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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Nudi


Cosmotaxi stima da tempo, e molto, Claudio Cravero fotografo torinese (con mostre in Italia, Francia, Portogallo, Repubblica Ceca, Argentina, Stati Uniti); trovate QUI un numero dedicatogli della Sez. Nadir di questo sito con immagini e dichiarazioni sul suo lavoro, sul suo stile.

Già una volta Cosmotaxi si occupò di un suo disegno espressivo originale per concezione ed esecuzione che muovendosi dalla fotografia percorre tracciati psicologici e sociologici: Nudi.
Con un CLIC ne vedrete e saprete di più da lui stesso.

Ora questo progetto conosce una nuova tappa al Civico Museo d'Arte Moderna e Contemporanea Castello di Masnago (Varese) dove è in corso - finissage 8 maggio 2016 - la mostra “Catalogo interiore del contemporaneo” curata da Daniela Giordi.

Sabato 2 e Domenica 3 aprile dalle 9 alle 18 Cravero sarà disponibile a Varese per ritrarre chi vuole far parte del progetto “Nudi".
I soggetti verranno ritratti nella propria abitazione e l’impegno durerà 20’/30’00".
Due scatti soltanto, uno vestito e l’altro nudo, ma verrà ripreso solo il viso.

QUI Claudio Cravero apre la finestra del suo Studio e vi farà entrare, volando, nel suo mondo.

Nudi
e-mail: didattica.masnago@comune.varese.it
Info: 0332- 82 04 09 - fax 0332 – 22 00 89


Felicità e Facilità


Al Museo della Carale d’Ivrea è in corso la mostra Felicità e Facilità della poesia visiva italiana a cura di Adriano Accattino e Lorena Giuranna.
QUI cenni biografici dei due curatori; di Accattino (in foto) segnalo anche quest'intervista in cui mi suonano particolarmente care le cose che dice sul “romanzo”.

Circa la mostra: opere mai finora esposte al museo, sono degli anni '50, ’60, ’70, decenni di grande fortuna per la Poesia visiva e sonora.
Perché “Felicità” e “Facilità”?
“Innanzitutto” – è scritto in un comunicato – “per il gioco di parole. Poi perché la felicità è l’obiettivo preferito degli uomini, che non sanno dire dove risieda, né cosa comporti. La felicità costituisce il punto utopico nel quale si incontrano le aspettative di tutti, e in particolare quelle dei poeti visivi che danno forma alle loro poetiche idee, una forma di immediata lettura e apparente facilità. Accostare i due termini è un azzardo, un’aspirazione non facile da realizzare. L’invito è quello di tagliarci i ponti alle spalle e tentare di realizzare la nostra vita secondo queste due parole”.

Basta un CLIC per conoscere i nomi degli artisti presenti in mostra.
Fra questi non poteva mancare, ovviamente, uno dei fondatori della poesia visiva in Italia: Lamberto Pignotti. Il suo nome mi ricorda pure che sarà lui, a Venezia, nell’àmbito del Festival “Incroci di civiltà”, a inaugurare il 2 aprile con una lectio magistralis il primo Centro di Studi Italiano nato in area universitaria. È realizzato in collaborazione con la Fondazione Bonotto, è dedicato allo studio, alla valorizzazione e alla diffusione internazionale della poesia concreta, visiva e sonora.
II Centro troverà spazio all’interno del dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari.

Al Museo della Carale, durante il periodo di Felicità e Facilità della poesia visiva italiana è possibile visitare anche la Mostra permanente Le carte manoscritte di Emilio Villa.

QUI si può scaricare un dossier di contributi sulla Poesia Visiva.

Museo della Carale
Via Miniere 34, Ivrea
Info: 0125 – 612 658
Ingresso alle mostre gratuito
Fino al 17 aprile ‘16


Last words (1)


Ha scritto Albert Camus nelle prime righe del suo ‘Mito di Sisifo’: “Vi è solo un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”.

Il suicidio: negazione di ogni ierofania, affermazione del sublime nel profano, virtù assurda e vizio postremo, è motivato da varie occasioni, praticato con plurali mezzi, accomuna però donne e uomini diversi fra loro. Ma tutti uniti da un unico improvviso lucore che illumina realtà tanto profonde più di quanto possa darne un lampo acidista.
Si nasce suicidi o si diventa? Chissà. Forse un giorno la genetica risponderà anche a questa domanda, al momento possiamo affidarci soltanto a versioni personali dell’intuito umano sui destini di noi umani.
Versioni che in filosofia hanno visto nei secoli posizioni di condanna e di favore. Per citare solo due, opposti, esempi, ricordo Schopenhauer, contrario al suicidio, il quale scrive: “Il suicida vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate”. Mentre Nietzsche afferma: “Muori al momento giusto [...] Io lodo la mia morte che giunge perché la voglio io".

Su questo tema fatale la casa editrice Skira ha stampato: Last words, un libro strepitoso di cui è autore Gabriele Tinti.
Si tratta, com’è detto nella presentazione editoriale, di “un unico, lungo, doloroso, commovente poema della realtà, le ultime parole di persone comuni che hanno scelto di suicidarsi”.
Parole che compongono found poems, qui ready-made d’oggetti verbali lasciati sulla soglia dell’abisso.
Altro che romanzetti e poesiole: uomini con gli scherzi qui è finita.
Una delle corde poetiche di Tinti, autore finissimo, è tratta anche dalle 12 che fanno un ring perché alla boxe ha dedicato parte della sua opera.
QUI ne spiega il perché e QUI Franco Nero legge “Il pugile”.
Le sue poesie sono state lette, inoltre, da Alessandro Haber, Michael Imperioli, Burt Young, Edoardo Ballerini, Robert Davi, e in questo video dall’attrice Silvia Calderoni, Premio Ubu 2010.

Quanto avete appena sentito – se lo avete sentito – nel link precedente, ci riporta a “Last words”, libro che si avvale di una selezione di fotografie di morti per suicidio tratte dalla serie “The Morgue” del fotografo americano Andres Serrano.
Il volume reca una prefazione di Derrick de Kerchkove e una postfazione di Umberto Curi.

Mi piace citare le parole conclusive di Tinti nella sua Introduzione: ”In proximo mors est”, la morte è nelle vicinanze, è immanente alla vita, ci ammonisce Seneca. “La Legge eterna non ha fatto niente di meglio che questo: ci ha dato un solo modo di entrare nella vita, ma molte possibilità di uscirne

Segue ora un incontro con Gabriele Tinti.


Last words (2)

A Gabriele Tinti (in foto) ho rivolto alcune domande.
Come nasce questo libro?

“Last words” è stato il naturale sviluppo dal mio lavoro sulla morte, come prosecuzione delle mie poesie con a tema i pugili e le loro sconfitte, spesso i loro suicidi, talvolta i loro omicidi. Tuttavia mentre nelle mie poesie sulla boxe, pur trattando di fatti reali, c’è la mia scrittura, questo libro è una vera e propria raccolta di found poems anche se, a dispetto della tradizione della poesia concettuale, manca qui il compiacimento, la “leggerezza” del puro gioco letterario. Qui il disegno di regia è crudo, esistenziale, emotivo, drammatico: restituire il lirismo degli istanti ultimi. In questo libro ho voluto mantenere per me un ruolo che potrei dire “lieve” d'una regia la cui unica invenzione è stata pensare, ideare quest'opera. Alla preliminare ricerca ha fatto poi seguito la composizione delle ultime parole dei suicidi in una collettanea, in un unico, lungo, doloroso, commovente, poema della realtà.

Come ti sei procurato i testi dei suicidi?

La ricerca è avvenuta per lo più online e attraverso i quotidiani che citavano i tragici accadimenti e le parole che lo anticipavano. Nell’era dei socials le ultime parole scritte su carta, i biglietti di addio come ancora ce li figuriamo, non esistono più. Facebook e Twitter sono state necessariamente le fonti principali di questo lavoro.

Perché hai scelto di pubblicare estremi messaggi solo di suicidi di lingua inglese?

In realtà i messaggi sono stati presi in tutte le lingue e poi tradotti. Ve ne erano alcuni anche in lingua italiana ma per lo più, come dici, li ho trovati nei socials e nei giornali appartenenti al mondo aglossassone.

Perché – come affermi nel libro – il suicidio è oggi considerato una colpa come mille anni fa?

Perché è sempre stato considerato un atto di ribellione, un atto “contro”. Distaccandosi improvvisamente dal flusso collettivo della vita - dalla catena continua d’affezioni e d’amore – coloro che scelgono la libera morte si isolano ponendosi contro la società, contro la teologia, contro la scienza. Trasgredendone le leggi scelgono l’egoismo, ripiegando su se stessi si annullano e, annullandosi, rifuggono da qualsivoglia controllo. Lacerando ogni rapporto sperimentano il proprio limite, realizzano la propria volontà di tragedia, il proprio destino. Queste parole sono vere, sono vero turbamento. Sono sangue, sincerità, fiamme, e ci mostrano come la maggior parte degli uomini diventi lirica “quando la vita dentro di noi palpita ad un ritmo essenziale, quando ciò che stiamo vivendo è talmente forte da sintetizzare il senso stesso della nostra personalità” (E. Cioran). Perché “il lirismo assoluto è quello degli istanti ultimi”, quello che va “al di là della poesia, del sentimentalismo”, quello che “risolve tutto nel senso di morte” (sempre seguendo Cioran). Questo libro ci riporta invece lì, ci inchioda all'oscenità. Riesce a farlo perché non c’è finzione, non si mente.

Concludi il tuo intervento nel libro con una citazione, che ho ricordato prima, del suicida Seneca. Ti riconosci in quella posizione filosofica?

Certamente la possibilità di fuggire da questa vita è una nostra grande libertà e possibilità. Non per questo è semplice farlo. Quello che si capisce leggendo queste parole è che esistono pochissimi percorsi sereni e consapevoli verso una decisione così cruciale. Questo libro ci riconduce alla profonda comprensione dell'esistenza come destino di sofferenza. Comprensione dell'ineluttabilità del patire, della nostra impotenza al dolore, dell'impossibilità di replicarvi, di sapere di dover subire. Di essere esposti e di dover resistere.

Gabriele Tinti
Last Words
Immagini di Andres Serrano
Prefazione di Derrick de Kerkhove
Postfazione di Umberto Curi
Traduzione di Anna Maria Farinato
Pagine 92, Euro 17.00
Skira Editore


Cyberbulli al tappeto


Tra i meriti della casa editrice Editoriale Scienza c’è quello di fare libri sì indirizzati ai ragazzi (indicando anche l’età cui è stata particolarmente pensata la pubblicazione), ma, non di rado le sue pagine sono utili anche a chi ragazzo non è più e semmai è già genitore che regalando il volume ai suoi figli può trarre qualche utile informazione da un’occhiata proprio a quelle pagine.
È il caso, ad esempio, di Cyberbulli al tappeto Piccolo manuale per l’uso dei social, di Teo Benedetti e Davide Morosinotto.
Il libro è di grande attualità perché si sa che Internet accanto ai suoi indiscutibili pregi – essendo, dopo quella di Gutenberg la più grande rivoluzione nella trasmissione del sapere – qualche pericolo inevitabilmente presenta poiché permette, specie ai giovanissimi, d’entrare in contatto con malintenzionati.
Il Censis, in collaborazione con la polizia postale, ha effettuato una ricerca rilevando che in metà delle scuole i presidi hanno dovuto affrontare episodi di cyberbullismo, nel 10% di sexting (l’invio di foto o video sessualmente espliciti) e nel 3% di adescamento online. E nel 51% dei casi si sono dovuti rivolgere per questo alla polizia. Nonostante ciò i genitori tendono a sminuire il fenomeno. È quanto è venuto fuori nella prima fase dell’indagine «Verso un uso consapevole dei media digitali». In particolare, secondo il 77% dei 1.727 presidi delle scuole medie e superiori che hanno risposto al questionario, Internet è l’ambiente dove avvengono più frequentemente i fenomeni di bullismo, più che nei luoghi di aggregazione dei giovani (47%), nel tragitto tra casa e scuola (35%) o all’interno della scuola stessa (24%).

“Cyberbulli al tappeto” è un manuale che elegantemente si dice “piccolo” nel sottotitolo, ma indica – giovandosi anche delle efficaci illustrazioni di Jean Claude Vinci – tutto quanto, in modo credo esaustivo, si possa fare per difendersi dai pericoli che s’incontrano durante una navigazione in Rete.
Prima scrivevo che il libro può essere utile anche a qualche adulto (e la ricerca del Censis conforta quest’ipotesi) questo accade perché spesso succede che i genitori siano meno preparati dei figli che appartengono alla generazione detta dei nativi digitali.
Generazione abile a manovrare le nuove tecnologie, ma, come comporta la giovane età, assai curiosa e talvolta spericolata.
Ecco perché “Cyberbulli al tappeto” è un libro utile, necessario, che potrà vedere accolti i suggerimenti che contiene poiché proposti in modo ludico e semplice destinandolo ai ragazzi che sanno come agire sulla tastiera per montare un programma di difesa oppure smascherare chi nasconde la propria identità e colpire in forma anonima.
Inoltre, il coloratissimo volume, si trattiene in modo convincente su di un altro tema non di minore importanza: perché non bisogna diventare un cyberbullo.

Per uno sguardo alle pagine, cliccare QUI.

Teo Benedetti – Davide Morosinotto
Cyberbulli al tappeto
Illustrazioni di Jean Claude Vinci
Pagine 96, Euro 13.90
Editoriale Scienza


American Horror Story (1)


Il 5 ottobre 2011, sulla rete via cavo FX, fu mandata in onda la prima puntata di “American Horror Story”, una serie tv destinata a essere uno dei maggiori successi di quel genere tv da alcuni defininito come la forma del romanzo dei nostril tempi.
In Italia, quella serie debuttò il 31 ottobre 2011 sul sito internet di Fox, canale televisivo della piattaforma pay satellitare Sky.
In chiaro, poi, va in onda dal 3 febbraio 2013 su Deejay TV.

QUI un ghiotto sito web.

Le Edizioni Mimesis hanno mandato nelle librerie un ottimo volume che della serie fa una mappa di quel labirinto sia sul piano narratologico sia su quello produttivo. Titolo: American Horror Story Una cartografia postmoderna del gotico americano.
L’autore è Federico Boni che nell’Introduzione precisa inoltre che nelle pagine la serie verrà contestualizzata all’interno del contesto dell’horror televisivo (in prospettiva sia diacronica che sincronica), sottolineandone le principali e più caratterizzanti linee di continuità e di rottura rispetto all’offerta del “gotico televisivo”.
Boni insegna Sociolinguistica e Metodi e tecniche della comunicazione all’Università degli Studi di Milano, dove presiede il corso di laurea in Comunicazione e Società.
È stato Visiting Fellow presso la Griffith University e Guest Lecturer presso la University of Southern Queensland, Australia. Tra i suoi volumi: Il corpo mediale del leader (2002), Etnografia dei media (2004), Men’s Help (2004), Media, identità e globalizzazione (2005), Teorie dei media (2006), Sociologia della comunicazione interpersonale (2007).

Dalla presentazione editoriale.
“American Horror Story è la serie televisiva che dal 2011 sta tenendo inchiodati al piccolo schermo cultori del genere horror e appassionati dell’American Gothic. Quattro stagioni trasmesse finora, ognuna con trama, ambientazione e personaggi diversi, ma accomunate da una tonalità inconfondibilmente gotica, imbevuta di riferimenti ai libri e ai film che hanno reso il genere uno dei più amati e seguiti degli ultimi anni. Federico Boni esplicita temi, intrecci e nessi, mostrando come la serie TV ideata da Ryan Murphy e Brad Falchuk si presti a diventare una preziosa mappa per orientarsi tra le diverse declinazioni del gotico americano. Una “cartografia postmoderna” per percorrere le polverose strade del Sud ed esplorare i demoni più cupi del nostro tempo”.

Segue ora un incontro con Federico Boni.


American Horror Story (2)


A Federico Boni (in foto) ho rivolto alcune domande.
E’ possibile rintracciare origini di American Horror Story nella letteratura gotica Americana?

Sì, senz’altro. American Horror Story gioca continuamente con rimandi alla letteratura gotica americana. Lo fa con la sua sensibilità tipicamente postmoderna, naturalmente – e del resto lo stesso postmoderno è una sorta di zombie, un cadavere scomodo della nostra cultura che viene sempre dato per morto ma che torna barcollante a infestare la cultura dell’Occidente, e non solo.
Per cominciare, va detto che la letteratura gotica americana è più “sfuggente” di quella europea: non dispone di un canone consolidato come quella del Vecchio Continente, e per di più gioca a smantellarne le regole e le convenzioni. Questa sua caratteristica è del tutto in linea con lo spirito di American Horror Story, che cita in continuazione – sovvertendone e deformandone i codici stilistici e narrativi – autori “grandi” e “piccoli” del gotico americano, da Poe a Hawthorne, da Updike a Morrison, fino ad arrivare al King di ‘Shining’ nella quinta stagione. Case stregate, manicomi, streghe, freak e hotel maledetti sono parte integrante della storia letteraria del gotico americano, e American Horror Story prende questi “topoi” narrativi e ce li presenta come all’interno di un caleidoscopio impazzito
.

Qual è l’unicità che ha reso American Horror Story tanto famoso?

A mio parere sono due gli aspetti che rendono American Horror Story una serie a suo modo unica: la particolare struttura narrativa delle diverse stagioni, e la sensibilità spiccatamente “camp” che la contraddistingue.
American Horror Story si distingue tra le altre serie per la sua antologicità “stagionale”: è una serie antologica, come poteva esserlo un cult come ‘Ai confini della realtà’, ma a differenza delle serie antologiche tradizionali i “racconti” che presenta non durano un solo episodio, ma un’intera stagione. In questo modo, American Horror Story riesce ad adattare la propria struttura alle nuove modalità di visione tipiche dell’“era di Netflix”, in cui è possibile guardare più episodi uno di seguito all’altro senza dover aspettare la settimana successiva per la nuova puntata. Gli americani hanno anche trovato un’espressione per definire questa nuova modalità di consumo della serialità televisiva: il “binge watching”!
Quanto poi all’atmosfera camp, credo che appaia fin troppo evidente come ogni stagione spinga sempre più l’acceleratore verso un’estetica raffinata e splatter, sofisticata e trash, barocca e pop; il suo amore per la teatralità e l’artificio, spinti fino ai limiti del grottesco (ma sempre consapevole), è una vera e propria cifra stilistica di tutta la serie
.

Gli episodi di American Horror Story sono stati realizzati da più registi. In virtù di quale meccanismo sono tanto compatti stilisticamente da sembrare frutto di un solo autore?

La cifra stilistica di una serie è data dall’ideatore – nel caso di American Horror Story, Ryan Murphy e Brad Falchuk. Anche in quella che viene universalmente considerata come una delle serie televisive più “autoriali”, ‘Twin Peaks’, solo pochi episodi erano stati effettivamente girati da David Lynch, eppure tutte e due le stagioni erano percepite in maniera molto netta come un prodotto in tutto e per tutto “di” David Lynch. Lo stesso vale per American Horror Story. In genere l’ideatore gira l’episodio pilota e alcuni degli episodi più significativi, lasciando a maestranze di grande professionalità la regia degli altri. Se l’autore riesce a mantenere la stessa atmosfera all’intera stagione, tutti gli episodi – pur nelle differenze stilistiche e negli apporti personali dei singoli registi – risulteranno sufficientemente compatti sia narrativamente sia stilisticamente.

In che cosa le serie tv, si differenziano come linguaggio da altri prodotti televisivi che vedono sì i protagonisti alle prese con varie, diverse, avventure ma tutte concluse in un solo episodio?

Le serie tv le cui vicende non si concludono in un singolo episodio possono contare – dal punto di vista del linguaggio e dei codici narrativi e stilistici – su una maggiore possibilità di approfondire situazioni e personaggi, con una capacità introspettiva che la durata di 45 minuti ovviamente non permette. Nel caso di American Horror Story questo potrebbe risultare in un’arma a doppio taglio, perché l’horror è un genere che gioca molto su atmosfere e sensazioni che spesso sono legati all’attimo, al momento, e che è difficile reiterare su una lunga durata. Credo che la decisione di fare di American Horror Story una serie “antologica stagionale” abbia molto a che fare con questo problema: potrebbe essere il risultato di un compromesso dove si salva lo specifico dell’horror (che anche nella tradizione letteraria ha dato il proprio meglio spesso nei racconti brevi) e lo specifico della serialità, caratterizzato dalla capacità di restituire una definizione più articolata e profonda di personaggi, situazioni e ambienti.

Chiudo queste note proponendo alcuni minuti shakerati ancora in compagnia d'immagini da American Horror Story.

Federico Boni
American Horror Story
Pagine 126, Euro 12.00
Mimesis Edizioni


La rimozione


Anni di piombo: una dizione adottata dai media traendola dal film così intitolato di Margarethe von Trotta, Leone d'Oro alla 38ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Tanti I libri e i siti web dedicati alle vittime che si ebbero in quegli anni in Italia, ma in quei tristi elenchi mai è ricordato il nome di Giuseppe Tavecchio, il pensionato che mentre occasionalmente attraversava una strada milanese fu ucciso da un candelotto sparato da un poliziotto. Non era un manifestante, non era un terrorista, non era un militare, quindi, secondo una logica brutalmente burocratica la sua morte non è da rubricare tra le vittime italiane degli anni di piombo.
Per fortuna della Verità – dea quanto mai negletta circa la storia di quegli anni – uno scrittore ha destinato un suo lavoro a quella sfortunata figura
Lo scrittore è Andrea Kerbaker, il libro – pubblicato da Marsilio – è intitolato La rimozione Storia di Giuseppe Tavecchio, vittima dimenticata degli anni di piombo.

Kerbaker, milanese, nato nel 1960, è autore di narrativa e saggistica.
Tra i suoi titoli (li ho cari nella mia piccola biblioteca): il racconto lungo Diecimila e Lo scaffale infinito, dedicati alle molteplici storie dei libri, come i suoi articoli per «Sette», il Domenicale del «Sole 24 Ore» e la Kasa dei Libri, lo spazio culturale cui ha dato vita a Milano.
Da sempre attivo nella valorizzazione del patrimonio culturale, tema al centro di un corso magistrale alla Cattolica di Milano e di editoriali per il «Corriere della Sera», vive a Milano con la moglie e i tre figli, che “nel 1972” – è scritto in una sua biografia – “ancora non c'erano, ma sanno bene che molti dei nodi insoluti del presente vanno ricercati nelle storie di quel caotico periodo storico”.
QUI un'intervista per fare la sua conoscenza.

Dal quarto di copertina.
“Nel marzo del 1972, un pomeriggio di sabato, Giuseppe Tavecchio, milanese, sessant'anni, pensionato, se ne esce a fare una commissione. A Milano è una giornata di scontri violentissimi tra i manifestanti dell'ultrasinistra e la polizia, con disordini che si protraggono per ore e devastazioni diffuse, incluso l'incendio di alcuni locali della sede del Corriere della Sera in via Solferino. Tavecchio passa dal centro durante una pausa dei tumulti; quando, alle cinque e dieci, insieme ad altri pedoni attraversa piazza della Scala, pare un momento di calma. Se non fosse che all'improvviso, senza alcuna ragione comprensibile, da una camionetta della polizia partono alcuni lacrimogeni verso quel gruppetto di persone inermi. Un candelotto, sparato ad altezza d'uomo, raggiunge al collo Tavecchio, che morirà tre giorni dopo senza aver ripreso conoscenza. È una vicenda tragica, che tutti dovremmo conoscere e ricordare. E invece no; perché uno che muore in questo modo non trova nessuno che abbia interesse a perpetuarne la memoria: ovviamente non lo Stato, che, per averne causato la morte, vuole soprattutto farlo dimenticare; non la politica, perché - se i militanti caduti negli scontri si onorano continuamente nel ricordo - sui passanti ammazzati per sbaglio, inutili alla causa, si sorvola con elegante indifferenza; e non i media, visto che un morto così fa ben poca notizia. Sicché ancora oggi il nome di Tavecchio è pressoché assente nelle cronache di quei giorni, comprese quelle in rete; e a ricordarlo non c'è neppure una lapide, di quelle che a Milano rievocano tutte le vittime del periodo, in un lungo cammino di lutti, rimpianti e dolori che l'autore percorre senza eccezioni. È una storia che tra i suoi comprimari vede anche tanti protagonisti di quell'epoca - dal commissario Calabresi a Giovanni Spadolini, da Pasolini a Marco Bellocchio - ma al centro ha solo lui, il pensionato Tavecchio, con la sua vita dall'esito drammatico che questa ricognizione a tappeto ha permesso di ripescare dall'anonimato”.

Andrea Kerbaker
La rimozione
Pagine 126, Euro 15.00
Marsilio


I mondi di Miyazaki (1)

Ha compiuto 75 anni in questo 2016 Hayao Miyazaki (Tokio, 5 gennaio 1941).
Per saperne di lui, oltre al link precedente, si possono avere altre notizie cliccando QUI dove si trova un servizio che Wired ha dedicato al grande regista giapponese indicando alcune curiosità sulla sua vita e sulla sua opera.
Oggi Cosmotaxi segnala un libro scritto da un nipponista già altre volte ospite di questo sito: Matteo Boscarol, ottimo curatore di un recente volume pubblicato dalla casa editrice Mimesis: I mondi di Miyazaki Percorsi filosofici negli interessi dell’artista giapponese.
Contiene saggi, come in ordine di successione dell’Indice, di Alberto Brodesco – Marcello Ghilardi – Andrea Fontana – Marco Casolino – Luigi Abiusi – Roberto Terrosi – Massimo Soumaré.

Boscarol vive in Giappone, è saggista e critico cinematografico, scrive di cinema per “il Manifesto” e per alcune riviste in rete. Ha curato "Tetsuo: The Iron Man". La Filosofia di Tsukamoto Shin'ia (2013), ed è intervenuto in volumi monografici su Satoshi Kon, Oshima Nagisa, Sono Sion (Il signore del caos) e con due saggi in “World Film Locations: Tokyo” (2011) e “Agalma” n. 16 (2009). Collabora con il Festival di Lucca come corrispondente dall’Asia.
Al momento è impegnato nella stesura di un volume sulla storia del documentario giapponese.

Dal quarto di copertina:
“Questa non è la storia del più grande regista d’animazione vivente e neanche il racconto cronologico dei suoi successi cinematografici, che hanno battuto ogni record di incassi nelle sale giapponesi. Matteo Boscarol, studioso della cultura giapponese e critico cinematografico, cura un volume dove viene scelta un’altra via.
I saggi presenti nel libro intrecciano e sviluppano infatti varie problematiche, discorsi e pratiche filosofiche presenti nelle opere del regista. Dal concetto di ucronia e quello pacifista alla presenza divina in “La principessa Mononoke”; dal significato della tecnica fino al rapporto fra natura e scienza lungo tutta la sua carriera, con particolare attenzione a quello che rimane l’ultimo lungometraggio del maestro: Si alza il vento”.

QUI il trailer italiano del film “La città incantata” (2001), Orso d'Oro e Premio Oscar, primo e finora unico cartone animato giapponese ad aggiudicarsi tali premi.

Segue ora un incontro con Matteo Boscarol.


I mondi di Miyazaki (2)

A Matteo Boscarol (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come chiarisci nella Prefazione, l’intento del volume è studiare del regista nipponico “sia singoli lavori, o un insieme di essi, da un punto di vista filosofico”.
Cosa questa che assai bene contrassegnò anche il tuo libro su Tsukamoto Shin’ya.
Faccio la stessa domanda che, allora per Shin’ya, ti rivolsi: è possibile, oppure no, avvicinare l’essenza dell’opera di Mijazaki al pensiero di qualche filosofo occidentale?

Direi di no, nel mio modo di intendere, il termine "filosofia" non significa solo filosofo, anzi come con Tsukamoto ma forse di più qui con Miyazaki, mi interessava de-autorializzare la produzione di Miyazaki. Certo la sua firma ed il suo tocco sono molto forti e ineludibili, ma ciò che mi premeva intercettare - o meglio, ciò che speravo che gli autori chiamati ad intervenire facessero e sono stati bravissimi a farlo - era intercettare idee, problematiche e/o faglie di pensiero che attraversano l'opus di Miyazaki, qualcosa che scaturisca cioè non solo dalla persona Miyazaki in quanto genio, ma da una serie di relazioni complesse in un dato periodo: momento storico-Miyazaki-Studio Ghibli-musiche-pubblico, eccetera, solo per farti un esempio.
Ma questa è solo una mia visione, magari scandagliando ogni singolo saggio il lettore riuscirà a trovare un filosofo o una corrente filosofica assimilabile al nostro. Buona caccia
.

Qual è la posizione di Mijazaki di fronte alle religioni?

Penso che in alcuni lavori si rispecchi una sua certa posizione "religiosa" verso il mondo. Principessa Mononoke, La città incantata, Nausicaä della Valle del vento ed Il viaggio di Shuna sono forse i lavori dove questa visione è più manifesta ed evidente. Nel caso specifico di questi titoli, si può certamente dire che Miyazaki sia interessato alle pratiche shintoiste e come esse si relazionino con quelle buddiste, anche se si tratta di pratiche e modi di intendere la realtà che operano un certo scarto, piuttosto forte, rispetto allo Shintoismo ufficiale. Il tema mi sembra venga approfondito abbastanza bene nei saggi di Roberto Terrosi su Principessa Mononoke e Massimo Soumaré su Il viaggio di Shuna.

Mijazaki, restando pacifista, ambientalista, sostenitore del movimento sindacale e delle tesi femministe, nel 1984, si distaccò dal marxismo.
A tuo avviso, quali furono le ragioni che lo portarono a decidere in quel senso?

Non saprei proprio rispondere a questa domanda, posso solo dirti che le spinte rivoluzionarie che sconvolsero e cambiarono il Giappone fra i sessanta ed i settanta, anche, se non soprattutto, nel mondo artistico-culturale, cominciarono a perdere forza a metà dei settanta, per dissolversi quasi completamente all’inizio del decennio successivo. Le scelte personali di Miyazaki potrebbero esser state influenzate anche dall’epoca e dai cambiamenti che il tempo ha portato con se.

Esiste una differenza fra il Mijazaki dei lungometraggi e quello dei cortometraggi?

Come nel libro ho tentato di spiegare nel mio breve pezzo conclusivo, la fruizione dei cortometraggi influenza molto l’idea che ce ne facciamo, essendo essi visibili solo all’interno del Museo Ghibli e non potendo quindi ritornarci per esaminarli come con i lungometraggi, è chiaro che si tratta di qualcosa di più difficile analisi.
Comunque sia, quello che ho potuto notare è che spesso i corti rappresentano una sorta di laboratorio dove provare nuove tecniche o approcci diversi che poi Miyazaki avrebbe usato nei suoi lungometraggi, o ancora, libero da pressioni narrative, Miyazaki si può qui sfogare con toni più scanzonati e leggeri. In questo senso sarà interessante vedere come sarà Il bruco Boro, il suo nuovo lavoro, un corto appunto, in uscita nel 2018 e che sarà realizzato interamente in CG
.

I mondi di Miyazaki
A cura di Matteo Boscarol
Pagine 118, Euro 12.00
Mimesis


Come viaggiare con un salmone

Da quindici anni, cioè da quando esiste questo sito, è tradizione della sezione Cosmotaxi inaugurare l’anno con una nota dedicata a un personaggio femminile.
Per il 2016, il 2 gennaio, scelsi la figura di Elisabetta Sgarbi, scrittrice e regista; una donna che riassume in sé le doti di artista e manager.
QUI il suo website.

Ha ideato e dirige dal 2000 la famosa rassegna culturale La Milanesiana, è stata direttrice editoriale della Bompiani per 25 anni fino a quando nel novembre del 2015 con la nascita della “Mondazzoli” decise di andare via e fondare un nuovo marchio: La nave di Teseo.
Compagni di navigazione: Mario Andreose, Furio Colombo, Eugenio Lio, Anna Maria Lorusso, Edoardo Nesi, Sergio Claudio Perroni, Sandro Veronesi.
Fin dall’ideazione del nuovo marchio, dal nome dato all’editrice (ispirandosi a un passo delle Vite Parallele di Plutarco), c’è stata la sapiente e sfavillante presenza di Umberto Eco e, levata l’ancora dal porto, la prima uscita della nave di carta ha portato nelle librerie, proprio di Eco, Pape Satàn Aleppe.
Lo aveva finito, consegnato e corretto - dice Elisabetta Sgarbi - La copertina è disegnata dal suo amico Cerri. È un libro di saggistica, d’interventi su temi di attualità.

Altro libro del grande semiologo, romanziere, massmediologo, che La Nave di Teseo ha recapitato sugli scaffali è Come viaggiare con un salmone.
È un libro d’istruzioni malandrine per affrontare disagi e problemi che la vita ci propone ogni giorno. Perciò ogni istruzione comincia con l’avverbio “come”, ad esempio: “Come usare la cuccuma maledetta”, “Come smentire una smentita”, “Come riconoscere un film porno” e, naturalmente, ci sono consigli su quanto il titolo propone, cioè come viaggiare per paesi e alberghi con quel pregiatissimo pesce osseo dei salmonidi qualora ne acquistaste uno a Stoccolma (vi anticipo che potrebbe essere la vostra rovina morale e materiale).
Piccole tragedie descritte con l’inchiostro della farsa, momenti dell’esistenza dal ritmo slapstick, un libro godibilissimo che induce alla risata più che al sorriso; se poi vi sentite di cattivo umore o siete depressi, niente psicofarmaci o psicoterapie, acquistate “Come viaggiare con un salmone”, nei casi più gravi non vi garantisco la guarigione ma vi assicuro, come minimo, una sospensione dei malanni durante il tempo della lettura e parecchio tempo dopo.
Pagine scherzose, sì certamente. Tutte, però, volte a sferzare le tante ottusità che ci assediano e intossicano in ogni dove; soprattutto le mode e i tic del linguaggio: da quello offensivamente sciatto usato da tanti nella quotidianità a quello aggressivo e traditore dei media.

Umberto Eco
Come viaggiare con un salmone
Pagine 206, Euro10.00
La nave di Teseo


L'Ateo


Il bimestrale "L’Ateo" dell’Uaar - Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti - diretto da Francesco D’Alpa e Maria Turchetto nel suo più recente numero (104, in foto riprodotta la copertina) dedica largo spazio al tema Gender.
“La lotta al gender (ovvero la presunta ideologia gender, laddove il termine ‘ideologia’ viene usato nella sua accezione più dispregiativa) ” – scrive nell’editoriale D’Alpa – “occupa infatti in modo inquietante una considerevole parte del dibattito pubblico; viene insistentemente invocata nei giornali e nelle riviste di area cattolica; ma soprattutto è motivo di contesa all’interno delle istituzioni scolastiche di primo livello, perché è là che le pattuglie cattoliche appaiono più aggressive e meglio organizzate”.
Seguono articoli di Stefano Marullo, Enrica Rota, Michela Marzano, Graziella Priulla, Monica Lanfranco, Giuseppe F. Merenda, e un’indovinatissima rassegna sitografica di Maria Turchetto che esplora in modo esaustivo quanto in Rete si trova sulla voce Gender fornendo un utile strumento a chi studia l’argomento.

Segnalo anche un’ampia riflessione di Stefano Bigliardi sulle “Teorie del complotto”, un acuto intervento di Raffaele Carcano che riflette su “tre millenni di laicità debole” dal tiranno ateniese Crizia a Sheikh Hasina donna a capo del governo del Bangladesh, uno sguardo di Pierino Marazzani su scritti (alcuni dei quali densi d’ambiguità) di Togliatti, un resoconto dalla Mostra del Cinema di Venezia sui film presenti oltre “Spotlight” al quale la giuria dell'Uaar ha assegnato il Premio Brian.

Altri scritti ancora, recensioni di libri, vignette, lettere dei lettori, animano le pagine.

La rivista "L'Ateo" è in vendita nelle seguenti librerie al prezzo di 4.00 euro
QUI la lista delle biblioteche in cui è possibile leggere la rivista.


Ascolta le cicale

Questo sito non si occupa di romanzi né di poesia.
Il perché l’ho ripetuto parecchie volte, se – com’è vostro pieno diritto – ve ne siete dimenticati e del tempo ve n’avanza cliccate QUI.
Meglio di me, ovviamente, è detto in questa folgore di Manganelli: “Ogni libro che sia un 'romanzo' nasconde qualcosa di losco".
Qualche spazio lo dedico – con parsimonia – al racconto perché è arte difficile scrivere sul breve. Questo spiega il romanzo che sto per segnalare. Perché? Datemi un attimo e vi servo. Cominciamo dal titolo: Ascolta le cicale I diari delle panchine di Central Park, editore Greco&Greco.
L’ha scritto Cristiana Minelli, un’autrice capace in poche, vertiginose pagine di produrre godibilissimi racconti.
Per FUOCOfuochino Pacco di Natale (2011) e Il maestro di linfa ed io (2014); Il colombo è andato alla toilette (Greco&Greco, 2013).
Nata a Modena nel 1965, ha lavorato a Comix, il Giornale dei Fumetti e collaborato con quotidiani e riviste.
Nel 2005 ha vinto il Premio Letterario della sua città.
Riferisce l’editore nella bandella dedicata alla biografia dell’autrice: “Canta in un coro Gospel. Fa tutto di corsa, ripetendo ossessivamente il ritornello del coniglio bianco di Lewis Carroll: ‘È tardi! È tardi!”.

Ora si è misurata sulla narrazione di lunga distanza proponendo un romanzo d’intrigante struttura che beneficamente risente delle precedenti esperienze di scrittura sul breve. Perché si articola attraverso una serie di stazioni tra via crucis e via lucis, dislocate lungo un percorso metropolitano contenuto in Central Park, il più grande parco nel distretto di Manhattan.
Saranno le panchine di quel parco aperto nel 1856 a ospitare altrettanti racconti inanellati come gusci d’ostriche, che mai ospitarono perle, da un singolare clochard; il tutto con la capacità che ha la Minelli di fondere il surreale con l’icastico.
Una scrittura che procede per lampi, e forse non è un caso che il libro di 130 pagine sia diviso in ben 27 capitoli, ognuno dei quali pur ingegnosamente legato all’altro può – almeno così a me è sembrato – essere letto in modo anfibio anche come autonomo dagli altri.

Dal quarto di copertina.
“Fred Astaire, una delegazione dal Bangladesh interessata ai nuovi studi sul pettirosso delle Montagne Rocciose, Emily Dickinson, la Peace Industry e un pinguino col sombrero sono solo alcuni dei compagni di viaggio di Miles T. Salinger, un clochard (miliardario) che in un momento cruciale della sua vita ha scelto di spostare la sua residenza da un appartamento di lusso a Park Avenue al cielo, qualche volta senza stelle, di Central Park, a New York.
In una Spoon River che non ti aspetti, sempre in bilico fra commedia e tragedia, il palcoscenico è tutto per le panchine del parco. Sullo schienale, come il messaggio in bottiglia di un naufrago alla deriva, una dedica racconta a chiunque abbia voglia di ascoltare storie di vita e di morte.
Sullo sfondo, la Vispa Teresa salta la corda dell’Equatore, Cromo Byron suona il clarinetto e un frac si specchia nelle acque del Lake, mentre all’ombra di piante secolari e macchie di bosso i sentieri custodiscono molti segreti.
Miles T. Salinger è la chiave per conoscere tutte le storie, a partire dalla sua”.

Cristiana Minelli
Ascolta le cicale
Pagine 136, Euro 11.00
Greco & Greco


8 Marzo


Cosmotaxi festeggia l’8 marzo segnalando una mostra che celebra questa data.
Prima, sul tema, voglio ricordare due momenti dedicati alla storia e alla letteratura.
Storia: Un video in cui Ida Camanzi (Ilonka) rievoca momenti della sua vita di partigiana.
Letteratura: un libro di Ester Rizzo intitolato Camicette bianche che ricostruisce una vicenda che vide vittime a New York 126 donne nella stragrande maggioranza immigrate, e fra loro 38 italiane.

È dedicata all’8 marzo, al contrasto del maltrattamento delle donne, la mostra fotografica Amori dalla Cenere. Canto di Donna di Caterina Orzi in corso alla Biblioteca Palatina di Parma a cura della critica d’arte Stefania Provinciali.
Presenta 36 immagini fotografiche accompagnate da testi poetici.
Il progetto dell’allestimento è dell’architetto Tommaso Brighenti.
Parte del ricavato delle vendite sarà devoluto all’Associazione no-profit Onlus Centro Antiviolenza di Parma.
‹‹Non c’è luogo in cui il tema della lotta alla violenza contro le donne non debba trovare spazio. Perché la violenza non si combatte e non si denuncia soltanto l’8 marzo, ma ogni giorno. Costruendo una cultura del rispetto. Di tutti, per tutte››, così ha detto Marina Sereni, Vicepresidente della Camera dei Deputati inaugurando la mostra.
Negli anni il lavoro artistico di Caterina Orzi si è sempre più rivolto verso i temi sociali.
In questo video è con Lucia Annibali che fu fatta sfregiare con l’acido dal suo ex.
Con la pubblicazione “RicAmo” del 2004 ha reinterpretato le opere di Artemisia Gentileschi. Successivamente, ha pubblicato “Donne&Donne” protagoniste le donne della Sierra Leone durante la guerra dei diamanti e attraverso i loro volti ha creato storie di riscatto. Nel 2010 le “Cose non dette”, opere dedicate al linguaggio del corpo femminile.
Degli anni successivi sono gli autoscatti “Sulla mia pelle”, “Cronaca”, “Amori Senza”.

Ufficio Stampa Raffaella Ilari, mob:+39.333.43 01 603, email raffaella.ilari@gmail.com

Caterina Orzi
Amori dalla Cenere. Canto di Donna
Biblioteca Palatina di Parma
Strada alla Pilotta 3
Fino al 19 marzo ‘16


Uffizi Virtual Experience O.S.T.


Prorogata fino al 13 marzo la mostra Uffizi Virtual Experience a Milano, alla Fabbrica del Vapore, visto Il grande successo riportato da questa particolare esposizione con migliaia di visitatori. Si tratta di una carrellata immersiva e interattiva dedicata alla Galleria degli Uffizi di Firenze.
Valorizzare il nostro patrimonio culturale e creativo è l’idea alla base di questo viaggio audiovisivo e sensoriale in quattrocento anni di storia dell’arte italiana, grazie a multiproiezioni, immagini in movimento, musiche, agite dalla tecnologia di Uffizi Touch.
Per un assaggio audiovisivo, cliccare QUI.

Le musiche hanno avuto un ruolo di primo piano in questa digital exhibition non limitandosi ad un mero accompagnamento acustico ma sollecitando nel visitatore plurali emozioni. Questo perché alla pur attenta filologia dei suoni è stata unita una sensibilità musicale contemporanea che attualizzava le percezioni. Esperienza che ha convinto l’autore di questa colonna sonora a farne un album di 10 tracce dal titolo Uffizi Virtual Experience O.S.T.. L’autore è il musicista Roberto "lobbe" Procaccini.
Produttore di The Niro (per cui ha diretto l'Orchestra del Festival di Sanremo), autore di colonne sonore e musiche di scena per Arnoldo Foà, Giorgio Albertazzi, Carlo Lucarelli, Claudio Insegno, Maurizio Panici e molti altri in Italia e all’estero. Dopo i riconoscimenti ricevuti in Giappone con i Midinette, ora si confronta per la prima volta con le arti visive.

La finalità espressiva – spiega il compositore – è descrivere tante situazioni differenti: dalla battaglia fino al gioco. Sono passato quindi dai carmina burana al canto sacro, dalla grande orchestra al liuto e alla ghironda, sempre cercando di rispettare una linea compositiva in equilibrio fra tradizione contestuale (nel '300 ancora non era stata inventata l'armonia come la intendiamo oggi) e una modernità sonora di stampo cinematografico di avventura. Insomma, una sfida enorme e stimolante, da cui è nato un album contemporaneo che propone una sorta di suite divisa in dieci momenti, ricalcando la sceneggiatura della mostra stessa.

"Uffizi Virtual Experience O.S.T." sarà disponibile su tutte le piattaforme digitali da venerdì 11 marzo 2016.

Ufficio Stampa: HF4
Marta Volterra marta.volterra@hf4.it - 340.96.900.12
Marika Polidori marika.polidori@hf4.it - 339.14.30.275


Cerimonie & Artifici (1)

Festa di pagine e gioia di lettura per nuovi testi in libreria di uno dei maggiori scrittori del nostro ‘900: Giorgio Manganelli (Milano, 15 novembre 1922 – Roma, 28 maggio 1990).
Si tratta di Cerimonie & Artifici scritti raccolti da Lietta Manganelli e pubblicati dall’editore Nino Aragno.
Lietta, figlia unica dello scrittore (qui in foto col genitore), nata a San Secondo Parmense nel 1947, da anni va recuperando testi dimenticati o inediti del padre.
Inoltre, porta avanti con grandi sacrifici il Centro Studi Giorgio Manganelli dove ben si notano le imponenti e assidue cure che vi dedica da vent’anni.
Del Manga ha scritto: “Il proporre ipotesi, il “come se…” è sempre stato il fil rouge della sua tormentata esistenza e dei suoi forse “ipotetici” scritti […] mi viene il sospetto che, soprattutto da quando ha cambiato dimensione, anche Manganelli, sia diventato un’ipotesi, o forse lo sia sempre stato…".
A lei dobbiamo la cura di diversi testi, ne ricordo alcuni: Manganelli intervista Dio; Catatonia notturna; Album fotografico di Giorgio Manganelli; Circolazione a più cuori; Borborigmi di un'anima.
In tanti hanno scritto di Manganelli, ne cito uno che particolarmente stimo: Luca Tassinari.
Su letturalenta (suo prezioso blog purtroppo interrotto da tempo) si legge: La visione di Manganelli è un rovesciamento totale del modo in cui la lettura viene comunemente intesa. Quante volte, lettore, ti sarà capitato di sentirti dire che un libro va capito, che un testo va compreso? Comprendere e capire sono verbi che suggeriscono un’azione di contenimento. Secondo questa lezione diffusa e, ahimè, completamente irragionevole, il lettore dovrebbe contenere il libro, esserne margine e periferia, fornirlo di confini. Ma il libro, avverte Manganelli, è ‘illimitato’ e non tollera contenitore diverso da ‘tutti gli altri libri’. Non si può capire un libro ma solo essere capiti dal libro. Non si può comprendere un testo, o una parola, ma solo esserne compresi. Non si può leggere, ma solo essere letti. In questo senso il mistero della lettura è tutto in quell’essere nel libro.

“Cerimonie & Artifici” contiene articoli, recensioni, frasi sparse su teatro, cinema e televisione. Inoltre presenta una rarità: il tema d'esame di giornalista dello scrittore; una feroce stroncatura del film “Novecento” di Bertolucci.

Segue ora un incontro con Lietta Manganelli.


Cerimonie & Artifici (2)


A Lietta Manganelli ho rivolto alcune domande.
Qual era il teatro che piaceva a tuo padre e quale quello che meno gli andava a genio?

Un teatro da leggere, forse meglio ancora un teatro da scrivere, da solo, nel silenzio del suo studio, e poi rileggerselo, senza assolutamente pensare di condividerlo. Nel teatro niente pubblico, niente attori, niente di niente, ma il suono, il ritmo delle parole che circonda e crea un mondo. Un mondo non reale, ma il mondo del “come se”, il mondo di Manganelli.
Quando alcuni testi di “Centuria” furono messi in scena (si fa per dire) al Castello Sforzesco di Milano, benché io abitassi in quel periodo proprio a Milano, si guardò bene dal farmelo sapere. Quello era un padre che io “non dovevo” conoscere.
E dovetti aspettare che mio padre cambiasse dimensione per poter assistere a spettacoli scritti da lui, sempre guardandomi alle spalle, nel timore che arrivasse all'improvviso chiudendo furioso porte e finestre. Per ora non è ancora successo, ma io, che alcune opere sto cercando di mettere in scena, confesso, un po' di timore ce l'ho
.

Perché, sia pure con qualche rara eccezione, odiava la televisione?

Un ospite non invitato, cosa che mio padre non sopportava: il televisore era un ospite ingombrante e non invitato che mostrava ciò che voleva e che chiedeva attenzione. Come poteva Manganelli, che non apriva la porta alla propria figlia se arrivava inattesa e la mandava a dormire in altre case, non per mancanza d'affetto, ma perché i suoi tempi e la sua vita non potevano essere gestiti da altri.
A volte, ma molto poche, e a volte solo perché “non aveva capito”, accettava di frequentare la televisione, ma ansia, angosce, tensioni, tutto un quadro manganelliano assolutamente incontrollabile lo accompagnava fino alla fine.
L'unico o quasi, che riusciva a inchiodarlo davanti al televisore era un caro amico, che, addirittura, riusciva a fargli assistere a una partita di calcio. Ma io credo, anzi ne sono convinta, che mio padre accettasse di assistere alla partita con lui nell'assurda, e mai realizzata, speranza di vederlo “vincere” (in quel periodo la squadra del cuore dell'amico perdeva praticamente sempre). Probabilmente se l'amico avesse vinto, mio padre non sarebbe più andato ad assistere con lui alle partite
.

Qual era il suo pensiero sul cinema?

Scriveva mio padre sui suoi corsivi, poi raccolti nelle pagine di ‘Improvvisi per macchina da scrivere’, “Per anni ho ignorato il cinema: non era una scelta né estetica né morale; la lentezza dei miei archivi aveva escluso l'esistenza del cinema. Una volta andai al cinema a Campobasso: ne rammento ancora l'emozione e le immagini esotiche e avventurose, a colori. Campobasso è adatta per andare al cinema. Potrebbe costituire un centro di rieducazione per adulti alla fruizione del cinema”
Ma non si pensi che mio padre utilizzasse il cinema nel modo tradizionale: andava al cinema per mezz'ora, tre quarti d'ora. Una volta gli capitò la mezz'ora della pubblicità e del filmgiornale. Un incubo. A volte si incapricciava della mezz'ora vista e poi si metteva a braccare quel film, vedendolo, a pezzi, anche tre volte.
Mi ricordo la sua soddisfazione quando, tornando da un viaggio mi disse: “Hanno approfittato della mia assenza per definire che ‘Ultimo tango a Parigi’, a differenza di ‘Il Colonnello Buttiglione diventa Generale’, non è arte. La magistratura mi ha dato una via d'uscita. Niente recensioni, niente di niente”
Questo era il cinema per mio padre anche se non dimenticherò mai quella che per me resterà sempre la più bella definizione del cinema: “I cinema per me sono i bordelli delle pupille”
.

Giorgio Manganelli
Cerimonie & Artifici
Prefazione di Lietta Manganelli
Pagine 176, Euro 12.00
Aragno


Censura / Scrittura

Per ‘censura’, secondo il vocabolario, “s’intende il controllo della comunicazione o di altre forme di libertà (di espressione, di pensiero, di parola) da parte di una autorità”.
Autorità, però, che nel momento in cui prende a censurare diventa per niente autorevole. Recita, infatti, un aforisma di Giovenale: La censura risparmia i corvi e tormenta le colombe.
Per un’illustre firma dei nostri tempi, Giorgio Manganelli “Vi è una debolezza intrinseca nell’azione censoria, ed è l’impossibilità di definire i valori che essa dovrebbe tutelare […] Oggi, in una società in furibonda trasformazione, nessuna dottrina giuridica può definire in modo inequivocabile quel che sia un valore segreto come il «pudore» o un sentimento collettivo come la devozione alla patria. In questa situazione la censura ha sempre torto, anche se intende, poniamo, scoraggiare il cannibalismo”.

Alla censura è dedicato il numero 155 di nuova corrente rivista semestrale di critica letteraria e filosofica diretta da Stefano Verdino, pubblicata dalle edizioni Interlinea (visitatene il valoroso catalogo e non lasciatevi sfuggire l’angolo dedicato al grande Sebastiano Vassalli).

Questa la presentazione editoriale: “L'intreccio, millenario, di scrittura e censura è sempre intrigante sia per i mutanti annodi del tema, sia per i tanti tragitti e le tante storie che meritano di essere focalizzate e raccontate. La censura teatrale dell’Ottocento, i processi editoriali dell’età vittoriana, gli ultimi fuochi della congregazione dell’Indice, episodi della censura fascista e la poco nota vicenda censoria del Portogallo di Salazar: sono questi i diversi quadri che il presente volume di “Nuova corrente” offre alla storia (inesauribile) della partita di censura e scrittura. Altri aspetti e risvolti qui presi in esame riguardano le modalità odierne della lingua (tra parole proibite, vuote e false) e le implicazioni con la critica tra giudizio ed ermeneutica, con l’officina poetica e la dinamica dell’immaginazione, specialmente in Leopardi e Baudelaire”.

… la censura – scrive Verdini nell’Introduzione al fascicolo-libro curato con Luisa Villanel nostro Occidente ha come prima approssimazione un sapore d’”ancien régime”, una tinta inquisitoria e assolutistica, che il regime dell’opinione pubblica avrebbe poi liberato. In realtà la censura si alimenta proprio con una nuova linfa nel tempo dell’opinione pubblica. E noi abbiamo cercato, “per exempla”, di raccontare un po’ questa storia della censura-censura sui testi e delle sue varie incarnazioni.

Questo numero di nuova corrente contiene saggi sulla censura di Alberto Bentoglio – Francesca Bottero – Paola Cosentino – Alessandro Ferraro – Roberto Francavilla – Antonio Prete – Enrico Testa – Luisa Villa.

nuova corrente
numero 155
Censura/Scrittura
Pagine 152, Euro 25
Interlinea Edizioni


Terminal Text

Nel 2003, in occasione dei cinquant’anni della nascita del Gruppo ’63, uscì quello che credo sia tra i migliori saggi scritti su quel movimento letterario: Gruppo '63. Istruzioni per la lettura. Autore: Francesco Muzzioli.
Cosmotaxi nel corso di un’intervista sul libro gli chiese “Perché mai la parola “avanguardia” da tanti adesso è considerata una parolaccia?”.
Muzzioli rispose:L’avanguardia non piace, è chiaro, perché mette in discussione le nostre maniere consolidate di avvicinarci alla letteratura e all’arte, costringe ad andare al di là delle attese, ci fa vedere che è possibile osare anche ben oltre alle direttive del mercato. In questo qualcuno vede un atteggiamento aggressivo e ricorda che il termine “avanguardia” ha un etimo militare. Faccio tuttavia notare che anche il pacifismo e il femminismo, se vogliono cambiare profondamente atteggiamenti radicati nei millenni, devono avere una pars destruens, una punta polemicamente combattiva. E non faccio questi esempi a caso: perché oggi abbiamo davanti la ricerca di identità solide, cui il mercato (anche letterario) tiene il sacco; l’avanguardia è al contrario una decostruzione delle identità, che arriva fino alla fondamentale autocritica del soggetto.
Se non fossi ateo come sono, direi: parole sante.
Mi sono tornate alla mente leggendo, di Francesco Muzzioli, il suo più recente libro pubblicato dalle Edizioni Funambolo: Terminal Text, fiction & non che all’anagrafe letteraria si dichiara romanzoide allitterante, al posto dei tradizionali capitoli presenta moduli mobili, e si conclude con un’appendice scenica.

Muzzioli insegna Critica letteraria all’Università “Sapienza” di Roma.
Ha iniziato il suo lavoro negli anni Settanta, con il gruppo “Quaderni di critica”, puntando soprattutto l’attenzione sulle posizioni di avanguardia, di sperimentalismo e di scrittura alternativa, discutendole sulla scorta di una “teoria materialistica” della letteratura.
Ha pubblicato numerosi studi e lavori teorici comprendenti quadri complessivi come “Le teorie della critica letteraria” (Carocci, 1994). Recenti contributi sono la polemica sul degrado della critica in “Quelli a cui non piace” (Meltemi, 2008), la riproposta di un’analisi retorico-economica in “Letteratura come produzione” (Guida, 2010), e il manuale di primo approccio “L’analisi del testo letterario” (Empiria, 2012). Sulle tendenze in corso ha curato, per l’editore Fabio D’Ambrosio, l’antologia “La catastrofe della modernità, la modernità della catastrofe” (2009).
Come autore di testi creativi ha scritto poesia, narrativa e testi per il teatro. Le più recenti pubblicazioni sono la satira de “Il Corto la scorta le escort” (Le impronte degli uccelli, anche audiolibro nel sito La città e le stelle); “Verbigerazioni catamoderne” (Tracce); “Il richiamo del comunismo” (Robin); il libello Come smettere di scrivere poesia (su questo link troverete ulteriori sue notizie bibliografiche).

Come sanno quei generosi che frequentano le mie pagine web, questo sito non si occupa di romanzi né di poesia. Il perché l’ho ripetuto parecchie volte, se – com’è vostro pieno diritto – ve ne siete dimenticati e del tempo ve n’avanza potete cliccare QUI.
Meglio di me, ovviamente, ha detto Manganelli: “Ogni libro che sia un 'romanzo' nasconde qualcosa di losco".
Credo, però, che sia improprio (oltre che insultante) definire Terminal Text, un romanzo. È un raffinato esercizio di linguaggio, un saggio che si fa narrazione, un frammentato io scrivente.
Me ne occupo, quindi, con gioia alla faccia di chi usa il calamaio per minacciare con capitoli minatori la marchesa se alle cinque, tutti i giorni, non va dove la porta il cuore.
“Terminal Text” agisce su due cursori: la fantascienza e l’allegoria. Due mondi che Muzzioli conosce bene. Basti pensare a un suo saggio del 2007 intitolato “Scritture della catastrofe” dove traccia il panorama letterario della distopia e notando la differenza fra utopia e distopia scrive: L'utopia preferisce costruire il suo mondo ideale spostandosi di "luogo" (lo dice il nome stesso), la distopia ama piuttosto l'avanzamento temporale, tanto che si dovrebbe, a rigore, chiamare "discronia".
E in questa discronia si muovono in Terminal Text, cloni, mostri, androidi che pur provenendo da altri luoghi dell’universo e da altre epoche, hanno caratteristiche assai vicine al profilo dei nostri luoghi e del nostro tempo realizzando un’allegoria sociopolitica del nostro mondo.
Ancora una cosa che ho volutamente lasciato per ultima. Scrivevo che l’autore dichiara all’anagrafe letteraria questo suo lavoro come romanzoide allitterante. Ciò è dovuto al fatto che nella Premessa un certo Doktor Z’zum appartenente al glorioso De-writingation Group, ovviamente vocato a dissuadere dalla scrittura, imporrà un crudele esercizio oulipiano all’autore del testo “legare ogni parola ad un’altra mediante allitterazione di almeno tre lettere e in cotal guisa tuttavia raccontare la storia che gli venisse in mente”. Sarà esaudito. Questa è una delle occasioni – ma ce ne sono altre – che rende la lettura anche divertente cosa che mai si realizza nelle pagine scritte tre metri sopra il cielo oppure da qualcuno che si dice new, pure italian, e, come se non bastasse, anche epic.

Francesco Muzzioli
Terminal Text
Pagine 118, Euro 14.00
Funambolo Edizioni


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