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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, perň, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Io vivo altrove


Esistono libri che oltre ad essere scritti bene hanno anche un’altra qualità: sono libri necessari. È il caso del volume che presento oggi.
Lo ha pubblicato la casa editrice Laurana è intitolato Io vivo altrove L’autismo non si cura, si comprende.
Ne è autore Beppe Stoppa.
Professionista della comunicazione specialmente impegnato su temi sociali.
Nel 2015 ha pubblicato Inciampi di vita il primo libro dedicato alla Casa dell’Accoglienza Enzo Jannacci. Nel 2016 inizia la collaborazione drammaturgica con il Teatro Officina con il quale mette in scena, oltre a "Inciampi di vita", "Di Fuoco e di Vetro – La voce degli altri". Suo anche il monologo “Sono una donna fortunata” dedicato al Progetto Libellula

Come il sottotitolo avverte, il libro si occupa dell’Autismo.
Questo disturbo psichico “comprende una vasta gamma di tratti che possono apparire in una varietà di combinazioni presentando una serie di ritardi cognitivi da lievi a gravi ma va ricordato che chi ne è colpito presenta non poche volte lo sviluppo di un'abilità particolare e sopra la norma in un settore specifico”.
Ecco, ad esempio, casi famosi.
E cliccando QUI ancora altri casi di personaggi di secoli fa e di oggi.
Nei due link che ho citato ricorre la dizione ‘Sindrome di Asperger’, per saperne di più CLICK.
Il cinema si è spesso interessato all’autismo, ecco, ad esempio alcuni titoli e trailer.

Stoppa presenta una pluralità di casi e ha il grande merito di presentarli con forte partecipazione ma senza alcun pietismo. Ben lontano, ad esempio, di quando tempo fa vidi in una trasmissione televisiva che secondo le angosciose norme della tv del dolore praticava vie strappalacrime.
Nelle pagine di “Io vivo altrove” (titolo indovinatissimo) troviamo una scrittura scattante che accanto alla rispettosa attenzione di vari casi non trascura accenti polemici come quando troviamo “Le linee guida per l’autismo del 2011sono state completamente disattese dal settore pubblico e si sono registrati, con una variegata fioritura del settore privato di servizi, ‘modelli terapeutici’ poco strutturati rispetto alla domanda e alle necessità. In questa giungla, strane organizzazioni prendono vita ogni giorno. Per fare business, basta aggiungere il suffisso ‘terapia’ a qualsiasi forma d’attività. Nascono così le ippoterapie, le musicoterapie, le ‘salcazterapie (…) Spesso sono solo semplici attività di intrattenimento”.

Nella Prefazione Stefano Belisari più noto come Elio delle Storie Tese – che ha un figlio autistico – così scrive: “Un oceano di persone, qualche milione solo in Italia, bisognose di aiuto. Ma se pensiamo a tutte le famiglie la cui vita viene sconvolta dall’arrivo di un bambino autistico, questa cifra si triplica, si quadruplica. Viviamo circondati da persone autistiche, ma non ce ne accorgiamo. Sconvolta però non è il termine corretto, o quantomeno non è sufficiente a descrivere ciò che accade. Panico, preoccupazione, angoscia, paralisi. Ogni altra questione scompare, viene letteralmente inghiottita”.

Dalla presentazione editoriale.
«Sono tra noi ma vivono in un'altra dimensione, uno spazio tempo che a noi sfugge e che non comprendiamo e per questo, a volte, ci fanno paura. Sono gli autistici. L'autismo non è una malattia, non c'è una cura e non si guarisce, ma si vive. È una sindrome con la quale fare i conti tutta la vita, a volte con enormi frustrazioni, altre con sorprendenti rivelazioni. Ci sono autistici a basso funzionamento con limitatissime se non nulle capacità di interazione e quelli ad alto funzionamento, gli Asperger, che magari, grazie alle loro ossessioni, riescono ad eccellere in campi scientifici o artistici. Eppure, fanno parte tutti del medesimo universo. Il mistero dell'autismo è questo: una miriade di pezzi unici a comporre un mosaico infinito. L'autore racconta storie di famiglie, educatori, ragazze e ragazzi che vivono in questo universo parallelo e che sorprenderanno il lettore per la ricchezza aliena delle loro vite».

Ancora una cosa da segnalare. I diritti d’autore saranno devoluti alla “Fondazione Fracta Limina Onlus (Melegnano) e destinati alla realizzazione del “Progetto icaro”, un Centro polifunzionale che offra servizi specifici per persone con autismo e neurodiversità.

Ufficio Stampa dedicato:
Francesca Tamanini, tamanini.francesca@gmail.com – 348 - 06 75 148

……………………………..

Beppe Stoppa
Io vivo altrove
Prefazione di Elio
Pagine 328, Euro 18.00
Laurana Editore


Teatro di Roma

Su il sipario al Teatro Argentina e sulle altre ribalte collegate: India - Torlonia - Valle. .
All’Argentina è di scena Gregor Samsa ora protagonista nella traduzione scenica del celebre racconto La Metamorfosi di Franz Kafka.pubblicato nel 1915 e in Italia nel 1934.

Che brutto risveglio per Gregor!
Facciamoci guidare nella sua avventura dal germanista Luigi Forte .in questo video.
Non è solo Gregor a svegliarsi male, anche altri protagonisti di Kafka hanno problemi seri al loro destarsi, fateci caso anche in “Il processo” e “Il castello” cominciano male la giornata che poi, come accade a Gregor, non vedono schiarite col passare del tempo.
All’Argentina il famoso testo (dopo il debutto televisivo trasmesso da Rai 5), nella versione di Ervino Pocar, si avvale della regia di Giorgio Barberio Corsetti..
Quest’edizione giunge nutrita da un percorso di creazioni, suggestioni e linguaggi ibridi come l’esperienza del format Metamorfosi Cabaret allestito nel periodo di interruzione degli spettacoli dovuto all’emergenza sanitaria.

Estratto dal comunicato stampa
«Un classico della modernità che riletto oggi si fa racconto di grande contemporaneità, esplorando in maniera tragica e comica l’isolamento, la perdita di contatti, la patologia della depressione determinata dall’alienazione e dall’autoannullamento. Con una scrittura che coinvolge corpi e racconta una trasformazione fisica che impatta sensi e linguaggio, lo spettacolo porta in scena la potente allegoria di una vita scandita da moti dell’animo, ritmi lavorativi, rapporti familiari e sociali, sovrapposizioni e incomprensioni, che racchiudono gli elementi della nostra esistenza: il tutto agito dalla compagnia di interpreti composta da Michelangelo Dalisi (Gregorio Samsa), Roberto Rustioni (Il Padre), Sara Putignano (La Madre), Anna Chiara Colombo (La Sorella Rita), e altri interpreti: Giovanni Prosperi, Francesca Astrei, Dario Caccuri».

“La metamorfosi” va in scena all’Argentina da martedì 3 a domenica 9 maggio.
Per il resto della programmazione CLIC.

Ufficio Stampa Teatro di Roma:
Amelia Realino: ufficiostampa@teatrodiroma.net
06.684.000.308 ###### 345.4465117


Piccole luci nell'universo


La casa editrice Longanesi ha pubblicato un libro originale e affascinante: Piccole luci nell’universo Storie e imprese di una cacciatrice di nuovi mondi.
Ne è autrice Sara Seager.
Astrofisica, insegna Fisica e Scienza planetaria al Massachusetts Institute of Technology. Le sue ricerche, che nel 2013 le hanno valso il prestigioso Genius Grant della MacArthur Foundation, hanno dato un contributo importante nel campo degli esopianeti.
Ha diretto la squadra dello Starshade Project della Nasa, e attualmente si dedica alla ricerca dei primi esopianeti di tipo terrestre e dei segni di vita che possono presentare.
Vive con il marito e i due figli a Concord, Massachusetts.
Il suo lavoro ha fatto scrivere al New York Times: “La donna che potrebbe scoprire un’altra Terra”, mentre la NASA l’ha definita “Un’astronomica Indiana Jones”.
Altre informazioni, fra le quali l’equazione da lei ideata per stimare il numero di pianeti abitabili nella galassia: QUI.

Perché ho definito il suo libro originale e affascinante?
Perché è un perfetto incrocio fra divulgazione scientifica e tracciato autobiografico.
L’affascinante materia trattata (gli esopianeti) e la (accidentata) vita vissuta dall’autrice trovano una perfetta visione, e interazione, a specchio.
Entusiasmo per le ricerche, il dolore della vedovanza, i traguardi scientifici raggiunti e gli interrogativi su se stessa sono tesi sulla corda di un equilibrio emozionante perché a tratti si teme che possa avvenire un cedimento causando qualche irreparabile conseguenza sugli studi o sull’esistenza stessa di Sara.
Anche perché qui si è lontani da romanzerie, non a caso l’autrice scrive in una nota che precede il testo: Questa è un’opera di non-fiction. Per quanto posso ricordare, tutto ciò che segue è vero. Quando possibile, i fatti sono stati controllati tramite fonti secondarie. Alcuni nomi sono stati modificati per proteggere l’identità di singole persone.

Nella ragionata speranza di trovare pianeti dove siano presenti forme di vita, Seager ci fa attraversare i cosiddetti ‘pianeti orfani’, luoghi degni di un girone infernale dantesco, dove da cieli neri, in un buio perpetuo, piove ferro fuso.
Alle ricerche scientifiche con quelle tremende visioni si alterna lo sconforto nel vedere il marito morente, così come nell’approssimarsi di un traguardo scientifico si avvicendano momenti in cui più forti si fanno i tentativi di risalire un’aspra china esistenziale.
Nessun spoiler se qui dico (lo scrive anche l’editore presentando il libro) che Sara Seager si risposerà e solo allora, nelle ultime pagine, apprenderà di essere autistica.

“Non credo sia un caso se c’è uno specchio nel cuore di ogni telescopio. Se vogliamo trovare un’altra Terra, significa che vogliamo trovare un altro ‘noi’. Pensiamo valga la pena di conoscerci. Vogliamo essere una luce nel cielo di qualcun altro. E finché continuiamo a cercarci a vicenda, non saremo mai soli”.

Dalla presentazione editoriale.

«Sara Seager è una delle più autorevoli voci mondiali nel campo dell’astrofisica. Ha persino inventato un’equazione che serve a stimare il numero di pianeti abitabili nella galassia. Se c’è una persona sulla Terra che può rispondere alla domanda «C’è vita nell’Universo?» quella è lei, che ha trascorso la sua esistenza superando i confini del sistema solare per studiare gli «esopianeti».
Ci sono tuttavia altri campi in cui la sua competenza è meno brillante, ad esempio l’empatia e l’abilità sociale. Questo perché Sara è affetta da un disturbo dello spettro autistico ma, come molti, ha ricevuto la diagnosi solo da adulta, dopo una vita incessantemente vissuta sfidando i propri limiti. Tutto ciò non le ha impedito di fare carriera, di innamorarsi, sposarsi e avere due figli. Quando però suo marito muore all’improvviso il mondo di Sara rischia di essere inghiottito da un dolore più profondo dei misteri del cosmo. La crisi che la travolge, un po’ alla volta, le rivela ciò che nemmeno l’esplorazione di mondi lontanissimi le aveva insegnato: nessuno può fare tutto da solo.
Sara andrà alla ricerca di vita negli spazi infiniti che si espandono oltre l’atmosfera terrestre, ma anche dentro di noi. Questa è la sua storia, di esplorazioni e rinascite».

Per un assaggio di lettura: CLIC.

Sara Seager
Piccole luci nell’universo
Traduzione di Alba Bariffi
Pagine 300, Euro22.00
Longanesi


Il genocidio (1)


La casa editrice il Mulino ha pubblicato un saggio di maiuscola forza sugli stermini di massa.
Nessuna meraviglia, il volume intitolato Il genocidio è firmato da un grande storico: Marcello Flores .
Ha insegnato nelle Università di Siena e Trieste. Fra i suoi libri con il Mulino: «Il secolo mondo» (2002), «Il genocidio degli armeni» (2005), «Storia dei diritti umani» (2008), «Traditori» (2015), «Il secolo dei tradimenti» (2017), «1968. Un anno spartiacque» (con G. Gozzini, 2018), «Cattiva memoria (2020).
Su questo sito mi sono occupato di altri suoi due titoli: La fine del comunismo e Bella ciao.

In “Il genocidio” ovviamente trova largo spazio la Shoah, la grande strage antisemita praticata dai nazisti. È bene, però, non dimenticare che in Italia Mussolini concorse alla strage varando leggi antisemite che furono controfirmate dal re Vittorio Emanuele III e per conseguenza permisero rastrellamenti e deportazioni. Ipocritamente chiamati “campi di smistamento”, ci furono campi situati a Borgo San Dalmazzo (Cuneo), Fossoli (Modena), Grosseto e Bolzano-Gries. Attraverso queste strutture i prigionieri venivano trasferiti nei lager in Germania. L’orrore in Italia raggiunge l’apice quando in Friuli Venezia Giulia, territorio annesso al Reich, viene creato nel comune di Trieste l’unico campo di sterminio italiano: la Risiera di San Saba.

Dalla presentazione editoriale
«Che cos’è un genocidio? Inventata nel 1944, la parola «genocidio» rappresenta un concetto a lungo discusso nella sua capacità di rappresentare la violenza di massa e tuttora, nonostante il diritto internazionale con la Convenzione del 1948 ne abbia sancito il significato, essa rimane un termine controverso, con una storia complessa che ancora continua a cambiare. Il libro segue la fortuna del termine in relazione alla Shoah, analizza i genocidi degli anni Novanta (Ruanda e Bosnia) e quelli del XXI secolo interrogandosi sulla possibilità di definire genocidi i massacri avvenuti nella storia, e mostrando infine il carattere fondamentalmente politico oltre che giuridico di questo che Churchill chiamò, prima dell’invenzione del termine, il «crimine senza nome»».

Segue ora un incontro con Marcello Flores.


Il genocidio (2)

A Marcello Flores (in foto) ho rivolto alcune domande

Quale la principale motivazione che ha fatto nascere questo libro?

La necessità di provare a fare il punto su una parola-concetto oggi usato spesso ma in modi molto diversi e con un tasso rilevante di confusione. Essendomi occupato per anni di genocidi e avendo visto – anche negli anni in cui ho organizzato il master europeo in Human Rights and Genocide Studies – che perfino studenti preparati mostravano a volte confusione nel distinguere tra genocidi e altre forme di crimini internazionali e massacri, ho pensato che fosse utile una sintesi, che fosse insieme narrazione storica e spiegazione: per dare un contributo soprattutto ai più giovani ma anche per chiarire a me stesso i dubbi, le difficoltà e la complessità che la riflessione sul genocidio porta con sé.

Nell’accingersi a scrivere questo saggio qual è stata la cosa che ha deciso di praticare assolutamente per prima e quale quella per prima assolutamente da evitare?

Ho pensato che fosse necessario raccontare la genesi storica del termine genocidio, per comprendere il contesto in cui nasce e in cui diventa poi, dopo un dibattito intenso di circa tre anni, la definizione giuridica di un crimine per il diritto internazionale. Nel far questo ho cercato di mostrare tutte le difficoltà di interpretazione che sono legate a questo termine, le sfumature e a volte anche le contrapposizioni che ci sono state – perfino dentro il mondo dei giuristi – nell’usarlo, sia in generale sia nella giurisprudenza dei tribunali internazionali. Ho cercato di evitare di raccontare la «mia» interpretazione di genocidio, anche se non ho eluso il mio punto di vista, perché non ritengo utile aggiungere una nuova interpretazione, magari differente per solo qualche piccolo aspetto, alle tante che già sono state date. Ho preferito mostrare come queste sono sorte e quali rilievo hanno avuto.

Quand’è che troviamo in letteratura la parola “genocidio”? E ha un autore?

Il termine genocidio ha un’origine di tipo giuridico, ma diventa presto un termine noto all’opinione pubblica perché utilizzato sui giornali, alla radio, anche se soprattutto nei primi anni (tra il 1945 e il 1948) e meno successivamente, finché ritorna di attualità con il processo Eichmann a Gerusalemme nel 1961 e diventa conosciuto alle grandi masse a fine anni ’70 con il serial televisivo «Holocaust». I primi a utilizzarlo, a livello letterario, sono stati i sopravvissuti-scrittori, che hanno fatto della memoria della loro tragica esperienza un momento di riflessione universale grazie alla letteratura, anche se spesso hanno usato i termini Olocausto e Shoah, lasciando alla letteratura giuridico-storica-sociologica l’uso più frequente della parola genocidio.

Quand'è che si ha una definizione precisa di cosa sia questo crimine?

La definizione nasce nel libro Axis Rule in Occupied Europe del giurista Raphael Lemkin, pubblicato negli Stati Uniti alla fine del 1944. La parola viene utilizzata in alcune occasioni nel corso del processo di Norimberga, con una definizione ancora generale in cui compare tra i crimini di guerra commessi dai nazisti. Successivamente la discussione all’interno delle commissioni create dalle Nazioni Unite per giungere a una definizione del diritto internazionale di questo nuovo crimine – nuovo come definizione e come individuazione sul terreno giuridico, non nella sua pratica – elabora una definizione che è il risultato di ampie discussioni, rimaneggiamenti e anche compromessi. Genocidio, così, è «l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale”. L’ipotesi iniziale di inserire anche i gruppi politici viene bocciata. I due aspetti più importanti sono, a mio avviso, il carattere della «intenzionalità» e il fatto che si voglia distruggere «un gruppo in quanto tale», senza alcuna motivazione legata a conquista, occupazione, asservimento, ma solo all’esistenza in quanto gruppo che viene negata da chi ha l’intenzione di eliminarlo dal consesso dell’umanità

Nonostante la parola “genocidio” come lei ha spiegato appartenga ai nostri giorni, dando uno sguardo alla storia dei secoli passati è stato un crimine collettivo già praticato?

Lemkin suggerisce fin dall’inizio che sta parlando di un concetto «nuovo» per una pratica «antica» e nelle sue carte vi sono riferimenti continui alla repressione ateniese di Melo e Mitilene, alla distruzione romana di Cartagine, alle stragi dei mongoli, alla conquista delle Americhe, alle guerre di religione, ecc. A lui interessava, inizialmente, poter definire come crimine internazionale la violenza omicida contro un gruppo, che non esisteva ancora (si poteva accusare qualcuno di omicidio plurimo), ma quando, dopo avere inventato il termine, discute delle violenze del passato, cerca di mettere a punto, anche nell’analisi storica che svolge, l’elemento di intenzionalità della distruzione e la volontà di sradicare e sterminare un preciso gruppo umano.

La Shoah, il genocidio compiuto dai nazisti, vede già negli anni ‘50, poi man mano sempre più ingigantendosi, il negazionismo, talvolta travestito da revisionismo, così da lei tanto accuratamente illustrato nelle sue pagine. Com’è stato possibile nonostante l’imponente documentazione, anche audiovisiva, di quel mostruoso crimine? Esistono al proposito responsabilità della Sinistra? Penso, ad esempio, anche a sinceri democratici come Chomsky

Si può dire che il negazionismo accompagni fin dall’inizio la Shoah: il tentativo di distruggere le prove, i campi di sterminio, la documentazione o comunque la volontà di tenere nascosto il genocidio anche al popolo tedesco mentre veniva compiuto. Più difficile è capire come sia possibile che, successivamente, di fronte all’evidenza sempre più ricca di testimonianze e documenti, scritti, visivi, architettonici e di ogni tipo, si sia manifestata una tendenza continua al negazionismo. La motivazione principale è di tipo ideologico-politico, risiede nella volontà di riabilitare Hitler e il nazismo e quindi di allontanare l’accusa peggiore che era stata loro rivolta. Elemento centrale di questa negazione è che la Shoah sia stata non una realtà ma una invenzione narrativa degli ebrei, prendendo spunto da memorie contraddittorie o labili su alcuni aspetti secondari o su alcune date e arrivando a sostenere che le camere a gas servivano per la sanificazione dei reclusi e non per la loro soppressione. In genere sono stati e sono negazionisti gruppi neonazisti, ma non sono mancati anche gruppi di sinistra, soprattutto in polemica anti-israeliana o perché eredi di un antisemitismo presente in passato, pur se limitato, anche nella sinistra. Quanto a Chomsky, egli ha scritto la prefazione di un libro negazionista della Shoah in nome della libertà di espressione, ha negato per vent’anni il genocidio cambogiano perché non rientrava nelle accuse all’imperialismo americano che erano le uniche cui era interessato e infine ha scritto un’altra prefazione a un libro negazionista sul genocidio dei tutsi in Ruanda sostenendo che genocidio è un termine abusato e che estenderlo a casi ambigui o inesistenti (per gli autori del libro da lui prefato non è esistito genocidio in Ruanda e, se c’è stato, la responsabilità va fatta ricadere sul Fronte patriottico ruandese che libera il paese e salva i tutsi dalla distruzione completa) costituisce un’offesa per le vittime della Shoah.

A proposito della Sinistra, nei regimi comunisti ci sono esempi di genocidi?

Certamente si può considerare un genocidio quello che ha luogo nel 1931-32 in Ucraina, dove la deliberata scelta di Stalin di fare morire di fame milioni di persone (mentre il grano ucraino veniva inviato e venduto all’estero) è legata insieme alla sua volontà di colpire il mondo contadino considerato nemico e infido ma anche un popolo ritenuto nazionalista e poco ubbidiente. Per altri casi il termine genocidio ritengo non sia utilizzabile, ma sia preferibile usare quello di crimini contro l’umanità.

Due domande che traggo da paragrafi del suo libro.
La prima: esiste la possibilità di una prevenzione del genocidio
?

La prova che la prevenzione sarebbe stata possibile la si è vista proprio nel caso del Ruanda, quando il comandante della forza delle Nazioni Unite chiese il permesso di intervenire nel gennaio 1994 per sequestrare le armi che i partigiani dell’«Hutu Power» stavano ammassando, ricevendo però un rifiuto. Se non è stato possibile farlo, lasciando uccidere quasi un milione di persone è perché gli interessi delle grandi potenze e dei membri del Consiglio di sicurezza l’hanno impedito. Quindi possiamo dire che in linea di principio esiste questa possibilità, perché ormai si riesce a sapere in anticipo quando un massacro di tipo genocidario sta per avere luogo, ma che nella pratica questo dipende dalla volontà della comunità internazionale e soprattutto dagli interessi delle grandi potenze.

La seconda: troviamo anche un paragrafo dedicato al “genocidio culturale”. In che cosa consiste?

Il genocidio culturale – che si voleva inserire nel testo della convenzione del 1948 ma che venne escluso per motivi di dissenso politico (soprattutto da parte britannica e francese) – consisterebbe nella distruzione non necessariamente fisica di un gruppo, ma delle sue caratteristiche essenziali: lingua, religione, economia, costumi, edifici simbolici o religiosi, biblioteche, ma soprattutto la dignità. Nel 1948, quando era ancora vivo e operante il sistema coloniale internazionale, si temeva che tutte le nazioni colonialiste avrebbero potuto essere accusate di genocidio culturale. Nel 2007 è stata approvata la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni che riecheggia in qualche modo quella vecchia discussione, con il voto contrario di Australia, Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Nell’ultimo decennio, attorno al tema della richiesta di scuse, di perdono o di riparazioni nei confronti dei popoli colonizzati, delle violenze da loro subite e delle rilevanti amputazioni culturali della loro identità e patrimonio, il tema è tornato di attualità.

……..………...…………..

Marcello Flores
Il genocidio
Prefazione di Adama Dieng
Pagine 208, Euro 14.00
E-book Euro 9,99
Formato: ePub, Kindle
Il Mulino


25 Aprile


Il 25 aprile (QUI il portale dell’ANPI) è una di quelle date che va scolorendosi sulle pagine della Storia nonostante l’amore e l’odio suscitati allora ancora ribollino sotto la pelle dei nostri giorni.
Si dice, giustamente, che anni democristiani, craxiani poi berlusconiani e renziani abbiano ottuso coscienze e slanci, ma il primo colpo tirato alla Resistenza, a mio avviso, risale all’amnistia del 22 giugno 1946 promulgata da Palmiro Togliatti (allora Ministro di Grazia e Giustizia) che avrà suo collaboratore al Ministero Gaetano Azzariti Presidente del Tribunale della Razza!).
Decisioni che produssero il primo affronto ai combattenti per la libertà che videro uscire dalle galere fior di repubblichini, un “liberi tutti” di cui ancora oggi si risentono le conseguenze.
Quell’amnistia fu contestata sia da parte della base del Pci, sia dalle associazioni partigiane e dal fronte democratico non comunista che videro chiaramente il pericolo, puntualmente avveratosi, di una mancata defascistizzazione del Paese. Fu, infatti, seguita da quattro successive amnistie – varate da governi Dc – che allargarono ulteriormente i termini temporali e la casistica dei reati commessi dai fascisti.

«Lo spirito che animava le donne e gli uomini della Resistenza fu una attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e autoironia sulla stessa propria fierezza guerriera, il senso di incarnare la vera autorità legale e di autoironia sulla situazione in cui ci si trovava a incarnarla, un piglio talora un po’ gradasso e truculento ma sempre animato da generosità, ansioso di far propria ogni causa generosa.
A distanza di tanti anni, devo dire che questo spirito, che permise ai partigiani di fare le cose meravigliose che fecero, resta ancor oggi, per muoversi nella contrastata realtà del mondo, un atteggiamento umano senza pari».

Italo Calvino, da “La generazione degli anni difficili”, Laterza, Bari 1962.

«La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c'è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline».

Pier Paolo Pasolini, Il caos, Editori Riuniti, 1979.


Orwell: sullo scrivere e sui libri


Le due ideologie che hanno lacerato il XX secolo videro la gran parte d’intellettuali e di artisti schierarsi col comunismo (in netta maggioranza) o col fascismo.
Quei pochi che si allontanarono dopo una prima adesione a quelle idee oppure mai se ne fecero sostenitori ebbero trattamenti ruvidi e per alcuni andò anche molto peggio.
Un nome spicca in quello scenario: Eric Arthur Blair, noto con lo pseudonimo di George Orwell.
Il padre era un funzionario amministrativo delle colonie dell’Impero britannico, George perciò nacque in India, a Motihari il 25 giugno 1903, morirà a 46 anni a Londra il 21 gennaio 1950.
Per diffuse notizie biografiche: CLIC.
Due sono le opere che lo hanno reso famoso: La fattoria degli animali e 1984.

Dopo un periodo giovanile che lo vide innamorarsi delle idee socialiste e che lo portò a combattere nella guerra di Spagna contro i franchisti, ebbe chiaro che la sola lotta politica che meritava d’essere combattuta era quella contro ogni totalitarismo
Scrive di lui Umberto Eco: “Orwell ha intuito che nel futuro-presente di cui egli parla si dispiega il potere dei grandi sistemi sovranazionali, e che la logica del potere non è più, come al tempo di Napoleone, la logica di un uomo. Il Grande Fratello di 1984 serve, perché bisogna pur avere un oggetto d'amore, ma basta che egli sia un'immagine televisiva".
Se sono noti i suoi due romanzi prima citati, meno lo sono i suoi scritti letterari densamente politici. Elogiabile, quindi, la scelta della casa editrice Lindau che ha pubblicato Sullo scrivere e sui libri, una raccolta di articoli, scritti tra la fine del 1945 e il 1948, che aiutano a capire il tessuto morale e artistico dello scrittore.

Estraggo alcune righe dal piccolo prezioso, volume: La Guerra civile spagnola e altri avvenimenti del 1936-37 hanno contribuito a farmi prendere una decisione, e da allora ho capito da che parte stavo. Ogni riga di ogni lavoro serio che ho scritto dal 1936 a questa parte è stata scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e a favore del socialismo democratico, per come lo vedo io (…) Il mio scopo principale nel corso degli ultimi dieci anni è stato quello di fare degli scritti politici un’arte (…) I cattolici e i comunisti si somigliano molto quando affermano che un oppositore non può essere al tempo stesso onesto e intelligente. Entrambi affermano tacitamente che la ‘verità’ è già stata rivelata e che l’eretico si oppone ad essa spinto solo da motivazioni egoistiche (…) Dal punto di vista totalitario, la storia è qualcosa da creare piuttosto che da imparare.

Intorno a Orwell si scatenò un inferno tra i tanti detrattori e i pochi sostenitori che, però, crebbero di numero col tempo e oggi costituiscono un vasto pubblico.
E in Italia?
“La fattoria degli animali” apparve nel 1947 e “1984” nel 1950.
Il settimanale Il Mondo di Pannunzio si schierò subito a favore dello scrittore e pubblicò a puntate “1984”.
Trasparente nelle pagine di Orwell era la critica allo stalinismo osservato sul campo di battaglia dove combattevano anche altri intellettuali non comunisti tra cui, ad esempio, André Malraux, Arthur Koestler, Randolfo Pacciardi, Simone Weil, Nicola Chiaromonte. Avevano tutti capito che l’antifascismo si presentava con due facce tra loro in conflitto, quella democratica socialista e libertaria, e quella comunista autoritaria.
Scrive Massimo Teodori: “L’Orwell del ”1984” fu apprezzato e recensito solo dai laico-liberali, denigrato da Palmiro Togliatti (“una buffonata informe e noiosa”), e ignorato dall’intellighenzia vicina alla sinistra filo-comunista. (…) Fin dai primi numeri di “Rinascita”, Togliatti rivolge volgari attacchi ad azionisti non frontisti, liberali, democratici, socialisti umanisti, e a quelle personalità della sinistra democratica che rifiutavano di considerare la resistenza al fascismo una prerogativa esclusiva comunista. Le sue invettive colpirono molte personalità di quell’orientamento: Gaetano Salvemini fu definito “una persona poco seria”, il critico d’arte resistente azionista Carlo Ludovico Ragghianti un “pigmeo della Guerra fredda”, Vittorio Gorresio “uno scarafaggio”, e così Ernesto Rossi e gli amici del ‘Mondo’, “una rivista di sedicenti liberali che raccomandano i preti e Benedetto Croce”.

“Sullo scrivere e sui libri” chiarisce le fonti del pensiero orwelliano e aiuta a capire perché fu tanto osteggiato dall’ortodossia ideologica sia di stampo capitalistico sia di quello comunista. Va, inoltre, aggiunto la sua lontananza dai cattolici e questo complesso di ragioni hanno fatto di lui un protagonista del pensiero libero, un nemico del pensiero unico.

In questo breve video una tagliente dichiarazione di Orwell.

Dalla presentazione editoriale.
«Accanto all’attività di romanziere, che culminerà nei due capolavori La fattoria degli animali e 1984, George Orwell portò sempre avanti quella di giornalista, saggista e, più in generale, di testimone e critico del suo tempo, un tempo attraversato da grandi rivolgimenti politici e sociali.
Le ragioni dello scrivere, il ruolo della letteratura nella società e i difficili rapporti tra arte e potere sono al centro di questi interventi, pubblicati su riviste dell’epoca. In essi si delinea la figura dello scrittore che, pur schierandosi politicamente, deve salvaguardare la propria libertà creativa da qualsiasi influenza ideologica.
Ma lo sguardo acuto di Orwell sa indagare, spesso con irresistibile umorismo, anche fenomeni più quotidiani e personali, come i gusti letterari, le mode, le manie di lettori e scrittori, mescolando aneddoti e riflessioni che ancora oggi sanno raccontarci, come pochi altri, il meraviglioso universo dei libri».

George Orwell
Sullo scrivere e sui libri
Traduzioni di
Davide Platzer Ferrero
Federico Zaniboni
Pagine 112, Euro12.00
Lindau



Mutaforme di meduse, cyborg e specie compagne


Dobbiamo al più vecchio festival di teatro la presentazione di alcune fra le più nuove forme sceniche contemporanee.
Sono cinquant’anni, infatti, che esiste il Santarcangelo Festival che in tutte le sue edizioni ha portato all’attenzione di critici e spettatori nuovi gruppi italiani e stranieri, portatori di nuovi linguaggi.
Tanti i nomi che hanno trovato spazio nel cartellone annuale del Festival: Santagata e Morganti, il Teatro dell’Elfo, il Teatro Valdoca, Dario Fo e Franca Rame, Enzo Cosimi, Marcido Marcidoris, Thierry Salmon, Antonio Neiwiller, e poi Ariane Mnouchkine, Manoel De Oliveira, Leo de Berardinis, Mario Martone, Raul Ruiz, Judith Malina, e Jerzi Grotowski, i Magazzini Criminali. E mi scuso con i non citati, ma l’elenco è valorosamente lungo.


Ora, all’8 al 18 luglio 2021, va in scena FUTURO FANTASTICO (II movimento). Festival mutaforme di meduse, cyborg e specie compagne.
Il Festival, come tante altre manifestazioni si è dovuta misurare con una programmazione straordinaria, e più volte ripensata a causa dell’emergenza pandemica, con cui il Festival si è dovuto inevitabilmente confrontare, avviando un costante esercizio di trasformazione e una riflessione sul rapporto tra arte e dimensione pubblica.
Per questa ragione, il sottotitolo dell’edizione 2021 scelto da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò di Motus, che così concludono l’incarico alla direzione artistica del Festival, “fa riferimento – come recita il comunicato stampa – “alla forza magica, irrequieta e mutaforme che incarna lo spirito del Festival per sua natura in transizione, scambio e ibridazione continua. Dieci giorni di intensa programmazione daranno vita a un’opera corale, accorciando le distanze fra teatro, cinema, musica, letteratura e antropologia.

Dichiara la direzione artistica: Abbiamo scelto l’aggettivo ‘mutaforme’ per i 50 anni di un Festival che rinasce sempre dalle proprie ceneri come araba fenice, restando connesso in modo tentacolare alle sfaccettature del presente. I romanzi della scrittrice nigeriana Nnedi Okorafor, abitati da creature ibride metà umane e metà meduse – letti voracemente durante il lockdown – ci hanno poi sospinto a mettere al centro il tema dell’interdipendenza. Pensiamoci come specie compagne (companion species), citando Donna Haraway, perché non c’è stata evoluzione biologica separata fra umani e animali, ma un processo di coabitazione. Il virus del resto è una zoonosi: rende manifesto il contagio come condizione della vita tutta e ci dice che non siamo autosufficienti. Anche un’istituzione culturale come il Festival ha allora bisogno di ripensarsi e rinsaldare il suo legame con il terreno/territorio domandandosi: come convivere paritariamente? How To Be Together è il titolo del più utopico e spericolato progetto che quest’anno proveremo a realizzare.

Ancora dal comunicato stampa: “La capacità di mutare forma permette al Festival di rappresentare se stesso come atto di espansione oltre il limite, e ritrovare la sua dimensione internazionale generando contaminazioni sempre nuove con mondi culturalmente e geograficamente lontani. Un viaggio con una forte apertura a processi partecipativi che sconfinano nell’invasione degli spazi pubblici, dalla piazza al paesaggio naturale, per un inno alla trasformazione, che vede un programma articolato in capitoli tematici.

Notizie sul cartellone:QUI .
Info: tel. 0541 - 62 61 85

Per i redattori della carta stampata, delle radio-tv, del web
Ufficio Stampa Santarcangelo Festival: Irene Guzman
i.guzman@fmav.org | | T. +39 349 1250956
mob. 349 – 12 50 956 e ufficiostampa@santarcangelofestival.com
Matteo Rinaldini
matteo@santarcangelofestival.com; mob. 360 – 47 87 28


La felicitŕ dei mobilifici

Esistono autori che seppure noti non lo sono quanto meriterebbero.
Uno di questi è Ingo Schulze.
Eppure, è tra i maggiori scrittori tedeschi e fra i più autorevoli intellettuali europei.
Cresciuto nella ex Germania orientale, ha studiato Filologia classica all’Università di Jena e ha lavorato al Teatro di Stato di Altenburg. È membro dell'Accademia delle Arti di Berlino e dell’Accademia per la lingua e la poesia di Darmstadt.
Tra i suoi libri: “Trentatré attimi di felicità” (2010), “Arance e angeli” (2011), “Peter Holtz. Autoritratto di un uomo felice” (2019), tutti pubblicati in Italia da Feltrinelli.
Ora la casa editrice Marietti 1820 ha pubblicato La felicità dei mobilifici.
Curatore del libro è Stefano Zangrando. Oltre a testi di Ingo Schulze ha tradotto, Peter Handke, Katja Lange-Müller, Peter Kurzeck e Kurt Lanthaler. Tra le sue opere narrative: Quando si vive (Keller 2009), Amateurs (Alpha Beta 2016) e Fratello minore (Arkadia 2018).

“La felicità dei mobilifici” è composto da tre testi. Una prima parte (‘Viaggia e viaggia e poi non vede il ponte!’) partendo da una barzelletta russa riflette sulla colpevole mancanza di sorpresa di fronte a fatti che ormai consideriamo appartenenti alla normalità.
Nella seconda parte (“Prossimità e distanza”) in un dialogo fra Zangrando e Schultze si ragiona sulla bellezza, sia letteraria sia sociopolitica.
Chiude il volumetto la storia (“Letteratura e società”) di un articolo mai pubblicato dopo confronti al telefono fra una redattrice e lo scrittore.
“Quello che prende forma dalla lettura di questi testi” – scrive Zangrando nell’Introduzione – “è un appello all’assunzione di responsabilità e all’azione di ognuno, si tratti di letteratura o di altre pratiche più o meno quotidiane, perché ormai non ci sono alternative, perché ognuno di noi vive costantemente nella contraddizione e perché ‘i valori’ – se ancora crediamo di averne, - ‘si esprimono soltanto nelle azioni, diversamente non esistono. Un valore non è un valore se non è vissuto’”.

Schulze chiarisce ulteriormente con un esempio il suo pensiero.
“C’è un bellissimo racconto di Italo Svevo intitolato ‘Corto viaggio sentimentale’, in cui una bambina vuole assolutamente fare un viaggio in treno. Una volta sul treno scoppia a piangere. I genitori chiedono cos’abbia e lei risponde che piange perché non vede il treno, cioè non può vedere se stessa che viaggia. Ecco credo che l’arte, la letteratura sia come essere seduti in questo treno e al tempo stesso poterlo vedere”.

Viaggiatore attento, mi piace da un altro suo libro (“Arance e angeli”) estrarre il ritratto che traccia di una nostra città: Napoli è per me un insieme di densità e ampiezza dello sguardo. Il contatto è subito fisico, lo spazio è limitato e denso: rumori, profumi, cattivi odori, tutto è immanente, la storia qui non è lingua morta. E poi la vista del mare e del golfo, che si apre improvvisa e sembra racchiudere l'intera cultura di cui siamo fatti, da Ulisse e Virgilio fino ai giorni nostri. Napoli è una città che sperpera la propria bellezza, non solo a causa della criminalità e del degrado. Qui le chiese più sontuose ti si parano davanti all'improvviso, tanto che quasi non riesci a vederne la facciata, per non dire a ricavarne una visuale d'insieme. Si viene squadrati, toccati, spintonati, non vi è mai tregua. Lo scoppiettio dei motorini costringe a guardarsi continuamente le spalle. Ma questa densità nulla sarebbe senza la corrispettiva vastità. A volte basta salire qualche gradino o cambiare lato della strada o anche solo voltarsi, e già ti coglie la vertigine alla vista del mare.

Dalla presentazione editoriale de “La felicità dei mobilifici”.
«Come siamo giunti a considerare “normale” ciò che avviene sotto i nostri occhi giorno dopo giorno? La mercificazione dei rapporti umani, la polarizzazione crescente fra ricchi e poveri, la pressione dei rifugiati alle porte dell’Europa, lo sfruttamento neocoloniale di ampie parti del Pianeta per nutrire il benessere dell'Occidente. Di tutto ciò andrebbe piuttosto colta l’assurdità, se solo sapessimo prenderne coscienza. Ingo Schulze, che ha sperimentato il passaggio dal socialismo reale al capitalismo globale, si serve in questi testi della propria esperienza biografica per approdare a una riflessione senza sconti sulle contraddizioni del presente».

Per “Conosci l’autore”: un breve video.

Per un assaggio di lettura: CLIC!

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Ingo Schulze
La felicità dei mobilifici
A cura di Stefano Zangrando
Pagine 88, Euro10.00
Marietti 1820


La casta dei casti


La casa editrice Bompiani ha pubblicato un saggio che esplora un territorio fra i più scomodi e tormentati per la Chiesa, i sacerdoti, i fedeli.
Il titolo è già illuminante: La casta dei casti I preti, il sesso e l’amore.
L’autore è Marco Marzano
Professore ordinario di Sociologia presso l’Università di Bergamo è tra i fondatori della rivista “Etnografia e Ricerca Qualitativa”. Collabora con “Il Fatto Quotidiano.it”.
Tra le sue pubblicazioni Cattolicesimo magico (Bompiani, 2009), “Quel che resta dei cattolici” (Fetrinelli, 2012), “La società orizzontale” (con Nadia Urbinati, Feltrinelli, 2017) e “La chiesa immobile. Francesco e la rivoluzione mancata” (Laterza, 2018).

Come si può intuire l’autore ha svolto una ricerca molto difficile, ma è riuscito ad ottenere una documentazione di grande rilievo attraverso molte interviste sia a preti in tonaca sia ad altri che l’hanno abbandonata, e a donne che hanno avuto relazioni con preti
Perché la Chiesa tiene tanto al controllo della sessualità e dell’affettività?
Per creare un uomo speciale. È la risposta.
Speciale al punto da essere ritenuto dai fedeli, oppure a quelli ai quali predica per farli diventare tali, come voluto da Dio, tanto da sacrificare una parte di grande importanza per il corpo e per la mente di noi umani: il sesso.
Il tentativo d’ottenere questo risultato è praticato fin dal seminario: «La preoccupazione autentica dell’istituzione è che il giovane funzionario impari a nascondere quello che fa tra le lenzuola e a raccontarlo, questa volta nei dettagli, solo nell’intimità del confessionale cioè solo in un modo che serve alla stessa istituzione per capire di che pasta sia fatto l’apprendista funzionario, se sia il caso o meno di investire su di lui come “uomo di Dio”» (Foucault 2013).
Presto il futuro sacerdote e ancora di più dopo aver preso i voti, si accorge di vivere una doppia verità: quella ufficiale e la propria vita. Contrasto che causa dolorose distorsioni psichiche.
In realtà, accade quanto avviene in tutti i gruppi guidati da un pensiero unico; si può notare (questo l’affermo io) anche in regimi totalitari dal comunismo al fascismo.
In tali condizioni, omofobia e omofilia sono due facce della stessa medaglia. Inoltre, la repressione sessuale assume, come tante cronache confermano, la forma della pedofilia che non ha risparmiato alcun angolo del mondo né ordine religioso.
QUI un'efficace documentazione.
Eppure, come fa notare Alberto Morandi studioso dI questo tema, nei Vangeli Cristo non ha mai comandato esplicitamente il celibato agli apostoli, e Morandi cita Paolo di Tarso, quando nel capitolo 7 della prima Lettera ai Corinzi afferma che: “è cosa buona per l’uomo non toccare donna, ma, a motivo dei casi di immoralità, ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito … Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate insieme, perché Satana non vi tenti mediante la vostra incontinenza. Questo lo dico per condiscendenza, non per comando. Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io; ma se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi che bruciare. Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei libero da donna? Non andare a cercarla. Però se ti sposi non fai peccato; e se la giovane prende marito, non fa peccato”, insomma Paolo di Tarso non esprime un comando evangelico ma solo un autorevole consiglio personale secondo la sua esperienza di vita cristiana.
Nonostante le riforme alcune attuate altre in discussione, un ripensamento sulla castità (e quest’interessante libro di Marzano mi pare lo confermi) forse è ancora lontano.
Insomma, troppo ottimistica appare la previsione di Lucio Dalla in “L’anno che verrà” quando immagina che “anche i preti potranno sposarsi ma soltanto a una certa età”.
Forse per questo il previdente Mosè, per trarsi da ogni impacciò, prese moglie, Sefora, dalla quale ebbe due figli.

Dalla presentazione editoriale
«Perché la Chiesa cattolica difende il voto di castità per i preti e come affronta la delicata questione dell’affettività per gli appartenenti al clero? In che modo gli anni di seminario trasformano in modo decisivo il rapporto con la sessualità dei futuri preti? A queste domande cerca di rispondere Marco Marzano in questo saggio documentato attraverso l’analisi rigorosa della letteratura scientifica e soprattutto attraverso decine di interviste in profondità a preti e persone che hanno lasciato il sacerdozio. ll quadro che emerge è uno spaccato della vita intima di un ceto sacerdotale formato sin dai seminari dall’istituzione a cui appartiene a nascondere una parte dell’esistenza invece che a viverla pienamente e serenamente. Dalle parole raccolte in anni di lavoro sul campo emergono storie personali di dolore, tormento, solitudine ma anche un sistema di bugie e segreti che produce drammatiche conseguenze per gli stessi sacerdoti e per l’intera comunità cristiana».

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Marco Marzano
La casta dei casti
Pagine 270, Euro 13.00
Bompiani


StraOrdinarie

Chi sono? Perché straOrdinarie?
Per saperlo cliccare sul disco giallo che trovate QUI.

L’ideazione è di Andreina Garella e Mario Fontanini che si avvalgono dell’organizzazione curata da Alida Guatri e dell’illustrazione di Sophie Lamoretti
Festina Lente Teatro e Vagamonde con il contributo del Comune di Parma, Maps Group, Coop 3.0 agiscono in collaborazione con Verdi Off – Teatro Regio di Parma,

La regista Garella: Servirsi del teatro per avere uno sguardo diverso sul mondo il teatro deve ritornare ad essere specchio del tempo, luogo di passioni civili e politiche, ritrovare la sua vecchia vocazione di essere comunità.

La musicista Ailem Carvajal Un agire teatrale che incontra il mio credere in musica. Attraverso gesti femminili in un teatro di azione e partecipazione. Incrocio di sentimenti e identità tra la mia città di nascita, L'Avana, con i suoi suoni-rumori, e Parma, la terra di Verdi e la mia città di accoglienza. StraOrdinarie, da una singola voce in dialogo verso la contrappuntistica coralità teatrale.

Nel secondo movimento le donne saranno intervistate e le loro storie, diventeranno il testo che sarà parte integrante dell’ultima fase del progetto con il debutto dello spettacolo a ottobre nell’ambito di Verdi Off.

Per i redattori della carta stampata, delle radio-tv, del web:
Ufficio Stampa // Raffaella Ilari, e-mail raffaella.ilari@gmail.com - Cell. +39 333 4301603


Manifesto per un animalismo democratico (1)


Ha scritto Fernando Pessoa: “L’uomo non sa di più degli altri animali; ne sa di meno. Loro sanno quel che devono sapere. Noi, no. Anche da qui derivano tanti errori che l’animale uomo commette verso gli altri animali”. Quanti? Tanti. Il primo è quello d’immaginare una propria superiorità naturale. Ed ecco perché la Chiesa detesta tanto Darwin che – come sostiene Daniel Kevles – ha osato ficcare il naso nella narrazione giudaico-cristiana dell'origine della vita detronizzando l'uomo dalla sua speciale posizione in cima alla scala biologica, sottraendolo all'autorità morale della religione.
Doloroso risultato della dottrina cristiana sugli animali è stato Cartesio, uno dei principali esponenti dello 'specismo' termine coniato dallo psicologo Richard Ryder nel 1970. Il filosofo Peter Singer poi lo riprenderà, dandogli maggiore visibilità e articolazione teorica (soprattutto nel suo "Animal Liberation" del 1975).
Altro errore è di non conoscerli asserendo il contrario. Perfino di animali che spesso abbiamo in casa ne sappiamo poco. Basti pensare quanto goffamente in tanti pretendono – anche in buona fede, anche affettuosamente – d’ottenere da cani o gatti comportamenti vicino ai nostri. Cosa ch’è assolutamente impossibile.
“Abbiamo molto da imparare, dagli animali” – scrive, ad esempio, Stephen Fry – “Molto da imparare su di loro, ma molto, molto di più da imparare su di noi […] Gli animali tutti hanno questo in comune: a differenza dell’uomo, paiono impiegare ogni minuto di ogni ora di ogni giorno della propria vita a essere se stessi. Noi uomini siamo raramente bravi a essere ciò che la natura ci chiede di essere: homo sapiens”.
Ecco perché può aiutarci a saperne di più un gran bel libro pubblicato dalla casa editrice Carocci intitolato Manifesto per un animalismo democratico.
Ne è autore Simone Pollo
È professore associato di Filosofia morale alla Sapienza Università di Roma.
Nel catalogo Carocci: Uomini e animali: questioni di etica, 2016.

Dalla presentazione editoriale
«L’animalismo è una corrente di pensiero e di azione sociale e politica che ambisce a trasformare i molti modi in cui gli esseri umani entrano in relazione con gli animali (negli allevamenti, nei laboratori, nelle case, nelle città, negli ambienti selvatici ecc.). Per la novità e l’urgenza morale dei suoi obiettivi, è uno dei fenomeni più importanti della società contemporanea. Il volume interviene nel dibattito sulla necessità e sui modi di cambiare i nostri comportamenti verso gli animali argomentando una proposta di “animalismo democratico”. Quest’ultimo ha le sue radici nelle stesse ragioni culturali e storiche che fondano le democrazie liberali contemporanee. È un animalismo che vuole estendere l’applicazione dei valori e dei principi fondamentali della vita democratica oltre il confine della specie umana, cioè agli animali».

Mi piace qui proporre un breve video in cui è illustrato in modo sintetico e chiaro perché siamo umani grazie agli animali.

Segue ora un incontro con Simone Pollo.


Manifesto per un animalismo democratico (2)


A Simone Pollo (in foto) ho rivolto alcune domande.

Nell’accingersi a questo lavoro quale la prima cosa che ha deciso di fare assolutamente per prima e quale per prima quella assolutamente da evitare?

Direi, con una risposta che credo possa tenere insieme entrambe le domande, che ho cercato di fare un lavoro filosoficamente rigoroso. Trattandosi di un tema che nel dibattito pubblico spesso si caratterizza per toni emotivi accesi e forti divisioni, ho sempre tenuto presente il rischio di esporre le idee in modo semplicistico, o peggio retorico. Questo tentativo di lavorare in modo filosoficamente rigoroso ha significato principalmente tre cose. Anzitutto, ho cercato di sviluppare ogni idea attraverso argomentazioni e analisi concettuali. In secondo luogo, ho provato a rendere conto della “profondità storica” dei problemi con i quali mi sono confrontato. Infine, ho tentato di essere sempre consapevole della pluralità di idee e prospettive teoriche che animano il dibattito nel quale mi sono inserito. Essere fedele a un metodo filosofico rigoroso mi sembra doveroso per innumerevoli ragioni, non ultimo il fatto che nel nostro Paese oggi l’immagine pubblica della filosofia mi sembra piuttosto compromessa da tentativi di fare di questa disciplina uno strano oggetto, ovvero una via di mezzo fra una divulgazione malfatta e una forma di spicciolo auto-aiuto o di semplicistica guida spirituale. Il libro si rivolge a un pubblico più ampio della comunità scientifica filosofica, ma porta con sé l’idea che la filosofia si debba fare sempre in modo rigoroso. Se questo compito sia o meno riuscito saranno solo i lettori a giudicarlo.

Quale il senso da attribuire all’aggettivo “democratico” posto accanto ad “animalismo” ?

Elaborare l’idea di “animalismo democratico” significa principalmente tre cose. In primo luogo, significa riconoscere che l’interesse per gli animali, il loro status morale/giuridico e la trasformazione dei nostri rapporti con essi trova le sue radici negli stessi processi culturali che sono alla base dello sviluppo delle democrazie liberali nelle quali viviamo. La scoperta della centralità etico-politica della dimensione affettiva degli individui porta all’idea di diritti e protezioni per quegli stessi individui (e le loro felicità e sofferenze). Quella scoperta, per così dire, “deborda” e individua un’analoga dimensione negli animali, riconoscendo anch’essi come meritevoli di tutele. Accostare la democrazia all’animalismo, in secondo luogo, significa proporre l’idea che una democrazia liberale fiorente debba includere in modi sempre più ampi e strutturati gli animali nella sua sfera di protezione, perché anche nelle relazioni con gli animali si mettono in gioco i principi di libertà e uguaglianza che fondano e animano la vita democratica. Infine, “animalismo democratico” significa proporre una elaborazione teorica sulle relazioni umani/animali e l’attivismo che ne consegue che siano compatibili con il pluralismo che su questo tema caratterizza le nostre società, contribuendo al suo avanzamento.

Per realizzare un nuovo, civile, rapporto con gli animali non umani che cosa dovrebbe innanzitutto cambiare nei rapporti fra noi umani?

Per rispondere a questa domanda bisogna anzitutto ricordare che noi oggi dobbiamo necessariamente muoverci nell’orizzonte di comprensione del vivente che è frutto della rivoluzione scientifica di Charles Darwin. Se muoviamo da questa premessa non possiamo che constatare tanto l’infondatezza di qualsiasi separazione netta fra esseri umani e mondo non umano quanto la natura relazionale ed ecologica della vita. Anche se noi umani, come tutti gli animali sociali, abbiamo una connaturata predisposizione a interessarci maggiormente dei nostri conspecifici (un fatto di cui l’etica animale deve sempre tenere conto), l’orizzonte darwiniano ci deve portare a riconoscere che non possiamo pensare a una “etica fra umani” e una “etica verso gli animali” radicalmente separate e differenti. L’idea dell’animalismo democratico muove proprio da questa premessa, affermando che la vita democratica – una cosa peculiarmente umana – deve estendersi ad includere anche i non umani. Ovviamente, è difficile concepire gli animali come “cittadini” delle democrazie, ma essi possono beneficiare (o essere danneggiati) dal modo in cui noi intendiamo la nostra convivenza democratica e da come facciamo avanzare o meno i principi che guidano la vita democratica. L’idea che attraversa il libro è che fare progredire libertà, uguaglianza e pluralismo possa fare progredire anche i nostri rapporti con gli animali.

Partendo dalla prospettiva di un animalismo democratico quale la condotta auspicabile circa l’uso degli animali a scopo di ricerca scientifica?

L’uso degli animali a scopo di sperimentazione è uno dei temi che nel nostro Paese (ma non solo) accende di più l’opinione pubblica sul tema delle relazioni fra umani e animali. Si potrebbe osservare come questo fatto sia anche a suo modo curioso, se si considera la sproporzione fra l’attenzione che suscita la sperimentazione animale rispetto all’uso degli animali nell’alimentazione, una pratica che coinvolge un numero molto più ampio di animali e con modalità spesso molto meno regolamentate. Questo discorso, però, ci porterebbe troppo lontano. Tornando alla questione dell’uso scientifico degli animali, credo che un dibattito costruttivo sul tema possa prodursi solo a partire da un paio di premesse. Anzitutto, si deve osservare che di fatto la sperimentazione animale produce conoscenze e, pertanto, va messo da parte il solito argomento per cui questa sarebbe inutile e fuorviante. Il dibattito, invece, deve muoversi sul terreno della sua accettabilità morale. Se ci spostiamo su questo terreno, allora, bisogna tenere presente un’altra premessa: prima ancora che a una “necessità scientifica” l’uso degli animali risponde a una necessità di ordine morale. Noi, infatti, avremmo un’alternativa alla sperimentazione animale (anche molto più efficiente in termini scientifici), ovvero la ricerca sugli umani. Tuttavia, non riteniamo accettabile – e giustamente – condurre qualsiasi tipo di sperimentazione su esseri umani. Per salvaguardare l’avanzamento della conoscenza scientifica e il rispetto degli esseri umani si utilizzano quindi gli animali. La questione, quindi, riguarda il valore morale da dare a questo progresso scientifico rispetto alla tutela degli animali. Il dibattito va principalmente condotto sul piano dei diversi interessi e beni da conciliare e sul loro peso morale. Questo punto – va detto – spesso sfugge a molti ricercatori che, nel difendere la sperimentazione animale, si trincerano dietro la sua “necessità scientifica”, oscurando quella che invece è, a mio avviso, la vera natura della questione, vale a dire il bilanciamento fra il valore morale che diamo alla scienza e al suo avanzamento e quello che diamo agli interessi degli animali.

Da ateo quale sono, ricordo quanto scrive Dario Martinelli «animalismo e ateismo, pur non sinonimi, sono reciprocamente inclusivi, dovendo lottare per cause di analoghe origini e complementari soluzioni» (L’Ateo 3/2010). È d’accordo con quest’affermazione?

Sono d’accordo, nella misura in cui l’animalismo, almeno nella accezione in cui lo intende la tradizione in cui cerco di inserirmi, è uno dei prodotti della secolarizzazione della nostra cultura e della nostra società. Questa secolarizzazione è caratterizzata e prodotta da due fatti che ho già avuto modo di citare: la centralità etico-poltica della vita affettiva individuale e la comprensione darwiniana del vivente. Questi fatti sono alla radice di quel processo di secolarizzazione che si avvia nei secoli XVIII e XIX e che conduce tanto a una visione del mondo dalla quale è espunta qualsiasi idea di finalismo quanto a una nuova rilevanza morale degli individui nella pluralità delle loro forme di vita (contro concezioni organicistiche e assolutiste, quali quasi sempre sono quelle religiose). Esistono, certo, prospettive di matrice religiosa che sostengono la necessità di un diverso rapporto con gli animali. Queste, ovviamente, sono parte del pluralismo morale che caratterizza una società democratica su questi temi. Tuttavia, non si può fare a meno di rilevare che un animalismo secolarizzato è in grado di fare valere una visione antiantropocentrica molto più radicale rispetto alle prospettive religiose. Queste ultime, infatti, sostengono la trasformazione delle relazioni con gli animali sulla base di un passaggio da una logica di “dominio umano” a una di “custodia umana” verso gli altri viventi e gli ecosistemi. Al contrario, una prospettiva secolarizzata e darwiniana rifiuta l’idea di una centralità ontologica degli esseri umani, sostituendo a tale centralità una visione relazionale ed ecologica.

Jeremy Bentham il nome del primo filosofo citato nel libro seguito poco dopo da quello di David Hume che ancora troveremo poi nell’ultima pagina. Possiamo leggerlo come un percorso? Se sì, da dove a dove?

David Hume e Jeremy Bentham sono pensatori centrali per la tradizione filosofica nella quale provo a muovermi e a partire dalla quale cerco di elaborare le analisi che si trovano nel libro. Hume è una delle figure più importanti di quella riflessione filosofica che individua nelle passioni, nei sentimenti e nella simpatia i tratti centrali della natura umana e i motori della vita morale. Lo stesso Hume, già prima di Darwin, individuava una piena continuità fra umani e animali proprio nelle passioni e dedicava a questo tema sezioni del suo “Trattato sulla natura umana”. Su questa base, inoltre, Hume mostrava come la simpatia agisca come principio di comunicazione delle passioni non solo fra umani, ma anche fra umani e animali. Da parte sua, Bentham, portando a compimento quel riconoscimento della centralità morale dell’affettività, inaugurava la concezione etico-politica più importante e innovativa dell’etica tardo moderna e contemporanea, ovvero l’utilitarismo. Già Bentham riconosceva che su base utilitaristica non si può negare il riconoscimento della rilevanza morale del piacere e del dolore degli animali non umani e, in epoca contemporanea, proprio un utilitarista, Peter Singer, ha proposto, nei suoi “Liberazione animale” ed “Etica pratica”, la prima proposta teorica normativa compiuta di riconoscimento di status morale degli animali. Hume e Bentham, quindi, sono due filosofi il cui lascito è enorme, e non solo per la discussione sulle questioni etiche delle nostre relazioni con gli animali non umani. Si tratta di due pensatori, spesso poco conosciuti e studiati nel nostro Paese (e non a caso), che hanno proposto visioni dell’etica secolarizzate, antiassolutiste e aperte alla varietà e alla pluralità delle forme di vita umane, e non.

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Simone Pollo
Manifesto per un animalismo democratico
Pagine 124, Euro 12.00
Carocci editore


Informatica in un Click

La casa editrice Editoriale Scienza ha pubblicato un libro che tratta uno dei principali motori che muovono il mondo di questi anni: l’informatica.
"Assieme con l'elettronica” – informa il web – “con le telecomunicazioni unificate insieme sotto la denominazione ‘Tecnologie dell'Informazione e della Comunicazione’ (TIC), rappresenta quella disciplina e, allo stesso tempo, quel settore economico che ha dato vita e sviluppo alla terza rivoluzione industriale attraverso quella comunemente nota come rivoluzione digitale”.
Il libro, intitolato Informatica in un Click, è destinato, secondo il consiglio dell’editrice, ai ragazzi fra gli 8 e i 10 anni.
Il testo, firmato da due eccellenti divulgatori: Mathieu Hirtzig e David Wilgenbus, con le funzionali illustrazioni di Vincent Bergier, punta a fare notare a chi legge quanto l’informatica sia presente nella nostra vita di tutti giorni, quanto la usiamo senza avere piena (e, talvolta, nessuna) conoscenza della sua presenza e della sua influenza sull’agire di noi umani.

Gli oggetti digitali sono tutti animati dall’informatica e le pagine dei tre autori fanno capire come funziona il computer, la macchina fotografica digitale, il cellulare, il rilevamento meteorologico, tanti strumenti in sala operatoria e, ahinoi, nel controllo sociale (si veda, ad esempio, il caso Snowden) o nelle guerre odierne in cui ogni esercito cerca, come da sempre, ma ora con esiti catastrofici di recare il massimo danno agli avversari.
Le nuove frontiere dell’informatica non investono solo i campi cui accennavo prima, ma anche l’area artistica..Sì, perché ne abbiamo esperienze diffuse nelle arti visive, negli effetti speciali nei film e sui palcoscenici, nei videogames.
Il libro è strutturato in 5 capitoli:.dalla prima macchina programmabile (il telaio) all’intelligenza artificiale, passando per gli antenati dei moderni computer.
Nella vita dell'informatica si scoprono grandi nomi delle scienze: Turing, ad esempio, che ha immaginato il primo modello teorico di computer e che grazie a lui gli Alleati hanno decifrato i codici nazisti; e ancora Ada Lovelace Byron, Samuel Morse, Marc Zuckerberg e tanti altri.
C’è chi ha detto che la realtà conquistata dall’informatica sta togliendo terreno alla fantascienza perché ci avviciniamo sempre più a traguardi che appena ieri o l’altro ieri appartenevano soltanto alla letteratura di fantascienza.

Dalla presentazione editoriale
«L’informatica spiegata ai bambini in un manuale agile e dalla struttura immediata, per introdurli a un argomento di grande attualità.
L’informatica ha cambiato e continua a cambiare il modo di vivere. Gli smartphone sono potentissimi computer in miniatura, i robot sono utili nelle fabbriche, sui fondali degli oceani e perfino per esplorare altri pianeti, grazie a Internet possiamo collegarci con chi sta all’altro capo del mondo. Gli storici chiamano quella in corso “terza rivoluzione industriale”, dopo la prima consentita dal carbone e la seconda dovuta all’elettricità. Scopri le tappe fondamentali di questa rivoluzione, da Gutenberg all’intelligenza artificiale, leggi le vicende dei grandi protagonisti, da Ada Byron ad Alan Turing a Steve Jobs, indaga come funzionano gli oggetti tecnologici. Infine, dai uno sguardo alle sfide del futuro: programmazione, privacy, ricerca scientifica, sostenibilità».

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Mathieu Hirtzig – David Wilgenbus
Informatica in un Click
Traduzione di Erica Mazzero
Illustrazioni di Vincent Bergier
Pagine 80, Euro13.90
Editoriale Scienza


Riviste di cinema


È on line un nuovo numero della rivista Diari di Cineclub Periodico indipendente di cultura e informazione cinematografica diretta da Angelo Tantaro.
Come sempre avviene con questa pubblicazione, l’Indice è ricchissimo di saggi, riflessioni, ricordi e curiosità
Per saperne di più: CLIC.

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Edito dalle Edizioni Sabinae il numero 599 della rivista Bianco e Nero, è dedicato a una grande attrice italiana: Mariangela Melato.
Nata a Milano nel 1941, Mariangela avrebbe compiuto, in questo 2021, ottant’anni.
Il numero di Bianco e Nero, diretto da Felice Laudadio e curato da Maurizio Porro, ricostruisce tutta la sua carriera fra cinema, teatro e tv, anche attraverso testimonianze degli artisti che hanno lavorato con lei: da Toni Servillo a Gabriele Lavia, da Pupi Avati a Giancarlo Giannini, dalla sorella Anna a Renzo Arbore.
Arrivata al grande cinema nei primissimi anni Settanta (con i film di Lina Wertmüller, Elio Petri, Mario Monicelli, Vittorio De Sica, Steno, Luciano Salce) si è imposta subito come un nuovo modello di attrice, sia comica sia drammatica.
Nel frattempo, già negli anni Sessanta - con l’Orlando Furioso di Ronconi e tanti altri spettacoli - cominciava un percorso teatrale che l’avrebbe portata a diventare una diva della scena italiana.


Bodies


La danza, le sue nuove modalità stilistiche figureranno nello storico Teatro Goldoni, ottocentesca tipica struttura all’italiana, di Corinaldo (Ancona), .
Fino al 29 maggio sarà “tempio di Tersicore” con Bodies La rassegna dei corpi danzanti tra virtuale e reale tra Dante e mito greco
La rassegna è ideata e promossa dal Gruppo Danza Oggi in collaborazione con il Comune di Corinaldo ed AMAT.
Prologo dell’evento è stato un primo incontro con il pubblico l’11 aprile con solo 25 spettatori per volta. A seguire performances e spettacoli dal vivo, anche online, in diretta dalla cittadina, popolando i vicoli e gli scenari storici attraverso i corpi di oltre 20 danzatori per 4 compagnie italiane dal respiro internazionale.
La prima tappa immerge “Bodies” nel suo viaggio attraverso il reale ed il virtuale, studiando la relazione tra i nuovi sistemi comunicativi e la particolare libertà di interagire con essi.
Oggi la rassegna apre ufficialmente con “Hash_tag/call for interaction”, in collaborazione con Cinematica Festival 2021, frutto del lavoro della residenza artistica a Corinaldo. Un’analisi della lettura del corpo in movimento attraverso la creatività di due coreografe internazionali: Nicoletta Cabassi e Simona Lisi.
Lo spettacolo sarà disponibile QUI.

Info su: Marche in Scena.

Ufficio Stampa HF4 www.hf4.it
Marta Volterra, marta.volterra@hf4.it 340.96.900.12
Matteo Glendening, matteo.glendening@hf4.it 391.13.70.631


Il libro delle lacrime

Perché piangiamo? I motivi sono parecchi.
Si può piangere nel vedere Marzullo in tv, leggendo un libro vincitore dello Strega, a volte lacrimare perfino senza un apparente causa. Mentre è ben spiegabile il pianto del neonato: piange appena nato perché è venuto al mondo e già sa che cosa l’aspetta.
A volte poi lo spettacolo delle lacrime può ingannare perché fatto apposta per raggirarci intenerendoci e allora una scaltra furtiva lacrima può indurci in errore. Soltanto Bobby Solo afferma intrepido che la lacrima sul viso della sua ragazza gli hanno fatto capire molte cose. Ce ne ha messo però del tempo perché confessa “dopo tanti e tanti mesi, ora so / cosa sono per te” E spero per lui che ci abbia preso!
Ma quel liquido che riga guance, bagna corpetti, costringe al fazzoletto, di che cosa è fatto? Parola a un dizionario scientifico: «La lacrima è formata per il 98,2% da acqua, contiene cloruro e bicarbonato di sodio, proteine (mucine) e lisozima (enzima antibatterico). Il cloruro di sodio non è altro che il sale». Ah, ecco perché sono salate fino ad essere amare come quelle famose che piange Petra von Kant, nel film di Fassbinder.
Sia come sia, le lacrime hanno bagnato schermi e ribalte, prosa e versi, partiture e frames.
E fatto dire a “Simone De Beauvoir: “Quali che siano le lacrime che si piangono, si finisce sempre per soffiarsi il naso”.

A leggere le sue pagine forse così la pensa anche l’autrice di Il libro delle lacrime pubblicato dalla casa editrice Il Saggiatore.
Il suo nome è Heather Christle (Wolfeboro, 1980).
Ha scritto delle raccolte poetiche “The Difficult Farm” (2009), “What Is Amazing” (2012), “Heliopause” (2015) e “The Trees The Trees” (2019, con cui ha vinto il Believer Poetry Award). Le sue poesie sono state pubblicate su The New Yorker, London Review of Books e Poetry. Insegna scrittura creativa alla Emory University di Atlanta.

Strano e affascinante volume questo “Libro delle lacrime” composto da paragrafi di brevi prose, navicelle di cellulosa che navigano su di un mare d’insidioso inchiostro.
”Questo libro ha preso il via cinque anni fa” – scrive l’autrice – “mi chiedevo come sarebbe stato tracciare una mappa di tutti i luoghi in cui avevo pianto in vita mia, un’idea che mi accompagnava sempre, senza sapere quante pagine le sarebbero cresciute intorno”.
Quelle pagine, coltivate da sguardo vispo sul mondo, sono cresciute rigogliose tra il flash filosofico e il lampo aforistico, l’osservazione profonda e la narrazione scattante, tra saggio autobiografico e diario segreto.

Alcuni passaggi.
* Avere il naso è una fortuna. Difficile sentirsi una figura profondamente tragica quando le lacrime si mescolano al moccio. Non c’è alcun fascino nel soffiarsi il naso come una tromba

* Certe mattine mi sveglio con una enorme sensazione dentro di me e non riesco a decidere se sia il bisogno impellente di piangere o scrivere una poesia o scoparmi qualcuno. Tutto insieme? Il mio corpo ha più riferimenti per quello stesso impulso.

* I medici bizantini scrivevano che è possibile riconoscere un lupo mannaro dal fatto che non produce lacrime.


* Dopo cena Mary ci dice che un modo per conservare le lacrime è farle cadere sulla carta da zucchero nera, che i cristalli di sale formano chiazze bianche sulla pagina. Stelle nella notte.


* La storia del lacrimatoio – la fialetta in cui conservare le lacrime – è inventata. I racconti in cui la gente piange nelle fiaschette per le lacrime probabilmente sono racconti, non cronache di fatti realmente accaduti. I romani lo facevano, proclamano i vittoriani. I vittoriani lo facevano, proclamano i venditori su Etsy.182 A quanto pare non funziona all’atto pratico: non produciamo un flusso di lacrime abbastanza corposo, e le lacrime evaporano troppo in fretta

Un protagonista del cinema underground, Alberto Grifi, ha intitolato un suo film L'occhio evoluzione biologica di una lacrima.
E se proprio così fosse?

Dalla presentazione editoriale.
«Heather Christle è come tutti noi: piange. Spesso, in alcuni momenti della vita; poco, in altri. Come capita a tutti, fin da quando siamo piccoli. Piangiamo per gli amici scomparsi e per i figli che nascono, crescono, giocano sul tappeto di casa. A volte, piangiamo senza motivo. A volte, piangiamo per troppi motivi. Ci ricordiamo tutte le lacrime versate, i pianti a dirotto, i singhiozzi? No, con tutta probabilità. Ma cosa direbbero, di noi e della vita, quei pianti, se potessimo riscostruirne la storia e la geografia?
È questo l’ambizioso progetto di Heather Christle: rintracciare le lacrime che hanno punteggiato non solo la sua esistenza, ma anche quella degli altri; chiedersi perché e come piangiamo, scoprire che cosa accomuna occhi lucidi e pianti disperati. Il libro delle lacrime si muove tra ricordi personali e storia recente, tra poesia e spunti scientifici; nelle sue pagine si sovrappongono vicende, si intrecciano emozioni a formare un profondo e commovente tributo al nostro complicato rapporto con il dolore e la felicità».

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Heather Christle
Il libro delle lacrime
Traduzione di Giulia Poerio
Pagine 216, Euro 19.00
Il Saggiatore


Breve storia delle pseudoscienze (1)


Torna gradito ospite di queste pagine web Marco Ciardi che già ospitai in occasione del suo saggio Il mistero degli antichi astronauti.
La nuova pubblicazione è edita dalla casa editrice Hoepli ed è intitolata Breve storia delle pseudoscienze.
Ciardi è professore ordinario di Storia della Scienza all'Università di Firenze.
Ha pubblicato nel 2014, con un’Introduzione di Giulio Giorello, “A bordo della cronosfera”; il suo “Galileo & Harry Potter” è stato finalista al Premio Asimov 2016.
Con Pier Luigi Gaspa ha scritto Frankenstein.
Nel catalogo della casa editrice Hoepli figurano Il segreto degli elementi e Marie Curie

Dalla presentazione editoriale
«Fake news, pseudoscienza, complottismo affrontati in una panoramica storica che restituisce un’idea chiara sul confine tra scienza e opinioni nel dibattito pubblico e politico.
Giornali, settimanali, radio e televisioni dedicano da sempre ampio spazio ad argomenti quali i fenomeni paranormali, le previsioni astrologiche, i contatti con gli extraterrestri, spesso trattando tutto ciò in modo acritico, senza alcun criterio di controllo. Oggi inoltre, grazie alla rete, sono sempre più diffuse affermazioni non verificate a sostegno di terapie di non provata efficacia, leggende urbane, falsificazioni storiche e teorie complottiste. Ma come nasce una teoria pseudoscientifica?
Il volume si articola in un percorso cronologico, dall’antichità ai giorni nostri, e ricostruisce il rapporto tra scienza e pseudoscienze, dall’alchimia ai continenti perduti, dal creazionismo agli antichi astronauti, mostrando come tale rapporto sia comprensibile soltanto attraverso la sua evoluzione storica».

Segue ora un incontro con Marco Ciardi.


Breve storia delle pseudoscienze (2)


A Marco Ciardi (in foto) ho rivolto alcune domande

Da quali esigenze nasce questo libro?

Da una parte, dal desiderio di provare a fare il punto su una serie di studi che ormai sto conducendo da molto tempo. Dall'altra, dall'esigenza di tornare ad intervenire su un tema quanto mai attuale. A maggior ragione da quando è scoppiata la pandemia. Anche se il libro era stato pensato già prima, non è una conseguenza della pandemia.

Immagina d’essere il redattore di un dizionario.
Quale dizione, necessariamente in sintesi, scriveresti per definire la parola “pseudoscienza”
?

Pseudoscienza. “Teoria che ambisce a essere socialmente riconosciuta come spiegazione di qualche fenomenologia naturale, che partendo da elementi empirici soggettivi e usando ragionamenti o procedimenti non coerenti, produce una sintesi che è in conflitto con le idee e i fatti che sono stati controllati o validati dalla comunità scientifica” (Gilberto Corbellini, Nel paese della pseudoscienza, Milano, Feltrinelli, 2019, p. 71)

In apertura del volume sottolinei le lacune (con evidenza emerse dal sopraggiungere della pandemia) nella comunicazione scientifica. A tuo avviso, quale la più grave?

È sempre difficile fare una scelta univoca. Però certamente vedo ancora la tendenza da parte di molti giornalisti più a cercare il titolo, che non ad approfondire la notizia. Questo probabilmente anche perché le notizie scientifiche spesso vengono trattate da giornalisti che non hanno una preparazione nel campo del giornalismo scientifico. Che invece oggi sono molti, e bravi. E andrebbero utilizzati di più non solo nelle redazioni dei giornali, ma anche negli uffici stampa dei centri e dei laboratori di ricerca. In assenza di ciò, può capitare che sia la stessa stampa (o la televisione), e non il cosiddetto mondo dei social, a diffondere notizie non corrette, o male interpretate. Naturalmente i social ci mettono molto del loro nel fare disinformazione.

Scrivi: “Il confine tra scienza e pseudoscienza non è definibile una volta per tutte”.
Perché può accadere che ciò una volta era scienza diventi pseudoscienza
?

Sì, è così. Anche se naturalmente tutto va contestualizzato. Ad esempio, l'astrologia e l'alchimia nascono assai prima della comparsa della scienza moderna in Europa, nel Seicento. Quindi possiamo dire che astrologia e alchimia sono stati tentativi di comprensione razionale del mondo, ma prima che nascesse la scienza moderna vera e propria, con i suoi principi e le sue regole. Difficilmente, invece, si potrà mai arrivare a qualificare la meccanica newtoniana come pseudoscientifica, seppur sottoposta a revisione o superamento. In questo caso, sarà più opportuno parlare di avanzamento della conoscenza, ma all'interno di un sistema di regole e principi che si è venuto delineando in modo moderno da Galileo fino ai giorni nostri. Dipende poi molto dalla storia delle singole discipline. L'antropologia, ad esempio, si è basata a lungo su approcci di tipo pseudoscientifico, fondamentalmente improntati al razzismo, e solo in tempi recenti ha raggiunto un grado di scientificità certo e riconoscibile.

Come spieghi che questi nostri anni ricchi di tante acquisizioni scientifiche, mai come un tempo tanto massicciamente veicolate attraverso varie tecnologie di trasmissione, sono segnati da una fitta presenza di gente che crede – si pensi ai terrapiattisti, per fare un esempio solo – in cose irragionevoli?

Uno dei grandi storici della filosofia e della scienza del Novecento, Paolo Rossi Monti, ha scritto: “Strane e ingiustificate credenze, superstizioni, teorie stravaganti e non provate accompagnano da sempre il cammino degli esseri umani sulla Terra. Non sono affatto scomparse dopo che si è affacciata alla storia - fra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento - quella complicata e stratificata realtà alla quale attribuiamo il nome di scienza moderna. Per un breve periodo della storia europea alcuni filosofi e alcuni scienziati (poi qualificati come illuministi e positivisti) pensarono che la crescita e il progresso della scienza, soprattutto la diffusione del sapere scientifico e un modo di pensare scientifico, avrebbero fatto sparire dalla storia i miti, le superstizioni, le teorie incontrollate, le infondate convinzioni che occupavano e occupano arbitrariamente la testa di innumerevoli uomini e donne” (P. Rossi Monti, Introduzione, in Forse Queneau. Enciclopedia delle scienze anomale, a cura di P. Albani e P. della Bella, Bologna, Zanichelli, 1999, p. 3).

… ma le cose non sono andate così...

No. Le cose non sono andate così. Cosa significa tutto ciò? Significa che la fiducia nel valore delle verità scientifiche, come era ben chiaro a Max Weber, non deriva dalla natura, ma è lo specifico prodotto di determinate culture. In sostanza, per sviluppare la razionalità non basta semplicemente promuovere e diffondere l’istruzione scientifica, ma è necessario trasmettere i valori che stanno alla base della scienza, valori nei quali bisogna avere fiducia. Solo così facendo abbiamo la speranza di educare le persone a distinguere chiaramente fra scienza e magia, fra scienza e pseudoscienza.

Mi pare che questo andrebbe fatto a partire dalla scuola

Già, però, a scuola noi studiamo molte discipline scientifiche, molte nozioni e formule, ma raramente siamo introdotti a una discussione su come funziona davvero la scienza, i suoi principi, i suoi metodi, i suoi valori. Senza questa consapevolezza, lo spirito critico non si forma, e alla fine il risultato è che non sappiamo più distinguere un comportamento scientifico da uno pseudoscientifico. Ma bisogna tenere presente anche un altro punto fondamentale: che la battaglia per lo spirito critico e la razionalità va compiuta ad ogni generazione, perché noi siamo naturalmente portati, come ci insegna la psicologia cognitiva, a commettere errori e fare valutazioni sbagliate, e siamo costantemente soggetti a bias e pregiudizi. Fa parte della nostra natura. La scienza moderna nasce proprio per limitare le nostre valutazioni individuali, che sono spesso errate.

Le religioni quali responsabilità hanno nell’esistenza delle pseudoscienze?

Galileo Galilei ci ha insegnato che scienza e religione abitano due mondi diversi. La religione ha a che fare con la nostra spiritualità, che deve essere un fatto del tutto personale e individuale. Ma non deve mai interferire con lo studio della natura e dell'uomo, né pensare di condizionarne i risultati. Se le religioni hanno invece questa pretesa, allora sicuramente finiscono per alimentare atteggiamenti pseudoscientifici. Inoltre, la storia ci dimostra, proprio a partire dal processo a Galileo, che quando le religioni intendono porsi al di sopra della scienza, intendendo sostituirsi ad essa nella spiegazione del mondo, sono destinate ad essere regolarmente smentite. Oltre alle religioni tradizionali, ci sono anche tanti movimenti spirituali (come, ad esempio, la teosofia) che sono caduti in questo errore, e molti continuano tutt'oggi a farlo.

Perché nell’ultimo capitolo affermi: “Studiare le credenze, non è meno importante dell’insegnare le verità”. Ti chiedo di aggiungere qualcosa a quella frase.

Perché anche questa è una cosa che si dovrebbe iniziare a fare a scuola, mostrando come funziona la pseudoscienza, perché certi argomenti non hanno valore, mettendo a confronto le interpretazioni corrette con quelle sbagliate. È un lavoro faticoso, ma è l'unico modo che abbiamo per far conoscere veramente la scienza, il suo metodo e i suoi valori.

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Marco Ciardi
Breve storia delle pseudoscienze
Pagine: VIII-168, Euro 14,90
Hoepli


Fortezza Est

Burt (il capo dei banditi) – A che pensi Sam?
Sam (l’ex sceriffo)- A quando ero felice…
Burt – Tu… felice! … e dove?... dimmi Sam
Sam – Alla Fortezza
Burt – E dove si trova… voglio andarci
Sam – oltre le Rocce Rosse ad Est di Alos, perciò qualcuno la chiama Fortezza Est.

Dal film “Oltre le rocce rosse”, 1951.

Non vi garantisco la stessa felicità che toccò all’ex sceriffo Sam, ma senza andare fino ad Alos, oltre le Rocce Rosse, se siete in Italia, e ancor di più se state a Roma, comodamente, una capatina potete farla a una Fortezza Est.
È un centro culturale aperto nell’antico quartiere Torpignattara. Territorio che risale all’età imperiale che oggi si estende su di una superficie di circa 2,30 km² con oltre 46.000 abitanti.
Bel coraggio ad aprire proprio in questi giorni, motivo di più per incoraggiare quest’iniziativa.

Fortezza Est è nata dalla progettazione culturale di Eleonora Turco e Alessandro Di Somma (in foto).
Eleonora e Alessandro, sono già co-fondatori e co-direttori artistici a Roma del Teatro Studio Uno e de LaRocca Fortezza Culturale.

Estratto dal comunicato stampa.

«È stata la prima stireria e lavanderia del quartiere, poi bisca, palestra, chiesa evangelica. Dopo anni di disuso, sarà una fortezza culturale fluida e aperta al territorio.
Sarà un teatro, una libreria, una biblioteca, un laboratorio: sarà Fortezza Est.
Fortezza Est è uno spazio di 400 mq che viene restituito al territorio. Qui si trasferirà la Biblioteca Condivisa di Quartiere, la prima di Roma, lanciata lo scorso anno da Eleonora Turco e Alessandro Di Somma; in un luogo ricco di stanze, pronte ad accogliere un rinnovato e più ampio respiro artistico e performativo, laboratoriale e creativo.
Riqualificazione di uno spazio in disuso, nuova luce che si accende nella periferia romana.
Non solo. Sarà possibile contribuire alla Biblioteca Condivisa di Quartiere: punto di incontro e simbolo dell’intero progetto, chiunque sarà libero di condividere le proprie esperienze letterarie, le proprie letture, donando libri e volumi e prendendone in prestito.
Eccellenza nell’imprenditoria culturale romana e non solo, Eleonora Turco e Alessandro Di Somma non sono nuovi a queste operazioni di recupero di spazi e riqualificazione attraverso la cultura. Con il Teatro Studio Uno hanno portato il teatro e l’arte in una delle periferie più complesse di Roma con 400 spettacoli, 50 residenze, 10 produzioni: 10 anni di sperimentazioni, contemporaneità e nuove drammaturgie che con una direzione artistica "partita dal basso" è riuscita a coinvolgere l'intero quartiere, chiamando nomi poi "eletti" nel teatro istituzionale e pluripremiati.
La pandemia li ha portati a rimettersi in discussione e intraprendere un nuovo cammino, dimostrando la forza di un’imprenditoria creativa che ha lavorato sul rilancio di se stessa, guardando al territorio.
Dopo anni di progettazione culturale sul territorio – hanno dichiarato – lo stop forzato della pandemia ci ha costretto a pensare alla nostra città e al futuro prossimo di rinascita. Da qui, abbiamo deciso di raccogliere la sfida di guardare oltre, gettare il cuore oltre l’ostacolo e riprogettare. È nata così l’esigenza di dare vita a una Fortezza Est.

Gli orari d’apertura sono coerenti con le disposizioni in materia d’emergenza sanitaria.

Ufficio Stampa HF4 www.hf4.it - Marta Volterra marta.volterra@hf4.it - 340.96.900.12
Matteo Glendening matteo.glendening@hf4.it 391.13.70.631

Fortezza Est
Via Francesco Laparelli 62
Quartiere Torpignattara, Roma
Info: fortezzaest@gmail.com
Tel: 329 8027943



Il giornale - partito (1)

In Italia da molti anni – in particolare modo dalla comparsa di Craxi in poi, sempre via via più degradando – la politica parla solo di spartizione del potere con annesso bottino. Lo fa fingendo idee con parole avvelenate e violente, facendo credere così di parlare come parla il popolo e in molti ci cascano. Ci sono, però, angoli, pochi ma ci sono, in cui si elaborano analisi e si prospettano contenuti.
Uno di questi è un giornale che compie adesso cinquant’anni: il Manifesto
Anche per chi come me è lontano da quelle posizioni ideologiche è doveroso riconoscergli il merito di una grande onestà intellettuale e d’essere stato, e ancora lo è, uno dei pochissimi luoghi di fruttuoso dibattito. Ammettendo, ad esempio, perfino proprie sconfitte, oltre ad aver avuto sguardo lungo anticipando tematiche che, sfuggite al Pci (per non dire degli altri partiti), si sono negli anni dimostrate d’urgente attualità sociale e culturale: dall’ecologia all’animalismo, dai diritti delle minoranze alle condizioni dei detenuti. E ancora, la partecipata attenzione ai nuovi movimenti artistici: dalle arti visive al tecnoteatro, dal video al fumetto, dalla musica alla danza con l’imperdibile supplemento “Alias”. Il tutto mosso anche da una maiuscola fantasia, ricordate quel geniale motto “La rivoluzione non russa”?

La preziosa casa editrice Odradek diretta da Claudio Del Bello ha pubblicato un libro che percorre la storia di quel quotidiano: Il giornale – partito Per una storia de il Manifesto
Lo firma Massimiliano Di Giorgio (1965) giornalista e scrittore.
Ha lavorato all’agenzia di stampa “Reuters” e al quotidiano “l’Unità”. QUI il suo sito web.
L’autore esplora dalle origini ai giorni nostri quest’avventura editoriale con una scrittura che, pur attenendosi rigorosamente a documenti, testimonianze e scritti d’epoca, procede con un ritmo che rende ogni pagina appassionante e illustra anche mancanze ed errori di quel percorso senza vestire la toga da giudice. Libro prezioso destinato ad essere un ever green perché chiunque in futuro vorrà misurarsi sullo stesso tema dovrà necessariamente passare per le pagine di Massimiliano Di Giorgio.

Dalla presentazione editoriale.

«il manifesto è stato negli anni della Repubblica molte cose. Dapprima un’area culturale eterodossa all’interno del Partito comunista italiano all’epoca del «centralismo democratico». Poi un collettivo di politici e intellettuali che scelse di «farsi partito» dopo la radiazione dal Pci del novembre 1969.
Erano gli anni della contestazione giovanile e dell’autunno caldo operaio, dell’invasione sovietica di Praga e della crisi del mondo comunista. Poche settimane dopo, avrebbe preso avvio con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, la “strategia della tensione” che comunicava esplicitamente alle nuove generazioni di operai e studenti che avevano fatto la loro entrata nell’agone pubblica, il carattere della “democrazia bloccata” italiana.
Figlio del “lungo ’68”, il manifesto oggi è un giornale libero e per questo sempre in lotta per la difesa della sua identità e della stessa sua sopravvivenza.
Questo libro racconta la sua storia. Dalle origini del gruppo di Rossanda, Pintor, Magri, Parlato e Natoli al transito nei movimenti degli anni Settanta, fino all’approdo nell’era post-ideologica successiva alla caduta del muro di Berlino.
A cinquant’anni dalla sua nascita, rievoca le ragioni che portarono al formarsi di quella che è stata la riconosciuta coscienza critica della sinistra, richiama la necessità di interrogarsi sulla centralità dell’esercizio della libertà di pensiero e azione nella politica e sul significato che ciò assume nella società contemporanea.
La storia de il manifesto non si riduce quindi alla vicenda di un gruppo “frazionista”, raccoglitore di esigui consensi elettorali, ma finisce per rappresentare uno spaccato della vita pubblica e politica del Paese.
Un punto di osservazione originale e mai scontato della vicenda dell’Italia repubblicana».

QUI una presentazione dibattito sul libro.

Segue ora un incontro con Massimiliano Di Giorgio.


Il giornale - partito (2)


A Massimiliano Di Giorgio (in foto) ho rivolto alcune domande.

Nell’accingerti a scrivere questo libro qual è la cosa che hai deciso di praticare assolutamente per prima e quale per prima la cosa assolutamente da evitare?

Di sicuro mi sono imposto la distanza, pur essendo sempre stato un fan del giornale, anche se poi non so se sono riuscito a praticarla. Luciana Castellina, per esempio, mi ha detto che facevo chiaramente il tifo per Il Manifesto contro il Pdup, cioè il partito in cui a metà degli anni Settanta Il Manifesto è confluito per un po’, finché Pintor, Rossanda, Parlato e altri hanno deciso di uscirne, portandosi via il giornale (mentre Castellina e Magri sono rimasti). Quello che forse mi sono trovato a evitare di fare, per una sorta di rispetto, è parlare anche degli aspetti personali, oltre che politici del Manifesto. Intendo la vicenda umana, delle relazioni, le amicizie, anche gli amori. Oggi, per esempio, ne scriverei.

Faccio adesso una domanda per una risposta destinata ai più giovani e ai più distratti.
Quali furono le ragioni che portarono il gruppo (Rossanda, Pintor, Magri, Parlato, Natoli) a entrare in collisione con la linea del Pci
?

Il gruppo del Manifesto criticava alcune cose, nella linea politica e anche nella gestione interna del Pci, pur ritenendo, come ha detto recentemente Filippo Maone, che fosse il miglior partito comunista del mondo. Sembra paradossale, no?
In politica interna, l’apertura verso il centro-sinistra (la formula di governo iniziata nei primi anni Sessanta, basata sull’alleanza di governo Dc-Psi), la tendenza “governista” del Pci, o almeno di una sua parte.
In politica estera, la “timidezza”, diciamo, a rompere con l’Urss, che quelli del Manifesto consideravano ormai una potenza imperialista. Magri, Pintor, Rossanda e gli altri ritenevano invece che il modello dovesse essere la Cina di Mao.
Infine, c’era la questione del dissenso interno, la critica a un modello considerato troppo centralista e burocratico di gestione del partito.

Nella radiazione dal Pci avvenuta il 26 novembre del 1969, è accertata oppure no un’influenza sovietica su quella decisione?

“Accertata” non direi, non mi risulta nessun documento ufficiale in questo senso, anche se il Partito comunista russo espresse pubblicamente soddisfazione, dopo la cacciata. Che la critica del Manifesto all’Urss fosse una ragione di radiazione è evidente, nonostante il Pci del 1969, dopo l’invasione della Cecoslovacchia, non fosse quello del 1956, quando il Patto di Varsavia invase l’Ungheria. Anche se poi occorreranno anni prima che Enrico Berlinguer dica, nel 1981, dopo il colpo di Stato in Polonia, che “la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”, quella russa, si è esaurita. A questo, va aggiunta la posizione filocinese del Manifesto. Ma c’era anche una questione interna. Dopo aver messo a tacere l’ala destra del partito, quella “riformista”, i leader del Pci volevano anche mettere all’angolo la sinistra, che criticava appunto la gestione “burocratica”.
Insomma, ci furono più ragioni insieme. E gli stessi esponenti del Manifesto si espressero in modo diverso, sulle cause della radiazione.

La preziosa cronologia che fa parte degli apparati del tuo libro si ferma al 2 maggio 2017 annotando che è la data della morte di Valentino Parlato.
È un caso o dobbiamo leggervi un significato
?

No. È semplicemente l’ultimo evento importante nella storia del Manifesto, prima che chiudessi il libro. Se ne facessi una nuova edizione, ovviamente aggiungerei la morte di Rossana Rossanda, il 20 settembre 2020.

Che cosa ha rappresentato per la Sinistra “il Manifesto” durante questi cinquant’anni?

Ecco, pare scontato dirlo, ma è stata soprattutto una coscienza critica. Non solo dopo aver lasciato il Pdup, ma anche prima, quando era un gruppo, una rivista, un quotidiano. Quello che gli è stato spesso rimproverato, era di voler impartire lezioni un po’ a tutti, e forse è vero. Il Manifesto non è riuscito ovviamente a impedire che si arrivasse a una crisi così evidente della sinistra organizzata, dei partiti di sinistra marxista o socialdemocratica, in Italia. Ma non è che nel resto d’Europa la situazione sia andata molto diversamente.

Nell’attuale situazione politica italiana, quale vedi possa essere il ruolo de il Manifesto?

Prima di tutto, Il Manifesto è un giornale che cerca di continuare a esistere in un contesto che non è proprio facilissimo per l’editoria in generale, figuriamoci per quella politica. Direi che oggi è un giornale-community, insieme ai suoi lettori, amici e sostenitori: rappresenta uno spazio di riflessione critica, continua a fornire una lettura originale dei fatti, custodisce la memoria ma guarda al futuro. Non credo sarà mai organo di un partito - l’ultima volta che ha corso questo rischio è stato ai tempi di Rifondazione Comunista - ma il giornale di un’area democratico-radicale ed ecologista.

……………………….

Massimiliano Di Giorgio
Il giornale – partito
Pagine 288, Euro 22.00
Odradek


Il dio degli incroci (1)

Come sanno quei generosi che frequentano queste pagine web, Cosmotaxi presenta anche libri che appartengono ad aree di pensiero alle quali non appartiene il suo conduttore che sono io. Devono avere, però, due per me irrinunciabili caratteristiche: chiarezza dei contenuti che vogliono esprimere e una scrittura che assecondi la condizione di prima con rapidità e priva di sussiegosità accademica.
Il libro di oggi, ad esempio, rappresenta valorosamente quelle qualità pur sostenendo idee e autori dai quali sono lontanissimo.
Lo ha pubblicato la casa editrice Exorma.è intitolato Il dio degli incroci Nessun luogo è senza genio.
Ne è autore Stefano Cascavilla.
L’editore così lo presenta: “Viaggiatore, alpinista, architetto, appassionato di psicologia analitica, interroga il mito millenario del dio del luogo per comprendere la qualità invisibile di vette, foreste, edifici, strade, il loro aspetto inconscio ed archetipico. Ripercorrendo le esperienze di viaggi e cammini in tutto il mondo, ci accompagna passo dopo passo alla ricerca di quel tessuto sottile, quella matrice psichica nascosta nella materia, in ogni momento, ovunque siamo, nei boschi siberiani o sulle Ande peruviane. È il mito senza tempo dell’Anima del Mondo”.

‘Ricordarsi che la più grande tragedia di tutti i tempi, la tragedia esemplare, quella che secondo Freud ci riguarda personalmente, comincia ad un incrocio dove Edipo, per una questione di non risolta precedenza, uccise il padre, Laio’.
Così Ennio Flaiano in “L’occhiale indiscreto”
Esiste un dio degli incroci? Vi sono al proposito dotte teorie e sto per presentarvene una. Eppure, se qualcuno volesse da me una risposta a bruciapelo a quella domanda, direi: “Sì, è il semaforo”. Dio terribile che non pedona trasgressioni, chi s’azzarda a violarne le tre regole cromatiche da lui volute, finisce all’ospedale o gli può andare anche peggio.

Ancora dalla presentazione editoriale

«Orfani dei miti antichi non abbiamo avuto abbastanza tempo per consolidarne di nuovi e il nostro atteggiamento disilluso e predatorio ci relega in uno spazio desacralizzato, in una relazione dolorosa con la Terra, con un Cosmo che non si anima più”.
”Nessun luogo è senza genio” scriveva un retore del IV secolo, testimone che ogni angolo di spazio ha una sua qualità invisibile. Il dio del luogo era una certezza, come il sorgere del Sole.
Il dio degli incroci presidia i prati di San Bartolomeo nel massiccio del Terminillo come pure la Karakorum Highway o le routes del Nord America. Il Genius loci si rivela nei villaggi d’altura della valle dell’Homboro in Pakistan come a Praga o a Berlino. L’autore si imbatte nel genio dei boschi siberiani e nelle divinità delle Ande peruviane, ma anche edifici, mura, torri e fabbriche si comportano come gli ambienti naturali.
Al racconto di viaggio si affianca un percorso nel pensiero e nelle opere del mondo antico e contemporaneo: da Plotino a Jung, da Platone e Bachelard, da Leopardi a Hillmann, dai miti greci alla cultura sapienziale cinese.
Il genius loci è ovunque, basta imparare a riconoscerlo. Si rivela nei villaggi d’altura della valle dell’Homboro in Pakistan come a Praga, a Berlino; anche edifici, mura, torri e fabbriche si comportano come gli ambienti naturali».

QUI l’autore legge pagine del suo libro.

Segue ora un incontro con Stefano Cascavilla.


Il dio degli incroci (2)


A Stefano Cascavilla (in foto) ho rivolto alcune domande.


Tra i motivi che l’hanno spinto a scrivere questo saggio, può indicarne il principale o i principali?

Quando si cammina per lunghi tratti e molti giorni, in solitudine, si prova qualcosa. Si entra in uno stato di coscienza diverso, diciamo alterato, in cui è possibile contattare, o essere contattati, da un piano della realtà che non è quello ordinario. Non è misticismo, ma un dato di fatto. Il vino fa la stessa cosa, ed era un dio, per i Greci. Condividere questo e, prima ancora, tentare di comprenderlo, è senz’altro la ragione per cui ho scritto. Ci ho provato, almeno.

Nell’affrontare la stesura di questo testo qual è stata la cosa che ha deciso di praticare assolutamente per prima e quale quella per prima assolutamente da evitare?

Mi sono accorto presto che l’argomento in sé rischiava facilmente di sconfinare nella “new age”, nella spiritualità un tanto al chilo. O anche nel “solito” diario di cammino, oggi sempre più “mainstream”. Per questo ho cercato fortemente di attenermi ad un approccio empirico, basato su fatti. Una ricerca che ha richiesto alcuni anni e molte letture, ogni tanto anche improbabili. Che poi i fatti siano miti, leggende del folklore o idee filosofiche ricorrenti, come la grande intuizione dell’Anima del Mondo, questo non cambia la questione. Il mito è una realtà psichica, ma fa parte del reale. È una cosa che esiste, anche se non si vede. La metafisica, spiegazioni fuori dal reale, invece erano da evitare con cura.
A questo ho voluto associare molti scorci di viaggio, ricordi, luoghi. Per dare più vita, con la narrazione del concreto, ad un ragionamento che avrebbe potuto essere astratto o mistico, dunque incomprensibile. L’esperienza personale, del resto, anch’essa è una fonte. Spero di esserci riuscito.

Leggiamo nel suo libro: “Tornare a vedere dove ora non vediamo più nulla è possibile”
Quali strumenti vanno agiti per riuscirvi
?

Se mi permette, direi che la parola “strumenti” già mette la domanda sul binario sbagliato. Non è la tecnica ciò che ci aiuta, neanche intesa come un metodo. Piuttosto una disposizione psichica. L’accettazione del fatto che la coscienza, di cui siamo così fieri, è ben lungi dall’essere l’unico “dominus”, quello che decide tutto, rispetto ai fatti naturali, esteriori ed interiori. Se comprendiamo questo, vedremo facilmente come oltre alla nostra, esista una mente non umana in azione nel Cosmo. Non solo sulle vette sublimi ma anche nel giardino di casa. Nei luoghi. Una potenza con cui dobbiamo scendere a patti per evitare conseguenze nefaste. E che, prima ancora, dobbiamo tornare ad ascoltare.
Non è certo una mia idea. I romantici, i neoplatonici, Jung, i filosofi rinascimentali, intere culture hanno visto le cose in questo modo. Abbiamo una storia immensa di miti che lo raccontano. È alla portata di chiunque. Perché dovremmo essere proprio noi quelli che hanno ragione? Questo non è ragionevole. Chiamiamo in causa la scienza per sostenere le nostre tesi, ma la scienza stessa è un mito!
Per tornare a vedere, ci serve recuperare un punto di vista antico, almeno un po’ di esso.

Molti luoghi, e anche molti incroci intesi proprio in senso stradale, appaiono oggi con stazioni di servizio, luci potenti, cartelli pubblicitari, scritte in movimento. Sono quelli che Marc Augé definì con un’espressione che ha avuto largo successo fin dal 1992: “Non-lieux”, Non Luoghi”. Anche in questi ambienti lontani da un invito a riflessioni spirituali lei riesce a immaginare un Dio del Luogo oppure sono proprio questi i luoghi che lo escludono?

Questo è il punto! La frase di Servio per cui “nessun luogo è senza Genio” non è una metafora letteraria, ma un fatto reale. C’è un dio del luogo anche nel bar triste della stazione con le luci a basso consumo. Nel canale inquinato. Nei non-luoghi. Feronia e Rudrà erano dèi della boscaglia indifferenziata, dove un punto vale l’altro. Dalle iscrizioni votive romane sappiamo che c’era un Genius Loci della Zecca, del mercato degli schiavi, della caserma. I Romani erano gente pratica, non avrebbero inventato un dio senza un fine, se non avessero sentito che rappresentava qualcosa. Comprendere cosa sia questo “qualcosa” è esattamente il tema del libro. Naturalmente qui non faremo spoiling …

Considerare il suo lavoro quale quello di un autore anti-moderno è definizione corretta oppure la ritiene errata?
In tale caso, quale pensa sia la più giusta volendo indicare il suo pensiero
?

È una definizione errata. “Anti” è davvero eccessivo. La mia sensazione, piuttosto, è che la modernità non dia alcuna risposta – anzi spesso si ponga da ostacolo – ad una serie di questioni fondamentali. Per le quali una visione tradizionale è certamente più efficace. Il rapporto con la Natura, per dirne una che ci sta scuotendo da vicino. O la relazione con la sfera invisibile della realtà. Su questo la modernità annaspa, a mio parere. È efficiente ma spesso inefficace. Se non altro fino ad oggi.
Certo non mi sognerei di negare quanto la modernità, e la differenziazione della coscienza, abbiano reso la vita confortevole. Ma credo sia salutare, per il nostro equilibrio, mantenerci aperti anche ad un punto di vista diverso: irrazionale, indefinito, mitico, estetico. La figlia di un caro amico un giorno mi definì un greco, inteso come antico. Ecco, se proprio devo, questa è una definizione che sento più appropriata.
Mi permetta di concludere con una citazione: “Tecnica e scienza hanno effettivamente conquistato il mondo: resta da chiedersi se l’anima ne abbia tratto qualche vantaggio”. Sono parole di Jung. Non mi pare ci sia molto da aggiungere.

……………....…………...

Stefano Cascavilla
Il dio degli incroci
Pagine: 288, Euro 16.00
Exorma


Informatica in un click

La casa editrice Editoriale Scienza ha pubblicato un libro che tratta uno dei principali motori che muovono il mondo di questi anni: l’informatica.
"Assieme con l'elettronica” – informa il web – “con le telecomunicazioni unificate insieme sotto la denominazione ‘Tecnologie dell'Informazione e della Comunicazione’ (TIC), rappresenta quella disciplina e, allo stesso tempo, quel settore economico che ha dato vita e sviluppo alla terza rivoluzione industriale attraverso quella comunemente nota come rivoluzione digitale”.
Il libro, intitolato Informatica in un Click, è destinato, secondo il consiglio dell’editrice, ai ragazzi fra gli 8 e i 10 anni.
Il testo, firmato da due eccellenti divulgatori: Mathieu Hirtzig e David Wilgenbus, con le funzionali illustrazioni di Vincent Bergier, punta a fare notare quanto l’informatica sia presente nella nostra vita di tutti giorni, quanto la usiamo senza avere piena (e, talvolta, nessuna) conoscenza della sua presenza e della sua influenza sull’agire di noi umani.

Gli oggetti digitali sono tutti animati dall’informatica e le pagine dei tre autori fanno capire come funziona il computer, la macchina fotografica digitale, il cellulare, il rilevamento meteorologico, tanti strumenti in sala operatoria e, ahinoi, nel controllo sociale (si veda, ad esempio, il caso Snowden) o nelle guerre odierne in cui ogni esercito cerca, come da sempre, ma ora con esiti catastrofici di recare il massimo danno agli avversari.
Le nuove frontiere dell’informatica non investono solo i campi cui accennavo prima, ma anche l’area artistica..Sì, perché ne abbiamo esperienze diffuse nelle arti visive, negli effetti speciali nei film e sui palcoscenici, nei videogames.
Il libro è strutturato in 5 capitoli:.dalla prima macchina programmabile (il telaio) all’intelligenza artificiale, passando per gli antenati dei moderni computer.
Nella vita dell'informatica si scoprono grandi nomi delle scienze: Turing, ad esempio, che ha immaginato il primo modello teorico di computer e che grazie a lui gli Alleati hanno decifrato i codici nazisti; e ancora Ada Lovelace Byron, Samuel Morse, Marc Zuckerberg e tanti altri.
C’è chi ha detto che la realtà conquistata dall’informatica sta togliendo terreno alla fantascienza perché ci avviciniamo sempre più a traguardi che appena ieri o l’altro ieri appartenevano soltanto alla letteratura di fantascienza.

Dalla presentazione editoriale
«L’informatica spiegata ai bambini in un manuale agile e dalla struttura immediata, per introdurli a un argomento di grande attualità.
L’informatica ha cambiato e continua a cambiare il modo di vivere. Gli smartphone sono potentissimi computer in miniatura, i robot sono utili nelle fabbriche, sui fondali degli oceani e perfino per esplorare altri pianeti, grazie a Internet possiamo collegarci con chi sta all’altro capo del mondo. Gli storici chiamano quella in corso “terza rivoluzione industriale”, dopo la prima consentita dal carbone e la seconda dovuta all’elettricità. Scopri le tappe fondamentali di questa rivoluzione, da Gutenberg all’intelligenza artificiale, leggi le vicende dei grandi protagonisti, da Ada Byron ad Alan Turing a Steve Jobs, indaga come funzionano gli oggetti tecnologici. Infine, dai uno sguardo alle sfide del futuro: programmazione, privacy, ricerca scientifica, sostenibilità».

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Mathieu Hirtzig – David Wilgenbus
Informatica in un click
Traduzione di Erica Mazzero
Illustrazioni di Vincent Bergier
Pagine 80, Euro13.90
Editoriale Scienza


Voglio separarmi da te non da nostro figlio


Non sorprenda se oggi presento un libro che può sembrare lontano dalle cose di cui solitamente mi occupo in queste pagine: saggistica letteraria o storica, concerti, film, mostre di arti visive o di carattere scientifico, comunicazione e nuove tecnologie.
Presenterò un volume che si occupa di un dramma diffuso che per impatto sociale ed emotivo non è inferiore ad altri che sono causa di grandi sofferenze psicologiche e pure economiche; perfino, talvolta, all’origine di fatti di sangue di cui riferiscono le cronache.
Si tratta, com’è chiaro dal titolo di questa nota, della separazione di una coppia, sposata o non che sia, che abbia avuto uno o più figli.
Un approccio a una foto della società italiana in fatto di matrimoni e separazioni si trova in un resoconto Istat con la pubblicazione stampa del febbraio 2021, ma con dati ancora in elaborazione.

Titolo del volume cui accennavo in apertura: Voglio separarmi da te non da nostro figlio Guida pratica per genitori .
Lo firmano Marco Pingitore e Alessia Mirabelli.
Di Pingitore QUI la sua biografia.
Scorrendo in basso questa pagina troverete un video in cui spiega le tante incongruenze cui va incontro un genitore nell’attraversare l’iter giudiziario in Italia nelle separazioni di una coppia con figli.
Per la bio di Alessia Mirabelli: CLIC.

I due autori sono riusciti usando un linguaggio semplice, chiaro, a illustrare i vari momenti vissuti in una separazione sia sul piano psicologico sia giuridico, avvertendo che in ogni caso è assolutamente da preferire accordi pacifici extra giudiziali. Questo soprattutto per proteggere i bambini dalle temibili conseguenze dall’assistere a uno scontro fra i genitori.
Purtroppo, però, è proprio questa la situazione che assai spesso si verifica diventando il figlio stesso terreno di scontro fra due persone che dovrebbero, invece, proteggere da una lotta per impossessarsi dei figli quasi fossero oggetti di cui si rivendichi la proprietà.
Anche fredde statistiche, oltre all’esperienza quotidiana d’ascolto o d’osservazione che facciamo, porta a notare che la madre – se non colpevole di reati documentati dagli organi di pubblica sicurezza (ma le cose non sono poi così automatiche tranne fatti gravissimi) – ottiene in stragrande maggioranza l’affidamento del minore e qui dipende dal suo comportamento su come gestire, rispetto al suo ex marito o compagno, quell’affidamento.
Problema spinoso e scomodo, ma esistente. Tanto che in tempi alquanto recenti si assiste al formarsi di Associazioni di padri separati. Cito, ad esempio, Papà separati APS Milano. Quest’Associazione fa parte di un coordinamento interassociativo chiamato Colibrì Italia al quale fanno capo diverse altre Associazioni che operano in Italia con la stessa finalità dell’APS Milano che ha per obiettivo l’applicazione della parità genitoriale in Italia, in modo coerente con la legge sull’affido condiviso del 2006 di cui è stata artefice tra gli altri soggetti coinvolti.

Tornando al libro di Pingitore e Mirabelli, mi piace citarne le ultime righe che ribadiscono l’impegno morale del volume: Siamo fortemente convinti che, laddove i genitori decidessero di separarsi, dovrebbero tentare, in ogni modo, di sintonizzarsi sempre sui bisogni evolutivi del figlio, in maniera da non incorrere nel rischio di separarsi anche da lui, oltre che dal partner.

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Marco Pingitore – Alessia Mirabelli
Voglio separarmi da te non da nostro figlio
Pagine 138, Euro 19.00
FrancoAngeli


Una mostra e un appello


Si apre oggi la mostra on line sui crimini commessi dalle truppe di Mussolini in Jugoslavia.
Cliccare QUI per visitarla.

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Ricevo da Eric Gobetti notizia di un appello che volentieri rilancio.

31 marzo 2021

Presidenza della Repubblica
Presidenza del Consiglio dei Ministri
Senato della Repubblica
Camera dei Deputati
Ministero della Difesa
Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale

APPELLO ALLE ISTITUZIONI PER UN RICONOSCIMENTO UFFICIALE DEI CRIMINI FASCISTI IN OCCASIONE DELL'OTTANTESIMO ANNIVERSARIO DELL'INVASIONE DELLA JUGOSLAVIA DA PARTE DELL'ESERCITO ITALIANO

Quest'anno ricorre l'ottantesimo anniversario dell'invasione della Jugoslavia da parte dell'esercito italiano, avvenuta il 6 aprile 1941. Durante l'occupazione fascista e nazista, e fino alla Liberazione nel 1945, in questo territorio si contano circa un milione di morti. L'Italia fascista ha contribuito indirettamente a queste uccisioni con l'aggressione militare e l'appoggio offerto alle forze collaborazioniste che hanno condotto vere e proprie operazioni di sterminio. Ma anche direttamente con fucilazioni di prigionieri e ostaggi, rappresaglie, rastrellamenti e campi di concentramento, nei quali sono stati internati circa centomila jugoslavi. Come studiosi di storia contemporanea, esperti del tema e figure professionali impegnate nella conservazione attiva della memoria siamo convinti che nei decenni passati non si sia raggiunta una piena consapevolezza di questi crimini, commessi purtroppo anche in nome dell'Italia. La Repubblica Italiana non ha mai espresso una netta condanna, né una presa di distanza radicale da queste atrocità: non sono stati istituiti giorni commemorativi, né sono state compiute visite di Stato in luoghi della memoria dei crimini fascisti in Jugoslavia. Chiediamo dunque al Presidente della Repubblica e ai rappresentanti delle principali istituzioni una presa di coscienza di questo dramma storico rimosso. L'ottantesimo anniversario sarebbe l'occasione ideale per farsi carico della responsabilità storica di pratiche criminali che erano il frutto di una logica politica, fascista e nazionalista, che noi oggi fermamente condanniamo, in nome dei valori costituzionali che fondano il patto di cittadinanza democratica. Una dichiarazione pubblica o una visita ufficiale (per esempio al campo di concentramento di Arbe, sull'isola di Rab, dove morirono di fame e di stenti circa 1400 persone, in buona parte donne e bambini) avrebbero un notevole significato simbolico e dimostrerebbero il senso di responsabilità delle nostre istituzioni e il riconoscimento della sofferenza inflitta ai popoli della Slovenia, della Croazia, del Montenegro, della Bosnia ed Erzegovina. Nel solco dei precedenti incontri ufficiali che hanno avuto luogo negli anni passati, dal noto “concerto dei tre presidenti” del 2010 alla visita a Basovizza nel luglio 2020, questa dichiarazione rappresenterebbe un ulteriore passo in avanti sulla strada della riconciliazione europea e di una più ampia comprensione dei processi storici.

FIRME (IN ORDINE ALFABETICO)

Enrico Acciai, Università di Roma “Tor Vergata” 2. Giulia Albanese, Università di Padova 3. Marco Albeltaro Università di Torino 4. Kornelija Ajlec, Univerza v Ljubljani (UL), Filozofska fakultete (FF), Oddelek za zgodovino / Università di Lubiana, Facoltà di arte e scienze umane, Dipartimento di storia 5. Mauro Annoni, presidente Istituto di storia contemporanea di Pesaro 6. Gorazd Bajc, Univerza v Mariboru (UM), FF, Oddelek za zgodovino / Università di Maribor, Facoltà di arte e scienze umane, Dipartimento di storia 7. Bojan Balkovec, UL, FF, Oddelek za zgodovino 8. Stefano Bartolini, Fondazione Valore Lavoro 9. Alberto Basciani, Università Roma Tre 10. Mateo Bratanić, Università di Zara/Zadar 11. Andrea Bellavite, sindaco di Aiello del Friuli 12. Barbara Berruti, storica 13. Davide Bertok, Mondo Senza Guerre e Senza Violenza 14. Corrado Binel, Istituto Storico della Resistenza in Valle d'Aosta 15. Albert Bing, Hrvatski institut za povijest 16. Neja Blaj Hribar, Inštitut za novejšo zgodovino, (INZ) Ljubljana / Istituto di storia contemporanea 17. Corrado Borsa, Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza 18. Maja Božič, UL, FF, Oddelek za zgodovino 19. Luigi Bruti Liberati, Università degli Studi di Milano 20. Marco Buttino, storico 21. Slavko Burzanović, Università del Montenegro, Podgorica 22. Carlo Spartaco Capogreco, Università della Calabria 23. Franco Cecotti, vice presidente ANED Trieste 24. Lev Centrih, Univerza na Primorskem (UP), Fakulteta za humanistične študije (FHŠ), Oddelek za zgodovino / Università del Litorale, Facoltà di scienze umane, Dipartimento di storia 25. Denis Cerkvenik, ZRS Koper, Inštitut za zgodovinske študije 26. Luisa Chiodi, direttrice Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa 27. Chiara Colombini, storica 28. Davide Conti, storico29. Marco Cuzzi, Università degli studi di Milano 30. Dragica Čeč, Znanstveno raziskovalno središče (ZRS) Koper, Inštitut za zgodovinske študije / Centro di ricerche scientifiche Capodistria, Istituto di studi storici 31. Zdenko Čepič, INZ, Ljubljana 32. Štefan Čok, Biblioteca Nazionale Slovena e degli Studi, Trieste 33. Giovanni De Luna, storico 34. Anna Di Gianantonio, presidente ANPI Gorizia 35. Costantino Di Sante, Istituto Storico Provinciale del Movimento di Liberazione di Ascoli Piceno 36. Matteo Dominioni, storico 37. Walter Falgio, Istituto sardo per la storia dell'antifascismo e della società contemporanea 38. Mitja Ferenc, UL, FF, Oddelek za zgodovino 39. Francesco Filippi, storico 40. Marcello Flores, storico 41. Filippo Focardi, Università di Padova 42. Giovanni Focardi, Università di Padova 43. Paolo Fonzi, Università del Piemonte Orientale 44. Luigi Ganapini, storico 45. Gigi Garelli, Istituto Storico della Resistenza di Cuneo 46. Jure Gašparič, INZ, Ljubljana 47. Fabio Giomi, Collège de France, Parigi 48. Andrea Giuseppini, Associazione Topografia per la Storia 49. Tilen Glavina, ZRS Koper, Inštitut za zgodovinske študije 50. Eric Gobetti, storico 51. Federico Goddi, Università di Pisa 52. Carlo Greppi, Istituto nazionale Ferruccio Parri 53. Jurij Hadalin, INZ, Ljubljana 54. Isabella Insolvibile, Istituto nazionale Ferruccio Parri 55. Aleksandra Ivić, promotrice della storia e della letteratura jugoslava 56. Aleksandar Jakir, Sveučilište u Splitu / Università di Spalato 57. Branimir Janković, Università di Zagabria 58. Zdravka Jelaska Marijan, Hrvatski institut za povijest 59. Milica Kacin Wohinz, INZ, Ljubljana 60. Aleksej Kalc, Znanstveno raziskovalni center Slovenske akademija znanosti in umetnosti (ZRC SAZU) / Centro di ricerche scientifiche della Accademia slovena delle scienze e delle arti 61. Dušan Kalc, giornalista e vicepresidente provinciale ANPI di Trieste 62. Tjaša Konovšek, INZ, Ljubljana 63. Marco Labbate, Università di Urbino, vicedirettore Istituto di storia contemporanea di Pesaro 64. Urška Lampe, Università Ca' Foscari di Venezia 65. Giuseppe Lorentini, Centro di documentazione del campo di concentramento fascista di Casoli 66. Maja Lukanc, INZ, Ljubljana 67. Oto Luthar, ZRC SAZU 68. Simone Malavolti, Associazione pAssaggi di Storia 69. Giuseppe Manias, Biblioteca Gramsciana di Ales 70. Branko Marušič, ZRC SAZU 71. Laura Marzi, Sindaco del Comune di Muggia 72. Peter Mikša, UL, FF, Oddelek za zgodovino 73. Franko Mirošević, povijesničar/storico 74. Ivo Mišur, povijesničar/storico75. Gašper Mithans, ZRS Koper, Inštitut za zgodovinske študije 76. Dušan Mlacović, UL, FF, Oddelek za zgodovino 77. Boris Mlakar, INZ, Ljubljana 78. Dušan Nećak, UL, FF, Oddelek za zgodovino 79. Simone Neri Serneri, Università di Firenze 80. Nadia Olivieri, Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell'età contemporanea 81. Oskar Opassi, ZRS Koper, Inštitut za zgodovinske študije 82. Mila Orlić, Università di Fiume-Rijeka 83. Amedeo Osti Guerrazzi, storico 84. Cesare Panizza, Università di Verona 85. Tomaž Pavlin, Zgodovinsko društvo Ljubljana / Società storica di Lubiana 86. Santo Peli, Università di Padova 87. Egon Pelikan, ZRS Koper, Inštitut za zgodovinske študije 88. Tea Perinčić, Pomorski i povijesni muzej Hrvatskog primorja Rijeka / Museo Marittimo e Storico del Litorale Croato Fiume 89. Hrvoje Petrić, povijesničar/storico 90. Stefano Petrungaro, Università Ca' Foscari di Venezia 91. Paolo Pezzino, Presidente dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri 92. Niccolò Pianciola, Nazarbayev University 93. Jože Pirjevec, ZRS Koper, Inštitut za zgodovinske študije, Centro di ricerche scientifiche di Capodistria 94. Milovan Pisarri, Centre for Public History di Belgrado 95. Armando Pitassio, Università degli studi di Perugia 96. Carla Poncina, Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Vicenza 97. Martin Premk, Vojaški muzej Slovenske vojske / Museo militare dell'Esercito sloveno 98. Jure Ramšak, ZRS Koper, Inštitut za zgodovinske študije 99. Mateja Ratej, ZRC SAZU 100. Meta Remec, INZ, Ljubljana 101. Božo Repe, UL, FF, Oddelek za zgodovino 102. Mateja Režek, ZRS Koper, Inštitut za zgodovinske študije 103. Luciana Rocchi, Istituto storico grossetano della Resistenza e dell'età contemporanea-ISGREC 104. Giorgio Rochat, Storico 105. Davide Rodogno, Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra 106. Drago Roksandić, Sveučilište u Zagrebu 107. Francesca Rolandi, Istituto e Archivio Masaryk dell'Accademia delle scienze della Repubblica Ceca 108. Toni Rovatti, Università di Bologna 109. Vida Rožac Darovec, ZRS Koper, Inštitut za zgodovinske študije 110. Paolo Rumiz, scrittore 111. Sabine Rutar, Institute for East and Southeast European Studies, Regensburg 112. Karlo Ruzicic-Kessler, Libera Università di Bolzano 113. Giacomo Scotti, scrittore 114. Irena Selišnik, UL, FF, Oddelek za zgodovino 115. Livio Isaak Sirovich, ricercatore 116. Catia Sonetti, Direttrice Istoreco di Livorno 117. Carlo Spagnolo, Università di Bari 118. Stojan Spetič, Senatore X legislatura 119. Matteo Stefanori, Università della Tuscia 120. Urška Strle, UL, FF, Oddelek za zgodovino 121. Barbara Šatej, UL, FF, Oddelek za zgodovino122. Kaja Širok, UL, FF, Oddelek za sociologijo 123. Viljenka Šnuderl Škorjanec, Gimnazija Bežigrad, Ljubljana / Liceo Bežigrad, Ljubljana 124. Marko Štepec, Muzej novejše zgodovine Slovenije /Museo di storia contemporanea della Slovenia 125. Nevenka Troha, Istituto per la storia contemporanea di Lubiana / INZ, Ljubljana 126. Fabio Vallon, presidente ANPI - VZPI Trieste 127. Marta Verginella, Università di Lubiana 128. Anna Maria Vinci, storica 129. Blaž Vurnik, Mestni muzej Ljubljana / Museo della città di Lubiana 130. Marko Zajc, INZ, Ljubljana 131. Andrea Zannini, Università di Udine 132. Žiga Zwitter, UL, FF, Oddelek za zgodovino 133. Salvator Žitko, Zgodovinsko društvo za južno Primorsko / Società storica per il Litorale

ENTI:

Istituto Nazionale Ferruccio Parri (Rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell'età contemporanea – 65 enti associati) -Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa -Pomorski i povijesni muzej Hrvatskog primorja Rijeka / Museo Marittimo e Storico del Litorale Croato, Fiume -Znanstveno raziskovalni center Slovenske akademija znanosti in umetnosti / Centro di ricerche scientifiche della Accademia slovena delle scienze e delle arti -Znanstveno raziskovalno središče (ZRS) Koper, Inštitut za zgodovinske študije / Centro di ricerche scientifiche Capodistria, Istituto di studi storici -Zgodovinsko društvo Ljubljana / Società degli storici di Lubiana -Zgodovinsko društvo za južno Primorsko / Società degli storici del Litorale -Istoreco - Reggio Emilia -Associazione culturale "Tina Modotti" - ODV (Trieste) -Centro studi movimenti di Parma -Archivi della Resistenza -Istituto Di Storia Contemporanea Pier Amato Perretta (Como) - Casa della Memoria di Brescia.


Alberto Rossatti legge Proust


L’audiolibro, dopo una faticosa partenza, si sta affermando anche sul mercato editoriale italiano. Perché il racconto per voce sola è tanto coinvolgente per l’ascoltatore?
Lo chiesi a Piermario Vescovo, autore per Marsilio di “A viva voce” in un incontro che ebbi con lui tempo fa. Così rispose.
«Il teatro dell’ascolto (anche se come spettatore mi sento principalmente attratto da un teatro della visione) non ha mai finito di riguardarci. La cultura occidentale ha riconquistato lentamente il sistema della “recitazione per parti” e per attori “incarnanti” i personaggi, perduto nella frattura dal mondo antico. Nel medioevo si immaginava che il teatro consistesse nella lettura da parte di una sola persona dell’intero testo con l’accompagnamento di visualizzazione parallela. Si torna dunque, inevitabilmente, ad esperienze remote e ho provato a raccogliere in “A viva voce” qualche traccia di tale continuità.
Penso che la lettura dei testi ad alta voce – quindi anche l’audiolibro – possa offrire grandi potenzialità, se non realizzata con modalità stereotipe (se si evitano cioè le intonazioni attoriali convenzionali e di routine). Nei tempi lontani si leggeva solo o prevalentemente ad “alta voce” e quella che si dice, oggi, essere una civiltà dell’immagine, e che magari lo sarà pure, si caratterizza anche per un ritorno della lettura ad alta voce e dell’ascolto. Posto che il vecchio e il più recente, se non è una mia illusione prospettica, si tocchino».

Un attore che si è particolarmente dedicato all’audiolibro è Alberto Rossatti che, infatti, conta un gran numero di letture.
La più recente sua interpretazione è per Il Narratore.
Legge, come meglio non si potrebbe, dal primo volume della Recherche di Proust Dalla parte di Swann.
Cliccare QUI per un assaggio d’ascolto.

La traduzione è dello stesso Alberto Rossatti insieme con Rose Ayma Peret.
Copertina di Marlene Mcloughlin, “Swann's Way”, da collezione privata, San Francisco.


Pensavo dormissi

“Quando si è nella merda fino al collo, meglio mettersi a cantare”.
Così diceva Samuel Beckett il quale pensava che “Non c’è nulla di più comico dell’infelicità”.
Perché forse il comico nasce dal tragico di cui si fa beffe.
A questo mi ha fatto pensare il più recente, godibilissimo, libro di Gianfranco Salvatore dal titolo Pensavo dormissi pubblicato da Stampa Alternativa.
Salvatore, uomo di sterminata cultura musicale, e non solo musicale, ha un curriculum che per estensione è difficilmente sintetizzabile. Qualche cenno.
Musicologo, critico musicale, compositore, arrangiatore, polistrumentista, è docente di Etnomusicologia e di Storia del Jazz e della Popular Music presso l'Università del Salento.
Ha fondato, e diretto per quindici anni, l'Accademia della Critica di Roma.
A lui si deve l’ideazione e la direzione (1998-2000) della Notte della Taranta.
Ha collaborato, fra gli altri, con Mina, Mango, Vittorio Nocenzi, Laurie Anderson, Daddy G dei Massive Attack, Don Cherry, Steve Lacy, Joe Zawinul, Massimo Urbani, John Cage.
Regista teatrale, autore di serie radiofoniche, ha scritto una ventina di libri.
Di lui il catalogo di Stampa Alternativa, oltre al recente “Pensavo dormissi”, ospita altri otto titoli.

Il grafico Diego Mancarella ha messo il volume fra due maiuscole parentesi: la copertina con uno scatto della misteriosa fotografa Nina Leen e in quarta un fotogramma tratto dal visionario “Le sang d’un poète” di Jean Cocteau.
Nelle pagine, un susseguirsi di clownerie con le parole lanciate rischiosamente a grappolo in aria e riacchiappate al volo da un inesausto jongleur, rime su altalene che dondolano su precipizi, allegre corse fonematiche verso traguardi sfuggenti.
Il tutto nel vortice di una risata scherzosa e canzonatoria al tempo stesso, capace di trascinare il lettore in una doppia sensazione: trovarsi dinanzi a un autentico divertimento e a un pensiero critico vestito da giullare.
Le quattro composizioni finali hanno il sapiente passo maestoso di una fine corsa – vincente o non che sia poco importa – quasi un tono alla Villon…”Uomini con gli scherzi qui è finita”… i titoli: Promemoria / Ora basta sono stanco / Requiem / Scusami.

Il testo di “Scusami”:
Pensavo
dormissi
.

Un libro vivace, intelligente che si oppone alla cultura come noia.
Libri così… avercene!

Estratto dalla presentazione editoriale.
«L’autore – casertano di nascita (fu lo scopritore e il primo produttore degli Avion Travel), romano e trasteverino per trent’anni, infine salentino d’adozione per impegni accademici (oggi è leader della band Baba Yoga) si è occupato nei suoi libri più recenti della cultura pop nel suo senso più esteso(ma a partire dai Beatles: “I primi quattro secondi di Revolver”, Edt) e della teatralità del rock (“Il teatro musicale del rock”, Stampa Alternativa).
Qui mette appunto in scena un teatrino pop, con tutte le sue linguacce e i suoi birignao, facendo il verso a Carmelo Bene con una breve disincantata “Salomè” che rivela le sue origini campane, e dissuadendo ogni neofita, insultando i filosofi, scoraggiando gli esteti, inventando ispirazioni e ricordi da distruggere subito, e infine, con scarsa convinzione, chiedendo scusa a chi dormiva, o fingeva di farlo».

Dalla “quarta”

L’arte: messa da parte.
La cultura, in disparte.
Fischio ma non riparte.
C'è vento.
Svegliati, andiamo.

................................

Gianfranco Salvatore
Pensavo dormissi
Pagine 128, Euro 7.00
Stampa Alternativa


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