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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Mogol - Battisti

La casa editrice Mimesis ha pubblicato Mogol -Battisti L’alchimia del verso cantato: arte e linguaggio della canzone moderna.
L’autore è Gianfranco Salvatore.(Caserta, 1957).
Da una nota dell’editore: “Etnomusicologo e storico della cultura, è uno dei pionieri dello studio della popular music e della musica afroamericana nelle università italiane. Ha prodotto biografie critiche di Charlie Parker e Miles Davis, due volumi sulle innovazioni musicali e sceniche del pop e del rock (I primi 4 secondi di Revolver e Il teatro musicale del rock) e monografie sui Beatles, Frank Zappa, i Pink Floyd e la psichedelia. Su Lucio Battisti ha scritto anche, con la collaborazione di Mogol, la biografia L’arcobaleno e ha coprodotto il doppio album di interpretazioni battistiane dei maggiori cantanti e musicisti italiani (Rossana Casale, Mia Martini, Mango, Antonella Ruggiero).
Insegna all’Università del Salento”.

Mi piace ricordare di lui anche un libro che mi piacque molto, intitolato Pensavo dormissi. Se non lo conoscete vi siete persi qualcosa, ma acquistandolo si può riparare a quella mancanza.

Ora è nelle librerie un nuovo volume di Gianfranco Salvatore, un saggio che ho nominato nelle righe d'apertura.
Pare che i libri su Mogol e Battisti siano oggi molti, addirittura 80 secondo un conteggio di Marco Masoni; si legge in Postfazione: “80, un’enormità: alcuni di carattere generalista, altri dedicati a singoli dischi o periodi della carriera e della vita, e qualche curiosa monografia su aspetti postumi e perfino esoterici”.

Eppure, sia pure senza essermi mai tuffato in quel mare d’inchiostro, non mi sorprenderebbe proprio per niente che questo sia il più bel libro scritto su quella coppia di celebri compositori. Ancora una cosa mi va di dirla e non penso che smentisca quello scritto un rigo prima. Se a questo volume, in un momento di lucida follia, sottraeste le pagine dedicate strettamente a Mogol e a Battisti, certo il libro diverrebbe più smilzo, ma non perderebbe la sua maiuscola importanza che ha di saggio sulla canzone.
Un saggio “colto e non culturale” usando un’espressione in positivo che usava Angelo Guglielmi. Che poi è lo stile non solo di scrittura ma anche di oralità e di pratica della vita dell’autore, stile che ne fa un personaggio anche di godibilissima frequentazione.

Nella Prefazione, firmata Giulio Rapetti Mogol, datata 3 ottobre 2023, si legge: “Gianfranco Salvatore ha una mente ‘matematica’, simile a quella di Lucio Battisti: qualsiasi cosa gli si dia da studiare, a persone così, loro la aprono e capiscono tutto, la smontano e la rimontano perfettamente (…) Questo libro andrebbe letto e studiato perché intuisce un segreto dell’arte della canzone, un segreto che normalmente solo gli artisti conoscono, e lo comunica a tutti quelli che dalle canzoni ricevono emozioni, e sostegno, nella propria evoluzione personale e culturale”.

Dalla presentazione editoriale .

«Perché le canzoni scritte da Lucio Battisti con Mogol si sono impresse nella memoria, negli affetti e nell’immaginario collettivo degli italiani? Perché ancora oggi ci emozionano? Per quella sorta di alchimia che si crea quando i versi di una canzone rispecchiano il significato della melodia e si fondono con essa. Anche la musica, infatti, “ci parla”. E spetta a chi scrive i versi di una canzone intuirne il significato intrinseco, per tradurlo in parole. A quel punto può nascere un amalgama che rappresenta qualcosa di molto diverso da una poesia musicata, o da una melodia riempita di parole da un paroliere qualsiasi. La canzone diventa il potente incrocio di due linguaggi, un moltiplicatore di emozioni.
Gianfranco Salvatore ha analizzato tutte le canzoni scritte da Mogol e Battisti, proiettandone la genesi sulla loro vita, i loro desideri, le loro idee, le loro ambizioni artistiche. L’opera omnia della coppia viene raccontata come una svolta nell’evoluzione della canzone italiana del Novecento, una rivoluzione espressiva e stilistica.
Il libro guida il lettore alla scoperta dei meccanismi che fanno “grande” una canzone. E insegna a visualizzare quel che ascoltiamo, la misteriosa sostanza delle canzoni che amiamo, regalandoci una consapevolezza nuova».

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Gianfranco Salvatore
Mogol-Battisti
Prefazione di Mogol
554 pagine * 28,00 euro
e-book – epub/Mobi 18.99 euro
Mimesis


Il cuboide

Il libro che presento oggi appartiene alle edizioni - il nome lo dico dopo – che sono state volute da Raffaele Aragona personaggio uno e trino: artista, ingegnere, organizzatore culturale. Poiché non gli bastava quella spirituale triplicazione eccolo apparire in un’altra maiuscola dimensione creativa: fondatore, con altri suoi amici, dell’Oplepo… no niente a che vedere con il fiume, è faccenda nata a Napoli e, si sa, il fiume non bagna Napoli (ma un mare di guai sì) per sapere di che cosa si tratta cliccate QUI.
L’Oplepo pubblica una serie di ghiotti librini che hanno per filo conduttore, anzi dielettrico per evitare dispersioni stilistiche, acrobazie ludolinguistiche.
Presento oggi Il cuboide. No,niente a che fare con l’ortopedia (dropped cuboid syndrome) bensì con un oggetto geometrico, il cubo, il più famoso dei solidi platonici.
In questo libro il cubo è allungato in forma insolita, ricorda certe visioni di quando ci si cala un acido che tutto appare comicamente o drammaticamente distorto.
L’autore di “Il cuboide” è Joshua Babic
Nato a Imperia nel 1993, vive a Lugano. Laureato in filosofia, è dottore di ricerca presso l’Università di Ginevra, dove ha lavorato come assistente dal 2017 fino al 2023. Ha pubblicato articoli di filosofia della scienza, logica e metafisica su riviste specializzate, tra le quali “Philosophy of Science”, “The Journal of Philosophical Logic” e “Philosophical Studies”, Tra i suoi interessi si annovera la relazione tra letteratura e filosofia.
Ecco la sua introduzione al Cuboide.

Questa plaquette nasce da un falso ricordo. Mi sembrava di aver letto da qualche parte nelle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein qualcosa come «si potrebbe immaginare un libro nel quale la stessa immagine sia presente ovunque, accompagnata da un testo in cui si parla ogni volta di qualcosa di diverso». Poi sono andato a rileggere il passaggio in questione (Einaudi, 1967, pp. 255-56) e ho verificato che in realtà Wittgenstein dice qualcosa di vagamente simile, ma non esattamente la stessa cosa. Un libro fatto di didascalie per la stessa immagine me l’ero immaginato io e alla fine l’ho anche scritto.
L’immagine doveva essere qualcosa di semplice, di stilizzato, qualcosa che si prestasse a una moltitudine di didascalie diverse, un po’ come la banalissima storia che Queneau racconta in 99 maniere diverse nei suoi Esercizi di stile. Nel passaggio che ho menzionato, Wittgenstein fa riferimento al cubo di Necker, un’immagine che, come anche l’anatra-coniglio di Jastrow, è stata spesso al centro delle sue riflessioni. Così ho optato per la versione del cubo di Necker che appare nelle Ricerche Filosofiche.
Per quanto riguarda invece le didascalie, c’è una base di "vere" didascalie, cioè dei testi che descrivono qualcosa che il cuboide potrebbe rappresentare, ad esempio una scatola, una piscina, una stanza, ecc. A un certo punto, però, mi sono fatto prendere la mano e ho inserito dei testi che possiamo chiamare didascalie solo per il fatto di trovarsi sotto a un’immagine. Ci sono didascalie narrative, didascalie che esplorano la psicologia dell’io narrante, didascalie oniriche. Certe didascalie non sono nemmeno dei testi bensì delle immagini. Il risultato finale è quindi un racconto in 96 didascalie.
Perché 96? Mi sembrava doveroso che il numero di didascalie avesse qualcosa a che fare con la geometria di un cuboide. Alla fine ho optato per 96 che è il prodotto del n (12) di un cubo
.

Qualche esempio di didascalie.

“Se il mondo avesse questa forma ce ne accorgeremmo?”
“Uno sgabuzzino minuscolo pieno di vestiti che sanno di canfora”.
“Il bello è proprio questo che qualsiasi frase o insieme di più frasi può diventare una didascalia”.


Battiato l'alieno


La casa editrice Mimesis ha pubblicato Battiato l’alieno.
Gli autori sono Alessio Cantarella e Maurizio Di Bona
Cantarella (1985) è un ingegnere informatico catanese, appassionato di arte, cinema, viaggi e lingue. Per Manlio Sgalambro ha curato sito e profili social ed era amico di Franco Battiato, con cui ha collaborato per la realizzazione del film “Niente è come sembra” (2007).

Di Bona, che si firma The Hand (www.thehand.it) è nato a Napoli nel 1971. Ha disegnato di satira politica per Beppe Grillo e il Fatto Quotidiano. Ha pubblicato Chi ha paura di Giordano Bruno (Mimesis 2006), Cose da Runners (Becco Giallo 2016), È tutto un Manga Manga (Reika libri 2020), Supereroi (EF edizioni 2022).

Circa Di Bona, aggiungo un ricordo personale. Mai l’ho incontrato di persona però io da lettore lo conobbi quando scandiva con acuminato segno le pagine del bimestrale L'Ateo negli anni in cui si avvaleva della direzione di Maria Turchetto. A proposito, da quando non è più lei a dirigerla, né Di Bona più a collaborarvi, quella rivista, a mio avviso, e forse non soltanto a mio avviso, si è allontanata dalla brillante e caustica rivista filosofica che era e ricorda oggi più "Tutto uncinetto, cambiando perfino nome, non chiamandosi più "L'Ateo". Giustamente.

"Battiato l'alieno" ha in Rete un sito web dedicato.

In questo video un intervento di Alessio Cantarella.

Ora due domande a Maurizio Di Bona.

Nel tracciare il tuo lavoro in questo libro qual è la cosa che hai deciso assolutamente era da fare per prima e quale per prima assolutamente da evitare?

Per prima: giocare con il personaggio divertendomi. Provare a smontarlo per ricomporlo, talvolta decontestualizzandolo, altre volte collocandolo proprio laddove chiedeva di stare: fuori dalle orbite terrestri, da solo, lontano dal frastuono della quotidianità e dai suoi simili, a colloquio con gli animali.
Da evitare: i rischi del caso perché prodursi nella deformazione satirica di un gigante di questo livello è azione spericolata. Per fortuna in molti casi i disegni si sono completati quasi da soli, sollevandomi dal dare peso a chi suggeriva di lasciar perdere perché Battiato “per molti è santità”.

Ti è servito ispirarti più al personaggio Battiato oppure ai suoi testi?

Direi ad entrambi. Il personaggio, iconograficamente parlando, è potente e si presta alla trasposizione in fumetto, tanto da rovesciare cronologia degli eventi e chiedersi, come succede con uovo e gallina, se sia nato prima l'uno o l'altro. I testi ovviamente hanno avuto la loro parte importante nella genesi del lavoro. Impossibile ignorare certe sequenze di parole, tra nonsense e contenuti colti, incise nel jukebox della memoria di tanti, inclusi i non fan di Battiato.

Dalla presentazione editoriale

«Raccontare Battiato per immagini è un’impresa non da poco, perché si tratta di una galassia in cui vagare e divagare: si spazia senza meta e ci si gode il viaggio, ma si corre anche qualche rischio perché “per molti è santità”. Rischio che diventa doppio se è la satira disegnata a voler tracciare la rotta. Ma l’occasione attesa “per acquistare un paio d’ali e abbandonare il pianeta” era troppo suggestiva per non fargliene dono. Una volta sparato in orbita, il nostro può raccontarsi senza le zavorre filosofiche o l’aura da guru serioso con cui troppo spesso i media ce l’hanno presentato. Il personaggio lunare, visionario, pioniere e geniale è protagonista di incontri bizzarri al di là dello spazio e del tempo, che ne evidenziano l’indole autoironica e divertente, ancora ignorata da tanti. A riportare Battiato sulla Terra e ricomporre il quadro d’insieme dell’artista, dell’uomo e del Maestro una miriade di ricordi scritti da chi lo ha conosciuto, ha collaborato con lui e gli ha voluto bene».

Non si può qui concludere senza ascoltare la voce di Battiato.
La propongo in un brano che è il mio preferito nel repertorio dell’Alieno. Qual è? CLIC!

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Maurizio Di Bona - Alessio Cantarella
Battiato l’alieno
Prefazione di: Syusy Blady
pagine 160 * 15.00 euro
Mimesis Edizioni


Le date che fanno la storia


Che cos’è una data? Ecco come la spiega Antonella Sbrilli, una che se ne intende. Ha ideato, infatti, il lussuoso calendario letterario Dicono di oggi.
“La data” – dice – “partecipa di una natura pubblica e privata, amministrativa e identitaria, predispone una cornice alla dispersività e alla compresenza dei fatti accaduti e del loro collocarsi nel ricordo. Fra le numerose definizioni del calendario, vera miniera di metafore, risalta la riflessione di Walter Ong, il quale ha argomentato che è un modo di addomesticare il tempo, trattandolo come uno spazio”.

Del resto, le ministorie delle nostre vite e la macrostoria dell’umanità è contrassegnata di numeri corrispondenti a date che fissano sulla mappa del tempo incontri di corpi e scontri di eserciti, nascite di persone care e di persone che meglio per tutti mai fossero nate. La data, insomma, racchiude nel respiro di un dì grazia e disgrazia, all’interno di un giorno felice per un popolo tante singole infelicità di tanti di quello stesso popolo e viceversa.
Provate a fare un riassunto delle date della vostra vita vissuta, ovviamente fino adesso, se proprio avete voglia d’intristirvi, e vedrete che le date dolenti salteranno subito nella memoria e quelle liete verranno dopo. Se verranno.
Sembra, a sentire molte ricerche fatte dai psicologi, che così càpiti quasi a tutti.

La casa editrice Laterza ha pubblicato un libro che ragiona su famose giornate: Le date che fanno la storia.
L’autore è Patrick Boucheron
Storico francese, professore di Storia al Collège de France, ha insegnato Storia medievale all’École normale supérieure e all’Università di Parigi.
È autore e curatore di libri, tra cui Histoire mondiale de la France (2017) che raccoglie i testi di 122 storici ed è diventato un bestseller, con oltre 110.000 copie vendute.
Dal 2017 al 2020 ha condotto Dates in World History, programma televisivo di 10 episodi che esplorava le date importanti della storia mondiale

Boucheron si è posto un ambizioso obiettivo: racchiudere in trenta date i passaggi essenziali dell’umanità.
E’ riuscito nella rischiosa impresa? Chi può dirlo?
Troverà sempre qualche lettore che, a proprio avviso, gli rimproverà una dimenticanza oppure una sopravvalutazione dell’evento ricordato.
Per esempio, chi sta scrivendo questa nota si chiede perché sia stata omessa la data del 27 gennaio del 1945 quando l’Armata Rossa giunse ad Auschwitz e il mondo conobbe l’atrocità dei milioni di ebrei massacrati dai nazisti.
Credo sia più facile centrare un “6” al Superenalotto che trovare qualcuno che sia completamente d’accordo con tutte le scelte di Bucheron.
Meriti del libro? Certo che ci sono. Per ogni data (condivisa o no dal lettore) c’è un illuminante minisaggio che di quell’avvenimento illustra lo scenario storico in cui si svolge, i protagonist che vi agirono, una ragionata bibliografia per chi vuole approfondire.

QUI l’Indice del volume.

Dalla presentazione editoriale

«53 a.C.? Certo, la fondazione di Roma. 33 d.C.? Beh, questa è più facile: la crocifissione di Gesù! Ma cosa è successo nel 751 d.C.? O nel 1610? O nel 1911? La storia è certamente fatta di date, di eventi che segnano il tempo come pietre miliari e lo scandiscono. E ogni data, sia essa famosa o inaspettata, diventa la porta d’accesso a una storia che accoglie immaginazione, ricordi, emozioni.
Nella storia dell’umanità esistono date che rappresentano un evento, un momento in cui sentiamo la curvatura del tempo, la separazione tra un prima e un dopo. Basti pensare alla nascita di Cristo o al 12 ottobre del 1492, il giorno in cui Cristoforo Colombo ‘scoprì’ l’America.
Ma cos’è un evento storico? Cosa lo rende tale? A scuola la storia è insegnata tradizionalmente con una serie di date da ricordare e la nostra stessa vita è scandita da una serie di ‘momenti chiave’ che ne orientano il corso. Questo libro si propone di rispondere indagando trenta date, dal momento in cui vennero affrescati i dipinti rupestri della grotta di Lascaux alla liberazione di Nelson Mandela, passando per il processo a Socrate, la morte di Alessandro Magno, la distruzione di Pompei, le grandi battaglie dell’Asia centrale, fino alla conquista del Polo sud e all’esplosione della bomba atomica a Hiroshima. Alcune le ricordiamo perché sono ‘anni tondi’ (come il 1000), altre perché fondazioni o rifondazioni, altre per catastrofi epocali, altre ancora per battaglie diventate vere e proprie ‘liturgie del destino’. Altre, infine, le ricordiamo per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Ripercorrendole, interrogandole di nuovo, Patrick Boucheron ne fa risuonare l’eco nella nostra memoria e restituisce alla storia la sua forza motrice e la sua arte di sorprenderci, sempre».

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Patrick Boucheron
Le date chef anno la Storia
Traduzione di A. Manna
480 pagine * 25.00 euro
Laterza


Ghetto

Se cerchiamo in un vocabolario la parola Ghetto, leggiamo: “Parte vecchia, trascurata o parzialmente abbandonata di una città, in cui vivono le persone più povere o le minoranze etniche. Fig. Situazione o condizione tale da circoscrivere e limitare lo sviluppo dell'attività di individui o gruppi o dequalificarne l'incidenza sociale.

D’accordo. Ma perché si chiama ‘Ghetto’?
In una storia di Venezia è scritto: “In origine, la zona della città, poi appositamente chiusa, assegnata nel 1516 agli Ebrei quale loro residenza (così chiamata per la presenza di un 'getto', cioè una fonderia). Dal 16° sec., in tutta Europa, la parola divenne la denominazione del quartiere cittadino di dimora coattiva degli Ebrei”.
Sicché il più vecchio ghetto di Europa è quello di Venezia, QUI un giro in video di quel quartiere.

Scrive il linguista Giuseppe Antonelli in La vita delle parole: “Oggi che ogni nostra parola può essere amplificata, moltiplicata, enfatizzata dalla rete e dai social network, la responsabilità delle parole è diventata molto più gravosa. Oggi più che mai, le parole sono pietre e per questo è fondamentale conoscerle ed essere in grado di usarle con cognizione di causa”.
Questo è ancora più vero per parole che richiamano una eco storica, come ad esempio, proprio la parola ‘Ghetto’ associata alla tragedia della Shoa come evidenziano le immagini dell’Enciclopedia dell'Olocausto.

La casa editrice Hoepli ha pubblicato uno splendido libro che del Ghetto esplora i plurali aspetti storici e semantici riflessi in quel termine.
Titolo: Ghetto Storia di una parola.
L’autore è Daniel B. Schwartz.
Professore associato di Storia e studi ebraici presso la George Washington University; è autore anche di The First Modern Jew: Spinoza and the History of an Image, con il quale è stato co-vincitore del Salo Wittmayer Baron Book Prize per il miglior libro d’esordio nell’ambito degli studi ebraici e finalista del National Jewish Book Award per la sezione storia.

Nella densa Prefazione, Adriano Prosperi afferma. “Nel suo ultimo e incompiuto volume – ‘Mestiere di storico’, pubblicato postumo col titolo ‘Apologia della storia’ – Marc Bloch si soffermò fra l’altro sullo statuto della testimonianza. Che cosa significa esattamente la parola francese serf che le fonti medievali usano per indicare la condizione dei servi della gleba? Era la stessa che si usava per indicare gli schiavi di età antica. Il mondo era cambiato, la condizione del servo della gleba non era identica a quella dello schiavo, ma la parola si era pigramente conservata in uso. E questo ci insegna che la conoscenza del passato è trasmessa «per via di tracce [...] attraverso il canale di menti umane diverse», come osservava Marc Bloch. Ecco perché l’esercizio primario dello studioso di storia deve essere quello di cogliere l’esatto significato delle parole che legge.
Questo volume ne offre una verifica esemplare. Vi si affronta il modo in cui un nome – la parola ghetto – è andato cambiando più volte di significato nello spazio degli ultimi sei secoli. Il lettore scoprirà che la vicenda offre molti motivi di interesse in termini sia di merito sia di metodo”.

QUI un’intervista a Schwartz su antenna Rai.
Portare il cursore audio a 1h’ 05’ dall’inizio della trasmissione.

Dalla presentazione editoriale

«”Ghetto” è una parola ideologicamente connotata quanto poche altre, le cui origini s’intrecciano con la storia di due città: Venezia, dove indicava il quartiere ebraico obbligatorio istituito nel 1516, e Roma, dove il ghetto si sarebbe dissolto insieme allo Stato pontificio nel 1870.
“Ghetto. Storia di una parola” è una ricostruzione dei significati mutevoli di questo termine sfuggente, dalla nascita a oggi.
Nell’Ottocento, “ghetto” divenne una metafora ambivalente dell’ebraismo premoderno, per poi designare realtà tanto diverse quanto le enclave affollate di migranti ebrei nelle metropoli e i centri di raccolta e di segregazione dell’Europa orientale occupata dai nazisti. Non solo, questa parola in continua metamorfosi attraversò l’Atlantico, si radicò nel Lower East Side newyorkese e nel Near West Side di Chicago, dopodiché passò a indicare l’ambiente di vita della comunità afroamericana, ancor più che della comunità ebraica.
Nel guidare il lettore in questa odissea tra le due sponde dell’Atlantico, Daniel B. Schwartz mostra l’intreccio tra la storia dei ghetti e il confronto polemico sul significato di una parola. Paradossalmente, “ghetto” assunse un’importanza di primo piano nella tradizione ebraica proprio quando gli ebrei non furono più obbligati per legge a vivere in un quartiere a parte. Ora che le associazioni con il vissuto ebraico si sono perlopiù offuscate, Ghetto riporta alla luce la storia di questa parola e le sue variazioni semantiche.

Concludendo questa nota mi piace ricordare che il ghetto ha ispirato anche un grande, cantante, Elvis Presley, in una grande interpretazione e rara occasione che lo vede impegnato sul sociale: In the Ghetto.

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Daniel B. Schwartz
Ghetto
Traduttori
Maristella Notaristefano
Piernicola D'Ortona
Prefazione di Adriano Prosperi
XVIII-270 pagine * 25.00 euro
Hoepli


Ciao 2001

Che cosa succedeva nel mondo negli anni ’70 del secolo scorso?
Un riassunto si trova sul web QUI.
E in Italia?
Risuonava viva l’eco – e ancora oggi non si è spenta – dell’attentato fascista alla sede milanese della Banca dell’Agricoltura avvenuto il 12 dicembre 1969 causando 17 morti e 88 feriti. Secondo gli storici quella data segna l’inizio del periodo definito “anni di piombo” e accompagnerà tragicamente le cronache italiane per tutto il decennio dei ’70 e oltre.
Ma ci sono anche buone notizie, nel dicembre ’70 viene introdotta la legge sul divorzio e gli antidivorzisti poi saranno battuti nel referendum del 1974 voluto dalla Dc e dal Msi.
Dalle radio Nada delusa in amore va sul meteo con Ma che freddo fa, Alan Sorrenti avverte la morosa che lei e lui sono Figli delle stelle, Patty Pravo riferisce di un Pensiero stupendo, Donatella Rettore rifulge con Splendido splendente, Riccardo Cocciante racconta Margherita, Renato Zero il Triangolo no, non l’aveva considerato e nel 1979 Ivano Fossati fa sapere a tutti che la sua banda suona il rock.
1977: un grande avvenimento accade nel Paese: nasce la tv a colori che influenzerà mercato, nuovi modi di produrre televisione, porterà la Rai più di prima protagonista del tempo libero degli italiani.
E il cinema di quegli anni? Un periodo d’oro, sugli schermi capolavori quali Barry Lyndon, Il padrino 1 e 2, Taxi Driver, Apocalypse Now, Il cacciatore, Qualcuno volò sul nido del cuculo, La stangata, Il fascino discreto della borghesia. E il cinema italiano presenta titoli lussuosi: Il conformista di Bernardo Bertolucci, Giù la testa di Sergio Leone, In nome del popolo italiano e Profumo di donna entrambi di Dino Risi, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, Brancaleone alle crociate di Mario Monicelli, Morte a Venezia di Luchino Visconti, C'eravamo tanto amati di Ettore Scola.
La cronaca fa registrare l’assassinio di Aldo Moro, il massacro del Circeo, l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, la nascita della banda della Magliana.
Alla radio furoreggiano Renzo Arbore, Gianni Boncompagni, Giorgio Bracardi, Mario Marenco con “Alto gradimento”.
Il teatro conosce un profondo rinnovamento, tramonta, specie fra i più giovani il cosiddetto “teatro di parola” e si afferma la frantumazione del testo così abbiamo i Magazzini Criminali (Marion d'Amburgo, Sandro Lombardi, Federico Tiezzi), La Gaia Scienza (Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari, Alessandra Vanzi)
Nelle arti visive scoppia il fenomeno della Transavanguardia e scorrono anche due filoni assai diversi fra loro, uno impegnato politicamente fino ad artisti che amano definirsi “operatori estetici”, altri che sperimentano nuove forme espressive usando un nuovo mezzo, ossia la telecamera portatile dando il via alla lunga stagione del video d’artista. Pochissimi quelli che unificavano le due tendenze, fra questi il nome di Alberto Grifi; in campi a parte troviamo grossi nomi: Mario Schifano, Luca Patella, Gino DeDominicis. Fotografia e fumetto reclamano un più marcato spazio di appartenenza alle arti visive.
Mentre per le strade sfilavano cortei contro la guerra in Vietnam, i libri più letti erano, specie fra i giovani, due autori opposti per contenuti e stile: Charles Bukowski e Herman Hesse, grande successo anche per Rocco e Antonia protagonisti di Porci con le ali, mentre nelle vendite vola Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach. I lettori più raffinati scoprono Italo Calvino e di lui leggono Gli amori difficili. L’editoria giornalistica è innovata dall’uscita del primo numero del quotidiano “La Repubblica” destinato ad essere una testata di valore internazionale, intanto dopo un incerto inizio la rivista satirica Il Male supererà largamente le 100.000 copie di venduto fra il 1978 e il 1979.

In questo scenario si affermava anche un settimanale, nato nel 1969, che proprio negli anni ‘70 raggiunse tirature da capogiro, toccando le 200.000 copie divenendo la testata musicale più longeva d'Italia, durò, infatti, fino al gennaio del 1994.
Quella pubblicazione era “Ciao 2001”.
Dedicata soprattutto al nuovo linguaggio che in quasi tutto il mondo era diventata la musica pop/rock.
Seguirono alterne vicende di chiusure e riaperture della rivista ma oggi grazie all'impegno dei giornalisti Maurizio Becker e Renato Marengo e alla Sprea Editori, è di nuovo stampato in forma di bimestrale e verrà presentata a Roma in una serata al Palazzo delle Esposizioni.

Takeawaygallery, Associazione Culturale nata a Roma nel 2009 da un progetto del fotografo Stefano Carsetti Esposito, si occupa di arte e cultura, organizzando e curando mostre, eventi, interventi di Land Art e incontri, ponendo l’Arte visiva e la Fotografia, la Musica, il Cinema e l’intersezione tra vari specifici al centro delle proprie attività e iniziative.
Words Images Music è un’articolata rassegna organizzata proprio da Takeawaygallery con la collaborazione di Barbara Martusciello, curatrice di mostre e storica delle arti visive contemporanee, una delle voci più sapienti e vivaci nello scenario della nuova espressività intercodice.
QUI suoi recenti scritti.

Per saperne di più sulla serata al Palazzo delle Esposizioni: CLIC!

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Ciao 2001
Venerdì 23 febbraio 2024
Caffè delle Esposizioni
Palazzo delle Esposizioni
Via Nazionale 194a, Roma
ore 19:00 – 22:00


Giacomo Puccini Fotografo


Gli artisti più affascinati dalla fotografia, pur non essendo fotografi, sono, finora, gli scrittori.
Ne abbiamo esempi di ieri e di oggi.
Da Giovanni Verga a Emile Zola, da August Strindberg a Lewis Carroll, da Allen Ginsberg ad Alessandro Baricco.
A scorrere il web si trovano molti musicisti, ma fotografano colleghi o in epoca selfie se stessi. Che è cosa diversa dagli scrittori nominati prima che scattano immagini di paesaggi, lavoratori, scene di vita in città o in campagna.
Un musicista che ebbe nella fotografia una seconda vita artistica fu Giacomo Puccini
Nato a Lucca il 22 dicembre 1858, morì 65enne a Bruxelles il 29 novembre 1924. Non contribuiranno alla sua buona salute le ottanta sigarette che fumava al giorno.
É considerato uno dei maggiori e più significativi operisti di tutti i tempi.
Ora a Lucca alla Fondazione Ragghianti è in corso una mostra dedicata proprio alle fotografie scattate dal compositore.

Estratto dal comunicato stampa

«Per la prima volta sarà possibile ammirare un’importante selezione di opere fotografiche del compositore Giacomo Puccini.
La Fondazione Ragghianti, in collaborazione con la Fondazione Simonetta Puccini per Giacomo Puccini di Torre del Lago e il Centro studi Giacomo Puccini di Lucca, con il contributo e il supporto della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, presenta la mostra Qual occhio al mondo: Puccini fotografo,
L’esposizione, a cura di Gabriella Biagi Ravenni, Paolo Bolpagni e Diana Toccafondi si avvale dei materiali conservati nell’Archivio Puccini di Torre del Lago, e in piccola parte provenienti da altri fondi.
Saranno esposte oltre ottanta fotografie originali che daranno vita a un’esperienza unica nel suo genere: un percorso affascinante che permetterà al visitatore di osservare il mondo attraverso l’obiettivo del celebre compositore.
Le foto della prima sezione documentano i luoghi abitualmente frequentati da Giacomo Puccini, da Torre del Lago a Chiatri, da Boscolungo ad Ansedonia, con una particolare attenzione alle dimore.
La seconda sezione sarà invece dedicata ai suoi viaggi in Europa, nel continente americano e in Egitto, con un’attenzione particolare ai panorami, alle popolazioni e alle traversate in mare.
Un’ulteriore sezione della mostra porrà invece in rilievo i ritratti del compositore (scattati quindi da altri) e le fotografie che riguardano la dimensione privata dell’artista, immerso nella sua vita quotidiana e insieme con i familiari.
“Quest’anno ricorre il centenario della morte del grande Giacomo Puccini, che, oltre alla musica, coltivava con grande curiosità altre passioni artistiche” – hanno commentato Alberto Fontana e Paolo Bolpagni, presidente e direttore della Fondazione Ragghianti – “Per celebrare questo anniversario ci fa piacere offrire, insieme con la Fondazione Simonetta Puccini per Giacomo Puccini di Torre del Lago e il Centro studi Giacomo Puccini di Lucca, un punto di vista inedito su un artista universalmente conosciuto, in linea con l’approccio che da sempre caratterizza la Fondazione Ragghianti. La mostra delinea un profilo inaspettato del grande compositore, attraverso la scelta di scatti particolari e significativi, privilegiando il criterio della novità dei materiali».

Non posso chiudere questa nota senza invitarvi a sentire “Qual occhio al mondo” che dà il titolo alla mostra (dal I atto della Tosca pucciniana).
Ho scelto l’interpretazione di Raina Kabaivanska e Placido Domingo.
Per l’ascolto: CLIC!.

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Ufficio Stampa istituzionale
Elena Fiori
elena.fiori@fondazioneragghianti.it ; Tel. 0583 467205

Ufficio Stampa Image Building
Cristina Fossati, Federica Corbeddu, Alessia Zanotti
fondazioneragghianti@imagebuilding.it; Tel. 02 89011300

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Qual occhio al mondo
Puccini fotografo
A cura di:
Gabriella Biagi Ravenni
Paolo Bolpagni
Diana Toccafondi
Fondazione Ragghianti
Via San Micheletto 3, Lucca
(ingresso da via Elisa, 8)
Info: info@fondazioneragghianti.it
Accesso libero
Fino al 1° aprile 2024


Il Monaciello di Napoli

Nato a Napoli, ho trascorso l’infanzia in casa dei nonni materni che abitavano in una zona popolare, dove più che altrove in città, echeggiavano voci di leggende e vi erano luoghi ritenuti infestati da fantasmi: la chiesa di S. Maria Maggiore, Palazzo San Severo, Porta Nolana. Lo stesso Vicolo Cinque Santi dove vivevano i nonni ed io con loro era, a detta di molti, attraversato di notte da spettri che si recavano a tenebrosi convegni.
Inoltre, la casa dove soggiornavo, aveva appesi a un muro immagini di lontani parenti, fotografie in b/n scattate loro dopo ch’erano morti – come in tempi lontani era d’uso – ma con occhi ben aperti a fissare l’obiettivo. Attraversavo quella stanza col cuore in gola.
Credo che i miei primi incubi siano stati originati da quanto ascoltavo e vedevo, né escludo che gli incubi di oggi risentano ancora di quei primi sogni inquieti.
Ai fantasmi venivano attribuite azioni terribili, esecutori di condanne divine o rivalse di torti subiti in vita da infliggere a colpevoli viventi.
Soltanto una consolazione proveniva da quelle terribili esperienze: ricavarne numeri da giocare al Lotto.
Di un solo fantasma si diceva spesso bene: ‘O Munaciello.
Il munaciello, bambino che appare vestito da monaco, era, ed è, l'ectoplasma più noto in città. Uno spiritello bizzarro, imprevedibile.
Capace di lasciare mucchi di soldi nelle abitazioni (ma guai a farlo sapere poiché il beneficio si trasforma in maleficio!), o autore di piccoli scherzi. Ama, invisibile, sfiorare le belle donne, combina qualche giocoso dispetto occultando oggetti che poi ricompaiono in luoghi impensati oppure rompere qualche tazzina per caffè pur ben custodita in dispensa.
Anche per questo, ma non solo per questo, ho letto con piacere Il Monaciello di Napoli di Anna Maria Ortese, scrittrice che amo e che su questo sito ho già recensito: Le piccole persone e Vera gioia è vestita di dolore titoli tutti editi dalla casa editrice Adelphi.

"Il Monaciello di Napoli" - contiene un dittico, infatti, è seguito da un altro racconto: Il fantasma.
Giuseppe Iannaccone precisa: "Il Monaciello appare nel marzo-aprile 1940 sul mensile «Ateneo Veneto» rivista di scienza, lettere e arti, diretta da Elio Zorzi (...) Come Il Monaciello di Napoli, anche Il fantasma rappresenta un unicum nella bibliografia ortesiana: mai più successivamente riproposto, suddiviso, come il Monaciello, in capitoli introdotti da brevi anticipazioni, è pubblicato a puntate fra il 1941 e il 1942 in otto numeri della rivista «Nove Maggio»".

A questo libro Attilio Scarpellini vi ha dedicato una trasmissione radiofonica associandovi musiche colte.

Scrive Giuseppe Montesano in una nota sul sito Adelphi: “In questi due racconti abitati da melodrammatici fantasmi d’antan, da Passioni misteriose e da riunioni di famiglia in cui è ospite la Morte, la Ortese capovolge le coordinate della realtà come nelle fiabe romantiche di Tieck e di Chamisso, e fa circolare nelle storie l’inverosimile con una naturalezza assoluta. In uno scenario ancora ottocentesco di salotti pieni di “buone cose di pessimo gusto”, la Ortese mette in scena un suo teatro dei burattini dove Amore e Morte bevono il tè in tazze di porcellana e lo scugnizzo-monaciello e la sua amante-madre possono rinchiudersi in un armadio per dirsi la loro passione. Sotto le sue mani i morti tornano a vivere, il Gran Verme diventa un servo da commedia degli equivoci e la morte è sconfitta dall’Amore”.

Marco Belpoliti: «Ortese è in grado di colloquiare con tutto ciò che è “altro” – l’ignoto, il sogno, la morte, l’estraneo, il diverso, l’animale – e insieme di rappresentare il volto nascosto della femminilità, che è misteriosa fusione di anima e corpo».

Dalla presentazione editoriale.

«Poco più che venticinquenne, Anna Maria Ortese pubblicò questi due racconti in riviste di scarsa circolazione, dove sono rimasti sino a oggi sepolti. In quelle pagine si è serbata intatta la prima impronta acustica di una voce che avrebbe poi continuato a risuonare, incessante seppure fra intervalli di silenzi, sino alle pagine magistrali del Cardillo. È una voce accorata e dolente, in cui si avverte l’eco di nostalgie mai sopite, di dolcezze negate: ancora una volta, accompagnati dalla mano abile e insieme compassionevole dell’autrice, dalla sua scrittura lirica e visionaria, avremo la ventura di incontrare figure insondabili e arcane ma capaci di manifestare, a chi sappia intenderli, il loro lamento e la loro ribellione. Sono «povere creature inimmaginabili»: come l’ombroso spiritello del primo racconto, il Monaciello appunto, che vive «in un piccolo armadio dalla serratura guasta, dalle porte malferme, fra cataste di panni scuri e penne verdi di pappagallo», e l’enigmatico Fantasma, che altri non è che la Morte, del secondo: «abbagliante era lo sparato della sua camicia di seta, l’argento dei bottoni da polso, il tovagliolo, perfettamente inutile, posato Dio sa perché sul suo braccio sinistro; ma più d’ogni altra cosa era abbagliante il suo sorriso in fondo agli occhi di tenebra». E ancora una volta ritroveremo quel mondo, fra memoria e sogno, che è soltanto della Ortese, un mondo in cui «tutto ciò che si vede o accade è incantato o spaventoso», un mondo fatto di stanze e corridoi e terrazze e anditi di misteriosa bellezza, dove barbaglia, a tratti, il riflesso del mare di Napoli».

Per leggere un estratto: CLIC!

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Anna Maria Ortese
Il Monaciello di Napoli
Con una nota di Giuseppe Iannaccone
119 pagine *12.00 euro
e-book: 119 pagine, 6.99 euro
Adelphi


Sommamente invitante è la tastiera


Ho avuto la fortuna di conoscere a Roma Giorgio Manganelli (Milano 1922 – Roma 1990). Con precisione non ricordo l’anno ma si era alla metà dei ’70, registrava per la Rai le “Interviste impossibili” non senza ansietà per la resa al microfono della sua voce. Gli dissi che esagerava quella sua inquietudine forse più per comunicarla agli altri che a se stesso. Mi rispose: “No, mi creda, a leggerla ad alta voce la letteratura corre il rischio di perdere il suo maggiore pregio, quello d’essere bugiarda”.
Abitava a un indirizzo che più manganelliano non si può: Via Chinotto 8 interno 8.
Morì in un modo che più manganelliano non si può: mentre indossava un calzino.

Su quest’autore vertiginoso e visionario scrive Florian Mussgnug: “… spingendo al limite le possibilità della scrittura, si avventura in quel ‘linguaggio abitabile’ che lui stesso definisce come ‘oscuro, denso, direi pingue, opaco, fitto di pieghe casuali; per lui tutto è racconto, dal Baldus alla ricetta dell'Artusi. Tutto, naturalmente, tranne il romanzo”.
Ecco una sua folgore: “Il fatto che un libro sia un romanzo è un connotato losco, come i berretti dei ladruncoli, i molli feltri dei killers, gli impermeabili delle spie”.
Questa citazione mi dà lo spunto per ricordare l’originalissima posizione da equilibrista, su filo teso fra nuvole, di Manganelli a proposito della narratività, sulla quale esercitò la sua vena ironico-umoristica specialmente in quel capolavoro che è “Centuria” - ‘Cento piccoli romanzi fiume’, recita il sottotitolo di quel volume,– definito da Italo Calvino “un libro straordinario, dalla scrittura concisa ed essenziale con invenzioni sintetiche e concentrate”.

Attraversare i suoi testi significa viaggiare in una cartografia nella quale le coordinate geografiche servono a identificare univocamente luoghi smarriti; memorie di sensazioni e voci rivissute con una scrittura musicale che va dall’Improvviso al Capriccio.
Scrive Luca Tassinari sul suo blog letturalenta: “… il libro, avverte Manganelli, è ‘illimitato’ e non tollera contenitore diverso da ‘tutti gli altri libri’. Non si può capire un libro ma solo essere capiti dal libro. Non si può leggere, ma solo essere letti”.

La casa editrice Graphe.it ha pubblicato un libro (in edizione ampliata rispetto alla precedente stampata da Aragno) di particolari gemme letterarie: Sommamente invitante è la tastiera.
Raccoglie le quarte di copertina. Quelle scritte per i suoi libri e per quelli per opere di altri scrittori.
Il titolo del volume è dato da parole di Manganelli, detto anche "il Manga".

Che cos’è una quarta? E che cos’era per Manganelli?
Lo spiega bene Cecilia Noto in questo breve video.

Ed ora, presentato da Sergio Malavasi, parola all’editore di Graphe.it Roberto Russo.

Lietta Manganelli, figlia dello scrittore, in una nota di lettura che accompagna il volume scrive: “Le quarte di copertina di Manganelli, funamboliche aggiunte ai suoi testi, sono quei preziosi marchi, timbri, segnali e segni che rendono i suoi libri inimitabili e unici”

Dalla presentazione editoriale.

«Fra le quarte di copertina d’autore che disseminano la storia editoriale italiana, quelle di Giorgio Manganelli si possono considerare un piccolo tesoro unico nel genere. Nel parlare di Calvino, Toti Scialoja o di se stesso, attrae verso il proprio mondo quella che Roberto Calasso ha chiamato «un’umile e ardua forma letteraria»: la stesura della quarta, appunto.
Estremamente interessante la differenza di approccio fra i testi scritti per i libri altrui (ed è la parte Manga per altri, preceduta da un Intermezzo dedicato al Morgante di Pulci) e quelli volti a presentare le prime edizioni delle proprie opere (Manga per sé). Essa dà modo di apprezzare lo scrittore nella sua veste professionale di consulente e redattore – impeccabile – e in quella più personale, nella quale allenta il guinzaglio al proprio inconfondibile stile e compie, nel commentare un titolo, un’azione che è già artistica più che didascalica.
Manganelli non si limita a descrivere, ma «fa strage dei suoi libri e, alla fine, si diverte», come giustamente riconosce la figlia Lietta nella Nota di lettura.
Insomma, come forse fa in ogni sua riga, Manganelli scrive le quarte a modo suo. Sta proprio qui il valore (e il gusto) di questa raccolta, materiale per bibliofili, lettori esigenti e per chiunque trovi un’intima soddisfazione incontrando una pagina letterariamente perfetta e umanamente complessa, come fu il suo autore».

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Giorgio Manganelli
Sommamente invitante è la tastiera
Prefazione di Luigi Mascheroni
Nota di lettura di Lietta Manganelli
Apparati a cura di Massimiliano Pagani
Con corredo foto in b/n
98 pagine * 9.50 euro
Edizioni Graphe.it


Assolto Emilio Coveri


I giudici della Quinta Sezione della Corte di Cassazione hanno annullato con rinvio la sentenza della Corte di Appello del tribunale di Catania che condannava a tre anni e quattro mesi di carcere Il presidente dell’Associazione Exit con l'accusa di istigazione al suicidio.
Alessandra Giordano era una donna di Paternò (Ct), di professione insegnante, deceduta nel 2019 in una clinica svizzera che pratica il suicidio assistito. La donna aveva 46 anni e soffriva la sindrome di Eagle. Morì il 27 marzo in una struttura nei pressi di Zurigo.

Coveri in primo grado era stato assolto dal Gup di Catania dopo il ricorso al rito abbreviato.
La Corte d'Appello siciliana a fine giugno aveva ribaltato quella sentenza assolutoria nei confronti del presidente di Exit-Italia, sostenendo che nella morte indotta della Giordano di Paternò, che decise di ricorrere all'eutanasia, ci fu "istigazione al suicidio".
Per questo reato la Corte d'assise d'appello di Catania aveva condannato Emilio Coveri direttore della clinica Dignitas, anche alla pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.

"Oggi posso affermare con orgoglio” - afferma Coveri (in foto) – “che non sono un criminale, come volevano farmi sembrare. Posso dire che ho sempre tenuto alto l'onore dell'Associazione e degli Associati e tutti insieme abbiamo sempre seguito i dettami imposti dalle norme statutarie, sempre scrupolosamente osservati per non offendere e andare contro la legge italiana. La libertà di scelta deve averla ognuno di noi, affinché si possa decidere quale sia la fine della nostra esistenza, fine che vogliamo sia dignitosa e senza inutili sofferenze. Continueremo a lottare affinché questo principio possa trionfare".


Fiamme del Paradiso

Chissà quanti dei media ricorderanno domani un avvenimento del 17 febbraio 1600.
Ai più distratti ricordo che Giordano Bruno, nato a Nola nel 1548, all’alba del 17 febbraio del 1600, dopo 9 anni di carcere, a piedi scalzi e con la lingua stretta nella mordacchia affinché non pronunciasse parole rivolte al popolo, veniva condotto dal carcere del Sant’Uffizio fino a Piazza Campo dei Fiori dove fu bruciato vivo. Le sue ceneri furono poi gettate nel Tevere perché il prudente papa forse si sarà detto… questo è un tipo imprevedibile e hai visto mai?...
Era accaduto che mentre Bruno si trovava nel 1591 a Venezia, lì invitato dal nobile (nobile si fa per dire) Giovanni Mocenigo, era stato denunciato dal Mocenigo stesso all’Inquisizione... accidenti che ospitalità!... direbbe Buster Keaton sporgendosi dal titolo di un suo film.
Processato a Venezia prima e a Roma poi, non avendo ritrattato le sue idee, fu condannato al rogo da quegli uomini pii della Chiesa cattolica che lo bruciarono con le fiamme del Paradiso.

A Roma, nel luogo dell’esecuzione, lo ricorda un monumento.
Dal sito Musagete: “Il monumento venne inaugurato il 9 giugno 1889, in Campo de’ Fiori. Poco prima dell’inaugurazione, papa Leone XIII minacciò che, se questa fosse avvenuta, avrebbe lasciato la Città eterna per rifugiarsi in Austria. L’intervento del Presidente del consiglio, Francesco Crispi, non tardò ad arrivare: se Leone avesse lasciato l’Italia non avrebbe più potuto fare ritorno. Sembra che la minaccia sortì l’effetto sperato, visto che il papa si guardò bene dal lasciare il Vaticano. Il giorno dell’inaugurazione, però, sembra che Leone abbia passato l’intera giornata a digiunare e pregare inginocchiato presso una statua di san Pietro”.
La statua di Giordano Bruno ha una sua storia turbinosa. A chi fosse interessato a conoscerla più da vicino , suggerisco la lettura di Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto, ne è autore Massimo Bucciantini.

A Roma, anche quest’anno, come avviene ogni anno, il 17 febbraio, data del rogo, a cura dell' Associazione del Libero Pensiero si celebra il grande filosofo con una manifestazione pubblica a Campo de’ Fiori alle 17.30
Qui di seguito un estratto dal comunicato stampa dell’Associazione.
«In un contesto storico come quello attuale, dove il senso della ragionevolezza sembrerebbe smarrito nella ripresa di fideismi e confessionalismi, mentre aspirazioni di totalitarismo avanzano, noi vogliamo rimettere al centro più che mai la centralità della dignità nel nesso imprescindibile tra laicità e democrazia. Senza laicità non c’è democrazia, non c’è libertà, né giustizia, né uguaglianza nelle pari opportunità. Ma solo sopruso. Ben lo sapeva Giordano Bruno, che ha avuto il coraggio di alzare la testa per proclamare il diritto-dovere di ciascuno a emanciparsi da dogmi e padroni con la sua attualissima rivoluzionaria filosofia».


L'ultimo spettacolo


Poche scene quanto i funerali, nonostante la loro più corrente definizione sia quella di ‘mesta cerimonia’, hanno dato spunto a sketch e battute salaci.
Ce n’è per tutti, medici, avvocati, poveri, ricchi e, naturalmente, politici.
Una cattiveria di Mark Twain: “Mi scuso, non ho potuto partecipare al funerale dell’Onorevole, ma ho mandato una bella lettera dicendo che lo approvo.”
Ecco una folgore di George Clemenceau: “Quando muore un politico, molti partecipano al funerale solo per assicurarsi che sia sepolto veramente”.
Quella cosiddetta mesta cerimonia non ha solo ispirato momenti d’ilarità, ma ovviamente pure pensose riflessioni storiche e studi sociologici. Perché le forme assunte dall’estremo rito, le immagini trasmesse, scenografia, coreografia contengono messaggi e segnali diretti al popolo specie se il cadavere appartiene a teste coronate (si pensi, ad esempio, alla trasmissione tv per la regina Elisabetta), a grandi autorità religiose o a dittatori. Sicché quella cerimonia funebre diventa una manifestazione politica. Dapprima la fotografia poi il cinema, e dopo la televisione, hanno amplificato la possibilità di comunicare quanto il potere ha in animo di comunicare ad amici e nemici.

Un’eccellente documentazione e una profonda analisi di quanto in Russia abbiano rappresentato i funerali sono contenute in una pubblicazione della casa editrice Raffaello Cortina.
Titolo: L’ultimo spettacolo I funerali sovietici che hanno fatto storia.
Titolo azzeccatissimo, complimenti.
L’autore del volume è Gian Piero Piretto.
Docente di Cultura russa e Metodologia della cultura visuale all’Università degli Studi di Milano, ha tradotto opere di Čechov e altri autori russi e ha firmato importanti studi sulla storia della cultura sovietica.
Per Raffaello Cortina ha curato “Memorie di pietra. I monumenti delle dittature” (2014); “Gli occhi di Stalin. La cultura visuale sovietica nell’era staliniana” (2010); “Quando c’era l’URSS. 70 anni di storia culturale sovietica” (2018); “Vagabondare a Berlino” (2020); “Eggs Bendedict a Manhattan” (2021).

Piretto nelle sue pagine parte dal 1905 (vale a dire prima del regime sovietico) perché rintraccia i precedenti segni di quanto di lì a poco accadrà, e arriva fino ai più recenti anni dell’epoca putiniana con i non-funerali di Evgenij Viktorovič Prigožin, capo della Wagner, entrato in urto col boss del Cremlino e morto in un incidente aereo così come era morto in un aereo precipitato il cosmonauta Gagarin che negli ultimi anni della sua vita aveva assunto comportamenti sgraditi al governo di Mosca… forse c’è qualcosa da rivedere nella costruzione degli aerei in quel paese.
Piretto attraverso una scrittura veloce ed avvincente racconta tutti i grandi funerali del regime comunista. Sicuramente i più spettacolari furono quelli di Lenin e Stalin. A proposito di Lenin, la sua salma arrivò ai funerali dopo un’avventurosa imbalsamazione successivamente curata per settant’anni; una cronaca di quella funebre vicenda si trova in un libro Bompiani: “All'ombra del mausoleo” di Samuel Hutchinson e dell'imbalsamatore Il'ja Zbarskij, Quanto a Stalin i funerali furono maestosi, imponenti, vi partecipò una folla di numero incalcolabile, nella calca morirono centinaia di persone, c’è chi sostiene che furono addirittura mille le vittime.
Piretto rivolge la sua attenzione anche ai funerali che il potere sovietico tentò, invano, di oscurare, ovviamente si tratta d’oppositori, dallo scrittore Boris Pasternak al cantautore Vladimir Vysockij.

In uno dei suoi lussuosi interventi, Maria Teresa Carbone, su Antinomie” ha scritto: “A seppellire i morti, prima dei Sapiens e dei Neanderthal, pare siano stati mezzo milione di anni fa i Naledi: ominidi che avevano un cervello molto più piccolo del nostro ma già mostravano cura e rispetto per i corpi inanimati dei loro simili. Poco sappiamo dei millenni che precedono l’invenzione della scrittura, di fatto la parte più consistente della nostra storia, ma proprio i riti funebri sono considerati il primo coagulo di umanità, e anzi spesso rappresentano l’unico oblò attraverso cui ci illudiamo di penetrare nelle vite di coloro che ci hanno preceduto”.

QUI un’intervista a Piretto su Radio Radicale.

Dalla presentazione editoriale.

«I funerali hanno molto da raccontare sulla società e la politica di un Paese. Una riflessione sulla propaganda relativa alla gestione del decesso e al rito funebre come tale nell'ex Unione Sovietica può offrire oggi strumenti utili per meglio comprendere i fenomeni che stanno scuotendo la Russia contemporanea, dove un allarmante culto della morte per la patria ha preso piede in parallelo alla rivalutazione putiniana del passato medievale riletto in chiave filostaliniana. Sono state scelte esequie che hanno lasciato segni significativi nella vita della nazione (quelle di Lenin, Majakovskij, Stalin, Achmatova, Gagarin e altri fino a Gorbačëv e Prigožin). L'analisi si basa sulla componente visuale degli eventi e su testimonianze scritte, e valuta la relazione tra popolazione e governo sia di fronte alla strumentalizzazione di spettacoli funebri organizzati per coinvolgere la cittadinanza e stabilizzare il potere sia, viceversa, per sfidarlo e metterlo in difficoltà nel caso di assemblee spontanee per l'omaggio a una figura non allineata».

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Gian Piero Piretto
L’ultimo spettacolo
con 50 immagini
240 pagine * 19.00 euro
Raffaello Cortina


Riemersi dalla notte

“Gli oggetti sono significanti” – scrive l’antropologo Simone Valitutto – “raccontano non solo chi li ha realizzati, usati ma anche il senso che ciascuno gli attribuisce, eredita o crea. Feticci privati e testimoni della cultura materiale di un’epoca o di un popolo (…) producono un processo simbolico che ha a che fare con la memoria e le origini: gli oggetti parlano”
Quando quegli oggetti sono stati testimoni di grandi tragedie della Storia assumono l’aspetto di anime abbandonate, un macinino o un occhiale sono stati strappati a chi appartenevano e sembra che gridino dai rifiuti o dalle teche la disperazione del distacco e dell’oblio.
Nell’ex manicomio di S. Maria della Pietà a Roma esiste una stanza dove sono ammucchiate cose appartenute tanto tempo fa ai ricoverati: scarpe, quaderni, tazze, verbali di polizia e fagotti chiusi che contengono chissà quali cose. Quella stanza urla.
Un recente libro racconta la generosa avventura di una donna che appreso per caso di un certo plico postale comincia la ricerca di oggetti rinvenuti nei lager e la difficile ricerca dei familiari di quelle lontane vittime per consegnare loro quegli oggetti di nessun valore materiale ma di grande forza della memoria.
Quel libro – pubblicato dalla casa editrice Lindau – è intitolato: Riemersi dalla notte L’ufficio dei destini perduti e ritrovati.
L’autrice è Élise Karlin.
Giornalista e saggista francese. Collabora con «L’Express» e con «Le Monde».

Dalla presentazione editoriale.

«Nella storia individuale come in quella dell’umanità, accade talvolta che un fatto in apparenza senza importanza metta su strade del tutto impreviste. A Elise Karlin è bastato il racconto di un plico dal contenuto singolare ricevuto dal suo medico di famiglia perché in lei si accendesse l’irresistibile desiderio di saperne di più sul mittente e la sua missione. Così ha avuto inizio la sua ricerca sugli Archivi di Arolsen, un’organizzazione che, dall’autunno del 1945, oltre a cercare di far luce sul destino di milioni di uomini, donne e bambini deportati o uccisi durante il regime nazista, si mette sulle tracce degli eredi, per restituire gli oggetti quotidiani prelevati ai legittimi proprietari al momento del loro internamento. Una spilla, un pettine, qualche fotografia… cose di nessun valore materiale che si sono conservate grazie alla nevrosi amministrativa dei funzionari tedeschi e alla cura maniacale con cui compilavano i registri. Ma per Karlin questa si è rivelata anche l’occasione per ricostruire, tra le vicende di persone a lei sconosciute inghiottite dai campi di concentramento in tutta Europa, la storia della propria famiglia. "Riemersi dalla notte" è il resoconto di una ricerca di verità, di una lotta per sottrarre all’oblio le vite di coloro che hanno rischiato di scomparire per sempre. Un commovente viaggio nel cuore della Storia dove le memorie vengono risvegliate, in una corsa contro il tempo per preservare il passato e onorare le vittime di un’epoca oscura».

Per leggere un estratto: CLIC.

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Élise Karlin
Riemersi dalla notte
Traduzione: Laura Ferloni
192 pagine * 19.00 euro
Lindau


Rap 1989

È sempre difficile in ogni genere sia esso letterario o musicale, cinematografico o teatrale, e così via in altri campi espressivi, rintracciare con assoluta certezza nascita di quel genere e suoi iniziatori o iniziatrici. C’è sempre, infatti, chi scopre una progenitura sfuggita a molti, oppure forse storicamente temeraria.
Questa nota di oggi si sofferma sul rap e se avrete la pazienza di leggere qui per un minuto o due, saprete perché.
Quando è nato il rap? Affidiamoci alle cronache più accreditate.
Lady B, DJ nativa di Philadelphia, registrò To the Beat Y' All nel 1979.
Schoolly D, a partire dal 1984, anche lui proveniente da Philadelphia, creò quello stile che in seguito sarebbe stato definito gangsta rap.
Quanto all’Italia alcuni affermano che sia stato Adriano Celentano il padre italiano del rap.
Sia come sia una veloce esplorazione fatta di nomi e date si può trovare QUI

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Sottogenere del rap è la musica trap. Molte le assonanze musicali, poche quelle dei testi.
Mentre nel rap è forte, specie negli Stati Uniti, la colorazione politica, nel trap troviamo accanto a un’aggressività sociale (asociale per alcuni critici) una forte presenza di machismo, misoginia, elogio della ricchezza, voglia di rivolta più che di rivoluzione.
Tempo fa ho incontrato su questo sito una studiosa della trap, Isabella Benaglia cui ha dedicato un saggio, Ebbi una conversazione con lei, sta QUI.

Trascorsi I due minuti di pazienza richiesti prima a chi sta leggendo, ora giunti fin qua spiego perché ho aperto questa mia nota su rap e trap.
Per presentare un rapper Italiano, il suo nome è 1989 (foto by Serena Dattilo).già vincitore della categoria Urban Icon per LAZIOSound.
Ecco un suo autoritratto: Vengo dal rap, dall'hip hop: ho iniziato a portare i baggy quando ancora se lo facevi tutti ti guardavano strano; ti chiedevano se “ti eri cacato sotto”. Ho iniziato a fare gare di freestyle, poi a scrivere e a performare sui palchi. Ora faccio ancora rap, ma mi piace accompagnarmi con dei musicisti, jammare, mescolare i sound, mettere cantati, spoken word e generi diversi nelle mie canzoni. Mi piace scrivere, in maniera critica, di questa società, dei suoi modelli di successo, dei suoi standard di vita pre-costruiti, nei quali proprio non riesco a ritrovarmi. Le mie influenze sono: Tom Waits, Giorgio Gaber, Willie Peyote, Mezzosangue, Lou X, Kendrick Lamar, J. Cole. George Orwell e Carmelo Bene per il suo pensiero.
Ora è uscito Canzone per me.

Estratto dal comunicato stampa

«”Canzone per me” è un ritorno alle origini del rap secondo 1989: una canzone per venire a patti con se stessi, con echi da Kendrick Lamar e con la produzione di Squarta e Gabbo (Cor Veleno).
“Canzone per me”, il nuovo singolo del rapper 1989, ispirato all’iconico “I” di Kendrick Lamar e con la produzione di Squarta e Gabbo (Cor Veleno) – unisce un sound che richiama il rap old style ad un messaggio che parla di amore verso se stessi, riconciliazione e pace, per placare i demoni interiori di ciascuno di noi.
Il rap di 1989 si ispira più alle origini del genere che non alle sue derive contemporanee dimostrando carattere e mestiere nel presentare un brano che si svincola dalle mode del momento. Il testo si ispira all'iconico brano di Kendrick Lamar, I, uscito nel 2014: un brano positivo che invitava ad amare se stessi e che si faceva forza anche del campionamento di 'That Lady' dei The Isley Brothers. Le good vibes tornano nel brano di 1989, che le condisce con grinta aiutato anche dalla produzione di Squarta e Gabbo, rispettivamente dj/produttore e bassista della storica formazione romana Cor Veleno. Una base che contribuisce al mood sonoro originale e old school di “Canzone per me”.
Nei suoi testi, 1989 racconta il presente semi-distopico che stiamo vivendo, cercando di parlare a tutti coloro che subiscono le ingiustizie della società e si ritrovano a fronteggiare aspramente le difficoltà della vita. “Canzone per me” si sofferma sull’individuo, sulla sua sfera psicologica e racconta la storia di un ragazzo che per primo sceglie di volersi bene.
Lo stesso 1989 afferma: “Il brano vuole essere un invito a riconciliarsi con se stessi, ad essere in pace con la persona con cui dobbiamo, volenti o nolenti, condividere ogni attimo della nostra vita. È una canzone che ho scritto per me, per dedicarla a me, ma che appartiene anche a chiunque voglia far propria questa riconciliazione con se stessi”» .

Ed ora si passi all’ ascolto di “Canzone per me” cliccando QUI.

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Ufficio stampa HF4 www.hf4.it
Marta Volterra marta.volterra@hf4.it
Valentina Pettinelli
valentina.pettinelli@hf4.it --- 347.449.91.74

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1989
Canzone per me
Durata 2’52”
Video di Soul Film Production



In viaggio tra le stelle

Dobbiamo essere grati ad Eva che si lasciò tentare dal serpente, morse, e, secondo una nota cronaca, fece mordere ad Adamo, il frutto dell’Albero della Conoscenza che Dio aveva proibito. Abitare nell’Eden, sì, d’accordo ma dopo un po’ ti viene a noia, ti si slogano le mascelle a furia di sbadigli. Meglio conoscere. Pure a costo che ti sfrattino da casa come capitato a quella famosa coppia birichina.
Ha scritto la grande Margherita Hack: “La colpa di Eva è stata quella di voler conoscere, sperimentare, indagare con le proprie forze le leggi che regolano l'universo, la terra, il proprio corpo, di rifiutare l'insegnamento calato dall'alto, in una parola Eva rappresenta la curiosità della scienza contro la passiva accettazione della fede”.
Tra le grandi curiosità c’è quella di conoscere altri mondi, possibilmente abitabili.
Pagine scientifiche affascinanti sullo Spazio e gli obiettivi di noi umani nell’attraversarlo, le ha pubblicate la asa editrice Apogeo con il titolo In viaggio tra le stelle Guida alle esplorazioni spaziali di oggi e di domani.
L’autore è Lees Johnson.
Fisico e tecnologo della NASA. È membro eletto dell'International Academy of Astronautics, Fellow della British Interplanetary Society e membro della Science Fiction and Fantasy Writers of America, della National Space Society e del MENSA (qui l'edizione italiana).

Com’è nato questo libro?
Scrive ‘autore nella Prefazione: “La vita è un viaggio e qualche volta lo è anche un libro. Il viaggio di questo libro incominciò nel 1999, quando mi fu chiesto di condurre il progetto di ricerca della NASA denominato “Interstellar Propulsion Technology Research Project” che, come dice il nome, era dedicato specificamente al problema della propulsione interstellare (…) Quando i futuri colonizzatori umani di un esopianeta scriveranno un libro di storia, che descriverà come il loro nuovo mondo venne un tempo esplorato e colonizzato, vorrei essere citato per il mio contributo tecnico in una delle note. Questo libro è un altro passo del mio personale viaggio, con la speranza che diventi una nota a piè di pagina”.

Pagine affascinanti, scrivevo prima, e, aggiungo, di scorrevole lettura che illustrano le (al momento remote) possibilità che abbiamo nel raggiungere pianeti esosolari e il come sarà possibile – se lo sarà – riuscire in quell’impresa.
Quando si parla dello Spazio, la prima cosa che sfugge alla maggior parte di noi è la quantità delle distanze che intercorrono fra il nostro pianeta e altri mondi.
Le sonde Voyager della NASA, lanciate nel 1977, sono gli emissari più distanti del genere umano. Il Voyager 1 si trova, al momento, a circa 159 unità astronomiche (AU) da noi, ovvero a 159 volte la distanza media della Terra dal Sole, che è pari a circa 149,6 milioni di chilometri. Voyager 1 ha impiegato più di quarantaquattro anni per arrivare fin là.
La stella a noi più vicina (ma forse meglio dire: meno lontana), Proxima Centauri, si trova a circa 4,2 anni luce da noi. Vuol dire che la luce, che viaggia a 300.000 Km/s, impiega più di quattro anni per percorrere tale distanza. Se le Voyager stessero viaggiando nella giusta direzione, impiegherebbero circa 70.000 anni per raggiungere Proxima Centauri.
Inevitabile parlando di Spazio non pensare ai mitici Alieni.
Cito ancora Margherita Hack. Nel suo ultimo libro, “C’è qualcuno là fuori?”, scritto poco prima della sua morte nel 2013, afferma: «Credo del tutto probabile che ci sia vita in altri mondi abitati, ma credo anche che non avremo mai modo di incontrare un extraterrestre. Le distanze non ce lo permettono. In conclusione, penso che siamo destinati alla solitudine. Ma questo non vuol dire che dobbiamo rinunciare a cercare. Circa gli Ufo… gli alieni venuti sulla Terra migliaia di anni fa… tutto senza una prova: l’irrazionalità danneggia la scienza e il cervello».

Dalla presentazione editoriale di “In viaggio fra le stelle”.

«Grazie al numero sempre crescente di pianeti noti al di fuori del sistema solare e a progetti come SpaceX di Elon Musk o Blue Origin di Jeff Bezos, il sogno di avventurarsi nello Spazio e di colonizzare mondi lontani potrebbe un giorno diventare realtà.
Dagli ultimi esopianeti scoperti alle promettenti missioni interstellari, dagli entusiasmanti sviluppi della propulsione spaziale alle innovazioni nel campo della robotica, Les Johnson accompagna i lettori in un tour della fisica e delle tecnologie che potrebbero presto portare l’uomo a spasso tra le stelle. Ma il viaggio non sarà facile perché numerose e difficili saranno le sfide da affrontare per realizzare questo ancestrale desiderio di conoscenza.
Questo libro alza il sipario sulla prossima grande frontiera dell’esplorazione umana. Una lettura affascinante per avvicinarsi alle straordinarie scoperte della scienza che aiuteranno i viaggiatori di domani a tracciare la rotta per il viaggio tra le stelle».

Buoni gli apparati: note, indice analitico e un utilissimo glossario

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Lees Johnson
In viaggio tra le stelle
Traduzione: Corrado Ghinamo
166 pagine * 22.00 euro
Apogeo


Ventuno

Prima che l’attuale governo organizzasse la sua proposta di revisione della Costituzione attaccandone parti rilevanti, uscì un libro che illustrò un aspetto di particolare rilevanza storica: il contributo delle donne a quel fondamentale documento della nostra democrazia.
Donne di plurale provenienza politica, alcune di loro avevano combattuto nella Resistenza, tutte però unite dall’ideale antifascista
Questi i loro nomi: Teresa Mattei, Maria Agamben Federici, Angela Gotelli, Nilde Iotti, Teresa Noce, Adele Bei, Filomena Delli Castelli, Bianca Bianchi, Maria Nicotra, Maria Maddalena Rossi, Angela Maria Guidi Cingolani, Angelina Merlin, Elisabetta Conci, Rita Montagnana, Laura Bianchini, Elettra Pollastrini, Ottavia Penna, Nadia Gallico Spano, Angiola Minella, Maria De Unterrichter e Vittoria Titomanlio.

Quel libro, di godibile scrittura, è intitolato Ventuno Le donne che fecero la Costituzione.

Il volume è firmato da Romano Cappelletto e Angela Iantosca
Eccoli In questo video.

Dalla presentazione editoriale

«Chi sono le ventuno donne che hanno contribuito all’elaborazione della Costituzione italiana? Quali sono le loro storie, la provenienza, le battaglie che hanno portato avanti, sacrificando spesso la vita privata e la propria famiglia in nome di un bene comune? Questo libro prova a raccontarlo attraverso le loro stesse voci, con una narrazione in prima persona che restituisce ai lettori la passione di chi ha partecipato alla ricostruzione di un Paese appena uscito da una devastante guerra. Il testo, rivolto agli studenti delle scuole secondarie di I e II grado, intende ricordare quelle figure, spesso dimenticate, che hanno lottato senza mai tirarsi indietro e mostrare quanta strada ci sia ancora da fare, oggi, per attuare i princìpi e le battaglie di ieri».

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Romano Cappelletto – Angela Iantosca
Ventuno
200 pagine * 14.00 euro
Paoline Edizioni


Gli italiani e la soluzione finale


Il Manifesto della Razza, pubblicato il 14 luglio 1938, fu la premessa alle leggi razziali promulgate il 6 ottobre dello stesso anno che comportarono la perdita dei diritti civili per 58mila italiani, parte dei quali poi deportati in Germania e 8mila di loro morti nei lager.
Quel Manifesto fu firmato da dieci uomini e da altri 329 sottoscrittori. Tutti questi non solo mai furono processati, ma sono state loro intitolate strade, borse di studio, aule universitarie.
Franco Cuomo in "I dieci” così scrive: “Volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. E ci riuscirono, in prima persona. Perché lo furono”.
A Roma anche dopo il grande rastrellamento al ghetto del 16 ottobre ’43 continuarono arresti e deportazioni.
Non solo i fascisti si distinsero nell’infame caccia all’ebreo ma pure molti italiani divennero delatori per denaro, per vendette personali, per intolleranza così com’è stato ricordato in una recente, bellissima, mostra romana: Le parole dell'odio.

Però accanto alla vergogna di quelle vite spregevoli, il ricordo deve andare anche a tante donne e tanti uomini che rischiando la morte - e, talvolta, sacrificandosi - hanno salvato molti ebrei dalla deportazione.
La casa editrice Longanesi ha pubblicato un libro in cui si trovano parte di quei nomi, è intitolato: Gli italiani e la soluzione finale Chi si oppose al nazismo e come?
L’autore è Christian Jennings.
Giornalista e saggista inglese. Autore di testi storici e di attualità. Quale corrispondente dall’estero ha scritto per The Economist, The Daily Telegraph, The Guardian, Reuters, Wired. Attualmente vive a Torino.
Presso Longanesi ha pubblicato nel 2006 il saggio Mezzanotte in una città in fiamme.

Chi furono i Giusti?
Il termine Giusto è tratto dal passo del Talmud che afferma “chi salva una vita salva il mondo intero” ed è stato applicato per la prima volta dallo Yad Vashem di Gerusalemme, in riferimento ai non-ebrei che hanno salvato gli ebrei durante la persecuzione nazista in Europa.
Gli italiani Giusti tra le nazioni, sono inseriti nel database ufficiale dell'Istituto Yad Vashem,
Nel libro di Jennings accanto a nomi famosi (Gino Bartali, Primo Levi, Adriano Ossicini, Vittorio Sereni e altri ancora) ne troviamo altri meno noti o addirittura sconosciuti.
Ogni loro vibrante storia è narrata con scorrevole scrittura che restituisce a chi legge la tensione di quei lontani giorni.
Il volume si conclude con un capitolo di avvincente lettura: la storia di come è continuata (o finita) la vita dei personaggi citati nel libro.

Dalla presentazione editoriale.

«Italia, Seconda guerra mondiale. Quando Hitler diede l’ordine ai suoi ufficiali di attuare la ‘soluzione finale della questione ebraica’, furono molti gli italiani – spesso ingiustamente dimenticati – che con incredibili azioni di ingegno e di coraggio garantirono la salvezza a centinaia di persone. Christian Jennings si è messo sulle tracce di queste persone e ha scoperto i loro nomi e le loro storie: il primario del Fatebenefratelli di Roma, Giovanni Borromeo, che ha inventato un’inesistente malattia infettiva altamente contagiosa, la Sindrome K, per salvare centinaia di ebrei dalla deportazione; il ciclista Gino Bartali, che consegnava messaggi ai partigiani tenendoli nascosti nella canna della sua bicicletta; don Francesco Repetto, che ha offerto riparo a centinaia di ebrei nelle case, nelle chiese, nei conventi dei paesi liguri; l’adolescente Ernestina Madonini, che ha salvato dalla deportazione la coetanea Eugenia Cohen nascondendola nella soffitta della sua casa nel cremonese.
Attingendo a materiali d’archivio inediti in Italia, Germania, Vaticano, Svizzera, Regno Unito e Usa, questo libro racconta la storia di chi ha rischiato la propria vita per salvare quella di centinaia di persone».

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Christian Jennings
Gli italiani e la soluzione finale
Traduzione
Paolo Lucca – Giuseppe Maugeri
266 pagine * euro 22.00
eBook 9.99 euro
Longanesi


The Painting Race

Fra i gruppi più interessanti della nuova scena intermediale italiana ho già altre volte segnalato ed elogiato la presenza di Canemorto.
Chi ancora non li conoscesse sappia che è un trio di artisti, anonimi i singoli componenti, attivo dal 2007. Indossano maschere, parlano un idioma sconosciuto e venerano una divinità canina chiamata Txakurra, diffondendo il suo culto misterioso tramite opere "a sei mani" agite su più media.
QUI interviste e video.

Adesso li troviamo impegnati a Bologna nella sede di Alchemilla, Associazione che tempo fa presentai su questo sito.
Titolo della nuova impresa: The Painting Race.
Ho già detto in apertura che mi piace il lavoro di quel trio e anche questo più recente lo trovo molto interessante (e divertente che assolutamente non è cosa da poco), ma devo altresì dire che quel modo diffuso d’intitolare implacabilmente in inglese ogni manifestazione artistica – mostre, festival, rassegne, spettacoli, e forse anche riunioni condominiali – francamente lo trovo un tic da periferia dell’Impero. Sia ben chiaro non sono fra quei talebani che sostengono l’uso dell’italiano ad ogni costo. Ben vengano termini inglesi (o di altre lingue) laddove siano più espressivi dell’equivalente nella nostra lingua (si provi a dire flashback in italiano, chi lo tenta merita un ricovero psichiatrico), ma perché “light designer” invece di “disegno luci”, per non dire di altre tragiche amenità: “train manager” invece di “capotreno”, “ticket” invece di “biglietto” e così via.
Da Canemorto mi aspetto più fantasia di cui il trio è ricchissimo.
Ma torniamo a… The Painting Race.

Dal comunicato stampa

«A Bologna, a Palazzo Vizzani, è aperto al pubblico “The Painting Race”, progetto espositivo e performativo del trio di artisti Canemorto, a cura di Antonio Grulli. Promossa da Alchemilla, la mostra è realizzata nell'ambito di Art City, il programma istituzionale di mostre, eventi e iniziative speciali promosso dal Comune di Bologna in collaborazione con BolognaFiere in concomitanza di Arte Fiera.
“The Painting Race” vede la messa in scena di sei “quadri radiocomandati” provvisti di ruote, disposti all’interno di un circuito chiuso che attraversa tutte le sale dello spazio espositivo. “The Painting Race” mira a ribaltare la percezione comune dei dipinti su tela, oggetti preziosi, statici e intoccabili che normalmente vanno ammirati senza contatto fisico. All'interno della mostra, al contrario, i dipinti diventano opere mobili, a disposizione del pubblico per essere pilotati lungo il tracciato che si snoda attraverso le suggestive sale settecentesche di Alchemilla. Al circuito, che visivamente evoca una scultura brutalista e minimale, fanno da contraltare una serie di opere in tessuto, dipinte a candeggina e realizzate su misura per inserirsi all’interno delle specchiature già presenti sulle pareti delle sale del Palazzo.
Tramite questa dimensione ludica e partecipativa, “The Painting Race” annulla le distanze canoniche tra opere e visitatori, ironizzando sulle dinamiche fortemente competitive che caratterizzano il contesto delle fiere d’arte. Il pubblico, in questi casi generalmente relegato al ruolo di spettatore passivo, diventa protagonista all'interno della mostra, guidando le opere in solitaria oppure arrivando a sfidare altri visitatori in una gara di "pittura su ruote»"

Dal testo di Antonio Grulli.

«I nostri Canemorto come sempre vanno a mettere il pennello sul nervo scoperto. Quale metafora, infatti, potrebbe essere più azzeccata di una corsa di auto? Ecco allora il loro ultimo progetto “The Painting Race”: una pista automobilistica in miniatura (ma nemmeno troppo…) che attraversa le stanze dello spazio espositivo di Alchemilla su cui si sfidano all’ultima derapata una serie di dipinti, montati su un corpo motorizzato di macchinine radiocomandate (grandi circa 1/10 rispetto alla dimensione di un’auto vera) e messe a disposizione di tutti i visitatori della mostra che hanno voglia di guidarle per sfidarsi con amici, familiari o sconosciuti incontrati per caso alla mostra.
Su ogni automobile radiocomandata è montata una tela bifacciale in cui sono dipinti entrambi i lati, e il cui soggetto va a definire la scuderia di appartenenza: abbiamo il “ritratto”, il “paesaggio”, la “natura morta”, il “post-espressionismo”, il “realismo magico” e il “neo-astrattismo”, tutti in gara per avere la meglio sugli altri generi o scuole pittoriche. Il tutto avviene nei giorni di Arte Fiera (e quando sennò?), la fiera dell’arte, uno degli apici della competitività della scena dell’arte italiana, e a Bologna (e dove sennò?), nel centro della cosiddetta Motor Valley, la regione in cui vengono create le migliori auto da corsa e sportive del mondo.
È impossibile non pensare ai Futuristi, i primi a capire che l’auto da corsa doveva stare all’interno di un museo, e i primi a far emergere la consapevolezza di come una tela non sia sufficiente se non è in grado di esorbitare la cornice per unirsi con la vita. Ma non riesco a non pensare anche a un mio grande amore, Salvatore Scarpitta, e alla sua attitudine dada che lo ha portato a creare delle meravigliose auto-sculture con cui gareggiava su circuiti veri.
Bando alle ciance, godetevi la Painting Race, non risparmiate i colpi bassi e ricordatevi che in questo progetto l'importante non è partecipare, è vincere».

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Ufficio stampa: Irene Guzman | mail: irenegzm@gmail.com | Tel. +39 349 1250956
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CaneMorto
The Painting Race
A cura di Antonio Grulli
Alchemilla * Palazzo Vizzani
Via Santo Stefano 43, Bologna
Fino al 16 Marzo 2024


Lettere sull'ebraismo

La casa editrice Giuntina ha pubblicato Lettere sull’ebraismo di Stefan Zweig (1881-1942).
Scrittore, drammaturgo, traduttore e giornalista austriaco.
Come molti altri ebrei lasciò l'Austria nel 1934 per stabilirsi prima in Inghilterra, poi negli Stati Uniti e infine in Brasile, dove si suicidò insieme con la seconda moglie il 22 febbraio 1942.
Tra le sue opere: “Momenti fatali”, “Mendel dei libri”, “Lettera di una sconosciuta”, “Novella degli scacchi”, "Il mondo di ieri". In questo libro troviamo l'l'Europa d'inizio Novecento, il mondo in cui Zweig è cresciuto, si è appassionato alla lettura e ai viaggi, ha stretto amicizia con Freud, Rilke e Valéry
Di lui la Giuntina oltre a “Lettere sull'ebraismo” ha pubblicato Lettere a Hans Rosenkranz.

Paola Bignardi: ” Era cosmopolita ed europeista ma soprattutto così contrario ai totalitarismi da lasciare l’Europa per New York prima e poi il Brasile dopo l’avvento al potere del nazionalsocialismo. Nel 1942, a sessantun anni, decise di uccidersi insieme alla giovane seconda moglie: l’esilio gli era insopportabile quanto il mondo dal quale era fuggito. Lasciò una lettera dove diceva: «Saluto tutti i miei amici. Che dopo questa lunga notte possano vedere l’alba. Io che sono troppo impaziente li precedo»

Condivido quanto afferma Andrea Bianchi: “Scrivere storie incantate era il suo modo di giocare con le paure, come quando fa a pezzi il suo passato da ebreo narrando della Menorah, dell’arca con le tavole della Legge. Bellissimo, “Il candelabro sepolto”, perché anche lui era ebreo e questo non voleva trascurarlo, o meglio, lo immergeva nell’oblio per dire che era pur sempre da qualche parte, non si sa bene dove”.

Quanto a “Lettere sull’ebraismo”, per questa edizione Giuntina sono state selezionate 120 lettere e cartoline rivolte a 43 destinatari. In primo luogo, sono state prese in considerazione quelle lettere che contengono ampi passaggi su diversi aspetti e problemi dell’ebraismo, anche se in alcune il tema si trova piuttosto tra le righe, senza che concetti come “ebrei” o “ebraismo” ricorrano esplicitamente.
Inoltre, la preferenza è stata accordata a quei testi che erano finora sconosciuti o inediti.
Più della metà delle lettere, 69 in totale, appartiene a questa categoria.
L’edizione presente è a cura di Stefan Litt: “L’imponente corpus dell’epistolario di Stefan Zweig costituisce, come per molti dei suoi colleghi scrittori contemporanei, una parte importante della sua produzione letteraria. La cifra esatta di lettere scritte o dettate da lui è sconosciuta, ma le stime parlano di 25000 lettere e cartoline. Zweig stesso si lamentava di tanto in tanto della grande quantità di missive e del tempo che impiegava a rispondere.
Gran parte della corrispondenza di Zweig era tenuta con scrittori, musicisti, artisti o altre eminenti personalità.
Scriveva innanzitutto in tedesco, ma all’evenienza usava anche altre lingue: francese, inglese e italiano. Di tanto in tanto si prendeva anche il tempo di rispondere alle lettere di quanti gli inviavano i loro tentativi letterari per una valutazione e che potevano, così, destare il suo interesse. Tra i destinatari delle lettere di Zweig si trovano, allora, persone che ricoprivano posizioni molto diversificate e delle più svariate fasce d’età”.

Dalla presentazione editoriale

«Stefan Zweig, uno degli autori di maggior successo di lingua tedesca della prima metà del ventesimo secolo, proveniva da una famiglia ebrea viennese facoltosa e assimilata, in cui la tradizione ebraica appare, a un primo sguardo, poco più di una traccia sbiadita e residuale. Questo libro, a cura di Stefan Litt, comprende 120 lettere, la maggior parte delle quali inedite, e costituisce una fonte primaria per esplorare la posizione di Zweig sull’ebraismo in modo ampio e articolato. Dalla sua corrispondenza, che comprende, tra gli altri, interlocutori come Martin Buber, Sigmund Freud, Albert Einstein, Anton Kippenberg, Romain Rolland, Felix Salten , Chaim Weizmann, emergono numerose riflessioni, intuizioni e giudizi sull’ebraismo e il sionismo, resi disponibili per la prima volta in traduzione italiana».

………………………………….....

Stefan Zweig
Lettere sull’ebraismo
A cura di Stefan Litt
Traduzione di Francesco Ferrari
390 pagine * 20.00 euro
Ebook: 19.00 euro
Giuntina


Parlare con gli occhi

Quante frasi famose sugli occhi! Eccone solo due, di un pittore e di uno scrittore.

Amedeo Modigliani: “Quando conoscerò la tua anima, dipingerò i tuoi occhi”
Mikhail Bulgacov. “La lingua può nascondere la verità, gli occhi mai”.

E le canzoni nei cui versi ricorrono gli occhi? A citarle facciamo notte.
Giusto alcuni esempi. Da grandi autori.
“E lo leggo negli occhi / hai bisogno di me” (Giorgio Gaber)
“E tu che con gli occhi di un altro colore / mi dici parole che / fra un mese scordate le avrai” (Fabrizio De Andrè).
Ma non basta perché gli occhi secondo il poeta Alfredo Falcone autore dei versi di una famosa canzone napoletana sono capaci di pensare e favellare: “Uocchie c’arraggiunate” (1904).

E i modi dire nel quale ricorrono gli occhi?
“Non chiudere occhio”, “Non credere ai propri occhi”, “Non levare gli occhi di dosso”, “Fare l’occhietto”… un’infinità, provate qui a buttare un occhio… visto? un’infinità.
Perfino quando l’occhio, ammalatosi, più non vede è protagonista di visioni. Jorge Borges a uno che compiangeva la cecità dello scrittore, rispose: “Tu non sai cosa ti perdi”.

Ma che cos’è l’occhio senza lo sguardo? Forse lo sguardo sta all’occhio come la mente al cervello, forse perché “Il cervello comincia nell’occhio da dove parte lo sguardo” diceva Italo Calvino.
Su occhio, sguardo e significato del vario modo di guardare è uscito, pubblicato dalla casa editrice Carocci un libro imperdibile: Parlare con gli occhi Lo sguardo come forma di comunicazione.
Ne è autrice Isabella Poggi .
Insegna Psicologia delle emozioni e Psicologia della comunicazione all’Università degli Studi Roma Tre. Le sue ricerche si concentrano su comunicazione, emozioni e inganno, in particolare su parole, gesti, sguardi e le loro combinazioni di significati in politica, nella musica e nella vita quotidiana.
QUI suoi altri interventi scientifici.

Dalla presentazione editoriale

«Il volume spiega come lo sguardo sia un sistema di comunicazione sofisticato, con una fonologia, una morfologia e una semantica. Non solo specchio dell’anima, gli occhi parlano di emozioni, intenzioni, eventi, rapporti di affetto o potere, nessi del discorso, regolano la presa del turno e danno feedback all’interlocutore. Un linguaggio con regole semantiche e di opportunità sociale che indicano con quale sguardo trasmettere un significato, ma anche se e quando farlo. E i significati trasmessi dagli occhi si intrecciano con le altre modalità confermando, completando o smentendo quanto esprimiamo con le parole o i gesti. Grazie alla sua ricchezza comunicativa, lo sguardo permette di influenzare gli altri con la persuasione o il carisma; rende più efficace l’insegnare, più facile e motivante l’imparare; e nel fare musica trasmette emozioni, dà indicazioni tecniche e favorisce la sincronia del cantare e suonare insieme».

Imperdibile questo libro, si avvale di una scrittura capace di trattare una materia complessa, la semantica dell’espressività ottica, con il maiuscolo merito di farlo non in modo complicato ma scorrevolissimo.
Prima di chiudere questa nota, come non ricordare certi occhi assai particolari di una grande seduttrice che è tale perché ce li ha uguali uguali a quelli di una grande attrice, A chi appartengono quegli occhi? Per saperlo basta un CLIC!

Un gran libro “Parlare con gli occhi”. Non perdetelo di vista.

…………………………….

Isabella Poggi
Parlare con gli occhi
216 pagine * 18.00 euro
Carocci


Supporto memoria / Memory Device

Mi piace il lavoro di Daniela Comani (in foto, per una sua bio: CLIC) e perciò le dedicai anni fa su questo sito una puntata della sezione Nadir con una presentazione di Antonella Sbrilli.
Ora, a Bologna, espone alla Galleria Studio G7 Supporto memoria / Memory Device; è la sua sesta personale con quella Galleria dal 1996.

Estratto dal comunicato stampa.

«Il progetto si compone di un’installazione capace di delineare una sorta di autoritratto di Comani stessa; infatti, 44 fotografie di macchine fotografiche, registratori, telefoni cellulari, pellicole, nastri audio, floppy disk, CD, memory card, sim card compongono con fare laconico un archivio visivo - a tratti plastico - della storia dei media.
In particolare, si evince una riflessione sulla progressione del tempo nonché della tecnologia, dall’epoca analogica a quella digitale: è proprio questo che si manifesta nell’opera video allestita negli spazi della Galleria G7. Attraverso una videocamera VHS e un iPhone, l’artista realizza, a trent’anni di distanza, la stessa ripresa che oggi presenta in maniera inedita in un’opera video split screen».

La mostra è accompagnata da un brillante testo critico di Giangavino Pazzola. Eccone qui di seguito alcuni passaggi.

- «L’allestimento ideato da Daniela Comani presenta tre opere inedite provenienti da altrettanti periodi della sua carriera: “Supporto memoria / Memory Device” (2023), “East Berlin” 1990-2020, “Senza titolo (messa in scena di se stessi)” (1992).
Immagini statiche e in movimento che evidenziano, prima di tutto, una riflessione sul rapporto tra l’individuo e il tempo, tema ormai essenziale nella ricerca dell’artista. Un tempo esplorato, misurato con il proprio corpo, dichiarato con apparecchi, atmosfere e oggetti. Una dimensione rispettata e, allo stesso modo, affrontata in maniera diretta, dove la logica è messa in dubbio nonostante l’abbondanza di informazioni offerte da Comani.
In “Supporto memoria / Memory Device”, serie che dà anche il titolo alla mostra, Comani organizza una sorta di archivio composto da 44 still-life di altrettanti apparecchi e dispositivi tecnologici utilizzati nel corso degli anni dall’artista stessa. che compongono un campionario visivo della storia dei media. A livello estetico, questi apparecchi e dispositivi immortalati su fondi neutri mostrano delle risonanze con lavori di artisti concettuali come Christopher Williams (1956) e Steven Pippin (1960). Comani, tuttavia, non critica la fotografia come sistema visivo o processo meccanico della società capitalista, ma crea delle immagini oggettive e nostalgiche per dichiarare l’impossibilità di un’archeologia tecnologica, e per raccontare un aspetto personale del proprio vissuto».

- «Come nella gran parte dei lavori realizzati negli ultimi trent’anni, anche in questo caso Comani mostra interesse per le “tecnologie del tempo” indicate dal curatore Dieter Roelstraete e, ancora meglio, per quella archeologia dei media raccontata dal teorico Jussi Parikka, attitudine riscontrabile anche in East Berlin 1990-2020, un’opera video split-screen che trasmette in sincrono il percorso dello stesso spazio urbano della capitale tedesca a trent’anni di distanza una dall’altra. Entrambe sono realizzate dall’interno dell’abitacolo di un’automobile, modalità che richiama un grande classico dell’arte fotografica concettuale come “Every Building on the Sunset Strip” (1966) dell’americano Ed Ruscha. La prima veduta è realizzata dall’artista il giorno del suo compleanno attraverso una videocamera VHS, così come la seconda che, tuttavia, è fatta con la camera di un iPhone. Ancora una volta, l’idea di esperienza personale supporta una riflessione sulla progressione del tempo e della società, nonché dell’evoluzione della tecnologia».

- «Il tema del doppio – così come quello del tempo – emergono anche nel lavoro fotografico mai esposto in precedenza “Senza titolo (messa in scena di se stessi)”, realizzato durante gli anni trascorsi all’Università delle Arti di Berlino. L’immagine è scattata con uno degli apparecchi immortalati in “Supporto memoria / Memory Device”, e in questa l’artista si autoritrae davanti ad un suo lavoro dell’epoca, che includeva una riproduzione fotografica di un dettaglio del modello del grande edificio a cupola ideato da Adolf Hitler e dal suo architetto Albert Speer, "Große Halle/Volkshalle" (“Grande sala del Popolo”) per il progetto "Welthauptstadt Germania”, ovvero la Capitale universale del Terzo Reich. Con la tecnica della doppia esposizione, Comani inscena una situazione paradossale che crea un corto circuito nella funzione esperienziale del documento fotografico e – allo stesso tempo – rimanda tanto al nostro rapporto con la memoria storica quanto alla tematica identitaria, argomenti che permeeranno la sua ricerca negli anni a venire, come è possibile notare in opere come “Sono stata io. Diario 1900-1999”.
A causa di grandi traumi collettivi, la società contemporanea appare incapace di pensare e immaginare il futuro. Così come diversi artisti al giorno d’oggi, Comani recupera oggetti dal passato riattivandone la storia e la funzione per delineare una sorta di proprio autoritratto, che è anche specchio nascosto dei nostri tempi».

……………………………………….

Per i redattori della stampa, radio-tv, web:
Ufficio stampa, Sara Zolla
346 8457982 – press@sarazolla.com

……………………………………….

Daniela Comani
Supporto memoria / Memory Device
Galleria Studio G7
Via Val D'Aposa 4A, Bologna
Info: info@galleriastudiog7.it
+39 051 2960371
+39 3398507184
Fino al 31 – 3 – 2024


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