identità espanse, di sintesi personali, di conoscenza ed esperienza a tutto campo. Terribile per alcuni, entusiasmante per altri.
Mi dispiace per i primi, ma è con i secondi che ci si diverte e si fa la storia
.

Per una scheda sul libro: QUI.

Franco Bolelli
“Cartesio non balla”
Pagine 166; Euro 12:50
Garzanti


Non c'è scampo!


Un articolo di Carlotta Mismetti Capua sul sito web di Repubblica informa su di una notizia che ha avuto su di me un effetto diuretico.
Come non bastassero i tanti romanzi (“Il romanzo è la favola delle fate per chi non ha immaginazione”, diceva giustamente Pessoa) che sbarcano a decine ogni giorno in libreria, si profilano nuove insidiose, e subdole, presenze di quel genere letterario: per via orale.
I libri – avverte la giornalista – hanno dei titoli strani: ‘Un uomo nato donna’, ‘Lo studente fuori corso’, "Drag Queen", etc. Ne scegli uno dall'archivio della biblioteca e la bibliotecaria lo cerca. Fin qui, tutto normale. La bibliotecaria ti accompagna su una poltroncina, in sala lettura. Aspetti che arrivi il tuo libro. Il libro arriva. E' una persona. Il libro parla. Il romanzo che hai scelto è lui. Il gay fuggito di casa a sedici anni, l'ex alcolista piantato dalla moglie, la Drag Queen che lavora nei locali di provincia, il poliziotto che un giorno sparò nella folla e colpì un ragazzo. Ma cosa è questo strano gioco che ti mette faccia a faccia con degli sconosciuti? Si chiama Biblioteca vivente. Tu leggi, o meglio ascolti, loro che parlano. Il romanzo è il dialogo che in mezz'ora, questo è il tempo concesso dalla biblioteca, riuscite a stabilire.

Più o meno come m’accade quando un autore, attiratomi in un tranello d’ascolto, prende a recitare le proprie pagine in prosa o in versi per poi avviare il fraudolento discorso… “dimmi spassionatamente”, “dammi un consiglio”, eccetera… espressioni che sotto falsa umiltà reclamano imperiosamente una richiesta d’applauso che, concesso per sfinimento oppure coraggiosamente rifiutato, sente in risposta “tu che conosci tanti editori non potresti…”
Stavolta (Mismetti Capua ed io v’abbiamo avvertiti) l’ascoltatore, però, se l’è andata a cercare e ben gli sta.
Questa cosa, non è stata ideata in Transilvania dai tenebrosi personaggi che l’hanno resa famigerata, ma inventata in Danimarca, nel 2000, si chiama Stop the Violence, ma credo proprio che possa suscitare l’effetto opposto perché la voglia di percuotere i romanzieri parlanti, via, ti può venire!
Lo organizzarono in un grande raduno rock – … ma allora è proprio vero che il rock è morto?!... – e il direttore generale del Consiglio d'Europa lo venne a sapere. Ora è uno degli strumenti di formazione ai Diritti e alla Diversità, sostenuti dal Consiglio europeo - … i nomi, i nomi di questi terroristi, fuori i nomi!... – Si è svolto in tante città, a Copenhagen, a Budapest, a Lisbona, a Oslo: e ora a Torino.
Un documento su come organizzare una Libreria Vivente e le altre esperienze europee si trova su questo sito.
Ai malvagi romanzieri interessati alla faccenda, per notizie su questo novello “Hostel II”: CLIC.
La faccenda della Biblioteca che parla verrà replicata durante Melting Box Fiera internazionale dei diritti e delle Pari Opportunità a Torino.
Gli organizzatori, sperano che comuni e Ong si facciano avanti per farlo nelle proprie città; la biblioteca vivente, all'insegna di “a ciascuno il suo romanzo” (…brrr!), potrebbe essere allestita nei festival, nelle fiere di libri, nelle scuole, sulle spiagge… aiuto!

“Melting Box”
Il romanzo che parla
Fiera internazionale delle Pari Opportunità
Dal 22 al 24 ottobre
Torino


Transformers e sbadigli


E’ uscito sui nostri schermi uno dei blockbusters più attesi dell’estate 2007: Transformers, regìa di Michael Bay.
ll film è ispirato alla celebre serie di giocattoli della Hasbro e ai noti cartoni animati del 1984-87 che hanno per protagonisti appunto i Transformers, macchine dotate di volontà propria in grado di modificare il loro aspetto in base alle necessità: da semplici e innocui veicoli, i Transformers si trasformano, se serve loro, in giganti robot antropomorfi.
La cosa, pur appartenendo attualmente allo scenario fantascientifico, non è un’assoluta invenzione perché in molti laboratori si studia la possibilità dell’autoreplicazione delle macchine che, all’occasione, possono mutare le proprie funzioni originarie.
Il film di Michael Bay è la trasposizione cinematografica della serie animata.
Dopo una partenza elettrizzante, purtroppo la pellicola s’accartoccia su se stessa diventando ripetitiva e qualche sbadiglio in sala lo provoca.
Gli effetti speciali sono stati realizzati (benissimo realizzati) da Industrial Light & Magic e da Digital Domain.
ILM, in particolare, ha lavorato alla realizzazione dei robot sviluppando una nuova tecnica chiamata "dynamic animation".

Dal film deriva anche il videogioco ‘Transformers’.
Activision ha affidato il progetto ai programmatori di Traveller's e il risultato è un videogame avvincente dagli ambienti interattivi ed in grado di riprodurre molto bene i modelli tridimensionali dei Transformers .
Ispirati al lungometraggio, inoltre, una nuova serie di giocattoli Transformers Hasbro.
“Da più di 20 anni” – scrive Luca Raffaelli – “sono un successo mondiale, con oltre 800 modelli disponibili in 22 differenti serie per milioni di pezzi venduti. Si va da quelli più semplici in cui bastano 2 mosse per trasformare il robot, a quelli rompicapo, con effetti sonori, fino a quelli più particolari, con l'aspetto di animali o mostri, dinosauri o macchine futuristiche” diventando un vero fenomeno di culto.

Per una videointervista (in inglese) a Michael Bay, QUI.
Per il trailer: CLIC.

“Transformers”
Regìa di Michael Bay
Durata: 135' 00”
Distribuzione: UIP
Dal 28 giugno in circuito in Italia


L'Italiano secondo Vassalli


Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla, così scriveva Sebastiano Vassalli nella Premessa de “La chimera” (Einaudi, 1990), romanzo ambientato tra il 1590 e il 1610.
Quella frase, la vedo come una chiave per entrare nella poetica di questo scrittore che da anni continua a darci libri che resteranno nella storia della letteratura italiana contemporanea.
Di lui ho già parlato su queste pagine a proposito di uno squisito librino – “Il robot di Natale” – per leggere cliccare QUI.
Quella frase citata in apertura, a mio avviso, ben si presta a presentare il più recente lavoro di Vassalli: L’Italiano.
Copertina_da_illustrazione_Andrea_PazienzaUndici storie, tutte rigorosamente tratte da documentazioni storiche, che diventano dodici perché vivono tra due parentesi suggerite da uno scritto corsivo e corsaro che maliziosamente s’interrompe per poi riprendere e concludersi nel finale.
Tra questi due sipari c’è un’analisi del nostro carattere nazionale vissuto attraverso narrazioni di personaggi realmente esistiti e fatti veramente accaduti.
Da una sorprendente decisione, e su come e perché la prese, del Doge Ludovico Manin fino a un fiammeggiante dibattito pubblico fra Togliatti e un giovane Sofri che segnò l’ingresso di quest’ultimo sulla scena politica italiana.
Straordinaria su tutte, lo stupro, avvenuto o tentato, su Rachele Mussolini, subito dopo il 25 luglio ’43, da parte di un poliziotto fascista (prontamente e astutamente diventato antifascista); costui, Saverio Polito il suo nome, beccò da un Tribunale Speciale ben 24 anni di carcere. Tale cosa nella sua vita di trasformista sarà oro per la carriera perché, dopo la Liberazione, menerà vanto d’essere stato perseguitato riuscendo a diventare negli anni ’50 addirittura Questore di Roma.
Sebastiano Vassalli, chi lo ha già letto lo sa, quando vuole (e lo vuole spesso) intinge la penna nel veleno, lo fa anche questa volta, ma nell’operazione autoptica che compie sul corpo sociale, politico, linguistico dell’Italiano (‘animale socievole e non sociale’, cito a memoria e spero di non toppare), c’è anche un sentimento di sincera pietà nel ritrarre un essere: “infantile, opportunista, simpatico, adattabile, ingegnoso, vigliacco, furbo, egoista, generoso, narcisista”.
Libro da leggere per meglio capire, attraverso una scrittura lucente, chi siamo e perché lo siamo; per specchiarci nei secoli nel quadro della Storia, e non è escluso che ci càpiti la stessa avventura che capitò a un certo Dorian Gray.

Per una scheda sul libro: QUI.
Per un sito dedicato a Vassalli: CLIC.

Sebastiano Vassalli
“L’italiano”
Pagine 140: Euro 14:50
Einaudi


L'uomo che parlava con i corvi


Raramente càpita di leggere un libro reportage come quello che mi ha inviato la Casa Editrice Memori.
Il titolo è L’uomo che parlava con i corvi dieci incontri sulle strade dell’Asia.
L’autore è Beniamino Natale, 55 anni, nato a Roma.
Ha cominciato a lavorare come giornalista al quotidiano “Lotta Continua” nel 1978, occupandosi di politica estera e culturale. Nel 1982, con un gruppo di amici ha fondato il settimanale di politica e cultura internazionale “Dialogo NordSud”. Nel 1986, è entrato all’Ansa per la quale nel 1992 è diventato corrispondente dall’India, coprendo – come si dice in gergo giornalistico – tra l’altro la guerra del 2001 in Afghanistan.
Dal 2003 si è trasferito a Pechino, sempre come corrispondente dell’Ansa.
Accanto al lavoro per l’Agenzia, ha realizzato due documentari sull’Afghanistan, selezionati da molti Festival italiani e stranieri (e altri due, rispettivamente sull’Eta e il Pakistan) insieme con Paolo Grassini, un regista che quando il nostro cinema e le nostre tv s’occuperanno seriamente di lui sarà sempre troppo tardi.
CopertinaL’uomo che parlava con i corvi, è un vertiginoso viaggio – scritto in maniera altrettanto vertiginosa – attraverso mille pericoli tutti puntualmente descritti con periodi brevi, lingua scattante, nessuna concessione alla cosmetica degli aggettivi. Libro che intessuto di cronaca si fa storia, illuminando ragioni e passioni, tic e tabù, di popoli lontani che insanguinano da anni le terre che abitano; da quelle pagine, più chiaramente di tanti pensosi saggi, capiamo il perché si scannano tra loro e vengono scannati dagli occidentali con feroce determinazione.
Conosciamo da vicino personaggi noti, come ad esempio, Arundhati Roy, e altri meno noti da noi (ma notissimi nei loro paesi) che sono, o sono stati, leaders di partiti oppure guerriglieri, anche se da quelle parti i due ruoli spesso si fondono in uno soltanto.
Poi ci sono capitoli animati da un grande sentimento della vita, come quelli dedicati agli incontri con due italiani: Maria Grazia Cutuli e Tiziano Terzani. E proprio la moglie di Terzani, Angela, firma l’appassionata prefazione al volume. L’uomo che parlava con i corvi, “grande, vestito di bianco, sorridente, con la voce tonante” è proprio Tiziano Terzani.

A Beniamino Natale ho rivolto qualche domanda.
Tra i tanti paesi asiatici da te attraversati, esiste tra le varie motivazioni, una su tutte, e comune a tutti, che ha determinato l’attuale condizione di quei territori?

Difficile rispondere a questa domanda. Mi sembra che la Seconda Guerra Mondiale e le dinamiche che ha messo in moto, per esempio la fine dell’ Impero Britannico e l’ ascesa di Usa e Urss (sfociata poi nelle guerre di Corea e del Vietnam) abbiano avuto un grosso impatto su tutta la regione. Nel subcontinente indiano (incluso il Tibet) gran parte dei problemi irrisolti – basti citare quello del Kashmir – sono un’eredità di quel periodo. Per quanto riguarda l’ Asia più in generale possiamo pensare alla questione di Taiwan e alle difficoltà nelle relazioni tra Giappone da una parte e Cina e Corea dall’altra.

Da trent’anni svolgi un giornalismo di prima linea prima in Italia e poi fra tanti conflitti nel mondo. Quest’esperienza quale prima regola ti ha dettato nell’interpretare ciò che vedi e devi restituire ai lettori?

La semplicità. Io cerco sempre di mettermi nei panni di una persona che legge uno dei pezzi che ho scritto mentre sta in autobus, piegando il giornale più volte per la mancanza di spazio, oppure di un ragazzo che per la prima volta in vita cerca di capire qualcosa del Medio Oriente, o dell’ Unione Europea.

Con l’avvento delle nuove tecnologie – dal satellite per le tv a internet ai videotelefonini – che cosa, prima fra tutte, è cambiato nel modo di fare giornalismo?

La velocità nella trasmissione delle informazioni, che a sua volta ha fatto sì che ne sia aumentata enormemente la quantità e la diffusione. Questo mette sulle spalle degli operatori dell’informazione una grande responsabilità. Quella di aiutare il pubblico a districarsi in una cascata continua di notizie di tutti i tipi, cosa che si può fare solo con l’ applicazione, la competenza, la specializzazione.

Beniamino Natale
“L’uomo che parlava con i corvi”
Prefazione di Angela Terzani
Pagine 261; Euro 16:00
Edizioni Memori


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