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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Vacanze


Nybramedia fin dal 2000, suo anno di nascita, si concede vacanze invernali.
Dopo le note di oggi, le pubblicazioni riprenderanno martedì 7 gennaio 2020.

Buon anno a tutti i nostri visitatori.


Ri/Generarsi

È in corso presso la SAIB una mostra di Enza Monetti dalle caratteristiche site specific per la sintonia agita con la produzione di quell’azienda che è una fra le principali produttrici di pannello truciolare grezzo e nobilitato.
L’artista ha realizzato, infatti, una serie di opere sul tema della rigenerazione: un attraversamento fra Natura e Cultura espresso in 11 installazioni di grandi dimensioni appositamente realizzate e allestite per gli spazi di rappresentanza dell’azienda,
Usando legno, carta, ferro, alluminio, tessuti e materiale recuperato nelle diverse fasi del processo di lavorazione della SAIB, Enza Monetti rigenera e propone forme e contenuti differenti e inediti che giocano tutti intorno al segno-albero nelle sue più disparate declinazioni e possibilità: singolo o in gruppo, intero oppure rappresentato nei soli rami, o in radici capovolte, a corpo pieno e nel solo profilo; una raffigurazione di quella che Michel Serres chiama "filosofia della globalità che impone un ripensamento sulla biogea".

Si tratta della prima iniziativa a sostegno dell’arte contemporanea da parte della SAIB che intende profilare l’aspetto espressivo ed eccosostenible della sua produzione.
La mostra è a cura di Barbara Martusciello storica dell’arte e critica di arti visive.

Così scrive la curatrice sul lavoro di Enza Monetti: “La ricerca e le opere di Enza Monetti sono pervase da una spiritualità che, sebbene laica, suggerisce una visione animistica della Natura. Di questa – che è il nostro archetipo con cui ogni civiltà nei secoli si è confrontata e che è alla base di ogni filosofia, religione e cultura – ha scelto l’albero come emblema, assunto come codice universale che riassume più associazioni estetiche, storiche e intellettuali e si fa portatore di una visione possibilista rigeneratrice e di una virtuosa progettualità di vita futura. Arte, immaginazione, concentrazione sull’esistenza,
preoccupazioni sociali e apertura di sinergie sono i campi della sua indagine che, pur aprendo la riflessione collettiva su quanto dell’umanità si sta perdendo, porta echi di speranza
”.

Enza Monetti, vive e lavora a Napoli.
Tra le istituzioni che ospitano sue opere: Museo Madre; Fondazione Banco Napoli; Fondazione Plart Napoli-Torino; Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia; Fondazione Donnaregina per le Arti Contemporanee; Museo Hermann Nitsch.
È nella selezione di Blindarte per The artists and collectors Artpot, Milano - 2019, Asta di Arte Contemporanea e catalogo, ed. Blindarte
Molte le mostre collettive e personali cui ha partecipato..

Enza Monetti
Ri/Generarsi
Mostra a cura di Barbara Martusciello
SAIB - Via Caorsana, 2, Caorso
Info: +39 0523.816.111
Fax: +39 0523.816.190
Fino al 29 febbraio 2020


Pinocchio marmocchio


Matteo Garrone è un bravissimo regista ma tra i più discontinui che abbiamo nel nostro scenario cinematografico.
Ebbe giustamente un grande successo il suo film "Gomorra" (2008), vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes, di cinque European Film Awards, sette David di Donatello e nominato ai Golden Globe quale miglior film straniero.
Tutti premi meritatissimi per un’opera imponente. Ma aveva già diretto “L’imbalsamatore” (2002), film eccellente così come seguiranno altre ottime prove, ricordo, ad esempio, “Reality” (2012) e, soprattutto, “Dogman” (2018). Altri film mi sono sembrati deludenti, così come questo recente “Pinocchio” che mi ha annoiato per 125 minuti tanto, infatti, dura questo film che prima d’essere assai modesto è inutile.

Garrone aveva 4 anni quando Comencini nel 1972 girò il suo Pinocchio che resta la migliore trasposizione cinematografica di quel famoso libro.
In tutto è superiore a questa recente pellicola. Comencini ebbe intuizioni geniali fin dalla distribuzione dei ruoli, basti pensare alla fata turchina affidata a Gina Lollobrigida. E poi… Franco e Ciccio interpreti del Gatto e la Volpe ben diversi dalle insopportabili smorfie, specie di Ceccherini (che aggrava le sue responsabilità firmando con Garrone la sceneggiatura), il Pinocchio di Andrea Balestri, senza trucco, è ben più scavezzacollo di Federico Ielapi, le musiche firmate allora da Fiorenzo Carpi risultano più efficaci di quelle del pur bravissimo Dario Marianelli che qui mi è sembrato in una prova non all’altezza della sua fama. E del piccolo che fa Lucignolo meglio non parlarne, è scelta opinabilissima, qui cicciotello, con scatti più isterici che malandrini.
C’è un solo elemento che prevale sullo sceneggiato di Comencini ed è il Geppetto di Benigni (lui, colpevole di un disastroso “Pinocchio” del 2002), azzeccatissimo, bravissimo, strepitoso, di gran lunga superiore a quello interpretato da Nino Manfredi tanti anni fa.
Garrone, ma chi te lo fatto fare? Signore, pietà.


Tavole eccellenti


Anche i grandi possono dire delle baggianate, ad esempio, un giorno Socrate disse: “Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del bere?”.
Non sappiamo se questo suo dire fu l’ennesima causa dei rimproveri che gli muoveva la collerica moglie sua Santippe; in questo caso, però, mi sento di dare ragione alla signora.
Non sono Socrate, però mai direi quanto disse quel famoso personaggio.
Come, infatti, sanno quei generosi che leggono queste mie pagine web, durante i miei viaggi di lavoro tra festival, servizi per la tv, spot pubblicitari e altre cose simili, talvolta allegre talvolta meno, mi piace visitare sia ristoranti affermati sia ancora sconosciuti ma di promettente futuro.
Quello che segnalo oggi, per chi ancora non lo conoscesse, appartiene alla prima categoria.
Si tratta del ristorante Mille di Torino.

Il locale (consiglio la prenotazione, specie in orari serali), arredato con gran gusto, è stato aperto alla fine del 2017 da Luca Mogliotti, già valoroso ristoratore ed albergatore astigiano. “Mille” offre agli ospiti una cucina tipica di territorio con alcuni elementi di innovazione propri dello stile della chef Roberta Nascimben che prepara piatti .di classe sia ispirandosi alla tradizione sia apportandovi ingegnose novità. Anche la sua presenza è una risposta a Vissani il quale, temerario, forse ancora irritato per aver perso una stella Michelin, ha sostenuto che le donne non possono condurre brigate di cucina dei ristoranti.
Non descriverò le pietanze consumate al “Mille”, la trovo un’operazione improbabile che fatalmente finisce in quel logoro gergo dei critici di gastronomia, me ne tengo lontano. Posso dire soltanto che Roberta ha creato una felice armonia fra le esperienze di un tempo e la ricerca di nuovi sapori.
La sala, quando ci sono stato, è stata governata sapientemente da Camilla Dutra che, provvista di cordialità e simpatia, sa guidare l’ospite in modo competente.
Insomma, andateci e mi ringrazierete.
Solo applausi? No. Una cosa che mi è piaciuta meno è trovare nel conto (assolutamente accettabile per la gloriosa esperienza fatta a tavola) una voce per il “servizio”; in un locale, specie di spessore com'è il "Mille", quella voce non ci dev’essere.

Ristorante Mille
Via dei Mille 18, Torino
email: info@millerestaurant.it
tel. +39 011 – 197 60 596
Chiuso il lunedì


Vacanze

Nybramedia fin dal 2000, suo anno di nascita, si concede vacanze invernali.
Le pubblicazioni riprenderanno martedì 7 gennaio 2020.
Buon anno a tutti i nostri visitatori.


Ricordo di Mauro Valeri


In una notte del novembre scorso se ne è andato Mauro Valeri (in foto) lasciandoci più soli. Sociologo, docente universitario, ha portato nel nostro Paese il racconto degli atleti che hanno vinto stereotipi e razzismi.
I suoi libri hanno raccontato le storie del pugile Jacovacci, del partigiano Sinigaglia, di Mario Balotelli.
È intervenuto su questo sito in occasione del suo ultimo libro “Afrofobia” e trovate QUI il colloquio che ebbi con lui.
Prima di “Afrofobia” ha pubblicato vari volumi, voglio ricordarne tre editi da Odradek (una delle pochissime case editrici antagoniste che abbiamo in Italia) benvenuta quant’altre mai nonostante – come già ho scritto in altri momenti – sia molto lontano da parte delle sue pubblicazioni non essendo io comunista, ma ne ammiro l’onestà intellettuale e il rigore morale della rotta guidata dal nocchiero Claudio Del Bello… gente come lui? Avercene!... Comunista? Pazienza, me ne farò una ragione.

Tra i libri Odradek di Valeri segnalo Il generale nero poi Stare ai Giochi e Negro, ebreo, comunista la storia di un personaggio straordinario colpevolmente spesso trascurato nella storia della Resistenza.
L’Anpi così lo ricorda: “Nel 1926, tornato a Fiesole dopo aver svolto il servizio militare in Marina come sommergibilista, Sinigaglia (che lavorava come meccanico) aveva aderito al movimento comunista clandestino. Due anni dopo, per evitare di essere arrestato, fu costretto a espatriare in Francia. Di qui il giovane operaio fiorentino passa in Unione Sovietica, frequenta una scuola di partito, torna al suo lavoro di meccanico e si sposa. Una parentesi in Svizzera, per organizzarvi comunisti italiani fuoriusciti, poi (dopo l'aggressione di Francisco Franco alla Repubblica popolare), Sinigaglia accorre in Spagna. Partecipa alla guerra civile, come ufficiale a bordo di un incrociatore repubblicano, e si distingue bonificando il porto di Barcellona minato dai franchisti.
Nel 1940, l'antifascista italiano (che è riparato in Francia con i reduci delle Brigate Internazionali), è arrestato dalla polizia francese, che lo consegna alle autorità fasciste. Confinato a Ventotene, Sinigaglia riottiene la libertà nell'agosto 1943, dopo la caduta di Mussolini. Alla proclamazione dell'armistizio torna in Toscana e qui (col nome di battaglia di "Vittorio"), comanda una delle prime formazioni gappiste che ha organizzato a Firenze. Pochi mesi dopo, caduto in una imboscata dei repubblichini della Banda Carità, è abbattuto sulla porta di una trattoria in via Pandolfini. Una lapide lo ricorda oggi nel luogo dove fu trucidato; il suo nome è inciso anche con quelli dei partigiani caduti del comune di Firenze e nel Sacrario dei partigiani fiorentini a Rifredi”.

Nel quarto di copertina si legge fra l’altro: «La banda Carità non poteva uccidere di meglio. Non l'hanno potuto torturare, ma gli hanno strappato due denti d'oro, da morto».

Mauro Valeri
Negro, ebreo, comunista
Pagine 304, Euro 20.00
Con immagini
Odradek


La voix et l'absence


Un nuovo libro di Giovanni Fontana (QUI il suo sito web) è sempre una festa della pagina.
Così come lo è La voix et l’absence, la sua più recente pubblicazione edita da .Dernier Télégramme

A lui ho rivolto due domande.
Come nasce questo libro?

Il libro nasce dal rapporto con la casa editrice francese Dernier Télégramme, con la quale avevo già pubblicato un volume nel 2014. Si tratta di un editore molto attento a quanto accade negli ambiti della sperimentazione letteraria. Decisi di sottoporgli l'opera a seguito del convegno organizzato nel 2016 dall'Università di Tours su Pierre e Ilse Garnier.
Pierre Garnier, infatti, aveva scritto un testo su questo lavoro, da me composto nel 1989 direttamente in francese (sia nella parte lineare, sia in quella verbovisuale), di cui avevo pubblicato ed esposto tavole qua e là, ma che non avevo mai proposto nella sua integrità. L'idea è stata accolta con entusiasmo ed il risultato, almeno per me, è piuttosto soddisfacente. Oltretutto mi fa piacere che il giudizio di Garnier (uno dei padri della poesia concreta, che nel 1968 lanciò il suo manifesto dello Spazialismo per i tipi di Gallimard – “Spatialisme et poésie concrète” – possa essere apprezzato in Francia, visto che fino ad ora era apparso solo in italiano su pubblicazioni italiane.

C’è qualcuno che dà per morta la poesia verbovisiva.
Come rispondere
?

La poesia verbovisiva è viva e vegeta. Io non ho mai smesso di praticarla, e come me, altri autori nel mondo. Ovviamente le cose sono cambiate rispetto a quanto si faceva una volta. Il concetto di ‘poesia concreta’ è stato superato, quello di ‘poesia visiva’ è stato riveduto e corretto, se non altro perché la dimensione socioculturale si è del tutto trasformata e quella mediatica è stata radicalmente stravolta. Sul piano tecnico, poi, si hanno a disposizione strumenti allora inconcepibili. Ciò ha contribuito ad un importante rinnovamento dei linguaggi specifici, anche se oggi, per altri versi, si assiste anche alla proliferazione di interventi superficiali ed approssimativi, talvolta addirittura sciatti. Ma ciò fa parte del gioco. Significa che, comunque, questo universo linguistico continua ad interessare. Del resto ci sono gallerie, fondazioni, musei che se ne occupano e ci sono alcune case editrici capaci di offrire delle chicche di altissima qualità. Basti pensare all'irlandese Redfoxpress.

Giovanni Fontana
La voix et l’absence
Prefazione di Pierre Garnier
Postfazione di Julien Blaine
Pagine 60, Euro 12.00
Dernier Télégramme


La grande arte del ridere

Se a Roma abitate o siete di passaggio per turismo non perdetevi una mostra al Teatro Valle destinata al ricordo di una famiglia che ha molto dato al teatro italiano:
Il capostipite: Eduardo Scarpetta (Napoli, 12 marzo 1853 – Napoli, 29 novembre 1925) attore e commediografo fu il più importante interprete del teatro napoletano tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento.
Padre di numerosi figli, ben nove (riconosciuti e no): oltre a Vincenzo, Domenico, Maria Scarpetta, vi sono i celebri Eduardo, Peppino e Titina De Filippo, Eduardo (De Filippo) in arte ‘Passarelli’ e suo fratello Pasquale De Filippo.

Lo strepitoso successo riscosso dai suoi spettacoli gli procurò un’eccellente fortuna economica tanto da fargli acquistare una villa “La Santarella” (ancora esistente a Napoli) che prese il nome da una fortunatissima commedia intitolata appunto “’Na santarella” di cui era autore.
La sua brillante carriera di commediografo ebbe un colpo avverso quando D’Annunzio gli mosse causa per plagio della sua “La figlia di Jorio” parodiata da Scarpetta in “Il figlio di Jorio” (rappresentata il 3 dicembre del 1904 al Teatro Mercadante di Napoli) che oltre a non avere fortuna al botteghino si trascinò nelle aule di tribunale per anni. Alla fine, Scarpetta vinse, pur avversato da Marco Praga e sostenuto, invece, da Benedetto Croce. Come si legge sul sito della famiglia: “La vittoria oggettiva però non risparmiò a Eduardo Scarpetta una sconfitta intima: egli comprese che dopo cinquant'anni di teatro le esigenze ed i gusti del pubblico erano nuovamente cambiati e che un'epoca era ormai al tramonto. La sentenza di assoluzione disse infatti che si era trattata di una parodia, riuscita male, ma pur sempre parodia. Scrisse un ultimo capolavoro "'O miedeco de' pazzi", partecipò a qualche altro spettacolo della compagnia del figlio Vincenzo, collaborò con Rocco Galdieri alla scrittura delle prime riviste d'avanspettacolo e si spense, all'età di settantadue anni”.
Ora ricorda Scarpetta una mostra - a cura di Maria Procino e Sandro Piccioni - intitolata La grande arte del ridere Gli Scarpetta al Valle.

Dal comunicato stampa
«Poesie, pensieri, foto, locandine, pagine dal diario di Eduardo Scarpetta, e brevi cenni biografici dedicati a lui e al figlio Vincenzino, tratteggiano un itinerario delle maggiori opere presentate al Valle. Le edizioni televisive di Miseria e nobiltà e Tre calzoni fortunati realizzate da Eduardo De Filippo, sono state scelte come modelli di rappresentazione visive della comicità scarpettiana anche se nella elaborazione di Eduardo. Esempi del filo che ha legato e lega tutti gli artisti di questa grande famiglia Scarpetta-De Filippo che fa unica la nostra tradizione, la nostra cultura. Sono proposti infine anche i due film di Vincenzo Scarpetta: Tutto per mio fratello (1911) e Il gallo nel pollaio regia di Enrico Guazzoni (1916), rari documenti dei lavori cinematografici di Eduardo e Vincenzo Scarpetta, per sottolineare il loro ruolo non secondario di pionieri del cinema.
La mostra vuole essere un piccolo omaggio, un’occasione speciale per scoprire o riscoprire uno dei maestri del nostro teatro, Eduardo Scarpetta, che diventa tra fine Ottocento e i primi anni del Novecento uno degli attori e drammaturghi più seguiti e amati in Italia, innovatore della scena teatrale nel momento dell’ascesa della nuova classe borghese nel nascente stato unitario. Riempie i teatri a tal punto che a Roma, il proprietario del Teatro Valle gli offre un contratto di 19 anni che lui però non accetta. È il Valle infatti che accoglie la “Comica compagnia del cav. Eduardo Scarpetta” quando arriva a Roma, dopo i successi napoletani al Teatro del Fondo e al Fiorentini. E con lui recita anche il figlio Vincenzino prima che questi scelga poi il Manzoni per le sue rappresentazioni nella capitale.
In questo omaggio al Teatro Valle affiora anche il desiderio di ricordare Mario Scarpetta con le parole di Luca De Filippo: “Lo ricordo con grande amore e con grande gioia, è stato un attore magnifico scomparso troppo presto ma che avrebbe detto la sua… è stato un bel compagno di lavoro e di vita…”.
La mostra è stata realizzata grazie agli eredi Scarpetta che hanno messo a disposizione i loro archivi».

Ufficio Stampa Teatro di Roma:
Amelia Realino: 06.684.000.308 I 345.4465117
ufficiostampa@teatrodiroma.net

Teatro Valle
Via del Teatro Valle 21
Mostra “Gli Scarpetta al Valle”
Orari ingresso: giovedì, venerdì, sabato dalle 17.00 alle 20.00
domenica dalle 11.00 alle 18.00
info 06.684000311/314 – community@teatrodiroma.net
Fino al al 12 gennaio 2020
Ingresso libero


Felici a 50 anni


Articoli giornalistici, trasmissioni radiofoniche, programmi televisivi, libri e pubblicità ogni giorno propongono i modelli della bellezza fisica e intellettuale della giovinezza e i modi per continuare a possederli sconfiggendo l’età matura.
Si crea così una sorta di paura degli anni da affrontare a partire addirittura dalla media età della vita che non è più quella dell’epoca di Dante.
Nel nuovo rapporto 2019 pubblicato dall’Istat, in Italia, sorride la speranza di vita (e piange l’Inps) perché in base alle stime fatte sul 2018, alla nascita è per gli uomini di 80,8 anni e per le donne si sale a 85,2.
Sia come sia molti trattamenti sia chimici sia chirurgici sono praticati per vincere sul corpo gli effetti indesiderati prodotti dall’età.
Aubrey de Grey, specialista in gerontologia, scienziato appartenente all’area dei Transumanisti, direttore di SENS (Strategies for Engineered Negligible Senescence) studia trattamenti che, afferma, consentiranno a noi umani di estendere indefinitamente la durata della nostra esistenza. Intervistato dice che ha già raggiunto buoni risultati anche su sé stesso (come il suo sodale, l’informatico Ray Kurzweil). Che cosa servirà per raggiungere i risultati che si propone? “Dipende dai livelli di finanziamenti che riceverà il mio Istituto” – risponde – “Solo da quelli”.

Lasciamo de Grey ai suoi ingegnosi studi e occupiamoci di un interessante libro che sull’età ragiona fissando su di un preciso numero di anni considerazioni e riflessioni.
La casa editrice Morellini ha pubblicato un titolo invitante: Felici a 50 anni.
Libro per donne scritto da due donne, ne sono, infatti autrici Michaela K. Bellisario e Claudia Rabellino Becce.

Questi i profili biografici presentati dall’editore.
Michaela K. Bellisario è una giornalista e scrittrice italo-olandese. Vive tra Norwich e Milano dove lavora per “Io donna”, il femminile del Corriere della Sera. È buddhista e ama film asiatici. Per Morellini è autrice di “Guida turistica per fashion victim” (2008), “Felici e conviventi, manuale per un’unione perfetta” (2010), “Tu non mi capisci, dizionario uomo-donna donna-uomo” con Stefano Bonometti (2011), “Amsterdam Women Friendly” (2014), “Lettere alla madre” (2018). Nel 2016 ha partecipato all’antologia “Io sono il Nordest” (Apogeo). Per Cairo editore ha pubblicato il suo primo romanzo “Parlami di lei”.

Claudia Rabellino Becce è avvocato, autrice, moglie, e mamma, non esattamente in quest’ordine. Incline ad andare dove la porta il cuore, da viaggiatrice incallita ha girovagato tra il Medio Oriente e la Croazia. Dal 2003 il posto dove tornare a casa è Cagliari, città della quale si sente ormai figlia adottiva. Le sue amiche sono la sua ricchezza. “Il meglio deve ancora venire” è il suo mantra.
Per Morellini Editore già ha scritto “Cagliari al femminile” (2018).

Libro per donne scritto da donne, dicevo prima, proprio da loro fissando la soglia dei cinquant’anni.
Può essere curioso allora su quel traguardo sentire pure una voce maschile, di un personaggio assai noto che per professione vive tra fisicità e psicologia: l’allenatore di calcio José Mourinho: “Quel compleanno può avere un impatto psicologicamente negativo su molte persone. Ci si rende conto che il mondo gira molto, molto veloce e la vita è molto, molto breve. 50 è un numero che di solito fa guardare molto indietro, ma anche avanti. Sì, guardare avanti e provare a vedersi meglio che mai, più forte che mai, con più esperienza per vivere il presente e affrontare il futuro”.
Questo sito evita scrupolosamente volumi che si diffondono in consigli “anti age”, ma trovate qui citato “Felici a 50 anni” perché non appartiene a quella perniciosa filiera.
Lo apprenderete dalle due autrici cui adesso lascio loro la parola.

«Felici a 50 anni non è un manuale di consigli, non è neppure un saggio critico. O, ancora, un testo di auto-aiuto, di quelli pieni di certezze che vanno sempre di moda. È qualcosa di più profondo. Il libro racconta l’esigenza che abbiamo sentito, a un certo punto, di mettere insieme il nostro vissuto, il nostro “state of mind”, per confrontarci su un’età, i cinquanta, che spariglia certezze e conquiste. C’è un prima e un dopo quando si entra nei fifties. Il prima è improvvisazione, voglia d’amore, un corpo che risplende, una carriera, figli e famiglia. Il dopo è un nuovo portone che si apre, il sole ancora in alto che vira al tramonto, la saggezza che emerge nei discorsi. E, lei, la signora menopausa che fa la sua comparsa con tutto lo scompiglio che provoca. I cinquanta non sono i nuovi quaranta. È inutile raccontarsela. Su questa illusione dobbiamo pacificarci. È un periodo della nostra vita che propone scenari differenti e diversi interrogativi. Eppure, i cinquanta sono incredibilmente lo zenith per una donna. Sono un’età che vive e risplende di luce propria. Diventiamo il meglio di noi stesse: forti, consapevoli, essenziali, sincere, oneste, dirette, concrete, coraggiose. L’idea di sintetizzare il nostro stato d’animo ci è venuta con un bicchiere di prosecco in mano, sedute davanti al mare: di colpo temi come il metabolismo che rallenta, il girovita che si allarga, il botulino, e una certa assertività nei confronti del mondo intorno sono diventati ricorrenti e solo all’apparenza futili. Così è nato questo libro di esperienze personali e (alcune) istruzioni d’uso».

Michaela K. Bellisario
Claudia Rabellino Becce
Felici a 50 anni
Pagine 160, Euro 14.90
in ebook (Epub) Euro 4.99
Morellini Editore


Ricordando Berlino

Il mese scorso ho recensito un libro sulla sceneggiatrice e regista francese Chantal Akerman e, ho avuto una conversazione con la sua autrice: l’architetto Ilaria Gatti; al link precedente ne trovate una sintetica biografia.
Nell’occasione seppi di un suo libro Ricordando Berlino e leggendolo mi si sono rivelate pagine finissime: un vertiginoso attraversamento di un territorio immaginario (tranquilli… niente romanzo, in questo sito di romanzi non me ne occupo) popolato di memorie e personaggi reali, si tratti di un familiare o di una famosa scrittrice oppure di Kimberly Mc Carthy cinquecentesima persona giustiziata nel Texas dal 1976.

La presentazione editoriale: “Un viaggio che si sviluppa lungo i sentieri della memoria e al quale fanno da sfondo tre scenari diversi: dal più profondo, le Catacombe, fino al più elevato, la Torre, attraverso gli archivi della Fortezza. Luoghi dell'immaginario nei quali si aggirano ombre”.

A Ilaria Gatti ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro? E perché quel titolo ?

Nel 2007, alla Biennale di Venezia: nel Padiglione francese c’era un piccolo schermo con un filmato; nella confusione delle voci, nell’affollarsi delle teste curiose solo per pochi attimi e subito attratte altrove, Rachel Monique Sindler – la madre dell’artista Sophie Calle - stava morendo, lì, davanti a tutti. Il filmato, a circuito chiuso, si ripeteva continuamente, scorreva indifferente lungo quel limite incerto e inafferrabile che separa la vita dalla morte, nell’illusione di riuscire a cogliere il momento in cui la linea si sarebbe arrestata.
Si trattava di cinismo e di lucido egocentrismo, dare in pasto al pubblico quel volto morente?
Da questo interrogativo ha preso spunto il libro.
Ho associato a quella violazione di intimità lo straordinario film “Un’ora sola ti vorrei” nel quale un’altra figlia, Alina Marazzi, si interroga sulle ragioni del suicidio della madre facendola rivivere attraverso filmati, registrazioni, diari, documenti, home movies.
Da qui è cominciato tutto.
Perché Berlino nel titolo? Per motivi diversi. Berlino è l’ombra del nazismo e della violenza, delle prevaricazioni e dei soprusi del Novecento, ma è anche il luogo nel quale il viaggio del libro trova una sua conclusione: nel Museo Ebraico di Daniel Libeskind.

Il volume si articola in tre scansioni. Le ragioni di questa struttura?

Si tratta di un viaggio lungo i sentieri della memoria al quale fanno da sfondo tre scenari diversi: dal più profondo, le Catacombe, fino al più elevato, la Torre, attraverso gli archivi della Fortezza. È come se all’interno della mente fossero archiviati ricordi ad una profondità maggiore o minore, a seconda della loro intimità. Sono tre luoghi dell’immaginario nei quali si aggirano ombre e figure.


Un attraversamento dei tre capitoli con te per guida: le Catacombe…

Il percorso nelle Catacombe della mente è molto aspro e procede a fatica perché è il luogo profondo delle transizioni, dove s’incrociano memorie legate ai passaggi, ai confini e soprattutto al limite tra la vita e la morte. È ispirato all’installazione di Bill Viola “Ocean Without a Shore” nella quale l’artista americano dà corpo a fantasmi provenienti dall’al di là chiamati ad attraversare una soglia invisibile – una lamina d’acqua - che li riporta per alcuni secondi nel mondo del colore, dei suoni, dei volumi.
Il capitolo è in parte dedicato al rapporto tra la nascita e la morte letto attraverso le complesse dinamiche affettive tra quattro madri e quattro figlie (con un personale riferimento autobiografico). Oltre ai confini immateriali si percorrono anche confini fisici che riguardano due nodi tragici del mondo contemporaneo; la linea di frontiera tra Messico e Stati Uniti e quella, drammatica e tormentata, tra Palestina e Israele interpretati con lo sguardo documentario del cinema.

… la Fortezza…

Dalla parte più profonda della mente, le Catacombe, si risale alla Fortezza, descritta come un edificio dall’aspetto ostile, sigillato e munito verso l’esterno, immerso nell’oscurità e attraversato da cunicoli tortuosi. Qui trovano posto lunghissimi scaffali metallici ricolmi di faldoni accatastati, muniti di targhe con lettere e numeri progressivi. Contengono informazioni su stranieri indesiderabili, persone considerate potenzialmente pericolose per la sicurezza nazionale che svolgono attività ritenute comunque sospette; il loro internamento può anche avvenire a titolo preventivo. È la memoria fortificata, destinata a contenere minuziose annotazioni, fotografie, copie di lettere, documenti e certificati, dichiarazioni e confessioni, delazioni e rapporti informativi o subdole illazioni. È l’archivio delle ossessioni. Qui si trovano gli schedati, i perseguitati, gli esiliati e coloro che sono costretti a fuggire da parti di sé divenute intollerabili: Mark Rothko, Louis Kahn e Munio Gitai, Ingeborg Bachmann, Paul Celan e Walter Benjamin; tutti, come Sigmund Freud, accomunati dall’esperienza della fuga.

… la Torre…

Dalla Fortezza, isolata nello spazio aperto e statica come un blocco inamovibile, così piena di prigionieri, di fuggiaschi reclusi, di menti segregate e senza illusioni, si giunge ad un luogo più elevato, in contatto con distese prive di margini all’orizzonte, dal quale si può osservare all’esterno e vedere molto lontano. Dalla Torre lo sguardo è più alto e quindi abbraccia spazi più ampi: può osservare alcune città - Roma, Sarajevo, Varsavia - che portano impressi i segni e le tracce delle loro ferite, quelle tracce che Claude Lanzmann, in “Shoah”, ha cercato a lungo nelle campagne intorno a Treblinka. E finalmente lo sguardo raggiunge Berlino dove il Museo Ebraico, segnato dalle più violente lacerazioni, tenta di costruire una forma di riconciliazione tra i tedeschi e il loro terribile passato e accoglie al suo interno un lungo pensiero sul rasserenato rapporto con mio padre negli ultimi anni della sua vita.

Questo libro che cosa ti ha dato e che cosa ti ha tolto?

Un libro non è altro che un discorso aperto verso gli altri, una mano tesa verso chi vuole condividerne i temi; in questo caso il tema è piuttosto arduo perché in fondo riguarda la violenza e la morte e il morire, purtroppo, ci appartiene. Scrivere un libro è sempre un tentativo di dare forma sistematica ai propri pensieri e, una volta concluso, entra esso stesso a far parte degli archivi della memoria. Mi ha aiutato quindi a mettere insieme e a dare struttura a pensieri, personaggi ed esperienze che avevano attraversato gli ultimi anni della mia vita: frutto di studi, letture e della mia attività di critica cinematografica.
Mi ha tolto una sorta di indeterminatezza nei confronti di alcuni ricordi, li ha però fissati per sempre perpetuandoli nel presente. È un bene?

………………………………………..

Ilaria Gatti
Ricordando Berlino
Pagine 136, Euro 16.00
Prospettive Edizioni


Dizionario del cinema immaginario (1)


Inutile. Che cosa ci dice di questa parola un vocabolario?
Inutile. Agg. [dal lat. ‘inutĭlis’, comp. di ‘in-2’ e ‘utĭlis’ «utile»]. > Che non dà alcuna utilità o vantaggio”
Se poi consultiamo il Dizionario dei Sinonimi e Contrari, ecco nei primi un elenco di offese: “Inefficace, vano, inane, sterile, infruttifero, infecondo inutilizzabile, inservibile…” e vi risparmio il resto. Nei secondi, invece, si ammira “Efficace, giovevole, proficuo, valido, vantaggioso, produttivo… “ e via elogiando.

Ma siamo proprio sicuri che l’inutile sia sinonimo di quelle maldicenze?
Io non ne sono convinto. E mi trovo in buona, anzi ottima, compagnia.
Un saggio scrittore cinese – si chiama Lin Yutang – ammonisce: “Se riesci a trascorrere un pomeriggio perfettamente inutile in modo altrettanto inutile, hai imparato come vivere.”
Ed ecco due altri autori da me molto amati: Fernando Pessoa e Giorgio Manganelli.
Pessoa: “Perché è bella l’arte? Perché è inutile. Perché è brutta la vita? Perché è tutta fini, propositi, progetti e intenzioni”.
Manganelli: “L’artista deve scegliere in primo luogo di essere inutile”.
Ma dire inutile non significa che la cosa indicata come tale non sia necessaria.
Ve ne presento subito un cospicuo esempio.

Si tratta di un libro che i lettori più raffinati (lo sconsiglio, quindi, ai lettori di Moccia, Tamaro, et similia) dovrebbero acquistare di corsa se non lo hanno già fatto.
Perché? Perché è inutile in sommo grado e necessario quant’altri mai.
È intitolato Dizionario del cinema immaginario I film che esistono soltanto dentro i film
Ne è autore Alberto Anile.
È giornalista, critico e storico di cinema. È stato selezionatore per la Settimana della Critica alla Mostra del Cinema di Venezia. Suoi saggi sono apparsi su «Bianco e Nero», «Cabiria», «8 ½», «Film History», «L'avventura».
Fra i suoi libri più recenti, Orson Welles in Italia (tradotto in Usa da Indiana University Press nel 2013), Operazione Gattopardo (con Maria Gabriella Giannice, Feltrinelli 2014), Totalmente Totò (Cineteca di Bologna, 2017). Ha inoltre curato Sordi segreto («Bianco e Nero» m. 592, Edizioni Sabinae/Centro Sperimentale di Cinematografia, 2018).
Con Lindau ha pubblicato nel 2005 Totò proibito.

Dalla presentazione editoriale
«Questo dizionario è un atto di fede. È il primo mai compilato sul cinema immaginario: raccoglie i film nei film, le pellicole fittizie che, all'interno di quelle reali, si vedono realizzare sui set, proiettare in sale cinematografiche, trasmettere in TV. È fatto di capriole della visione, si tuffa negli abissi dello schermo. Per goderseli bisogna prima dar fiducia ai film che li contengono: occorre una sospensione dell'incredulità al quadrato.
Dal punto di vista pratico è un dizionario totalmente inutile. È un catalogo di sogni, raduna pellicole fantasma, elenca alfabeticamente opere che nessuno ha visto e vedrà mai. Eppure quei film esistono, qualcuno li ha pensati, ha dato loro un titolo, degli attori, un pubblico: importa davvero che siano immaginari? Non sono immaginari anche i personaggi e la trama che li ospitano?
Estrapolati dai film reali, i film immaginari ritrovano ora una trama coerente, rivendicano una critica onesta, rinascono a una nuova vita, ottengono finalmente piena cittadinanza.
Questo dizionario è assolutamente necessario».

Segue ora un incontro con Alberto Anile.


Dizionario del cinema immaginario (2)

Ad Alberto Anile (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro?

Dal tentativo di scrivere il libro di cinema in assoluto più inutile. No, scherzo, è nato da una semplice curiosità: provare a rovistare nella storia del cinema e fare un elenco dei film che si girano dentro i film. Pensavo che in fondo fossero pochi, diciamo una ventina; alla fine sono arrivato a 390. Ancora oggi, quando qualche amico sfoglia il libro, mi dice più o meno la stessa cosa: “Pensavo fossero una dozzina...”. E parlo di colleghi titolati, assolutamente sapienti di cinema. A livello più profondo, il libro nasce da una fascinazione particolare, quella emanata da tutti i film che parlano di cinema. Titoli come “Effetto notte” o “La donna del tenente francese” hanno sempre avuto per me – come credo per tutti coloro che amano e studiano il cinema – una sorta di valore doppio, come fossero film al quadrato. È come se questo tipo di film, solo per il fatto di mostrare la creazione di un altro film al suo interno, fosse lì lì per svelarne il fascino. Il discorso rischia di diventare complicato, ma per semplificarlo direi che un film che parla di un altro film, quantomeno, somma l'incantesimo della seconda pellicola a quello della prima.

Quanto tempo ti è occorso per questo lavoro dal momento dell’ideazione a quando hai scritto l’ultima pagina del volume?

Diciamo cinque o sei anni. Beninteso, con molte interruzioni e altro lavoro, compresa la stesura di libri completamente diversi. L'ho consegnato nella primavera scorsa, ma poi ho fatto in tempo ad aggiungere gli ultimissimi arrivi: Almodovar, Tarantino, Kore'eda. La cosa più difficile è stata perlustrare in lungo e in largo le uscite cinematografiche dal muto ai giorni nostri ma è stato ancora più complicato riuscire a vedere alcune pellicole di cui avevo letto e che non avevo mai visto ma che non erano reperibili né in dvd né in vhs. Alcune le ho trovate alla Cineteca Nazionale, che dovrebbe avere in deposito per legge tutti i film italiani, ma alcune non c'erano neanche lì. Con un po' di fortuna e di pazienza sono comunque riuscito a trovare tutti i titoli che mi occorrevano, anche grazie a istituzioni cinematografiche o amici che, in un modo o in un altro, hanno accesso ad opere di difficile reperibilità.

Avverti il lettore che per accogliere i film nel dizionario ti sei dato due condizioni. Puoi indicarle in sintesi?

Una è che del film immaginario in questione ci fosse il titolo: pronunciato da qualcuno all'interno del film reale, scritto sui titoli di testa in fase di proiezione, annotato su un ciak o su una sceneggiatura quando è ancora in lavorazione... La maggior parte dei film immaginari contenuti nei film “reali” hanno un titolo. Ma ce ne sono anche parecchi che ne sono sforniti: l'esempio più noto è probabilmente il film sulla Passione che viene girato nella “Ricotta” di Pasolini da un regista interpretato da Orson Welles. In casi come questo il film immaginario non è stato inserito, non mi è sembrato giusto inventarmi un titolo pur di farcelo entrare.
L'altra condizione è che il film che contiene il film immaginario sia un film per il cinema: capita che si girino film anche dentro delle serie tv (nei “Sopranos”, per esempio) ma ho preferito limitarmi a cercare dentro i lungometraggi girati espressamente per il cinema; per lo stesso motivo ho escluso anche i film prodotti da e per piattaforme digitali come Netflix o Amazon.

Altra avvertenza è data circa le tue annotazioni critiche nelle schede dei film che definisci “oggettivamente arbitrarie”. Perché arbitrarie?

Perché la piccola recensione che faccio di ogni film immaginario è in realtà basata su brevi pezzetti di film, spesso su un'unica sequenza. In casi limite ho inserito e recensito film immaginari di cui non si vede un solo fotogramma, ma la cui trama, natura e tono è intuibile da altri elementi: il manifesto, ciò che ne dicono gli interpreti del film “esterno”, gli elogi o le critiche di coloro che lo hanno visto (sempre all'interno del film reale, naturalmente), eccetera. Sono annotazioni critiche arbitrarie perché, pur facendo finta di averli visti per intero, non è così, e non avrebbe potuto esserlo: se fossero interi, non sarebbero più film immaginari.

Esiste un necessario nell’inutile? Se sì, in che cosa consiste?

Domandona. Cos'è davvero necessario, cos'è davvero inutile? Se dovessimo limitarci al necessario coltiveremmo sommariamente un pezzo di terra e ne divoreremmo sbrigativamente i frutti. La letteratura e il cinema, in fondo, sono del tutto inutili, se non ci fossero l'umanità andrebbe avanti lo stesso. Ma questo non significa che in realtà i libri e i film non siano necessari. L'arte è capace di muovere grandi imprese, e anche di far perdere la testa confondendo la realtà, il “Don Chisciotte” di Cervantes dice più o meno questo. E non sono cose necessarie le grandi imprese? Non lo è anche prendersi qualche momento di follia, lasciare che la realtà vada per un poco a confondersi con la fantasia per evitare che nessuna delle due predomini davvero? In ogni caso c'è chi l'ha detto prima e meglio di me: “Niente è più necessario del superfluo”, lo ha scritto Oscar Wilde.
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Alberto Anile
Dizionario del cinema immaginario
Prefazione di Paolo Mereghetti
Corredo iconografico b/n e colore
Pagine 328, Euro 24.00
Lindau


C.I.R.C.E.


Quei puntini nel nome dovrebbero avervi già fatto capire che non si tratta della maga Circe che appare nell’Odissea e, fingendosi ospitale, offre da bere ai marinai di Ulisse i quali, gargarozzoni e tonti, cascano in un tranello teso loro bevendo un vino che li trasforma in maiali. Ulisse, però, non ci casca (sennò che Ulisse è?) e neutralizza l’insidioso alcol mischiandolo con una ciofeca chiamata “moly” che salva lui e i suoi compagni. Dopo questo veloce ripasso omerico, ripeto che non si tratta di quella mitologica signorina.
I puntini vi avevano avvertiti. Perché i puntini nelle parole hanno un ruolo mica da poco… non ci credete?... guardate qui e ditemi se non ho ragione. E dove li mettiamo poi i dubbi amletici di un direttore?
Insomma, è venuto il momento di dire che ‘sti puntini in C.I.R.C.E. di quel nome fanno un acronimo che sta per .Centro Internazionale di Ricerca per la Convivialità Elettrica
Dire in due parole che cos’è non è impresa facilissima. Perciò mi sono rivolto a Carlo Milani uno dei suoi fondatori. Traduce (Fr-En-Es>IT). Esperto di tecnologie appropriate con alekos.net. E' stato membro di Ippolita. Pratica Ricerca e insegnamento: scrittura collaborativa, genealogia delle tecnologie, validazione delle fonti digitali, storia delle Megamacchine, de-gamificazione.
A lui ho rivolto alcune domande.

C.I.R.C.E. Quando e dove nasce?

Il Centro Internazionale di Ricerca per la Convivialità Elettrica, o C.I.R.C.E., è il pomposo nome che abbiamo voluto affibbiare alle nostre collaborazioni. Siamo sparsi in giro per l'Europa... non saprei dire esattamente né dove né quando è nato C.I.R.C.E., ma approssimativamente tra il solstizio d'inverno del 2017 e l'equinozio di primavera del 2018, grazie a confabulazioni via chat, email e de visu.

I suoi obiettivi di comunicazione? A chi si rivolge?

Il presupposto di C.I.R.C.E. è il riconoscimento del punto di vista privilegiato rappresentato dal digitale di massa. Almeno dall'inizio del XXI secolo le tecnologie digitali di massa sono i luoghi in cui risultano più leggibili i meccanismi di dominio, ovvero le asimmetrie di potere. I media infatti «mediano» le relazioni di potere, fra individui, istituzioni e così via. Gli "Altri" radicali, le macchine, sono la cartina tornasole capace di rivelare i nostri punti nevralgici, di maggiore sensibilità, a livello individuale e sociale. Così il dibattito si concentra sulla sorveglianza, invece che sul capitalismo; sull'insegnamento dell'informatica, invece che sulla logica; sul cyberbullismo, invece che sulla prepotenza come metodo standard per farsi strada nella vita; sulle criptomonete, invece che sull'esproprio continuo della capacità di autodeterminazione e autogestione delle persone; sulla corretta informazione, invece che sull'oppressione come modalità di default per la gestione dei conflitti. Ma i conti non tornano. Il dito delle "nuove tecnologie" tende a oscurare la luna dei rapporti di dominio. Perciò ci rivolgiamo in primo luogo agli umani curiosi del loro rapporto con i non umani, in particolare digitali ed elettromeccanici. Insomma quelle che vengono rubricate solitamente come "macchine".

Per raggiungere questi obiettivi quale struttura si è data?

Leggera. Molto leggera. Ma molto solida. Una struttura di metodo, perché a nostro avviso "il metodo è il contenuto". In parole povere, non si può insegnare dall'alto di una cattedra a collaborare in maniera orizzontale. Dal punto di vista metodologico, sarebbe quasi come urlare a qualcuno di fare silenzio con l'obiettivo di insegnare il "valore dell'ascolto". O come chiedere di insegnare a usare bene una pistola: affinché non spari mai, ma intanto ci difenda. Non si può "usare bene".

Quali sono i suoi prossimi passi?

E chi lo sa... ognuno segue le sue idee, abbiamo priorità differenti. Stiamo cercando di concludere un manualetto di "Pedagogia hacker" su cui lavoriamo da qualche anno, un compendio delle attività di formazione che svolgiamo quando ci invitano a "insegnare a utilizzare bene" i dispositivi digitali. Vorremmo proseguire con la raccolta e stesura di storia di ordinario (ab)uso tecnologico, specialmente storie di ricreazione, nello spirito del volume Internet, Mon Amour, la prima pubblicazione di C.I.R.C.E. firmata da Agnese Trocchi: perciò, se avete dei suggerimenti, fateci sapere via email ima@circex.org
Tradurre articoli e altri materiali, da e verso l'italiano, e farli circolare. Diffondere il sistema di pubblicazione e condivisione ,VULGO-FLOShare.it.
Fra una scrittura e l'altra, cercare di organizzare formazioni nella maniera più consona alle richieste che ci vengono formulate, ma senza cedere alla tentazione di fornire soluzioni (che non esistono) a "problemi" che non sono tali. Tanto per esser chiari: chiunque proponga una /soluzione/ per risolvere dei cosiddetti problemi quali /sorveglianza/, /dipendenza da automatismi comportamentali/, /malafede diffusa/, /ignoranza e falsità/, /democrazia vacillante/... mente sapendo di mentire; è intento a "fare egemonia"; oppure è un pericoloso ingenuo, ingranaggio di meccanismi che non comprende.

Per concludere: C.I.R.C.E. considera la Rete una mappa o un labirinto?

Per rimanere sull'allegorico, piuttosto un mare, su cui vagabondiamo con le nostre barchette, transatlantici o zattere. Un po' come ricorda da tanti anni AvANa (Avvisi Ai Naviganti), per le risposte c'è tempo, intanto navighiamo fianco a fianco con altri umani più o meno affini, e non umani altrettanto variopinti. Può ampliarsi e diventare un vasto oceano, oppure rattrappirsi fino alle dimensioni di una pozzanghera con i soliti girini che si credono balene, intenti a sbraitare sciocchezze gli uni contro gli altri. Dipende anche dalle relazioni che siamo in grado di creare fra di noi e con gli altri abitanti della Rete stessa.



chi è Stato?

Tra pochi giorni ricorre il cinquantenario della strage di Piazza Fontana che avvenne il 12 dicembre 1969 nel centro di Milano alla Banca Nazionale dell'Agricoltura.
Causò 17 morti e 88 feriti.
Considerata da alcuni saggisti «la madre di tutte le stragi», il «primo e più dirompente atto terroristico dal dopoguerra», «il momento più incandescente della strategia della tensione» e da altri studiosi ritenuto l'inizio del periodo passato alla storia in Italia con la terribile dizione ‘anni di piombo’.
Per tanti aspetti si può parlare d'una storia della Repubblica prima e dopo piazza Fontana.
Che cosa è accaduto in questi ultimi cinquant’anni è noto: altre stragi, depistaggi, contraddittorie sentenze nei tribunali, fughe di sospettati all’estero.
Tutto questo scandito da molte incertezze della Sinistra responsabile di una serie di colpevoli pause e timidezze nell’incalzare la verità, pur avendo avuto ministri in più governi e perfino un Presidente della Repubblica in grado di agire decisamente e scoperchiare parecchi sepolcri.

In foto: Enrico Baj, “I funerali dell’Anarchico Pinelli” (1972).

Ben altra attenzione alla strage del 1969 è stata riservata in Italia dall’area artistica al ricordo e all’interpretazione di quella carneficina: mostre, musica, fumetti, film e, per citare il più famoso spettacolo teatrale, si pensi a Dario Fo che nel 1970 scrisse e mise in scena “Morte accidentale di un anarchico” che gli procurò più di quaranta processi in giro per l'Italia.

Ancora oggi si registra proprio nel mondo delle arti una tensione morale ed espressiva grazie alla quale è tenuto vivo il ricordo di quanto è accaduto e si lanciano ragionati allarmi su quanto questi tempi minacciano; tutto ciò in modo ben più vibrante di quanto facciano i partiti politici.
Non a caso una recente, luminosa, iniziativa si chiama Non dimenticarmi.

Fra le sue articolazioni si segnala un progetto scandito in tre momenti: un monumento, dei tableau vivant e una performance, momenti ideati da Ferruccio Ascari.
Titolo: “chi è Stato?”.
Scritto proprio così dove il verbo può essere letto come sostantivo, S maiuscola, quel modo grafico che pure Marco Baliani usò vent’anni fa con lo il suo spettacolo “corpo di Stato” riferendosi al caso Moro.

Parafrasando una canzone del secondo dopoguerra: chi è Stato è Stato è Stato, nun scurdammoce ‘o passato.

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Scrivere a info@nondimenticarmi.org per avere maggiori informazioni
Cliccare QUI per sostenere "Non dimenticarmi".


Manuale di storia del design


La casa editrice Silvana Editoriale ha pubblicato un gran bel volume scritto in maniera che possa essere lettura non solo per gli addetti ai lavori ma anche a quanti pur non direttamente coinvolti nell’area del design, sono interessati all’intreccio dei linguaggi tra le arti e all’evolversi dello sguardo sulla società che ci circonda. Perché le forme che osserviamo dall’abbigliamento all’oggettistica riflettono vizi e virtù del tempo che viviamo.
Il libro è intitolato Manuale di storia del design, lo firmano Domitilla Dardi e Vanni Pasca.

Domitilla Dardi è laureata in storia dell'arte e dottore di ricerca in storia e critica dell'architettura, da diversi anni ha concentrato i suoi interessi di studio e ricerca sulla storia del design. Dal 2003 al 2007 ha insegnato Storia del disegno industriale e Storia dell'arte contemporanea presso la Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno. Conduce corsi di formazione, si occupa di ricerca e consulenza per diverse aziende del settore e svolge attività come copywriter e curatrice di mostre. Attualmente è docente di Storia del design presso lo IED di Roma.
Per i tipi di Electa ha pubblicato nel 2005 il volume Il design di Alberto Meda. Una concreta leggerezza.

Vanni Pasca laureato in architettura, professore ordinario di Storia del design, dal 1998 al 2008 è stato Presidente del Corso di laurea triennale in design e del Corso magistrale in design per l’area mediterranea a Palermo, dove è stato anche Coordinatore del dottorato di ricerca in Disegno industriale . Nel 2008-09 è docente a Milano di Progettisti contemporanei al Politecnico, poi di Design allo IULM di Milano e all’ISIA di Firenze. Ha fondato e diretto il magazine online padjournal.net, già palermodesign.it, con il quale ha promosso nel 2008 e nel 2010 i concorsi internazionali Design Mediterraneo (con mostra e convegno a Istanbul e Barcellona). Dirige la collana di libri Design per l’editore Lupetti/Editori di comunicazione. Ha diretto il free magazine Design Review, editore Zerocento, Palermo.
È presidente di AIS/Design dalla sua fondazione.

A Domitilla Dardi ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro?

Dal desiderio di fornire uno strumento di studio a studenti e appassionati della materia. A nostro avviso, negli ultimi anni si sono prodotti molti racconti di design per schede - come gli Atlanti o le raccolte tipologiche - ma non un manuale, che è uno strumento diverso: serve a dare una visione d’insieme, a spiegare il perché di certi fenomeni più che a esaurirne la descrizione minuta; e a rimandare ad approfondimenti specialistici senza pretese di esaustività. Un manuale più che al “chi” e al “quanto” cerca di dare risposte al “come” e al “perché”.

Quando vi siete messi al lavoro qual è la cosa che avete deciso assolutamente da fare per prima e quale quella per prima assolutamente da evitare?

Abbiamo lavorato da subito per definire una tesi, identificando una lente attraverso la quale leggere la storia del design. Insieme a questo, come logica conseguenza, abbiamo limitato il nostro raggio d’interesse cronologico. Per questo siamo partiti dall’800, non tanto perché è il secolo di piena affermazione dell’industria, quanto perché è allora che si delinea la figura del designer come professionista, riconosciuto da uno statuto sociale e educativo.
Essendo un manuale, per le ragioni di cui sopra, abbiamo fatto una selezione che necessariamente ha tagliato approfondimenti specialistici e storie parallele che, per quanto interessanti, potessero distogliere il lettore dal racconto principale. I tagli sono spesso più importanti e ragionati delle inclusioni.

Herbert Simon ha scritto: “Design è ogni strategia volta a cambiare la situazione esistente in una migliore”. È d’accordo oppure no con quell’affermazione?

Sì, perché design vuol dire progetto e ogni progetto che meriti questo nome presume un ragionamento che punta a un miglioramento dell’esistente. Se così non fosse, replicheremmo solo oggetti e merci del passato ed è esattamente questo che un prodotto di design non è: imitazione stilistico-storicistica fine a se stessa.
Ovviamente questo miglioramento può essere inteso in molti modi, a seconda delle epoche e degli autori: può essere un’implementazione di una funzione pratica, un obiettivo di accrescimento culturale o una ricerca emozionale e molto altro ancora.

Che cosa ha comportato l’ingresso del digitale nel lavoro del designer?

Il digitale è uno strumento e in quanto tale divide chi sa usarlo a vantaggio del proprio progetto e chi ne è guidato senza utilizzarne o immaginarne le potenzialità. La storia ci insegna che è sempre stato così davanti alle innovazioni tecnologiche. Non è che con la macchina a vapore o lo stampaggio a iniezione sia andata tanto diversamente: la tecnologia senza visione serve a poco.

La parola “design” la troviamo non solo come un tempo associato all’abbigliamento all’oggettistica all’arredamento e via via, ma associata a parole quali “food” o “sex toys”.
Lo considera un uso verbale eccessivo oppure è giusto così
?

Se il progetto tende non alla replica pedissequa di un modello, bensì a inventare nuove vie scandagliando possibilità diverse, allora la tipologia di applicazione è solo una contingenza. Ci può essere una grande intelligenza progettuale in una tipologia secondaria o banalità assoluta nell’ennesimo oggetto o arredo. Ultimamente, poi, riconosciamo grandi capacità progettuali a sfere del tutto immateriali come quella del design dei servizi o dei sistemi.

Qual è la cosa che quando la nota in un designer le fa venire la scarlattina?

Confondere la visibilità con la visione, la fama con il senso. I grandi maestri che ho avuto l’onore di conoscere non hanno mai scambiato questi termini, anzi.
Ma è un problema che non riguarda solo i designer. Certamente, per chi opera nelle discipline creative l’ego svolge un ruolo importante e i designer non sono i soli a correre questo rischio. Ma la storia può essere un grande vaccino. Per questo penso che studiarla sia l’atto più politico, economico e salutare che ci sia.
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Dalla presentazione editoriale.
«Storia del design e storia delle innovazioni tecnologiche s'intrecciano in maniera indissolubile nelle pagine di questo manuale. Tante sono le discipline qui considerate. Oltre al campo del design per l'arredo - che spesso esemplifica in maniera eccellente le più ampie linee di ricerca progettuali - è stato preso in esame un largo ventaglio di settori: da quello degli oggetti tecnici alla grafica e alla moda, dal car design a quello sociale, includendo il più delle volte riflessioni sulla ricaduta che il progetto ha sulla storia del costume nelle sue applicazioni alla vita reale».

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Domitilla Dardi
Vanni Pasca
Manuale di storia del Design
Pagine 280, Euro 30.00
450 illustrazioni
Silvana Editoriale


30 giorni da Leone

Il mio modo di vedere le cose talvolta è ingenuo, un po’ infantile
ma sincero.
Come i bambini della scalinata di viale Glorioso.
Sergio Leone

Così è scritto sula targa posta in viale Glorioso, messa lì dal Comune nel 1999, nel decennale della scomparsa del grande regista (QUI la bio) nato a Roma il 3 gennaio 1929 e morto nella stessa città il 30 aprile 1989.

Su questo link sue frasi, foto, giudizi su di lui, celebri scene da film.

A trent’anni dalla scomparsa e a novanta dalla nascita di Sergio Leone, Roma gli rende omaggio con 30 giorni da Leone, ricordando Sergio.
Trenta giorni, dal 7 dicembre 2019 al 5 gennaio 2020, con foto dei suoi film fornite dall’Archivio fotografico della Cineteca Nazionale – Centro Sperimentale di Cinematografia e con una serie di eventi alla Città dell’Altra Economia, nel cuore di Testaccio, quartiere vicino alla sua Trastevere.

Dal comunicato stampa.

«Trenta giorni in cui scoprire e ri-scoprire la grandezza e l’opera di Sergio Leone con una rassegna antologica dei suoi 8 film e una “maratona Leone”, ovvero una maratona di filmati su Sergio Leone, alcuni dei quali rari ed imperdibili, insieme a eventi e retrospettive, incontri e concerti.
Un mini-colosso di Rodi accoglierà i visitatori, “colosso” a grandezza umana per ironizzare sulla realtà nel segno di Leone, insieme alle dimostrazioni di gladiatori romani e di pistoleri western nel Campo Boario antistante la sala della mostra.
Tanti gli appuntamenti con alcuni dei protagonisti della scena culturale italiana che dal 20 al 28 dicembre si alterneranno sul palco: gli autori di libri su Sergio Leone editi nel 2019, quali Italo Moscati, Fabio Santini e Roberto Donati; amici, colleghi cineasti ed esperti di cinema western quali Roberto Girometti, Giancarlo Santi, Sergio Donati, Giuliano Montaldo, Carlo Gaberscek, Stefano Jacurti, Luca Verdone in una staffetta dal titolo “Io lo conoscevo bene”; la serata-racconto “Un Leone da raccontare” di Maurizio Graziosi, durante la quale entrerà in scena, riemergendo dal lontano passato, nientemeno che il generale Grant della Guerra di Secessione; una riproposizione, per estratti, del convegno su Sergio Leone “Il segno del Leone” tenutosi il 17 maggio scorso al Teatro “Palladium” dell’Università di Roma 3.
Da segnalare anche il focus “Sergio Leone produttore”. Sergio Leone, con la sua casa di produzione “RAFRAN Cinematografica” ha prodotto 4 film non diretti da Leone: “Il mio nome è Nessuno”, “Un genio, due compari, un pollo”, “Il gatto”, “Il giocattolo”. Leone ha poi “promosso” produttivamente Carlo Verdone, facendo produrre i suoi due primi film dal suo amico Romano Cardarelli della “Medusa Cinematografica”

Oltre al cinema, omaggio musicale al maestro con il concerto della cantante Salvina Maesano, accompagnata al piano da Barbara Cattabiani, docente al Conservatorio di Frosinone, che riproporrà le melodie di Ennio Morricone composte per i film di Sergio Leone ed eseguite a suo tempo dalla magica voce di Edda Dell’Orso con i suoi indimenticabili vocalizzi.

Fino al 5 gennaio, inoltre, sarà possibile visitare una mostra, curata da Francesco Ruggiero, di 6 pittori che creeranno per l’occasione le loro opere ispirandosi ai film di Sergio Leone. La mostra verrà impreziosita e completata dalle foto di Roberto Granata e dalla mostra “Il giovane Leone”, ovvero le foto di Sergio Leone anni ’50 quando andava a Torella dei Lombardi (Avellino) a trovare i propri genitori.
Per sorridere e soddisfare il palato, infine, ecco in programma "Una cena da Leone": presso "La botticella", in Via di monte Testaccio, serata con proiezione di un filmato su Sergio Leone e degustazione di piatti della cucina romanesca ispirati al regista romano, amante della cucina romanesca.

La mostra, ideata e curata da Maurizio Graziosi, è organizzata e prodotta dall’Associazione “AMICA – Arte Musica Incontri Cinema & Altro” di Roma, con la collaborazione di Marco Capitelli, Alessandro Denti e Claudio Piacentini».

Ufficio Stampa HF4 www.hf4.it - Marta Volterra marta.volterra@hf4.it

30 giorni da Leone
Da sabato 7 dicembre 2019 a domenica 5 gennaio 2020
Roma, quartiere Testaccio
“Città dell’Altra Economia – Sala Convegni”
Info: cell. 3280925075; e-mail: chiara-maurizio@libero.it
Inaugurazione, sabato 7 dicembre ore 17.30 - Largo Dino Frisullo


Domeniche Indiane


Se in una delle prossime domeniche vi trovate a Roma perché vi abitate o siete da turisti in città, sappiate che potete vivere quel giorno domenicale al Teatro India dove trascorrerete, manco a dirlo, una domenica indiana.
L’occasione la fornisce il TeatrodelleApparizioni che guiderà sette giornate festive e festose festeggiando, inoltre, l’8 gennaio i venti anni della Compagnia tra balli, musica, improvvisazioni.
Tutto questo nell’ambito delle proposte del Teatro per le nuove generazioni, rassegna del Teatro di Roma dedicata al pubblico dei giovani spettatori e delle loro famiglie.

Dal comunicato stampa

«Una domenica al mese al Teatro India c’è un appuntamento per raccogliere il pubblico di adulti, bambine e bambini intorno ad un tempo in cui condividere pratiche, sguardi, giochi e desideri. Per abitare lo spazio al di là della scena, sui perimetri, sopra il confine che connette il palco e la platea, per andare oltre. Performer, dj set, azioni collettive accompagneranno la giornata e ne segneranno il ritmo. È una permanenza divertente, aperta e libera, per esplorare, vedere, danzare, ascoltare. Per costruire una comunità che cammina insieme.
Alcune delle domeniche indiane termineranno con un laboratorio per 20 bambini dai 6 ai 10 anni che permetterà agli adulti di assistere allo spettacolo pomeridiano programmato al Teatro India».

Ufficio Stampa Teatro di Roma: Amelia Realino
tel. 06. 684 000 308 IIIII 345.446 51 17
e_mail: ufficiostampa@teatrodiroma.net

Domeniche Indiane
Teatro India, Roma
Lungotevere Gassman 1
Info: QUI
Calendario 2019/2020
8 dicembre / 12 gennaio / 9 febbraio / 22 marzo
26 aprile / 24 maggio / 14 giugno
Orario dalle ore 10.30 alle ore 17.00


Bucefalo il pugilatore

Ancora poche le pubblicazioni sulla persecuzione degli atleti italiani invisi al fascismo. Cito a memoria, ad esempio, Ilaria Lonigro in accurati articoli giornalistici e ricordo un documentario di Matteo Marani “Lo sport italiano contro gli ebrei”.
Abbastanza studiato, invece, il rapporto fra sport e fascismo e come il Pnf utilizzasse propagandisticamente i successi degli sportivi del tempo, salvo abbandonarli precipitosamente (vedi il caso Carnera) quando venivano sconfitti.
Ma i successi furono tanti poiché il governo non badò a spese sovvenzionando lautamente il Coni ed esaltando i campioni vincenti quali eroi nazionali come avveniva, peraltro, in modo assolutamente parallelo nella Germania nazista e nella Russia comunista
Solo l’attività sportiva femminile era sostanzialmente malvista. Ecco un esempio, tratto da Wikipedia, di come Michelangelo Jerace, ginnasiarca assai ascoltato dal Regime, si esprimeva: «… la donna sportiva ha le spalle troppo larghe, le braccia troppo muscolose, le gambe lunghe e nerborute, il passo del tutto mascolino, mentre poi non ha nessuna di quelle plastiche rotondità del corpo e del petto, nessuna di quelle eleganze di linee e del viso che fanno così bella e così ammirata la donna». Va ricordato che nche la Chiesa, in quegli anni, si dimostrò ostile nei confronti dello sport femminile. Pio XI sosteneva che maschi e femmine dovessero essere "separati durante le ore di educazione fisica".

“Nessun giudeo nelle società sportive». Con questo imperativo, poi, sul mondo dello sport si abbatterono le leggi razziali, volute da Mussolini nel 1938.
Morì ad Auschwitz Arpad Weisz l’allenatore dell’Inter che vinse lo scudetto a soli 34 anni, un record ancora imbattuto. Leone Efrati, il pugile costretto a salire sul ring per divertire gli aguzzini di Auschwitz. Giorgio Ascarelli, promotore principale della fondazione del Napoli Calcio. Raffaele Jaffe, l’allenatore del Casale, ucciso nel campo di concentramento in Polonia Erno Erbstein, in fuga dalle leggi razziste di Mussolini, scampato a un campo di lavoro, che la morte la troverà nel 1949, a Superga, col resto del Grande Torino. Perseguitato fu pure il pugile nero di nazionalità italiana Angelo Jacovacci.
Furono circa 250 gli atleti italiani medagliati alle Olimpiadi, ai Campionati del Mondo o Campionati Continentali che persero la vita perché deportati.

Il Teatro Keiros ricorda una delle figure dello sport di quegli anni: Lazzaro Anticoli (in foto), pugile ebreo romano ucciso nelle Fosse Ardeatine il 24 Marzo del 1944. Lo fa con lo spettacolo Bucefalo il pugilatore scritto, diretto e interpretato da Alessio De Caprio; QUI la sua bio.
Lo spettacolo è giunto al decimo anno di repliche, patrocinato dall’ A.N.P.I. - Comitato Provinciale di Roma e sostenuto da Amnesty International
Lazzaro era soprannominato “Bucefalo” come il cavallo di Alessandro Magno. Era un ragazzo che a 27 anni morì in uno dei più atroci massacri avvenuti in Italia ad opera del nazifascismo. Attorno a lui ruotano tutti gli avvenimenti politici e sociali che accaddero a Roma, dall’avvento del fascismo all’occupazione nazista, alla retata del 16 Ottobre 1943.
Racconta la tragedia della Shoah ma al tempo stesso racconta la vita che si viveva in quegli anni nell’ex ghetto ebraico di Roma; le persone, i mestieri, le abitudini di una città e di una comunità alla quale improvvisamente fu tolto tutto.

Dal comunicato stampa.
«Portare in scena questo lavoro significa dare un senso alla memoria, far riflettere sulla vita negata che diviene un bene prezioso. L’obiettivo è quello di far vivere sulla scena un corpo presente e riconoscibile che crei un legame tra passato e presente; non a caso il lavoro è in stretta relazione visiva con il pubblico: non ci sono quarte pareti, non ci sono distanze tra l’attore e lo spettatore, ma una linea sottilissima di ascolto e condivisione. Questa scelta è stata fatta per non avere barriere di nessun tipo e per cercare sempre di portare al pubblico un messaggio di immediata e diretta comunicazione.
Lo spettacolo è frutto di ricerche effettuate presso gli archivi del Centro di Cultura Ebraica di Roma, la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, il carcere di Regina Coeli e di interviste rivolte ad ex deportati, ai parenti del pugile ma anche a gente comune che semplicemente ha vissuto quei tragici anni. Lo spettacolo è recitato per buona parte in giudaico romanesco, elemento linguistico imprescindibile dalla Roma ebraica dell’epoca».

Ufficio stampa: Giulia Contadini: 333 – 34 83 517 /// giuliacontadini@gmail.com

“Bucefalo il pugilatore”
scritto, interpretato e diretto
da Alessio Di Caprio
alla fisarmonica Fabio Raspa
Teatro Kairos
Via Padova 38, Roma
Info: 06. 44238026 –
teatrokeiros@gmail.it
dal 6 dicembre


Bau


Bau è un contenitore di cultura contemporanea, una produzione periodica annuale in tiratura limitata (generalmente 150 copie) ogni volta differente per forme e dimensioni, che ha lo scopo di relazionare tra loro le più varie esperienze creative, promuovendole liberamente e autonomamente, senza nessuna finalità di lucro e in completo autofinanziamento.
Ogni numero vede la presenza di circa 60/70 autori delle più diverse discipline: ad artisti e creativi si affiancano figure professionali generalmente al di fuori del campo dell’arte, come medici, ingegneri e chef.
Nel corso della sua pluriennale attività BAU ha ospitato circa 750 autori provenienti da 35 nazionalità.
Il Contenitore BAU è presente in collezioni private, musei nazionali e internazionali, quali, ad esempio, il MART di Rovereto, il Museo del '900 e la Triennale Milano, il Macro di Roma, la Tate Library di Londra, il Pompidou di Parigi, il Museo di Arte Moderna di Miami (USA).

Per saperne di più: CLIC!

Domani mercoledì 04 dicembre 2019 alle ore 18.00 presso la Triennale Milano avrà luogo la presentazione del numero 16 di BAU dal titolo: Snapshot Testimonianze della ricerca artistica attuale.

Il programma prevede:
Introduzione a BAU, a cura di Luca Brocchini.
Presentazione del nuovo numero da parte di Antonino Bove.
Interverranno Angela Madesani, critico d'arte e docente presso l'Accademia di Belle Arti di Brera; Patrizio Peterlini, curatore della Fondazione Luigi Bonotto di Molvena; Marco Signorini, artista e docente di fotografia all’Accademia di Belle Arti di Carrara.

BAU | Contenitore di Cultura Contemporanea Via A. Pucci 109, 55049 Viareggio / LU / Italy T 0584 944546 info@bauprogetto.net

Bau n. 16
Triennale Milano
Viale Alemagna 6
Info Tel +39 02 72434-1
Mercoledì 4-12-’19
Ore 18.00



L'Absolu ou Rien

Le creazioni poetiche, verbovisive e sonore, devono molto a Enzo Minarelli che da anni, sul piano internazionale, è autore presente nei maggiori festival e rassegne. Inoltre, è anche custode e promotore delle performances di altri artisti.
Dopo la laurea in psicolinguistica conseguita all’Università di Venezia, sin dagli Anni Settanta articola la sua attività poetica partendo dalla parola scritta che poi diverrà orale, visiva e televisiva. Autore del Manifesto della Polipoesia, teoria per una pratica spettacolare della poesia sonora, ha eseguito sue performance sia in Italia sia all’estero. È stato editore della collana in vinile 3Vitre Dischi di Polipoesia, fondando l’omonimo archivio che raccoglie opere verbo-video-visive italiane e straniere, ora consultabile in permanenza presso la Biblioteca Sala Borsa, l’Università di Bologna e il Lincoln Center di New York. Ha pubblicato saggi e libri di critica sul fenomeno dell’oralità e vocalità applicata alla poesia.

Ora è in distribuzione un suo nuovo libro pubblicato dall’editore Campanotto, è intitolato L’Absolu ou Rien Frammenti al margine del silenzio.

Dalla presentazione editoriale
«Enzo Minarelli ha voluto tenacemente far cozzare due mondi l’uno contro l’altro armati, o tutto o nulla, l’assoluto o il niente, riproponendo l’aspro assioma d’Artaud in un’epoca come quella odierna dove tutto tace, regnante un silenzio d’indifferenza e staticità, sullo sfondo del quale, lo scontro viene ambientato.
Il libro si avvale di una girandola di osservazioni, espresse sotto forma di frammenti, uno zibaldone ad uso e consumo del fruitore disincantato del Duemila; note, commenti, riflessioni svolte dall’autore a tutto campo, senza esclusione di colpi o censure tematiche, si va dall’arte alla poesia, dall’architettura alla musica, dalla fotografia all’archeologia, dal teatro alla danza, dalla filosofia alla storia, dal cinema alla performance, alla linguistica, alla religione, alla psicologia, alla natura, ma anche al grande teatro della vita, variando all’uopo forma di scrittura, che spazia dal diario al saggio, dalla poesia alla narrazione, dal dialogo al monologo, dall’articolo all’intervista, con l’intento di trasformare l’atto dello scrivere in una festa del sapere, secondo la formula di Barthes.
Minarelli attraverso un procedimento di progressive riduzioni estrapola da tale binomio assoluto-niente un piccolo fenomeno inteso come allegoria di una totalità in continuo divenire, un frammento che, arginandone il flusso, lo fissa come simbolo di tale contrasto, con la variante di un valore aggiunto diverso o nuovo rispetto al contesto di partenza; questi quadretti, talora sequenziali, o diacronici, talora provenienti dai più disparati contesti, si riuniscono nella sua ossessiva ricerca dell’assoluto, come tasselli di un puzzle specchio fedele della selezione in atto, nel corso della quale si coglie come direbbe Benjamin, una vena melanconica, quando il nulla sembra così opprimente, accanto ad un’altra più sotterranea ma altrettanto presente, quella decadente quando l’assoluto dispensa i suoi piaceri.
“Se tuttavia nel suo Assoluto egli ha il suo fine, nell’Assoluto egli ha la Libertà, il Possesso, la Giustizia” (Carlo Michelstaedter)».

Enzo Minarelli
L’Abosolu ou Rien
Pagine 160, Euro 15.00
Campanotto Editore


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