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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Il cinema dello sguardo (1)

“Questo libro raccoglie quarantacinque analisi filmiche ispirate all’idea di “cinema dello sguardo” proposta da Sandro Bernardi in "L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio”.
Queste le prime righe che leggiamo nell’Introduzione di un singolare saggio pubblicato da Marsilio: Cinema dello sguardo Dai Lumière a Matrix.
Un affresco inedito della storia del cinema come arte dello sguardo, attraverso le analisi di grandi capolavori condotte da 45 studiosi del settore.
Il volume è a cura di Federico Pierotti e Federico Vitella.

Pierotti insegna Cinema e cultura visuale all’Università di Firenze. Fra le sue pubblicazioni, La seduzione dello spettro. Storia e cultura del colore nel cinema (2012), Un’archeologia del colore nel cinema italiano. Dal Technicolor ad Antonioni (2016) e Diorama lusitano. Il cinema portoghese come archeologia dello sguardo (2018).

Vitella insegna Storia del cinema presso l’Università di Messina.
Fra le sue pubblicazioni "Il montaggio nella storia del cinema. Forme, tecniche, funzioni" (2009); "Michelangelo Antonioni. L'avventura" (2010), "L'età dello schermo panoramico. il cinema e la rivoluzione widescreen" (2018).

Dalla presentazione editoriale
«45 analisi filmiche dedicate ad altrettanti film tra i più significativi della storia del cinema. Scritti di: L. Albano, S. Alovisio, F. Andreazza, D. Bruni, L. Cardone, G. Carluccio, A. Cervini, M. Comand, L. Cuccu, E. Dagrada, R. De Gaetano, F. Di Chiara, R. Eugeni, M. Guerra, C. Jandelli, S. Liandrat-Guigues, S. Lischi, G. Manzoli, C. Marabello, L. Mazzei, E. Mosconi, J. Mottet, J. Moure, P. Noto, P. Ortoleva, S. Parigi, G. Pescatore, F. Pierotti, M. Pistoia, F. Pitassio, V. Pravadelli, L. Quaresima, P. Ragel, T. Roche, A. Sainati, S. Salvestroni, P. Sorlin, N. Steimatsky, T. Subini, G. Tinazzi, C. Tognolotti, P. Valentini, L. Venzi, F. Vitella, V. Zagarrio».

Segue ora un incontro con Federico Pierotti.


Il cinema dello sguardo (2)

A Federico Pierotti, in foto, ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro?

Il libro nasce dall’idea di celebrare la carriera accademica e l’opera scientifica di Sandro Bernardi, che il 1° novembre 2019 è andato in pensione dopo aver prestato servizio per oltre quarant’anni all’Università di Firenze come docente e studioso di estetica e storia del cinema. Avendo stabilito con lui, fin dai primi anni Duemila, un rapporto di amicizia, prima ancora che di collaborazione professionale, abbiamo voluto rendergli omaggio attraverso un libro che rendesse conto del ruolo importante che ha avuto, come studioso e come insegnante, nel corso della sua carriera. Abbiamo dunque pensato che il modo migliore per farlo fosse attraverso delle letture filmiche, pensando a quanto l’analisi del film sia stata importante per Bernardi, come lui stesso racconta nel testo inedito che apre il volume. L’analisi di un film è un’operazione attraverso cui lo studioso si mette in gioco, instaura un dialogo incessante con il film, ne fa emergere la ricchezza e al contempo sottopone a verifica i suoi metodi e strumenti. Abbiamo quindi chiesto a oltre quaranta colleghi di scrivere l’analisi di un film che segnasse uno snodo significativo all’interno del ‘cinema dello sguardo’, all’interno di un arco cronologico che attraversa idealmente l’intero XX secolo, dalle vedute dei fratelli Lumière fino a Matrix. I quarantacinque testi raccolti nel volume vogliono essere la dimostrazione di quanto le idee di Bernardi siano state in grado di sollecitare, in Italia e all’estero, un dialogo con diverse generazioni di ricercatori (allievi, collaboratori, colleghi e compagni di viaggio), nonché di produrre fertili contaminazioni di metodi e strumenti, dalla semiotica agli studi culturali, dalla psicanalisi alla teoria femminista, dalla storia alla sociologia, dalla narratologia alla filologia, dal cognitivismo all’estetica.


Non solo la dedica, ma i larghi riferimenti nella parte iniziale a Sandro Bernardi mi portano a chiedere di tracciare l'importanza di quello studioso...

Bernardi appartiene alla generazione di studiosi universitari che ha contribuito in maniera determinante a conferire uno statuto scientifico e disciplinare agli studi cinematografici italiani, superando le secche della critica impressionistica e nutrendosi del meglio di quanto si andava dibattendo nei contesti accademici internazionali. È lo stesso Bernardi nell’introduzione a sintetizzare con grande efficacia le riflessioni e gli strumenti che hanno caratterizzato quell’avventura intellettuale. In tema di ‘cinema dello sguardo’, poi, è impossibile prescindere dall’importanza dei suoi studi. Fin da “Kubrick e il cinema come arte del visibile” (Milano 2005, 1a ed. Parma 1990), ha dedicato una parte considerevole delle sue ricerche a temi legati alla visione e allo sguardo, facendo convergere istanze e sollecitazioni provenienti dalla fenomenologia, dall’estetica, dalla teoria e dalla storiografia del cinema. Nel successivo “Introduzione alla retorica del cinema” (Firenze 2003, 1a ed. 1994), il tema dello sguardo diventa l’architrave concettuale dell’intera opera, che illustra con chiarezza i due ordini di rappresentazione del medium, visione e narrazione, ripercorrendo testi e luoghi classici della teoria del cinema. Ancora, nel successivo “Il paesaggio nel cinema italiano” (Venezia 2010, 1a ed. 2002), il discorso sullo sguardo si arricchisce e si sostanzia di una riflessione sulla dimensione mitopoietica del paesaggio. Lo studioso apre qui esplicitamente il campo delle sue ricerche alla dimensione culturologica, attraverso un metodo di analisi in cui i film sono intesi come sintomi per leggere una cultura. E infine “L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio” (Venezia 2016, 1a ed. 2007), un volume che è ancora oggi adottato come testo di base in molti corsi universitari di storia del cinema in molte università italiane.


Che cosa s'intende per "cinema dello sguardo"?

S’intende un cinema in cui le istanze legate allo sguardo della macchina da presa o dei personaggi diventano centrali, fino a rendere secondarie le istanze della narrazione. Detto in estrema sintesi, l’atto di guardare, con o attraverso la macchina da presa, diventa più importante dell’azione narrativa e dei fini specifici che quest’ultima si propone. L’idea di “Cinema dello sguardo” ci è stata suggerita dalla seconda parte del già citato “L’avventura del cinematografo”, che è dedicata in modo specifico al cinema moderno e contemporaneo. Quella di ‘cinema dello sguardo’ ci è sembrata fin da subito un’idea forte, in grado da sola di sorreggere l’architettura di un intero volume che tentasse di tracciare un percorso a partire dalla centralità che, fin dai fratelli Lumière, è stata attribuita al cinema come sguardo. Non solo dunque il cinema d’autore degli anni sessanta, non solo la Nouvelle vague e il Neorealismo, ma anche alcune declinazioni del cinema classico hollywoodiano, alcuni classici delle avanguardie degli anni venti, fino ad arrivare alle prime sperimentazioni sul carrello, sulla soggettiva e al vedutismo delle origini.


Le analisi che compongono il volume sono luminosamente eterogenee.
È possibile identificare qualche elemento che le apparenti
?

La nozione di sguardo è intrinsecamente polisemica è volevamo che il libro desse conto di questa complessità. Pur nella loro eterogeneità di metodo, le quarantacinque analisi che compongono “Il cinema dello sguardo” possono essere ricondotte a cinque direttrici principali, specchio di altrettante declinazioni dell’idea di sguardo: sguardo come interrogazione di un mondo diversamente resistente; sguardo come soggettività incarnata; sguardo visionario, proprio di un cinema dispensatore di visioni letteralmente eccezionali; sguardo macchinico, potenziato da un apparato strumentale; e, infine, sguardo sessuato, caratterizzato da istanze di genere sia in direzione disciplinante che, all’opposto, emancipatoria.

Mentre esiste un "cinema dello sguardo" può esistere anche una "tv dello sguardo"?
Se sì, oppure no, perché
?

L’idea di cinema dello sguardo si è affermata storicamente in ambiti cinefili che guardavano al medium televisivo con un certo sospetto, se non addirittura con un’esplicita avversione. Ma l’attuale scenario mediale ci invita a rimettere in questioni limiti, categorie e confini tra i diversi medium. Dunque, anche se non è l’oggetto del nostro libro, perché no?
………………………….
Il cinema dello sguardo
a cura di
Federtico Pierotti
Federico Vitella
Pagine 240, Euro 14.00
Marsilio


La cucina e la tavola

Da alcuni anni a questa parte è andato sempre più intensificandosi sui media il tema dell’enogastronomia diffondendosi su giornali, periodici, radio, tv , internet.
Se da una parte questo diffondersi dell’argomento ha portato il beneficio di meglio conoscere il cibo e il vino, dall’altra ha creato molti improbabili gourmets che si credono esperti e sdottoreggiano talvolta con comicità involontaria.
Ha ragione Pierluigi Capriotti quando scrive: “Nella contemporaneità, il cibo ha subito un’infinità di declinazioni. È divenuto “food”, “arte culinaria”, “alimentazione”, “enogastronomia”. Di questi 4 termini, solo “alimentazione” ha legami con la nutrizione, con la salute e con risvolti sociali. Ma l’equivoco maggiore è creato dall’enogastronomia. Infatti, è espressione del marketing che si nutre di essa. Un marketing territoriale sul quale si sono costruiti studi ad indirizzo turistico, poiché turistica è la vocazione del termine”.
La Gola è cosa seria, “A differenza di altri peccati capitali” – dice Philippe Delerm – “la Gola è sempre stata trattata con estrema attenzione sul piano filosofico, religioso e sociale, nella sua duplice forma di eccesso e moderazione”.
Insomma, è cosa che va associata non solo al costume ma alla storia e alla filosofia.
E se vi pare eccessivo accostare la filosofia alla cucina, sono pronto a offrirvi un’autorevole smentita che viene dal filosofo Nicola Perullo che intervistai tempo fa. Gli chiesi il motivo dell’accostamento da lui fatto tra filosofia e alimentazione. Così mi fu risposto: “Mi sembra un avvicinamento naturale, quello tra gastronomia e filosofia. Negli Stati Uniti, peraltro, i rapporti tra “food and philosophy” sono oggetto di attenzione da qualche tempo; qui da noi, in Italia, invece, è più difficile. La complessità proposta dai problemi del cibo è enorme: il piacere, la fame, la cultura, l’industria, l’artigianato, la natura, la glocalizzazione”.

Un importante libro sulla storia del gusto lo ha riedito la casa editrice Dedalo nella collana Memorabili:. titolo: La cucina e la tavola Storia di 5000 anni di gastronomia
Ne sono autori Jacques Le Goff e Jean Ferniot
Le Goff, (1924 – 2014) è stato uno storico e accademico francese.
Nato in una famiglia modesta, studiò a Marsiglia, ed in seguito a Parigi al Lycée Louis-le-Grand e presso l'École normale supérieure. Fu docente nelle Università di Lilla e Parigi. Ha curato questa raccolta di saggi per la rivista «L’Histoire».

Ferniot, (1918 – 2012), giornalista, comincia la sua carriera all'Agence France-Presse . Ha lavorato per Franc-Tireur e France Soir. Poi unito a L'Express quale editorialista politico e culinario. Autore di numerosi libri, ha vinto il Prix Interallié per l'Ombre portée nel 1961.

“Il piacere e la tavola” è un viaggio culturale nella gastronomia, dalla preistoria all'epoca dei faraoni, dal mondo greco a quello romano, per poi giungere attraverso il Medioevo e le ricche tavole regali dell'età moderna alle mode gastronomiche contemporanee.
È questo il caso in cui è particolarmente utile trascrivere l’Indice del libro perché esemplifica in maniera precisa la cospicua maniera in cui la materia è trattata.

Dopo la duplice introduzione: “Cibi”, di Jacques Le Goff e “Il piacere della tavola”, di JeanFerniot segue questa tripartizione del volume.

LE METAMORFOSI DELLA CUCINA - Per una storia del gusto, Jean-Louis Flandrin - La più antica cucina del mondo, Jean Bottéro - Le «specialità» della preistoria, Catherine Perlès - Ricettario del passato A tavola con Asterix, Claude Aziza - L'arte di servire le lumache, Philip Hyman - Vennero poi le spezie, e insaporirono la cucina europea, Liliane Plouvier - Lessico - I primi libri di cucina, Bruno Laurioux - Ricettario del passato –

LA CELEBRAZIONE DEL PASTO - Il banchetto più antico del mondo, Jean Bottéro - Mangiare seduti, mangiare distesi, Pietre Chuvin - Da dove derivano i nostri comportamenti a tavola?, Janine Garrisson - Il banchetto dei monaci nel Medioevo, Michel Rouche - Ricettario del passato - A tavola nell'anno Mille, Bruno Laurioux - Antologia del gusto - La letteratura e i buon gustai: Grimond de la Reynière, Jean-Claude Bonnet - Antologia del gusto –

LE RIVOLUZIONI ALIMENTARI - L'alimento principe: il pane, Robert Delort - Il vino 5000 anni fa, André Finet - Antologia del gusto - Acqua e vino, PhilippeGillet - L’ulivo e la sua storia, Marie-Claire Amouretti e GeorgesComet - L’olivo, dalla botanicaallastoria - Il cibo dei faraoni, PierreGrandet - E il burro conquistò la Francia, Jean-LouisFlandrin - Antologiadelgusto - Del maiale tutto è da mangiare, PerrineMane - Ricettariodelpassato - Il vento dei parigini, DanielRoche - Basta con i cibi «indegni»!, ArletteLebigre - Le mode gastronomiche alla francese, ClaudeGrignon - Ah! Com’era bella la pasticceria!, LilianePlouvier - Ricettariodelpassato - Quando la cucina diventa una stanza a parte, Pierre-DenisBoudriot

Dalla presentazione editoriale.
«Una storia del cibo, indispensabile ingrediente della nostra vita quotidiana: un itinerario pieno di fascino tra l’evolversi dell’alimentazione e del gusto (e il suo rapporto con l’economia) e i riti legati alla cucina, tra l’etichetta e la dietetica, tra antiche ricette e moderni fast food, tra le bassezze del ventre e le raffinatezze del palato.
Dalla nascita della nouvelle cuisine alle ricette degli antichi Babilonesi ed Egizi, un affascinante viaggio (molto piacevole da leggere) che incomincia nella Preistoria per approdare, attraverso Greci e Romani, monasteri medievali e ricche tavolate regali, alle mode gastronomiche dei giorni nostri».

Jacques Le Goff
Jean Ferniot
La cucina e la tavola
Traduzione di Nunzia Scaramuzzi
Pagine 336, Euro 17.90
Edizioni Dedalo


La sconfitta dell'Occidente


Gandhi: "Decadenza dell'Occidente? Forse perché gli occidentali, hanno l'ora ma mai il tempo.”

Jean Baudrillard: “L’idea della decadenza dell’Occidente fa parte del suo linguaggio culturale. L’Occidente si è sempre trovato a immaginare la sua morte”.

Quando e perché l’Occidente va verso una possibile fine è stato oggetto di molti studi.
Come non ricordare “Il tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler, pubblicato a Vienna nel 1918, opera inerente alla filosofia della storia in cui per Spengler le caratteristiche della civiltà consistono nell'essere ognuna un organismo che, analogamente all'organismo umano, possiede le sue quattro fasi di età: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia. Come tutte le altre civiltà anche quella occidentale è destinata all'estinzione e già nel XIX secolo, secondo Spengler, è entrata nella sua fase di decadenza.
A proposito di Spengler, considerato troppo frettolosamente vicino al nazismo, è bene ricordare che dopo aver votato per Hitler lo incontrò nel 1933 e dopo una lunga discussione con lui, disse che la Germania non aveva bisogno di un "tenore eroico" ma di un "vero eroe"; criticò l’antisemitismo ed ebbe una disputa pubblica con Alfred Rosenberg, rifiutò offerte di Goebbels con il risultato d’essere isolato al punto che “Anni della decisione”, opera pubblicata nel 1934, fu messa al bando dai nazisti per le sue critiche al Nazionalsocialismo.
Giungendo ad anni più vicini a noi secondo lo storico Andrew Michta, la “principale minaccia” all’occidente non viene dalla Russia, dalla Cina e nemmeno dai jihadisti, ma dalla “autoindotta decostruzione della cultura occidentale (…) Dire che il mondo sta diventando meno stabile e più pericoloso è dichiarare l’ovvio. Ma tra le cause di questo cambiamento sistemico c’è un motivo raramente evocato: la frattura collettiva dell’occidente (…) la sua crescente incapacità di definire la ‘civiltà’. Al centro della disfunzione occidentale c’è la decostruzione della cultura e, con essa, il collante che per due secoli ha mantenuto Europa e Stati Uniti”.

A queste fonti oggi va aggiunto un poderoso, imperdibile, saggio, edito da Neri Pozza, scritto con smagliante lingua da pamphlet; è intitolato La sconfitta dell’Occidente, ne sono autori Domenico Quirico e Laura Secci.

Quirico è giornalista de La Stampa, responsabile degli esteri, corrispondente da Parigi e ora inviato. Ha seguito in particolare tutte le vicende africane degli ultimi vent’anni dalla Somalia al Congo, dal Ruanda alla primavera araba. Ha vinto i premi giornalistici Cutuli e Premiolino e, nel 2013, il prestigioso Premio Indro Montanelli. Ha scritto quattro saggi storici per Mondadori (Adua, Squadrone bianco, Generali e Naja) e Primavera araba per Bollati Boringheri. Presso Neri Pozza ha pubblicato Gli ultimi. La magnifica storia dei vinti e Il paese del male.

Secci è giornalista de La Stampa. Nata e cresciuta in Sardegna, terminato il liceo ha studiato Filosofia all’Università di Pisa. Dopo la laurea e un master all’Università di Firenze, si è arruolata nell’Esercito. Ha partecipato per lo Stato Maggiore a diverse missioni in Medio Oriente. Nel 2009 si è congedata dall’Esercito e oggi lavora per il quotidiano torinese. Ha realizzato diversi reportage in Africa e Medio Oriente, da reporter freelance, seguendo in particolare le guerre in Afghanistan, Libia, Iraq, Siria.

Dopo uno sferzante prologo di Quirico seguono capitoli che passano in rassegna alcune delle principali piaghe inferte all’Occidente da paesi un tempo meta di visite turistiche ed oggi territori infernali.
Così Secci prende in esame l’Iraq e l’Afghanistan, mentre Quirico illustra quanto è accaduto in Siria, nell’atroce deserto, in Libia.
Un libro tanto amaro quanto sincero che analizza e interpreta le debolezze, non solo militari, dell’Occidente che crede di vincere standosene in ovattate stanze dove risuonano vuote parole di diplomatici e malmostose quanto temerarie affermazioni di generali.

Dalla presentazione editoriale.
«Da venti anni l’Occidente perde tutte le guerre, ogni tipo di guerra: guerriglie tradizionali, terroristiche, conflitti per procura o combattuti direttamente, guerre microscopiche e guerre grandi. Sconfitto da armate di fanatici in ciabatte ed eserciti con gli scarponi, l’Occidente mostra di essere del tutto incapace di affrontare il nuovo tipo di violenza organizzata del xxi secolo, in cui la distinzione tra guerra, crimine organizzato e violazione dei diritti umani si è diluita e spenta. Il risultato è che le certezze su cui gli Stati occidentali si fondano – la democrazia dei diritti, la società liberale, la globalizzazione – si sono ristrette, sgretolate, erodendo non soltanto le basi delle nostre società, ma la carta stessa del mondo. Dal Nord Africa all’Africa Nera, dalla Tunisia alla Nigeria musulmana, dalla Siria all’Iraq all’Afghanistan, i luoghi dove fino a qualche anno fa un occidentale poteva muoversi, visitare, commerciare senza problemi, sono diventati terre del silenzio e dell’odio.
Passando in rassegna i numerosi conflitti che hanno visto soccombere negli ultimi decenni l’Occidente, Domenico Quirico e Laura Secci mostrano, in questo agile libro, il pericolo più grande di questa sconfitta: la sua rimozione nel discorso pubblico. Si preferisce parlare di economia, di moda, di musica, di generi, mentre «l’indifferenza che è una forma della viltà ronza nei cuori come un motore».

Domenico Quirico
Laura Secci
La sconfitta dell’Occidente
Pagine 224, Euro 13.00
Neri Pozza


Giornata della Memoria


“Le epoche di fervorose certezze eccellono in imprese sanguinarie”, diceva Elias Canetti.
Un’ondata di cruente certezze fu tra le cause dell’Olocausto.
Oggi, invece di consegnare alla storia universale dell’infamia quei tragici avvenimenti, assistiamo da più parti all’avanzare di tenebrosi revisionismi.
La data per la “Giornata della Memoria” fu scelta per ricordare il 27 gennaio 1945, quando le truppe dell'Armata Rossa, nel corso dell'offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la città polacca di Oświecim (nota con il nome tedesco di Auschwitz).
Lì scoprirono l’atroce campo di concentramento e liberarono i superstiti. La scoperta d’Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l'orrore del genocidio nazista, della Shoah. Shoah, in ebraico significa “annientamento”; indica lo sterminio di oltre sei milioni d’ebrei ed è da preferire questo termine a “olocausto” per eliminare qualunque idea di religiosità insita in quest’ultimo.

I nazisti non furono soli nel commettere quel crimine contro l’umanità, furono aiutati da molti governi collaborazionisti e, prima ancora, dal fascismo italiano che il 6 ottobre 1938 promulgando le leggi razziali determinò la perdita dei diritti civili per 58mila italiani, parte dei quali poi deportati in Germania e 8mila di loro morti nei lager.
Infamia che discendeva dal ‘Manifesto della Razza’, pubblicato il 14 luglio dello stesso anno, firmato da 10 scienziati italiani, sorretti da altre 329 firme; per sapere chi erano e come agirono consiglio la lettura di un volume che segnalai tempo fa in queste pagine: I dieci.
Del resto, perché meravigliarsene? Il nostro è un paese in cui l’ex presidente del Consiglio dei Ministri Berlusconi alla vigilia di una Giornata della Memoria raccontò barzellette sui lager e ha definito “luoghi di villeggiatura” i paesi in cui il fascismo confinò gli oppositori.
In questi giorni, poi, vanno moltiplicandosi, manifestazioni, spesso impunite, che inneggiano a passati regimi che si resero responsabili di quelle stragi. Si sente dire che è necessaria al proposito un’azione culturale che spieghi e illumini. Sì, è così, ma quell’azione ha tempi omeopatici ed è necessario accompagnarla anche con energiche misure repressive ripetutamente mancanti nonostante leggi esplicite al riguardo.

Ho ricevuto parecchi comunicati che segnalano spettacoli e mostre per ricordare quel 27 gennaio del 1945. Citare alcune di quelle occasioni potrebbe significare escluderne altre, allora scontento tutti e scelgo di pubblicare le raccapriccianti immagini di un’opera - Yolocaust - pubblicata dall'ottimo webmag Exibart.
È dell'autore satirico tedesco-israeliano Shahak Shapira autore che ha agito sul tema della Shoah dimostrando con i suoi fotomontaggi quanto non esiste limite alla stupidità di tanti che si ritraggono durante una visita al Memoriale dell’Olocausto di Berlino.


Lennon not Lenin




Qualche settimana fa ho presentato in queste pagine un libro di Stefano Scialotti intitolato Lennon not Lenin Il Muro di Berlino erano due.
Torno a segnalarlo ai visitatori di Cosmotaxi perché propone un mix di fantascienza, citazionismo colto, documentarismo, elementi proiettati in una sottesa atmosfera ricca di richiami politici.
Chi vuole intendere, intenda. Se ben intende o anche se male intende.
Il libro si avvale di una doppia postfazione.
La prima è di Antonella Sbrilli che coerente col suo fulgido stile produce un folgorante anagramma: “Il muro di Berlino” = “Urlo mondi liberi”.
La seconda è di Valerio Eletti che ricorda una performance di Scialotti al Piper nel 1982 che profeticamente raffigurava il crollo del muro di Berlino.

“Lennon not Lenin” è un’articolazione di una campagna (audiovisiva, fotografica, internettiana, stampata) tesa ad abbattere i muri che tanto governi hanno realizzato o progettano di costruire.
Scialotti in collaborazione con il quotidiano “il Manifesto” (e la campagna io rompo) ha girato vari documentari in molte parti del mondo.
Nel 2019, in concomitanza col trentennale della caduta del Muro di Berlino la campagna ha fatto uso di vari elementi:
- un archivio di oltre 1000 foto d’immagini del muro berlinese realizzate negli anni 80;
- i filmati sul muro Usa-Messico e su quello intorno a Betlemme;
- i filmati sui sogni dei bambini nel mondo;
- il libro “Lennon Not Lenin””.

Estratto dalla presentazione editoriale.
«”Lennon not Lenin” è una delle scritte sul Muro che dà il titolo al libro.
Un gioco di parole, come forse tutto il resto.
Il Muro di Berlino erano due, uno tangente Ovest ed uno tangente Est.
In mezzo la terra di nessuno dove pascolavano libere grandi mandrie di cavalli di Frisia. Uno pieno di scritte e di turisti, l’altro di finestre sbarrate, fili spinati, limiti e impossibilità di ogni tipo. Perché si parla sempre e solo del Muro di Berlino, quello Ovest?

Il Muro con le sue scritte, CM un’intelligenza artificiale e la Divina Commedia con i suoi versi sono gli elementi che guidano le pagine.
A ogni domanda l’IA risponde solo usando versi presi da Dante.
"O voi ch`avete li `ntelletti sani, / mirate la dottrina che / s’asconde sotto `l velame de li versi strani."
Versi che vanno interpretati in modi differenti da quelli ai quali ci aveva abituato a scuola Natalino Sapegno.
“Che altro è la Divina Commedia – afferma un personaggio – se non il più grande racconto di fantascienza mai scritto?”.
“Lennon Not Lenin” è un libro di fantascienza o un giallo? Certo gioca con la fantascienza, con le parole, con le scritte sul Muro di Berlino, con i versi della Divina Commedia, con il cinema, le guerre fredde e calde, con le rivoluzioni.
Le note, tutte volutamente prese da Wikipedia, costituiscono un livello parallelo di racconto tra approfondimento e ironia.
CM, che non è umano anche se lo vorrebbe, è un’abbreviazione di Continua-Mente: citazione del verso 24 del 14° canto dell’Inferno, nell’Edizione Minuscola Hoepli del 1911, dove l’avverbio continua-mente è scritto con il trattino».

A conclusione di questa nota ecco un video musicale in tema.
Per la presentazione del volume: RICLIC!

Stefano Scialotti
Lennon not Lenin
Pagine 292, Euro 15.00
Fausto Lupetti Editore


Acqua di colonia












Oltre a fare un teatro di grande qualità, la Compagnia Frosini – Timpano, ha il merito di indovinare sempre i titoli dei suoi spettacoli. Volendo, ad esempio, occuparsi del nostro colonialismo ecco Acqua di colonia, finalista nel 2017 al Premio Ubu quale migliore novità drammaturgica italiana.

Breve, ma necessaria premessa per parlare di una nuova occasione per vedere all’opera questo lucente duo.
MC=A³ non è una formula di qualche grande, o sconosciuto, fisico, ma è la sigla che a Macerata raggruppa singoli, associazioni, collettivi indipendenti uniti dalla volontà civica di sensibilizzare la comunità sui temi del contrasto all'intolleranza razziale, della tutela alle donne vittime di violenza, della prevenzione contro il riaffiorare di rigurgiti neofascisti - senza sigle, senza finanziamenti pubblici, senza protagonismi.
MC = Macerata; A3 = Antifascismo, Antirazzismo, Antisessismo.
Per saperne di più CLIC.
Mercoledì 29 gennaio h. 21.15, al Teatro Lauro Rossi, la Compagnia Frosini/Timpano di Roma, anche recente vincitrice del Premio Riccione 'Franco Quadri', presenterà una replica dello spettacolo “Acqua di colonia”.
Cosmotaxi lo apprende da un amico di questo sito: il regista Andrea Fazzini.
Lo spettacolo sarà un modo per riflettere, su di una storia rivisitata con ironia, sul colonialismo italiano e sui prodromi delle ondate migratorie che negli anni si sono succedute, qui e altrove.

Estratto dal comunicato stampa
«Noi siamo colonialisti?
Lo siamo stati? Che ne sappiamo? E che c'entriamo? E oggi cosa siamo?
Il colonialismo italiano. Una storia rimossa e negata, che dura 60 anni, inizia già nell'Ottocento, ma che nell'immaginario comune si riduce ai 5 anni dell'Impero Fascista. Cose sporche sotto il tappetino, tanto erano altri tempi, non eravamo noi, chi se ne importa. È acqua passata, acqua di colonia, cosa c'entra col presente? Eppure ci è rimasta addosso come carta moschicida, in frasi fatte, luoghi comuni, nel nostro stesso sguardo. Vista dall'Italia, l'Africa è tutta uguale, astratta e misteriosa come la immaginavano nell'Ottocento; Somalia, Libia, Eritrea, Etiopia sono nomi, non paesi reali, e comunque “noi” con “loro” non c'entriamo niente; gli africani stessi sono tutti uguali.
E i profughi, i migranti che oggi ci troviamo intorno, sull'autobus, per strada, anche loro sono astratti, immagini, corpi, identità la cui esistenza è irreale: non riusciamo a giustificarli nel nostro presente. Come un vecchio incubo che ritorna, incomprensibile, che ci piomba addosso come un macigno.
L'organizzazione dello spettacolo è auto-finanziata e sarà sostenuta solo con la vendita dei biglietti, che abbiamo voluto mantenere al prezzo di 10.00 euro».

La prevendita è già in corso.
Numeri per l'acquisto dei biglietti: 340/4666795 - 339/7205871


Orlando in audiolibro


Come sanno quei generosi che leggono queste pagine di Nybramedia, il sabato e la domenica il sito non va on line perciò anticipo oggi la notizia della data di un anniversario che cade domani.
Si tratta del giorno in cui nacque a Londra, appunto il 25 gennaio, nel 1882, la scrittrice Virginia Woolf che morirà suicida a Rodmeil il 28 marzo del 1941.

“L’opera più intensa di Virginia Woolf, una delle più originali della nostra epoca”.
Così Jorge Luis Borges la pensava su “Orlando”, ma la Woolf fu autrice anche di altre opere importanti nella storia della letteratura del XX secolo quali, ad esempio,“Gita al faro”, “La signora Dalloway”, “Le onde”.
Scrisse anche saggi di grande spessore, tra questi “Immagini del passato” e il maiuscolo “Una stanza tutta per sé”.
Protagonista del Circolo Bloomsbury che sebbene principalmente conosciuto come gruppo letterario, vide i suoi aderenti attivi in diversi campi: dalla letteratura alle arti plastiche, dalla musica all’economia, dall’arredamento ai costumi, influenzando la vita intellettuale britannica dal 1905 fino alla vigilia della seconda guerra mondiale.
Ha scritto di lei Pietro Citati: “Non poteva tollerare che la penna, tra le sue mani, diventasse uno «strumento rigido», che disegnava linee rette […] voleva essere, contemporaneamente, nitida e cangiante come le ali di una farfalla”.
Un efficace ritratto della sua drammatica interiorità, si può rilevare in una pagina del Diario laddove scrive: “Perché mai è così tragica la vita; così simile a una striscia di marciapiede che costeggia un abisso. Guardo giù, ho le vertigini; mi chiedo come farò ad arrivare alla fine”.

“Orlando” fu pubblicato per la prima volta nel 1928.
Dal libro è stato tratto nel 1992 l'omonimo film realizzato da Sally Potter e interpretato da Tilde Swinton; che appare nella copertina (qui in alto) di un audiolibro, con la traduzione e la finissima lettura integrale dell’opera da parte di Alberto Rossatti nella foto accanto.
È una voce storica di RadioRai, vincitore del Primo Premio di Voci nell’Ombra per la sua interpretazione in audiolibro delle “Memorie di un pazzo” di Gogol.
Accanto a quel titolo appena citato, ci sono molti altri testi narrativi e di poesia interpretati da Rossatti, come si può notare in questa pagina web

A lui ho chiesto: immaginiamo una sintetica nota per illustrare “Orlando”. Che cosa scriveresti?

Scriverei: Orlando è la biografia burlesca di un giovane androgino che si reincarna rocambolescamente in varie forme attraverso cinque secoli della storia inglese, dall'epoca Elisabettiana al '900. Ispirata e dedicato a Vita Sackville West, l'eccentrica aristocratica dalle bellissime gambe con cui la Woolf ebbe una lunga relazione amorosa. La biografia è un divertissement letterario in cui la Woolf gioca con vari stili e generi letterari (biografia, saggio critico, romanzo vittoriano, lirica romantica, intermittences proustiane, stream of consciousness joyciano). L'esito è un denso tessuto narrativo fatto di copiosi rimandi linguistici e tematici, assonanze, ripetizioni, ritornelli, variazioni sul tema, citazioni, digressioni, simboli.

Virginia Woolf
Orlando
Tradotto e letto da
Alberto Rossatti
Audiolibro
Ed. Il Narratore


In viaggio da 125 anni


A Milano è in corso nel Palazzo Lombardia la mostra Immaginario curata dal fotografo Luca Santese

Le foto in esposizione sono 125 e non è un numero a caso perché 125 sono gli anni compiuti dal Touring Club Italiano che così celebra la sua lontana nascita.
Le immagini, per la prima volta esposte al pubblico, databili prevalentemente tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, provengono dal monumentale archivio del Touring che raccoglie anche 350 mila stampe datate tra il 1870 e il 1970 e, inoltre, un gran numero di scritti firmati da famosi scrittori italiani.
Tra le importanti novità apportate da Franco Iseppi da quando ha assunto la presidenza del Club rilanciandone vigorosamente l’attività, c’è, infatti, quella di pubblicare all’inizio di ogni anno un testo presente in Archivo e scritto proprio per il Touring con temi legati al viaggio e all’esplorazione fisica (e, talvolta immaginaria) di territori italiani e stranieri.
Così abbiamo avuto librini firmati da grandi nomi: da Italo Calvino a Valentino Bompiani, da Dino Buzzati a Giulio Carlo Argan, a Paolo Volponi, senza trascurare il fondatore del TCI, Luigi Vittorio Bertarelli, con un intervento che pur senza un particolare valore letterario propone una quanto mai interessante valenza storica, perché scritto nel 1917 e riflette la drammatica atmosfera di quell’epoca che pure non impedì il varo di lì a poco del periodico “Le vie d’Italia” che vivrà ininterrottamente per almeno cinquant’anni spesso raggiungendo sorprendenti tirature.
Il piccolo libro annuale anche in questo 2020 ha visto la luce ricordando pagine di Cesare Chiodi, Indro Montanelli, Ferruccio De Bortoli, testimoniando come scrive Franco Iseppi nell’introduzione, le iniziative, le modalità, le forme con le quali l’Associazione ha affermato la sua distintività.

Tornando alla mostra “Immaginario”, va ricordato che al principio sono i soci del Tci a inviare le foto da loro scattate con alterna fortuna espressiva, ma presto un crescente numero di scatti saranno commissionati a professionisti quali, ad esempio, Bruno Stefani, Paolo Monti, Gianni Berengo Gardin, Luigi Ghirri.
Nota Giovanni Pelloso sul Corriere della Sera: “Protagonista della mostra è lo stesso visitatore, chiamato a mettere in prospettiva il presente attraverso delle immagini appartenenti al passato, a dimostrazione che la memoria degli archivi è memoria attuale e attualizzabile”.

Immaginario
Palazzzo Lombardia
Via Galvani 27, Milano
Ingresso libero
Fino al 31 gennaio 2020


Special sul Museo "Falseum"

a Verrone, provincia di Biella


Falseum (2)


“Quello che è sempre stato creduto da tutti, dovunque, è quasi sicuramente falso”.

Paul Valéry


Falseum (3)

Falso.
Ecco che cosa dice su quell'aggettivo Il Dizionario: “1. Che non corrisponde alla realtà, alla verità; 2. Che è contraffatto o alterato con intenzione dolosa.
Ma allora è un reato? Sfogliamo il nostro Codice penale: “Il falso è un reato previsto e disciplinato dagli art. 476 e seguenti. Esso si distingue in "falso materiale" e "falso ideologico".
- La falsità è materiale quando è la provenienza dell'atto in sé a essere fasulla, alterata o contraffatta, indipendentemente dalla verità dei fatti in esso attestati.
- La falsità ideologica consiste invece nell'attestazione di fatti e situazioni non veritieri. L'atto è quindi autentico dal punto di vista formale, ma il suo contenuto è infedele alla realtà
.

Buono a sapersi.
Ma qui, più che un dubbio, una certezza mi assale: siamo assediati da falsi.
Fenomeno maiuscolo dei nostri giorni sono le false notizie (nell’uso linguistico corrente “fake news”) agite in tutto il mondo da privati ma anche da aziende, partiti politici e da governi per influenzare l’opinione pubblica volgendola a proprio, illegittimo, vantaggio sia esso sociale o economico oppure elettorale.
Oggi il “falso” è veicolato spessissimo in forma elettronica, ma esisteva anche in tempi antichi, sia pure in altre forme, con gli stessi intenti dolosi di oggi.
Difficile era scoprirlo ieri, ma lo è anche oggi
A questo s’aggiunga che esiste pure un “falso-vero”. Eccone un caso. «Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità». Questa frase l’avrebbe detta Joseph Goebbels, ministro nazista della propaganda. In realtà, quel criminale quella frase mai l’ha scritta né pronunciata, ma a furia di essergli attribuita è diventata davvero sua; paradossalmente, però, è accaduto che la falsa attribuzione della frase ha finito per confermare il senso della frase stessa. In altre parole, non l’ha detta ma l’ha fatto.
È solo un cospicuo esempio del “falso-vero”.
Poi, ovviamente, esiste il falso che proprio falso è.

In Italia, in Piemonte, a Verrone, distante 6 km. da Biella, esiste un piccolo museo prezioso come un piccolo gioiello: il Falseum Museo del Falso e dell’Inganno.
In foto: il logo.

I visitatori (talvolta guidati da strani personaggi… ma siamo o no nel regno del Falso e dell’Inganno?) attraversano il percorso delle varie sale conoscendo falsi di ieri e di oggi.
Precisazione d’obbligo: non si tratta dei falsi nelle arti visive (per quelle c’è quel monumento cinematografico F for Fake di Orson Welles), ma in documenti storici, in maliziose leggende, in ricostruzioni bugiarde che ancora presso molti passano per vere.
In qualche caso si tratta di una innocente distorsione storica, come accade sulle origini del kilt scozzese, in altri casi di fatti che hanno deviato il corso della storia o fiancheggiato terribili momenti dell’umanità.
Alcuni esempi fra i tanti: la Donazione di Costantino; quel libello intitolato I Protocolli dei Savi di Sion che ha concorso al tentativo di giustificare stragi; le foto di Stalin attorniato da dirigenti sovietici e, in una successiva foto la stessa immagine con cancellata una delle figure, diventata sgradita al dittatore, e sparita dalla fotografia.
«Se è vero che anche tra gli animali esistono meccanismi istintivi di inganno, come la mimetizzazione» – è scritto in una presentazione – «nessun altro essere vivente è capace di mentire e dissimulare con la frequenza e l’intenzionalità dell’essere umano. L'uomo lo fa per molte ragioni, come difendersi, attaccare, arricchirsi, divertirsi e quindi in un Museo del Falso possiamo esplorare un aspetto culturale e antropologico fondamentale della nostra specie».
Il Falseum è anche un’occasione di divertimento per grandi e ragazzi, questi ultimi hanno varie possibilità di giochi e i grandi possono perfino, accomodandosi in un ministudio tv diventare speaker di Tg e dire tutte le panzane che vuole. Del resto, anche noi, quando assistiamo a un Tg, qualche panzana, via, finiamo con l’ascoltarla, o no?

La singolarità di questo museo fa emergere una domanda: com’è nato?
Non siate impazienti. Leggete la nota che segue e lo saprete.


Falseum (4)

C’era una volta…
- Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
No, così comincia quel libro di Carlo Lorenzini, in arte Collodi, che creò Pinocchio un personaggio che pur aleggia con le sue bugie nel Falseum.
No, c’era una volta – ed è stato riedito dall’Utet proprio di recente – un volume molto interessante intitolato Sarà vero Falsi, sospetti e bufale che hanno fatto la storia.
Perché c’entra col Falseum? Quale torbido mistero lo lega al Museo di Verrone?
Non spingete!... abbiate pazienza… don’t panic please!... fra poco lo saprete.
L’autore di quel libro è Errico Buonanno (in foto), nato a Roma nel 1979, narratore, traduttore, autore radiofonico e televisivo,
Debuttò sulla scena letteraria nel 2003, ottenendo il Premio Calvino, con "Piccola Serenata Notturna" (Marsilio); per il Corriere della Sera ha realizzato la webserie “I ragazzi degli anni ‘90”. Altre pubblicazioni: "L'accademia Pessoa, (Einaudi Stile Libero, 2007); "Lotta di classe al terzo piano"; (Rizzoli, 2014); "Notti magiche. Atlante sentimentale degli anni '90" (con Luca Mastrantonio, Utet 2017); “Falso Natale. Bufale, storie e leggende della festa più importante dell'anno” (Utet, 2018); Vite straordinarie di uomini volanti (Sellerio, 2018).

A lui (in foto) ho rivolto alcune domande.
Come avvenne che il tuo libro Sarà vero dette origine al Falseum?

Nel 2010, quando era da poco uscita la prima edizione di quel mio saggio, venni contattato da Consuelo Vignarelli, che a quel tempo stava collaborando con il Comune di Verrone per dare vita a un nuovo progetto. L’idea era quella di dare nuova vita all’antico castello del borgo, praticamente abbandonato. Avevano in mente di creare uno spazio dedicato al falso e alla favola, ma, a quanto mi dissero, il mio libro aveva suggerito loro un taglio diverso da dare al tutto. Qualche anno dopo, il castello era completamente rinato grazie agli sforzi del comune e del sindaco Cinzia Bossi, e nelle antiche sale era nata un’esposizione innovativa, che non esponeva tecnicamente “pezzi da museo” ma che raccontava storie: quelle delle falsificazioni che avevano dato un corso diverso agli eventi dell’umanità, proprio come raccontavo in “Sarà vero”.

Che cosa ti spinse ad occuparti del falso tanto da dedicargli un tuo lavoro?

Da narratore, prima ancora che da saggista, sono sempre stato convinto di una cosa: le storie contano. La nostra immaginazione, i nostri pensieri, ciò a cui crediamo, non sono fenomeni scollegati dalla realtà, ma sono in grado di influire materialmente sul mondo. È un pensiero che conforta, per chi ha scelto di dedicare la propria vita alle storie. Ma è anche un principio rischioso, perché significa che il sogno e l’invenzione hanno un altissimo tasso di responsabilità, e che dunque responsabilmente bisogna sognare e inventare. A questo, si uniscono altri due fattori che non possono non affascinarmi. Da una parte c’è la curiosità storica: esplorare il mondo dei falsi significa entrare in contatto con un lato della Storia ufficiale che spesso rimane sottotraccia. Significa imbattersi in biografie di spie, falsari, imbonitori, personaggi straordinari e improbabili a cui, con grande sorpresa, possiamo scoprire di essere debitori (nel bene e nel male) di molte delle cose a cui crediamo. Contemporaneamente, significa rendersi conto che non sono vere moltissime verità assodate: le identità nazionali, le tradizioni che consideriamo secolari… Non c’è da stupirsi che uno scrittore trovi la cosa intrigante. E in ultimo, sempre più chiaramente, indagando sui falsi ci si rende conto della portata civile che una ricerca del genere comporta. Per una semplice ragione: la falsificazione ha meccanismi sempre simili. Le “bufale” possono cambiare l’oggetto o la vittima, ma sono molto ripetitive. Perciò conoscere le imposture del passato significa anche aiutare a smascherare quelle di oggi.

Dieci anni fa quando uscì il tuo saggio nessuno usava il termine “fake news” diventate adesso anche un grande, velenoso, strumento politico di comunicazione.
A differenza di tempi andati, le nuove tecnologie permettono di verificare velocemente l’attendibilità di una notizia o di un documento. Come spieghi che, invece, si assiste all’affermazione di tante notizie false che oggi chiamiamo “fake news”
?

Se con “tecnologie” si intende internet, non stupisce affatto che le fake news non siano sconfitte ma che, anzi, abbiano trovato nella rete uno strumento di amplificazione. Da sempre, le fake news vivono prima di tutto grazie alla voce popolare. Si diffondono, diventano “opinione comune”. E internet è precisamente la grancassa dell’opinione comune. Non mi riferisco solo ai social, dove sappiamo bene come un post o una foto falsa possa diventare immediatamente virale senza che nessuno si prenda la briga di verificare (basta che il falso confermi ciò che vogliamo sentirci dire). Mi riferisco anche ai motori di ricerca. Perché un sito ci appare prima di un altro, quando googliamo? La ragione non sta nella sua attendibilità, ma nella sua popolarità, nel numero di link di cui beneficia. Ovvero: un sito è tanto più in evidenza quanto più ha l’attenzione degli utenti. Questo significa che se, ipoteticamente, fosse esistito internet nel medioevo e avessimo googlato la parola “unicorno”, i primi siti che ci sarebbero apparsi sarebbero stati quelli che garantivano che l’unicorno era un animale reale. Ma naturalmente il pericolo non viene solo “dal basso”, perché, se anche qualche utente responsabile decidesse di verificare l’attendibilità della notizia, incontrerebbe parecchi problemi. I giornali online spesso propagano fake news. L’editoria fa lo stesso. Quando ci fu l’attentato alle Torri Gemelle, una serissima casa editrice nostrana pubblicò un libro in cui si “dimostrava” come l’11 settembre fosse un complotto. E la stessa casa editrice pubblicò contemporaneamente un libro che dimostrava come le teorie di complotto fossero un’idiozia. L’idea era quella di garantire la libertà di dibattito. Ma l’utente medio, che non ha certo le competenze tecniche per stabilire quale sia la verità e quale no, come può orientarsi? Riassumendo: la contemporaneità ha garantito a chiunque un ampissimo accesso ai media. Ma i media, da sempre, non sono affatto immuni alle fake news. Qual è la soluzione? Io propongo, come prima cosa, la conoscenza del passato. Perché, proprio grazie alla ripetitività delle bufale, davanti all’ennesima notizia clamorosa possiamo almeno avvertire un campanello d’allarme.


Falseum (5)


Curano le sorti del Museo (in foto il castello che lo ospita), gestito da Itur, Elisabetta Viceconte e Claudio Callegari esperti di turismo culturale.
A lui ho rivolto alcune domande.

Qual è la principale finalità che si propone questo Museo?

L'esistenza di Falseum, attraverso stanze tematiche interattive, trova il suo scopo nel riuscire a stimolare la riflessione del pubblico di ogni età attivando il senso critico, vera finalità protagonista del percorso, ed è attraverso la conoscenza di fatti ambigui, falsi storici eclatanti, mistificazioni scientifiche e leggende improbabili, che quel senso può essere più facilmente "acceso".
Il senso critico, pur indispensabile in ogni settore e momento della vita, è un valore, un'abilità innata ma spesso trascurata, un meccanismo con il quale gestire input e relazioni quotidiane, un'arma formidabile per poter provare a giudicare e decidere consapevolmente.

Qual è il tipo di pubblico che frequenta il Falseum? È possibile una sua identificazione socioculturale oppure no?

Direi di no. Il pubblico è assolutamente variegato, di ogni età, di ogni provenienza sociale. Vengono principalmente dalla Lombardia e dal Piemonte, ma abbiamo avuto anche scolaresche di altre parti d’Italia e turisti stranieri di oltreoceano...

Quali sono le documentazioni che maggiormente interessano i visitatori?

Il Museo viene apprezzato nel suo complesso, sia per i contenuti che per la modalità di accompagnamento, mai tesa a rendere il pubblico eterodiretto, bensì spronato, in modo interattivo e immersivo, a rendersi responsabile giudice di quanto vede.
Anche ciò che sembra giocoso in realtà lo è solo nella sua forma perché i contenuti sono serissimi La forma ludica è una scelta precisa in linea con le moderne tecniche di comunicazione esperienziale adottate all'interno di molti musei e altri luoghi di cultura.

Avete programmi speciali per i ragazzi. In che cosa consistono? Quali intrattenimenti vengono loro offerti?

La sezione didattica di Falseum offre la possibilità di visitare il museo scegliendo tra diversi percorsi guidati e animati: per i più piccoli (fino ai 7 anni), Falseum si trasforma nel "Castello dei perché", dove incentiviamo i bimbi a osservare, farsi domande e giocare con la fantasia, saltando dalle fiabe alle leggende, all'interazione con gli specchi, all'uso dei costumi a disposizione, senza tralasciare il racconto della storia del castello, come luogo-memoria di un passato a volte difficile da immaginare oggi.
Per i ragazzi più grandi cominciamo invece a trattare temi come i pregiudizi, le fake news e il senso critico, sfruttando giochi di ruolo teatralizzati, la nostra sala TG e il Salone Nuovo per le proiezioni.

Concludendo: quale principale obiettivo vi muove?

Porre i ragazzi davanti a semplici situazioni, forse anche già vissute nella loro breve esistenza, e stimolarli a ragionare, per innescare la reazione, prima a livello cognitivo collettivo poi a livello personale, ai fini dell'interiorizzazione delle esperienze.

Dopo la visita al Museo quale visitatore esce dal Falseum?

Diciamo spesso che "si esce da Falseum con occhi diversi", e questo vale sia per i visitatori più giovani che per molti adulti, spesso troppo distratti dai media per cercare da soli le risposte meno facili a molti quesiti che storia, società e relazioni quotidiane ci pongono.

……………………………………….

Falseum
Via della Valletta 1, Verrone
Info: falseum@copitur.com
Tel: 389 – 28 44 372
015 – 419 30 82
Aperto: sabato, domenica e festivi
10.00 – 13.30 e 14.30 – 19.30


Falseum (6)


Conta sempre meno che la televisione dica il vero, quanto piuttosto il fatto che essa sia vera.

Umberto Eco


Special sul museo Falseum a Verrone

FINE


Dr Fake Cabinet

A Torino ha debuttato sullo scenario nazionale delle arti visive contemporanee Dr Fake Cabinet un luogo ricco d’incanti e seduzioni. Uso il plurale perché plurali stilisticamente sono le opere degli artisti, parecchi, che lì è possibile vedere.
Si tratta di uno spazio su due piani, piccolo in metri quadrati che, però, al visitatore pare molto più grande perché ogni cosa lì esposta sembra farsi luogo esclusivo, autonomo dal lavoro che gli sta accanto e finisce con l’occupare totalmente sguardo e mente di chi osserva. Questo succede perché lo stacco di stile fra le opere reclama un’attenzione che si fa "topos" speciale.
Gli ideatori di questa sorta di Wunderkammer sono lo storico contemporaneista, curatore, collezionista Marco Albeltaro e l’artista Pablo Mesa Capella che intendono realizzare “un’ipotesi espositiva” – si legge in un comunicato stampa – “in cui l’estremo si impadronisce dell’estetica, l’allestimento sia delirante e l’equilibrio frutto del caos; uno spazio alternativo alla musealità così come la si intende oggi: una anti-galleria che prende il sopravvento rivelando contraddizioni, mettendo in scena l’arbitrarietà della bellezza”.

A Marco Albeltaro ho rivolto alcune domande.

Come e quando nasce Dr Fake Cabinet?

Nasce nel dicembre 2019 da un’idea dell’artista Pablo Mesa Capella e mia. Avevamo già ideato Freaks Cabinet un anno prima. Si trattava di un progetto in cui esponevano artisti storici (Aldo Mondino, Ray Smith, ad esempio) dentro al bagno di una galleria molto elegante come GSF Contenporary Art a Torino. DR FAKE nasce invece con la volontà di esporre in modo caotico il caos che l’arte rappresenta oggi esteticamente.

Perché ha quel nome?

Perché tutto è fake e tutto è reale, e proprio l’essere Fake rende oggi molta arte capace di narrare la contemporaneità.

Qual è la proposta che Fake Cabinet intende agire?

Vogliamo esporre opere, per così dire, “toste”, per tematica, tecnica, punto di vista. Nelle nostre mostre ci sono la violenza, il sesso, la guerra, ma tutto declinato con uno sguardo che aiuta a riflettere attraverso una poetica coerente.

Perché qualcuno parla di questo luogo come di uno Spazio Frankenstein?

Per due motivi. Perché ogni mostra è composta di tanti pezzi apparentemente incoerenti fra loro che però si uniscono in un insieme omogeneo (proprio come Frankenstein). E poi perché ci piace pensare che DR FAKE sia il luogo dove gli artisti abbandonano le loro opere perché queste possano vivere autonomamente nel mondo, come fece proprio il dottor Frankenstein col suo mostro.

A quale tipo di collezionista si rivolge Dr Fake Cabinet?

A un collezionista che non ha paura di osare, che vuole andare oltre il format del quadro bello e pronto da appendere sopra il divano. Un collezionista che cerca quindi un’arte che racconti il nostro tempo, con coraggio e senza paure.

Come avviene la selezione degli artisti che invitate?

Lavoriamo con artisti con cui collaboriamo da tempo ma siamo sempre alla ricerca di nuovi contatti. Soprattutto, e questo perché io sono soprattutto collezionista, proponiamo soltanto artisti che abbiamo comprato anche noi. Mi sembra un elemento di fiducia fondamentale nel rapporto fra gallerista e collezionista.

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dr. Fake Cabinet
Via S. Francesco da Paola 12
dr.fake.cabinet@gmail.com
+39 338 - 16 72 986


Perimetri


Ha oer titolo Perimetri una mostra parte della rassegna FotograficaMONTI che dal 2019 propone mostre a cura di Barbara Martusciello.
Storica dell’arte e curatrice. attenta interprete delle arti visive contemporanee, va componendo da anni un valoroso percorso critico che investe (e, spesso, intreccia) più aree espressive: dalla pittura alla performance, dalla scultura alla videoarte.
Con “FotograficaMONTI” coinvolge artisti che si esprimono, esclusivamente o in parte, con il mezzo fotografico.
Il tutto ad AntiGallery, intendendo farne un luogo dedicato al confronto sulla produzione delle immagini analogiche e digitali.
Stavolta è di scena Ferdinando Gatta di cui questo sito già si occupò nel 2014 quando nel Centenario della Grande Guerra, espose opere, raccolte sotto il titolo “Torture”.

Barbara Martusciello così scrive su “Perimetri”.
«L’autore propone una serie di opere minimali, in sostanziale bianco e nero in cui la Fotografia scardina letteralmente il suo perimetro occupando lo spazio fisico della galleria. I soggetti, essenzialmente femminili, di cui sono spesso le mani, certi gesti ad essere protagonisti, sono importanti nell’immagine così come lo è il linguaggio fotografico praticato dall’autore; ma stavolta, proprio questo si fa meticcio e la presunta purezza del suo specifico deroga in funzione di una evidente contaminazione linguistica, oltre che tecnica. Le opere di Ferdinando Gatta, quindi, forzano e oltrepassano la soglia della riquadratura dell’immagine, dialogano tra interno fotografico e lo spazio fuori e reale; si fanno installazioni. Si potenziano grazie al contesto esterno: su una parete più neutra – cemento armato, muro grezzo – e sull’altra più caratterizzata, ogni singolo quadro acquista una sua estetica peculiare e una forza diversa. Si chiarisce subito, di fronte a questa produzione, la sua appartenenza a una sfera simbolica: il significato del perimetro per Ferdinando Gatta è anche quello dell’essere umano, un confine fisico ma soprattutto interiore, che egli si auspica di riuscire ad aprire, a rendere fluido. Una barriera è spesso una convenzione; non sempre protegge, più spesso isola, rinchiude, è un’implosione: sia che si tratti di un perimetro ideologico, architettonico, geografico, del potere, sociale, culturale, sia psicologico.
Una serie fotografica dell’autore, esposta più volte in questi ultimi anni – parte del progetto Torture – raffigura emblematiche, alte inferriate: anche in quel caso il tema, pur diversamente affrontato, evocava proprio una recinzione, appunto, entro la quale gli accadimenti potevano immaginarsi oscuri, prevaricanti, taciuti, alienanti, come segreti indicibili. Ecco, anche in questa nuova mostra si suggerisce la necessità di andare oltre i limiti imposti e/o autoimposti e si attua una concreta dislocazione oltre, aperta, condotta, abbiamo detto, al di là di una soglia – in questo caso della superficie e del riquadro fotografici – che visualizzi in modo plastico quanto sostenuto da Arthur Schopenhauer, ovvero che «Ogni uomo confonde i limiti del suo campo visivo con i confini del mondo.». Come dar torto al filosofo»?

AntiGallery
Piazza degli Zingari 3, Roma
Ferdinando Gatta
Perimetri
a cura di Barbara Martusciello
Info 338.7784993 -
Orari: da lunedì a sabato h 18:30–03:00
domenica: 18:00-02:00.
Fino al 9 febbraio 2020


Hammamet: viaggio al termine dell'indecenza (1)

Siamo strani noi italiani, non ci siamo accorti che abbiamo avuto un politico grande, onesto, incorruttibile, purtroppo vittima di insinuazioni, processato da giudici prevenuti e giornalisti cattivoni che l’hanno fatto passare per un maiale. Per fortuna, però, c’è chi quelle perfidie le nega: il regista Gianni Amelio (anagramma: nego maialini) che ha fatto un film in cui Bettino Craxi – questo il nome di quel politico che alcuni maligni ribattezzarono Bottino Craxi – è mostrato per quello che fu: un martire, animato da grandi sentimenti sociali, puri ideali patriottici, insomma in lui non c’era la volgare voracità che alberga in ogni politicante suino, ma Gianni Amelio (altro anagramma: in ogni maiale) ne mostra l’immeritato strazio che vive lontano dall’amata Italia da esule politico. Sì, non da latitante all’estero – come risultato delle condanne definitive dei tribunali italiani: Eni-Sai e Metro Milanese per 10 anni complessivi, più altre condanne non definitive e anni d’interdizione – ma da “esule politico”. E come tutti gli esuli politici vive in una gran villa con grande piscina protetto da una numerosa scorta armata tunisina e servito da una corte di soccorrevoli servitori. Come accade a tutti gli esuli politici, lo sapete no?
Questa santificazione che avviene (ma tu guarda il caso che combina!) proprio a vent’anni esatti dalla morte di quel nostro connazionale sottrattosi alle patrie galere, viene da lontano. Solo alcuni fra i più significativi passaggi: nel 1999 il volo di Cossiga ad Hammamet; D’Alema nel 2003 che con la sua Fondazione “Italiani Europei” (esistono anche Italiani Africani?... Italiani Asiatici?... informatemi, ve ne prego) volle la “Fondazione Craxi” a discutere di socialismo invitando Stefania Craxi che furoreggiò; la sciura Moratti che vuole intestare vie e piazze a quello lì dicendo commossa: “Garibaldi è stato condannato a morte, Bruno bruciato sul rogo, eppure a loro sono state dedicate vie e piazze”; Fassino, allora segretario Ds, che affermò con fierezza rivoluzionaria: "Craxi fa parte del Pantheon del Pd come Rosselli, Matteotti, Nenni, e Pertini.”; Veltroni: che lo definisce "un innovatore" e per meglio chiarire il proprio profilo psichiatrico aggiunge: “È stato l’uomo politico che meglio ha interpretato il cambiamento della società”.
In questi giorni, si è affannato anche il capo degli italiani morti viventi e, scansando trecce d'aglio, ne ha fa cantato lodi in tv.
Craxi ha concimato – mai verbo fu più adatto – il terreno sociale e culturale sul quale è cresciuto Berlusconi suo sostenitore economico in miliardi e degno allievo in fughe dai processi. Il resto è quello che ci assedia oggi.


Hammamet: viaggio al termine dell’indecenza (2)

Parlare del film? Rassomiglia tanto a quegli audiovisivi distribuiti nelle chiese per glorificare nelle cuffie dei visitatori le glorie celesti dei santi raffigurati su pareti e altari (in questo caso, però, un solo santo),
Tre note su tutte. Il geniale truccatore Andrea Leanza;un bravissimo Favino che per linee vocali, posture e sguardi meglio non potrebbe fare; un pregevolissimo cameo di Renato Carpentieri. Stop.
La sceneggiatura è un pastrocchio. Gli autori del film non vogliono pronunciare il nome di Craxi, nonostante tutto (perfino il titolo) a lui riporta, capisco il pudore, ma qui si esagera cambiando perfino nome alla figlia chiamandola Anita, a volte si oscurano i profili di chi va a incontrarlo (per non farli vergognare?), altre volte, invece, si rende chiaro di chi si tratta. È il caso di Vincenzo Balsamo, interpretato da Giuseppe Cederna, che morì alla vigilia del suo processo e fu sostituito dal deputato Stefano Bottini… certo, ammettiamolo con i nomi quelli del Psi non erano proprio al meglio!
I dialoghi, e anche i monologhi, vabbè, sono al servizio della santificazione.
I passaggi dal formato 4:3 – 16:9 al Tribunale dell’Estetica sono per Amelio un aggravante.
Due piccoli dispiaceri. Il bravissimo Piovani qui è del tutto incolore e la bravissima Claudia Gerini (crasi di carne e spirito fra Ania Pieroni e Patrizia Caselli, amanti del boss?) qui umiliata in una anonima comparsata.
I mezzucci strappalacrime si sprecano, soprattutto nel finale.
Amelio, resosi tanto valente nella santificazione di Craxi, si pone ora come imbattibile concorrente fra i registi essendo l’ideale per nuovi film in cui, ad esempio, possa illustrare le virtù nascoste della banda della Magliana, l’animo benefattore di Licio Gelli, la straziante detenzione di Totò Riina.


Cinema tedesco: i film (!)


La casa editrice Mimesis ha pubblicato una poderosa raccolta di saggi intitolata Cinema tedesco: i film a cura di Leonardo Quaresima Professore Senior all’Università degli Studi di Udine.
In ambito tedesco ha curato, in particolare, l’edizione “revised and expanded” di From Caligari to Hitler di Kracauer (Lindau, 2004); l’edizione italiana di L'uomo visibile di Balász (2008), Gli scritti di Joseph Roth sul cinema (2015).
Altre sue pubblicazioni sono dedicate a Leni Riefenstahl (1985), Edgar Reitz (1988), Walter Ruttmann (1994).

“Cinema tedesco: i film” si avvale di saggi firmati da Paolo Bertetto, Francesco Bono, Lorella Bosco, Sonia Campanini, Simone Costagli, Giulia A. Disanto, Luisella Farinotti, Antioco Floris, Matteo Galli, Massimo Locatelli, Francesco Pitassio, Leonardo Quaresima, Luigi Reitani, Giovanni Spagnoletti, Domenico Spinosa, Anita Trivelli.

Dalla presentazione editoriale.
«Lungo l’arco della sua traiettoria, il cinema tedesco ha avuto a più riprese grandissimo rilievo, esercitando anche un ruolo di punta sul piano internazionale. Il volume ripercorre questa storia attraverso una selezione dei film che ne sono stati protagonisti: dalla stagione del “cinema d’autore” degli anni Dieci, in cui il nuovo mezzo si avvalse della collaborazione dei più noti protagonisti della scena letteraria e teatrale dell’epoca, al periodo weimariano, caratterizzato dalle invenzioni del cinema espressionista e dalla messa a punto di un complesso, raffinato sistema linguistico; dalla fase che accompagna gli anni del nazismo, in cui si fa portavoce delle parole d’ordine del regime, ma anche delle sue, ancor oggi dibattute, contraddizioni, al periodo apparentemente più provinciale dell’immediato dopoguerra, oggetto peraltro di riletture e riconsiderazioni in anni recenti; dall’exploit del Neuer Deutscher Film, che riporta il cinema tedesco a una posizione preminente nel contesto europeo, alla situazione degli ultimi decenni, orientata verso gli standard del racconto internazionale, ma non senza varchi verso modelli autoriali e sintesi tra questi due ambiti».

Segue ora un incontro con Leonardo Quaresima.


Cinema tedesco: i film (2)


A Leonardo Quaresima (in foto) ho rivolto alcune domande

Com’è nato questo libro?

Il volume si rifà a un modello (la storia del cinema di un paese attraverso i suoi film) adottato con successo nei paesi anglosassoni, ma che in Italia non ha avuto fin qui grossa fortuna. La sfida era dunque di rilanciare questa impostazione, in riferimento a un paese, la Germania, che ha giocato, in diverse fasi, un ruolo di primissimo piano nella storia del cinema.

Perché ha voluto nel volume gli autori dei saggi tutti italiani?

L’intento era quello di offrire un punto di vista omogeneo, proporre il meglio della ricerca sul cinema tedesco svolta in Italia. Il volume offre dunque non solo un contributo alla conoscenza del cinema tedesco, ma anche degli interessi dei “germanisti” italiani.

Quale criterio ha portato alla scelta dei film esaminati nel libro?

Non si tratta, genericamente, di una galleria di “capolavori”. Ogni film non sta solo per sé, ma anche per una tendenza, un movimento, una fase di cui è espressione esemplare. Così che il lettore, attraverso i testi sui singoli film, può farsi un’idea articolata dello sviluppo complessivo del cinema in Germania.

Il cinema nazista voluto da Goebbels – come è scritto nella sua Introduzione – aveva una caratteristica distinguendo fra propaganda e “arte di tendenza”.
Che cosa intendeva e quale fu la conseguenza di questo indirizzo
?

Goebbels, ahimé con scaltrezza, voleva evitare che la propaganda esercitata attraverso il cinema agisse in maniera frontale e impositiva. Una percentuale della produzione (alquanto ridotta, un 20-30%) è costituita così da film che svolgono una aperta, esplicita azione di propaganda. Per il resto ampio margine viene lasciato a un cinema "di intrattenimento”, film che non propongono neppure i simboli, i gesti che sono espressione del nuovo regime, che erano entrati a far parte della quotidianità di quegli anni. Si accetta che la fantasia dello spettatore si liberi verso mondi paralleli (alimentati dagli schemi della commedia, del melodramma, dai meccanismi del divismo). Al tempo stesso la scelta viene fatta rientrare (e così torniamo a uno schema totalizzante) nel più ampio progetto di organizzazione del tempo libero varato dal regime nazista.

Il 28 febbraio 1962, un gruppo di giovani cineasti (Herzog, Fassbinder, von Trotta, Reitz, Wenders, Kluge), lanciarono una dichiarazione che verrà definita “Manifesto di Oberhausen” perché in quella città fu concepita. Quale influenza ha avuto quel Manifesto?

A Oberhausen si svolgeva, e si svolge tuttora, un importante festival dedicato al cortometraggio. I registi coinvolti erano tutti vicini a un’area caratterizzata dalla ricerca, dalla sperimentazione, svincolata dal cinema commerciale e di genere. Il manifesto ebbe un fortissimo impatto in quanto momento di rottura con il cinema corrente, il cinema di intrattenimento degli anni ’50, che molti punti di contatto manteneva con quello sviluppatosi negli anni stessi del nazismo. La rottura fu anche generazionale, i nuovi, giovani registi, guardando ad altre esperienze di rinnovamento del cinema europeo, la Nouvelle Vague in primo luogo, ma anche al cinema sperimentale e underground americano, volevano chiudere una volta per tutte con il cinema dei padri - e più in generale con tutta la loro generazione.

Perché, come lei nota in conclusione delle pagine introduttive, nonostante i premi Oscar del 2001 a ‘Nirgendwo in Afrika, Nowhere in Africa’ e nel 2003 a ‘La vita degli altri’ , la cinematografia tedesca “ha perso da tempo, nel suo insieme, un ruolo di punta”?

Il cinema tedesco degli anni ’70 e ’80 era ancorato al modello del cinema d’autore, ma aveva anche trovato il modo di saldare poetica personale e cinema di genere, ricerca e cultura di massa. Questo equilibrio si spezza, paradossalmente, quando il processo di identificazione del Nuovo cinema con il cinema nazionale si compie. A quel punto i modelli ripetitivi, gli schemi narrativi e tematici standardizzati prendono il sopravvento. Nel cinema contemporaneo tedesco non mancano singoli film originali e stimolanti, quella che è entrata in crisi è una capacità, diffusa, di tenere assieme ricerca ed esigenze dello spettacolo internazionale. Il fenomeno non ha investito solo la Germania, ma rispetto all’Italia e alla Francia, il cinema tedesco è quello che sembra aver sofferto di più dei fenomeni di livellamento che hanno investito le singole culture nazionali e su cui si regge la cultura globalizzata. Ma il cinema tedesco, nonostante tutto, è ancora vivo. Numerosi film, ripeto, sono là a testimoniarlo e in queste ultimissime stagioni, nell’ambito delle serie, “Babylon Berlin” ne è stata la riprova più sorprendente.

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A cura di Leonardo Quaresima
Cinema tedesco: i Film
Pagine 496, Euro 34.00
Con corredo d’immagini in b/n
Mimesis


Il sogno dell'immagine (1)

Anche i grandi possono dire delle cospicue castronerie. Ne volete un esempio? E’ di Paul Gauguin: “Sono entrate le macchine, l’arte è uscita... sono lontano dal pensare che la fotografia possa esserci utile”.
Pure il grandissimo Kafka, a proposito d’immagini riprodotte, ne disse una che, forse, oggi più non direbbe: “Se il cinema è una finestra sul mondo, ha le persiane di ferro”.
Con Walter Benjamin, la musica cambia: “Non colui che ignora l'alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia sarà l'analfabeta del futuro”.
Ecco il pensiero di due fotografi diversissimi fra loro.
Helmut Newton: “Il desiderio di scoprire, la voglia di emozionare, il gusto di catturare, tre concetti che riassumono l’arte della fotografia.
Henri Cartier-Bresson: “Le fotografie possono raggiungere l'eternità attraverso il momento”.

Le edizioni Meltemi nella collana Nautilus diretta da Alberto Abruzzese e Giovanni Ragone ha pubblicato un denso saggio di Giovanni Fiorentino.
Titolo: Il sogno dell’immagine Per un’archeologia fotografica dello sguardo. Benjamin, Rauschenberg e Instagram
L’autore è professore ordinario di sociologia dei processi culturali e comunicativi, insegna Teoria e tecnica dei media all’Università della Tuscia, dove è anche direttore del Dipartimento di Scienze umanistiche, della comunicazione e del turismo.
Presidente della Società Italiana per lo Studio della Fotografia a partire dal 2015, scrive per “Il Messaggero”, “Il Mattino”, e studia i media – in particolare il ‘medium’ fotografico – in una prospettiva di storia e teoria culturale.
Ha scritto: “L’Ottocento fatto immagine” (2010), “Il flaneur e lo spettatore” (2014); “Dalla parte del suono” (2019).
Per Meltemi ha pubblicato nel 2004 L'occhio che uccide.

Dalla presentazione editoriale
«La fotografia è un medium, l’estensione sensoria del corpo, una protesi per vedere diversamente, una macchina inconscia che produce rappresentazione automatica.
Oggi, nella sua dimensione digitale, si presenta sempre più come straordinario artificio in grado di ridisegnare la vita quotidiana e gli ambienti di vita. In questo volume, secondo una prospettiva che innesta la ricerca mediologica su quella storico-archeologica, si indaga la natura del medium, la sua storia, la sua trasformazione tecnologica, dal dagherrotipo a Instagram, dal collodio umido a Pinterest, dalle cartes de visite a Facebook».

Segue ora un incontro con Giovanni Fiorentino.


Il sogno dell'immagine (2)

A Giovanni Fiorentino (in foto) ho rivolto alcune domande.

La cosa che più le piacerebbe sentire da un lettore di questo suo libro?

Difficile ipotizzare quale immagine, quale fotografia, quali connessioni e relazioni potranno dischiudere i saggi di questo volume. L’apertura che posso vagamente immaginare è quella di un collegamento tra il passato della fotografia analogica e il presente della fotografia digitale, tra l’evoluzione della società mediale moderna e le esperienze visive della società contemporanea, dove i frammenti fotografici, con le storie messe in gioco, aprano delle finestre sul presente della vita quotidiana. Quando l’ubiquità fotografica, da sempre indisciplinata e sfuggente, permea la nostra vita pubblica e privata, credo sia fondamentale recuperare uno sguardo retroattivo e guardare come le immagini artificiali e ferme abbiano elaborato medialmente l’Ottocento e il Novecento, per ragionare sul presente digitale.

Il volume raccoglie saggi che attraversano un decennio delle sue ricerche.
Perché lo ha scandito in tre parti
?

Per quanto ogni saggio conservi la sua specificità e rappresenti una sorta di frammento fotografico di per sé autonomo in un mosaico articolato e complesso, ho raggruppato i testi in tre parti che mi sembrano particolarmente coerenti tra loro, piccole costellazioni di senso, dove, naturalmente, ogni parte rimanda all’altra e si interpreta alla luce dell’esperienza di ricerca dell’altra.

Può, in sintesi, dire quali sono i profili di quelle parti?

Nella prima parte, il libro esprime un approccio transdisciplinare, con la proposta di una iconologia critica e strumentale. Due punti di riferimento scandiscono la traiettoria nel corso della prima parte, la ricerca mediologica di Walter Benjamin e l’esperienza empirico artistica incarnata da Robert Rauschenberg che ritorneranno con le esemplificazioni della seconda e terza parte.
Nella seconda parte, i saggi propongono i tratti di una genealogia occidentale che, attraversando due secoli, segna la continuità della traiettoria fotografica in un più ampio contesto mediale dalla reflex allo smartphone, dalla lastra al collodio ad Instagram. Tre temi costituiscono il campo di analisi e di confronto: le Esposizioni Universali, la rappresentazione del Papa, l’icona fotografica della città di Napoli.
Infine nella terza parte diventa protagonista la relazione culturale tra fotografia e società italiana della seconda parte del Novecento: dal ritratto glamour dei rotocalchi degli anni Cinquanta alla Polaroid in bianco e nero di Moro, dal sogno dell’industria culturale alla denuncia sociale del dopoguerra, fino ai territori rassicuranti della moda degli anni Ottanta, messi in crisi, abbondantemente, dalla sinergia fotografica Toscani Benetton. La fotografia, con la sua parzialità, in un contesto mediatizzato, diventa punto di snodo fondante per ragionare sull’identità del nostro paese.

Scrive Roland Barthes che "Le immagini fotografiche sono un messaggio senza un codice". Lei condivide quell’affermazione? Se sì, oppure no, perché?

Con la fotografia siamo di fronte a un medium dalla natura difficilmente controllabile, che ha vissuto importanti metamorfosi e per il quale è necessario adoperare un ascolto praticante e senza pregiudizi, poroso rispetto alle possibilità di una immagine che smaterializzandosi, tra analogico e digitale, si sposta da un contesto all’altro, e dove la dimensione diacronica e sociale diventa fondamentale per la ricerca di senso del ricercatore. L’apertura di senso di Roland Barthes è condivisibile nello spazio ampio di relazione con lo sguardo dello spettatore, è “punctum” soggettivo e attivo, immagine aperta che mette in crisi gli schemi dominanti di riferimento.

Baudrillard definisce “estasi da Polaroid” quella voglia tutta nostra contemporanea di possedere l’esperienza e la sua oggettivazione. A suo parere, questo desiderio che assilla
l’uomo d’oggi è, oppure non è, all’origine del nuovo consumo delle immagini
?

Se la fotografia è diventata principalmente, e socialmente, il nostro smartphone, presentandosi come straordinario artificio in grado di permeare, abitare, determinare l’ambiente della nostra vita quotidiana – e le analisi di Baudrillard negli anni Ottanta avevano anticipato in maniera significativa un processo che oggi assume caratteri pervasivi e onnipresenti – credo sia determinante acquisire uno sguardo critico, consapevole, attraverso il filtro della storia culturale dell’immagine fotografica – o come si tende ad affermare oggi, attraverso una lettura archeologica che ci riporta in larga parte a Benjamin come a Foucault –, attingendo genealogicamente alle sedimentazioni di un passato incarnato in tracce materiali e storie distanti da una prospettiva lineare ed ortodossa.
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Giovanni Fiorentino
Il sogno dell’immagine
Pagine 276, Euro 18.00
Meltemi


Archivio Grossi


A volere scriverlo giusto il titolo di questa nota dovrebbe essere Archivio Generale Audiovisivo della Pubblicità Italiana (in foto il logo), ma poiché so quanta fatica e competenza e dedizione ha dedicato all’Archivio il suo fondatore Emmanuel Grossi ho preferito la dizione che vedete.
Per coloro che ancora non lo conoscessero, Grossi è storico della pubblicità televisiva e cinematografica italiana dagli Anni Trenta ad oggi.
Inizia ad occuparsi di tale materia audiovisiva nel 2005 ed in sette anni opera un mastodontico lavoro di recupero e analisi dei materiali originali sparsi per la penisola (pellicole, nastri, documenti cartacei), dando così vita al più grande archivio pubblicitario multimediale d'Italia che già consta di oltre 100.000 filmati, progressivamente digitalizzati e catalogati, corredati da oltre 800 ore di testimonianze inedite ed esclusive audioregistrate, rilasciate da circa 400 artisti e professionisti del settore.

Quell’Archivio da lui guidato quest’anno compie 15 anni.
Nonostante riconoscimenti che Grossi ha ricevuto da artisti e da storici, l’Archivio non ha finora trovato l’accoglienza logistica ed economica necessarie alla sua esistenza.
Non è un mistero, perché è stato lui stesso a dirlo, che quest’anno sarà l’ultimo in cui dedicherà gli sforzi organizzativi e promozionali per tenere in piedi, dignitosamente, quel prezioso giacimento culturale.
Ecco, infatti, come scrive: «Nei mesi a venire cercherò dunque di rimettere in pista a pieno regime l'Archivio, riversando quanto più materiale possibile, passando a recuperare ciò che ancora permane in soffitte cantine magazzini e armadi a muro di società e privati benevolenti, restituendo ciò che era in prestito/conto lavorazione e tornando a trovare gli amici trascurati.
A voi tutti chiedo di venirmi incontro, come avete sempre fatto, radunando i pezzi del vostro passato (recente o remoto che sia), per un salvataggio in extremis di pizze, nastri, cassette, dvd, hard-disk, documenti, agende di lavoro, riviste di settore e macchinari. Roba da archiviare o da copiare/consultare/scansire/riversare e poi restituire.
O anche "solo" (ma, in realtà, è la componente più importante e assolutamente unica del mio Archivio) facendoci una bella chiacchierata.
A chi poi volesse (e fosse in condizione di) sostenere il mio Archivio dandogli una boccata di ossigeno, chiedo gentilmente di pormi in contatto con quanti potrebbero giovarsi del patrimonio da me raccolto conservato e storicizzato, istruendo collaborazioni e progettualità comuni: atenei e istituti parauniversitari (per docenze, incontri e approfondimenti sulla Storia della Pubblicità Audiovisiva), enti e società attive nella produzione editoriale e televisiva (per articoli, libri, trasmissioni...), organizzatori di mostre eventi e retrospettive, industrie che possano avere interesse a riordinare i materiali storici in loro possesso trasformandoli in un Archivio Storico / Museo Industriale o che già ne abbiano uno e intendano potenziarne la sezione audiovisiva (che è sempre, paradossalmente, l'ultima ruota del carro).
Insomma, chi può e vuole, sa come festeggiare operosamente questo anniversario
».

Intelligenti pauca.


Ricordo di Lorenza Mazzetti


Piero Pala da Complus Events segnala – come riportato dal Giornale dello Spettacolo – che mercoledì 15 alle 18 presso la Chiesa Valdese in via Marianna Dionigi 59 a Roma, ci sarà un ricordo della scrittrice e regista Lorenza Mazzetti morta a 92 anni lo scorso 4 gennaio.

È stata sepolta nella tomba di famiglia degli Einstein a Rignano sull'Arno, dove avvenne la tragedia che segnò per sempre la vita dell'artista: i nazisti infatti sterminarono la famiglia adottiva, appunto gli Einstein (di cui faceva parte anche Albert), davanti agli occhi di Lorenza e della sua sorella gemella Paola, risparmiate perché non facevano Einstein di cognome.
Questa commemorazione, durante la quale verranno proiettati anche brani del documentario "Perché sono un genio" dedicato a Lorenza e realizzato da Francesco Frisari e da Steve Della Casa, è stata organizzata in accordo con la comunità ebraica romana.


Il bambino medievale (1)


Il Medio Evo è associato, troppo spesso ad espressioni quali “età oscura” “tenebre medievali” e via via.
Umberto Eco affermava: “Il Medioevo non è quello che molti affrettati manuali scolastici hanno fatto credere, che cinema e tv hanno presentato. Quel modello può in parte applicarsi ai secoli che intercorrono tra la caduta dell’Impero romano e il nuovo millennio, o almeno la rinascita carolingia. I secoli medievali non sono gli Evi bui, ovvero i Dark Ages. Se con questa espressione si intendono secoli di decadenza fisica e culturale agitati da terrori senza fine (…) Se andiamo a riscoprire le radici della cultura europea, assistiamo in questi secoli ‘oscuri’ al sorgere delle lingue che parliamo ancora oggi, all’instaurarsi di una civiltà detta romano-barbarica o romano-germanica, da un lato, e della civiltà bizantina dall’altro, che mutano profondamente le strutture del diritto. In questi secoli giganteggiano figure di grande vigore intellettuale come Boezio, Beda e i maestri della Scuola Palatina di Carlo Magno, quali Alcuino o Rabano Mauro, sino a Giovanni Scoto Eriugena”.

Su quell’epoca sono stati indagati vari periodi. E figure: la donna, il guerriero, il nobile, il servo, il religioso, il mercante, ma quali erano le condizioni in cui viveva il bambino?
Fino a pochi decenni fa la storia dell’infanzia a quel tempo era del tutto trascurata anche in Italia.
Ma don’panic please! Dobbiamo a una grande medievista un luminoso saggio ora riedito, con ampliamenti, dopo il successo della prima edizione, dalla casa editrice Dedalo.
Titolo: Il bambino medievale Educazione ed infanzia nel Medioevo.
Ne è autrice Angela Giallongo ordinaria di Storia dell’educazione presso l’Università di Urbino.
Tra i suoi libri: L'avventura dello sguardo (vincitore del Premio Nazionale di Pedagogia e Didattica di Pescara) e La donna serpente (vincitore del premio Paese delle Donne).

“Il bambino medievale” si avvale di una scrittura lontana da ogni sussiegosità accademica, veloce ma pur attenta a una rigorosa documentazione, illustra ogni angolo della vita dei ragazzi del tempo: da quello scolastico a quello religioso, dalla differenza d’educazione fra maschi e femmine, dalla salute allo sviluppo intellettuale.
Un libro utilissimo in molte case di ragazzi allo studio e di appassionati di storia, un volume che dovrebbe figurare in biblioteche scolastiche.

Dalla presentazione editoriale.
«Come visse il senso dell'infanzia il Medioevo? Quali condotte sociali adottarono gli adulti per allevare, educare ed amare i loro figli? Quali furono i comportamenti maschili e femminili? È proprio vero che la società occidentale non ebbe bisogno, in quei secoli, di idee-guida sui bambini? A questi e ad altri interrogativi risponde il saggio che, attraverso il ricorso a varie testimonianze scritte ed iconografiche, restituisce gli atteggiamenti, le riflessioni, i comportamenti, le emozioni, i sentimenti e le raffigurazioni dei contemporanei a riguardo. Si scopre così che alle intonazioni pessimistiche dell'età di sant' Agostino e di quelle generazioni successive, che trovarono odioso persino il ricordo di essere stati bambini, ne susseguirono altre. A partire dal XIII secolo, in area francese ed italiana, trattatisti, medici, divulgatori scientifici, precettori e romanzieri cominciarono a considerare positiva l'esistenza delle prime età e a raccomandare, con Aldobrandino da Siena (XIII secolo), agli adulti di far crescere i bambini senza “accidentia animae”».

Segue ora un incontro con Angela Giallongo.


Il bambino medievale (2)


Ad Angela Giallongo (in foto) ho rivolto alcune domande.

Quali gli intenti di questo libro?

Principalmente sbrogliare la matassa ingarbugliata, apparentemente incolore, della storia infantile: ritrovare cioè il senso delle esperienze delle prime età, i problemi e i punti di vista adulti che hanno sostenuto i discorsi medievali, le strategie educative programmate, i comportamenti affettivi stabiliti. Insomma rispondere a domande del tipo “Era importante questa fase della vita?” o “Chi era il bambino modello?” o “Esisteva l’infanzia per le donne?”. E questi, ovviamente, sono interrogativi storici.

Qual è la cosa che nella stesura del libro decise assolutamente era da farsi per prima e quale quella per prima assolutamente da evitare?

Innanzi tutto, nulla va dato per scontato. Quindi per pura curiosità intellettuale ho ritenuto impossibile credere che il medioevo non avesse avuto nessun bisogno dell’idea dell’infanzia e che fosse necessario relazionarsi con il Rinascimento e soprattutto con il Romanticismo se si voleva rintracciare l’origine di questa scoperta. Da qui l’interesse, anche se poteva sembrare una scommessa persa in partenza, per una cultura così diversa dalla nostra.
Quindi ho evitato di lasciarmi trascinare nella trappola degli stereotipi che inevitabilmente avrebbe considerato negativi o inferiori alla media delle nostre conoscenze i criteri usati da questo lungo periodo. Alla fine è venuto fuori che il XIII secolo prendeva in grande considerazione l’idea del benessere infantile. Principio che ha influenzato nei secoli successivi la civiltà europea.

Perché la storia dell’infanzia – com’è scritto nella postfazione – era ignota fino a pochi decenni fa? E a chi si deve l’inizio di quella riflessione?

A causa probabilmente del virus dell’adultismo che aveva impedito anche agli storici di smascherare il corso degli eventi attraverso lo studio delle esperienze dei minori.
Solo dal 1960, in Francia, Ph. Ariés ha cominciato a riempire la più grossa lacuna della nostra comprensione del passato. In poco più di mezzo secolo, ricerche incessanti hanno alimentato il grande sviluppo dell’attuale storiografia internazionale.
La storia si è vivacizzata quando non si è lasciata sfuggire la relazione tra diseguaglianze sociali e povertà educativa, quando ha documentato i comportamenti sentimentali degli adulti verso i minori o studiato le cause della mortalità infantile. Ha quindi verificato se era vero che soltanto i secoli XV e XVI avevano cambiato, secondo Ariès, l’atmosfera affettiva nelle relazioni domestiche e nelle comunità educative. Insomma, è stata proprio la storia dell’infanzia medievale, a partire dagli anni Ottanta ad oggi, a smentire la tesi sostenuta da Ariès e ha rimettere in discussione l’idea della povertà o dell’indifferenza culturale del Medioevo.
Come potremmo scrivere la storia europea della vita quotidiana, delle relazioni sociali tra i sessi, delle abitudini sentimentali dei nostri antenati medievali, senza considerare le loro scelte sulle prime età ?

La formazione dei bambini e degli adolescenti avveniva con diversità secondo le classi sociali d’appartenenza?

Per la mentalità del periodo soltanto la morte dava agli uomini la fugace sensazione di sentirsi uguali. La fiducia in questo principio era incrollabile.
Ci credevano i Padri della chiesa, i rappresentanti del clero e degli ordini religiosi, i chierici, gli imperatori, i re, i signori, i principi, i vassalli, i nobili di rango inferiore, e il terzo stato. Ci credeva tutto il popolo — dai ricchi banchieri ai laici ”litterati”, dai membri delle corporazioni ai contadini liberi, ai servi e ai capifamiglia.
La gerarchia sociale era un dono divino. Le diseguaglianze erano naturali e i privilegi, come l’educazione, erano indiscutibili.
Le enciclopedie divulgative del XIII secolo lo spiegavano chiaramente.
I bambini ricchi e poveri, per volontà divina, fisicamente si assomigliavano: entrambi mangiavano, bevevano, dormivano, si svegliavano e imparavano a camminare, perché “avevano anche mani e piedi uguali”. Ma di fatto erano diversi.
Soltanto “i figli dei grandi signori” meritavano le attenzioni necessarie alla loro salute fisica e al loro sviluppo intellettuale. Gli altri essendo di costituzione più forte erano più adatti a dolorose fatiche.
Prendiamo il caso di Aldobrandino da Siena che ha mostrato una sensibilità eccezionale per le esigenze della crescita. Nel suo audace ed influente discorso non ha però speso una parola a favore del figlio partorito della balia. Dopo aver verificato che le fosse nato un maschietto, le impone di ignorarlo e di mettersi a completa disposizione del bambino privilegiato, facendo scomparire nel nulla l’altro , come se non fosse mai venuto al mondo.

Quali differenze educative intercorrevano fra i maschi e le femmine?

Enormi sforzi sono stati fatti prima, durante e dopo il medioevo, per orchestrare nei minimi dettagli le differenze sessuali. Basti pensare ai neonati fasciati e nutriti secondo il sesso di appartenenza. Senza contare il costante fenomeno dell’abbandono delle neonate, la pratica dei matrimoni precoci o i criteri indicati delle fonti documentarie. Per esempio, l’inventario redatto tra l’811 e 826 registrava la fine dell’allattamento a due anni per i maschietti e a un anno per le femminucce.
La cultura latina e quella secolare, nonostante gli stretti rapporti di interdipendenza, hanno assunto punti di vista comuni, anche se talvolta del tutto opposti, di fronte all’educazione delle bambine.
Se tradizionalmente era materia per i dottori della Chiesa più colti (come san Girolamo) e per i fondatori dei monasteri, che dal VI secolo con il sistema dell’oblazione si assicurarono per secoli la formazione spirituale di uomini e donne fin dalla più tenera età, successivamente se ne appropriarono romanzieri e laici “litterati”.
Entrambe le culture avevano familiarizzato con l’idea del superiore status maschile e con la consuetudine di spedire la prole quanto prima fuori dalle case paterne per un efficace training presso estranei. I casi significativi di controtendenza mostrano bambine e bambini di tre anni che nei resoconti letterari delle corti del XII e del XIII secolo apprendono le belle maniere e giocano, passando insieme tutta la giornata.
Le bambine che avrebbero preso troppo sul serio questi modelli, forieri delle prime occasionali sperimentazioni europee di coeducazione, erano destinate ad amare delusioni. Dovevano fare i conti con le aspettative religiose che si erano impegnate a dimostrare la doppia colpa delle figlie di Eva, pianificando con successo un sistema istruttivo rigidamente ‘separatista’ e specifico per i due sessi. Dovevano anche fare i conti con lo slancio irrefrenabile delle teorie scientifiche umorali che garantivano i limiti insuperabili della loro ’intelligenza”.
Non c’è dubbio che le bambine più fortunate, agli albori del XV secolo, si sarebbero sentite sollevate nel sapere che Christine de Pizan desiderava incrementare presso i suoi contemporanei un nuovo progetto collettivo: dare loro la spensieratezza dell’infanzia e il prestigio dell’istruzione.
Per tornare alla realtà, sono passati secoli prima che questa rosea prospettiva sia diventata un valore sociale condiviso.

Nell’educazione dei ragazzi, la religione aveva un uguale ruolo, al di là delle differenze sociali e al di là del sesso, oppure esistevano distinzioni?

Ai tempi instabili dei regni romano-barbarici, in una società profondamente classista, i monasteri sono stati i principali centri di formazione culturale e di socializzazione infantile e giovanile fino al XII. La Regola di San Benedetto (540) accettava i rampolli delle famiglie nobili e plebee, a patto che i parenti li offrissero ufficialmente al servizio divino e alla rigida disciplina ascetica (LIX, cap, “AI figli dei ricchi e dei poveri che vengono offerti”).
Di fatto il reclutamento dei monaci preferiva la prole delle élite.
La pratica dell’oblazione infantile era poi apprezzata dalle grandi famiglie dei proprietari terrieri che in questo modo non frammentavano l’eredità fra i maschi, liberandosi anche del peso delle figlie non designate ai matrimoni di interesse. Erano a rischio, soprattutto quelle brutte, deformi e storpie, che si vedevano assegnata “una dote appena sufficiente per il loro mantenimento”.
Chi era destinato ai lavori agricoli e manuali non veniva preso in considerazione, anche se l’hospitium forniva una sorta di assistenza sociale ai bambini indigenti.
Mentre le “famiglie che non possedevano proprio nulla” essendo dispensate dalla fitta rete di cautele giuridiche di trapassi di fondi, si limitavano ad offrire i loro pargoli di fronte a testimoni.
La storia alto medievale testimonia una nutrita lista di santi, meno di sante, di vescovi, di dottori della chiesa, di chierici e di monaci provenienti dalle classi dirigenti colte o da famiglie nobili e privilegiate. Come Paolo Diacono, Gregorio Magno, Beda il Venerabile e san Benedetto.
Infine, il reclutamento monastico non ha garantito alle bambine né un futuro sacerdotale né tantomeno un sapere teologico. Quando non prevalevano le ragioni economiche, capitava che le piccine venissero offerte per riscattare le anime dei parenti peccatori e quelle delle monache linguacciute, colpevoli di aver rotto la regola d’oro del silenzio .

………………………...

Angela Giallongo
Il bambino medievale
Pagine 320, Euro 24
Con 19 ill. in b/n e 13 a colori
Edizioni Dedalo


Wall Eyes

Da oggi all’Auditorium Parco della Musica di Roma è di scena Wall Eyes Looking at Italy and Africa.
Il titolo Wall Eyes, cioè occhi strabici, fa riferimento a uno sguardo che è strabico poiché rivolto allo stesso tempo all’Italia e all’Africa.
L’esposizione include un gruppo di 10 opere di altrettanti artisti italiani: Rä di Martino, Silvia Giambrone, Andrea Mastrovito, Elena Mazzi, Luigi Presicce, Marta Roberti, Marinella Senatore, Eugenio Tibaldi, Gian Maria Tosatti, Luca Trevisani.

La mostra è a cura di .Ilaria Bernardi.
Segue un estratto dalla sua presentazione.
«La mostra collettiva Wall Eyes. Looking at Italy and Africa si inserisce nel programma di promozione integrata “Italia, Culture, Africa” che il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale si è proposto di realizzare nel 2019 nei paesi dell’Africa sub-sahariana con l’intento di incentivare un dialogo tra Italia e Africa.
Prima di giungere a Roma, presso l’Auditorium Parco della Musica, la mostra si è tenuta a Johannesburg e Cape.
Wall Eyes si propone di individuare e riflettere su tre macro-temi che sembrano caratterizzare non solo l’intero continente africano ma anche l’Italia di oggi.
Il primo macro-tema è il complesso rapporto dell’uomo con una natura.
Il secondo è rappresentato dalla persistenza e salvaguardia in entrambe le realtà di antiche tradizioni, spesso legate all’universo femminile.
Terzo e ultimo macro-tema della mostra è l’opposto desiderio, diffuso in Italia e in Africa, di abbandonare le antiche tradizioni, quali simbolo della propria specifica identità storico-culturale locale, in favore di una globalizzazione omologante che prenda a modello i più ricchi paesi del mondo»”.

Presente nella mostra, c’è Marta Roberti, in foto, già ospite tempo fa di questo sito nella sezione Nadir.
A lei Cosmotaxi ha chiesto di parlare dell’opera che espone.

Il lavoro che presento fa parte di una serie di disegni incisi su carta carbone. È intitolato "Il fondo sale alla superficie (senza cessare di essere fondo)”.
La carta carbone è ricoperta di grafite che raschio e così dei segni la scalfiscono e delle forme emergono: foreste, radici, rami contorti, labirinti inestricabili.
Nel caso di questo disegno si tratta di Mangrovie che ho visto in un viaggio a Zanzibar. Mi sono apparse come una sorta di rizoma all’aria aperta. Queste piante appaiono come boschi labirintici, sono importantissime per quanto riguarda il cambiamento climatico. Le mangrovie, infatti, sono le piante che in assoluto assorbono più anidride carbonica rilasciando più ossigeno di qualsiasi altra pianta del pianeta. Siccome nascono sulle coste dove l’acqua dolce e quella salata si mescolano proteggendo ambiente e popolazione dagli tsunami
.

Wall Eyes
a cura di Ilaria Bernardi
Auditorium Parco della Musica
Via Pietro de Coubertin 30
Infoline: 06 - 80 241 281
Contatti: info@musicaperroma.it
Dal 10 al 29 gennaio 2020


Lennon Not Lenin (1)

Chi è Stefano Scialotti? E perché parlano tanto bene di lui?
Forse perché è regista di documentari relativi all’arte contemporanea, alle biografie di artisti e alla storia. Forse perché ha realizzato filmati nel settore dell' infanzia e in quello di carattere politico e sociale. Forse perché ha curato l’Ideazione e la regia di spot di carattere umanitario e ambientale. Forse perché ha creato istallazioni multimediali.
Forse perché ha fondato l’Associazione Culturale "Dinamolab" che ha svolto negli ultimi anni una funzione di think thank e di laboratorio creativo. Insomma, parecchi perché.
Se poi volete sapere altri perché: CLIC!
Cosmotaxi presenta oggi un suo valoroso libro: Lennon not Lenin.
Prima, però, è necessario un passo indietro cominciando da una campagna audiovisiva chiamata “Dreamtelling for a Better World” lanciata da Scialotti (in foto).
Qui di seguito un estratto dalla scheda di quella lodevole impresa.

«Nel 2017 Dinamolab dà vita ad una particolare campagna contro i muri.
L’idea è di dare una risposta poetica alla presenza di muri attraverso i sogni dei bambini: “Dreamtelling for a Better World” realizzata filmando i sogni raccontati e disegnati dai ragazzi più peccoli, in collaborazione con il sito Kidzdream http://www.kidzdream.net/ dove è possibile visionare il racconto dei sogni infantili raccolti nel mondo fino a oggi. .
Il primo filmato, “The Wall”, descrive l’aiuto fornito ai migranti che, nel tentativo di aggirare il muro, passano per il deserto, dove spesso muoiono di fame e di sete durante la traversata. I volontari di Border Angels ogni giorno lasciano in alcuni punti strategici riserve di acqua e cibo per assicurare ai migranti la sopravvivenza.
Vedi QUI.
Il secondo filmato, “The Friendship Park”, mostra una surreale partita di pallone tra due squadre di bambini che viene giocata, in contemporanea ma separatamente, dalle due parti di quel muro eretto tra i due paesi, tra Tijuana e San Diego, in uno spazio denominato “Friendship Park”. Il parco si chiama così, perché nel 1972 – il muro ancora non esisteva – fu inaugurato da Pat Nixon come segno dell’amicizia tra i due popoli. Poi nel 1990 fu iniziata la costruzione del muro che da allora taglia assurdamente in due proprio il “Parco dell’Amicizia”. Un solo un giorno l’anno, su richiesta di Border Angels, le guardie di frontiera USA permettono l’entrata nella no man’s land prospicente il muro dal lato degli Stati Uniti per lo svolgimento della partita. I bambini, in quell’unico giorno l’anno, si possono toccare infilando nella fitta rete metallica i loro ditini. Forse è per impedire anche questo gesto minimo di amicizia che Mr. Trump vuole sostituire la rete metallica con un solido muro anti-ditini.
Vedi QUI.
Nell’estate 2019 “Dreamtelling for a Better World” inizia una collaborazione con il quotidiano “il Manifesto” e la sua campagna io rompo che lancia una sottoscrizione online per la sopravvivenza del giornale in risposta al taglio del fondo per il pluralismo: i giornali liberi rischiano di scomparire dietro un altro tipo di muro.
Come prima iniziativa in collaborazione con “il Manifesto”, siamo andati per nove giorni nel campo Aida a Betlemme. Creato nel 1950 dalle famiglie palestinesi esiliate, il campo ha visto anno dopo anno crescere i suoi abitanti. Oggi, circondati da ogni parte dal muro costruito dagli israeliani, ci vivono più di 6.000 rifugiati. Un muro che gira intorno alle case e avvolge e stravolge il campo. Gli israeliani hanno fatto le cose in grande, con i suoi 8 metri di altezza il muro supera e raddoppia i 3,6 metri del prototipo di Berlino.

Sempre nel 2019, in concomitanza col trentennale della caduta del Muro di Berlino la campagna ha fatto uso di vari elementi: - una selezione da un archivio di oltre 1000 foto di scritte e di immagini di quel muro da noi realizzate negli anni 80; - i filmati realizzati sul muro Usa-Messico e su quello intorno a Betlemme; - i filmati realizzati sui sogni dei bambini nel mondo; - un libro “Lennon Not Lenin””, editore Fausto Lupetti».

Ecco ora è chiaro perché era necessario riportare queste righe prima di presentare il libro di Stefano Scialotti nella nota che segue.


Lennon not Lenin (2)


Come sanno quei generosi che leggono queste mie pagine web, non mi occupo di poesia né di narrativa. Convinto come sono di quell’affermazione di Giorgio Manganelli: "Basta che un libro sia un 'romanzo' per assumere un connotato losco".
Lennon not Lenin Il Muro di Berlino erano due pur avendo uno svolgimento narrativo è, però, qualcosa virtuosamente diversa dal romanzo tradizionale.
Ecco perché lo trovate su questo sito.
Propone un missaggio di fantascienza, citazionismo colto, documentarismo, elementi proiettati in una sottesa atmosfera ricca di richiami politici.
Il libro si avvale di una doppia postfazione.
La prima è di Antonella Sbrilli che coerente col suo fulgido stile produce un folgorante anagramma: “Il muro di Berlino” = “Urlo mondi liberi”.
La seconda è di Valerio Eletti che ricorda una performance di Scialotti al Piper nel 1982 che profeticamente raffigurava il crollo del muro di Berlino.

Estratto dalla presentazione editoriale.
«”Lennon not Lenin” è una delle scritte sul Muro che dà il titolo al libro.
Un gioco di parole, come forse tutto il resto.
Il Muro di Berlino erano due, uno tangente Ovest ed uno tangente Est.
In mezzo la terra di nessuno dove pascolavano libere grandi mandrie di cavalli di Frisia. Uno pieno di scritte e di turisti, l’altro di finestre sbarrate, fili spinati, limiti e impossibilità di ogni tipo. Perché si parla sempre e solo del Muro di Berlino, quello Ovest?

Il Muro con le sue scritte, CM un’intelligenza artificiale e la Divina Commedia con i suoi versi sono gli elementi che guidano le pagine.
A ogni domanda l’IA risponde solo usando versi presi da Dante.
"O voi ch`avete li `ntelletti sani, / mirate la dottrina che / s’asconde sotto `l velame de li versi strani."
Versi che vanno interpretati in modi differenti da quelli ai quali ci aveva abituato a scuola Natalino Sapegno.
“Che altro è la Divina Commedia – afferma un personaggio – se non il più grande racconto di fantascienza mai scritto?”.
“Lennon Not Lenin” è un libro di fantascienza o un giallo? Certo gioca con la fantascienza, con le parole, con le scritte sul Muro di Berlino, con i versi della Divina Commedia, con il cinema, le guerre fredde e calde, con le rivoluzioni.
Le note, tutte volutamente prese da Wikipedia, costituiscono un livello parallelo di racconto tra approfondimento e ironia.
CM, che non è umano anche se lo vorrebbe, è un’abbreviazione di Continua-Mente: citazione del verso 24 del 14° canto dell’Inferno, nell’Edizione Minuscola Hoepli del 1911, dove l’avverbio continua-mente è scritto con il trattino».

Stefano Scialotti
Lennon not Lenin
Pagine 292, Euro 15.00
Fausto Lupetti Editore


Save me!

È in corso, dal 14 dicembre ’19, presso l’Howtan Space Save me! dell’artista Howtan Re.
Per conoscere la sua intensa bio: CLIC!
L’Howtan Space è un “salotto d’artista” dall’anima sperimentale che coniuga arte, design, architettura e moda; al suo interno: uno spazio espositivo e un Lounge Bar.

Nella foto opere esposte.

L’esposizione è a cura di Barbara Martusciello, una delle voci forti nello scenario delle arti visive che esplorano la nuova espressività.
Ha al suo attivo oltre un centinaio di mostre con scoperte di nuove figure e presentazione di nomi noti, ricordo, infatti, che ha ordinato mostre di Nanni Balestrini, Pablo Echaurren, Nato Frascà, Mario Sasso, Luca Patella, Mario Schifano e tanti altri.

Ecco un estratto dalla sua presentazione in catalogo.
«In questa mostra v’è tensione spirituale ed etica basata su una concettualità che esprime concordia, pacificazione e che intende riportare al centro l’umanità. Alla luce delle agitazioni politiche e religiose che pesano ovunque nel mondo, di una situazione globale sempre più imbarbarita, il gesto di un artista, nato in Persia (Teheran, 1974), educatosi internazionalmente, in Europa e negli Stati Uniti, quindi con una formazione multiculturale, appare ancora più forte. Non è un caso, infatti, che le sculture intorno alle quali si è costruita la mostra, abbiano le fattezze di Cristo, che nella storia d’origine di Howtan Re è un Profeta; l’artista, ormai italiano d’adozione, qui inevitabilmente assorbe quella figura-chiave che è presente ovunque anche e soprattutto nell’arte visiva, di cui il Belpaese è pieno – chiese; mosaici; affreschi; statuaria, dipinti su tavola o tela e in tante diverse rappresentazioni –, e a Roma in special modo; così, inevitabilmente, egli ne fa una bandiera del credere che supera pertinenze di esclusività della Fede per diventare vessillo di condivisione molteplice e di conciliazione: su tutti i piani possibili.
Le sculture di Howtan Re presentano tale Cristo con un volto che sembra unire maschile e femminile, quindi idealizzato; ogni Cristo, diverso seppure con una similitudine di base, ha le sue spine: vere, acuminate, della Gleditsia triacanthos, la spinacristi che nei Vangeli si dice usata durante la Passione di Gesù; sono le sue ‘corone’, dolorose e innalzate nel tempo a simbolo regale superiore, mistico. Questi Cristi sono calati nel nostro tempo, con segni – piercing, orecchini – che contraddistinguono un’appartenenza generazionale più attuale e libertaria (…) Così, 14 Cristi, come le 14 Stazioni della Via Crucis, e una scritta emblematica – Save me! – palesano una richiesta di aiuto ribaltata: stavolta è Cristo a reclamare sostegno all’Uomo per salvaguardare la sua immagine e il suo messaggio che sempre più sembrano inascoltati».

Howtan Re
Save me!
A cura di Barbara Martusciello
Howtan Space
Via dell’Arco de’ Ginnasi 5, Roma
Lu – Ve: 12.00 – 19.00
Info: info@howtanspace.com
Tel: 06 – 69 94 16 73
Fino al 14 febbraio 2020


Canto di un barbone

Fra le ospiti più gradite di questo sito c’è Brunella Antomarini – docente di estetica e filosofia contemporanea alla John Cabot University di Roma – della quale ho cari sui miei scaffali tre suoi valorosi saggi che presentai tempo fa: L'errore del maestro; La preistoria acustica della poesia e Pensare con l'errore

Proprio da lei giorni fa mi è pervenuta la segnalazione di un particolare episodio musicale.
Si tratta di questo: nel 1971 Gavin Bryars (in foto) lavora a un documentario di Alan Powers sugli homeless a New York. Gli capita di registrare la voce di un barbone, che canta ininterrottamente la stessa strofa di Jesus Blood Never Failet Me Yet,
Poi succede una certa cosa che il compositore racconta QUI.
Già, il barbone morì prima che potesse ascoltare il pezzo.
In suo onore, però, al Tate Modern proprio un gruppo di barboni fu invitato a cantare il brano.

CLIC per ascoltare un estratto dalla composizione ricavata da Gavin Bryars.


L'italiano dei cruciverba (1)

“Sotto le parole si nascondono voragini, enigmi, plurali significati, anche per questo mi piace comporre cruciverba per il settimanale “Le Point” .
Così diceva Perec, uno che ha composto opere vertiginose.
Giampaolo Dossena in “Dizionario dei giochi con le parole” (1994) scriveva: “Nella storia letteraria italiana l’enigmistica ha avuto un rilievo particolare. In chiave enigmistica fu letto il poema di Dante Alighieri. Leon Battista Alberti fondò la moderna crittografia come scrittura convenzionale segreta; Leonardo da Vinci elaborò giochi analoghi a quelli che poi si sarebbero chiamati rebus (…) Il consumo di parole incrociate e di altri giochi enigmistici è prevalentemente pratica solitaria: l’enigmistica è un tipico palliativo e incentivo alla solitudine, paragonabile ai più recenti giochi elettronici”.
Diffusione dei cruciverba in Italia è merito primo della “Settimana Enigmistica”, fondata da un ingegnere sardo: Giorgio Sisini. Il primo numero, stampato a Milano, fu pubblicato in 16 pagine il 23 gennaio 1932 al costo di 50 centesimi di lire; sulla copertina era disegnata l'immagine dell'attrice messicana Lupe Vélez tratta dalla rivista austriaca Das Rätsel, ottenuta sagomando le caselle nere del cruciverba.
Quei quadrati bianchi e neri sono anche usciti dalle pagine dei giochi e li troviamo usati nelle poesie verbovisive da Lamberto Pignotti a Michele Perfetti, nella grafica delle copertine di dischi come avviene con “Thick as a Brick” dei Jethro Tull o “Corpo estraneo” dei Nomadi, mentre la Banda Osiris ha fatto un omaggio alla Settimana Enigmistica nel brano “Aguzzate la vista” ispirato a una famosa rubrica di quel periodico.

Ma quali sono le forme della lingua italiana che ricorrono nelle parole crociate?
Risponde a questa domanda un luminoso saggio, ristampato (dopo una prima edizione del 2012) nell’anno appena trascorso dall’editore Carocci intitolato: L’italiano dei cruciverba.
Ne è autrice Francesca Cocco.
Ha conseguito il dottorato in Scienze del linguaggio nel Dipartimento di Filologia, letteratura e linguistica dell’Università degli Studi di Cagliari. Si è occupata di lavori lessicografici e di studi sul linguaggio dell’enigmistica e sul proverbio.
Libro scritto in maniera assolutamente lontana da ogni sussiegosità accademica con pagine ricche d’esemplificazioni enigmistiche che scansionano il procedere del saggio.
Per qualche parola necessariamente ostica, soccorre un glossario a fine volume che spiega l’arcano. Così come nelle ultime pagine si trova un’accurata bibliografia.

Dalla presentazione editoriale
«Come sono costruite le definizioni enigmistiche e in che modo si riferiscono, o alludono, alle parole-soluzione? Quali peculiarità si possono riscontrare nel linguaggio delle parole crociate? Insomma, come parlano i cruciverbisti? Nel rispondere a queste domande, il testo indaga le principali strutture del linguaggio dei cruciverba e i meccanismi che sono alla base del gioco. Arricchito da numerosi esempi, il libro rivela l’esistenza di un codice, tacito e deducibile dalla stessa pratica enigmistica, che permette al solutore di decifrare anche le definizioni meno piane».

Segue ora un incontro con Francesca Cocco.


L'italiano dei cruciverba (2)


A Francesca Cocco (in foto) ho rivolto alcune domande

“L’italiano dei cruciverba”. Come nasce questo libro?

Il libro nasce come sviluppo della mia tesi di laurea, quindi è meglio partire da lì. Era l’estate del 2009, avevo finito gli esami e, tra un tuffo e l’altro (ho la fortuna di abitare in una bella città sul mare), passavo il tempo a risolvere qualche cruciverba e a guardarmi attorno. Fu lì che mi resi conto di quante altre persone, nell’affollata spiaggia del Poetto, passassero il tempo allo stesso modo. Tutti quei bagnanti armati di penna e occhiali rappresentavano un semplice campione del nutrito pubblico di italiani appassionati dei giochi - cruciverba in testa - pubblicati dalla Settimana Enigmistica e dai suoi imitatori. Dovevo assolutamente trovare un argomento per la tesi di laurea e, tornando alla mia rivista, presi a guardare le definizioni di quel numero con interesse linguistico, iniziando a mettere a fuoco le convenzioni tipiche del gioco. Gli appunti presi a margine degli schemi presero forma nel corso dell’estate, quando capii che era possibile tirarne fuori uno studio.

Qual è la cosa che nella stesura del libro hai deciso assolutamente da fare per prima e quale quella per prima assolutamente da evitare?

Da evitare? Con una punta di dispiacere avevo deciso di risparmiare al lettore la genesi del libro. Mi era sembrato un paragrafo superfluo per il tipo di pubblicazione (il libro sarebbe stato accolto nella collana “Le bussole” di Carocci). Però ci tenevo a raccontarla, quindi grazie per la tua domanda precedente, Armando.
Invece la prima cosa da fare è stata raccogliere il maggior numero possibile di uscite della Settimana Enigmistica e analizzare centinaia di giochi per cogliere tutti i diversi meccanismi definitori. Mi sono divertita, ma dopo la laurea per qualche tempo non ho più risolto cruciverba.

Come definisci l’italiano usato nei cruciverba?

Dal punto di vista lessicale si tratta di una lingua molto aperta e questo perché, se si escludono le parolacce e le forme flesse dei verbi (di cui sono ammessi solo l’infinito e il participio passato), pressoché qualunque parola può essere assunta a soluzione in uno schema di parole crociate. Sono accolti forestierismi e talvolta dialettalismi, ma non ci vedrei una scelta stilistica. L’inserimento di queste espressioni consente al cruciverbista di sfruttare sequenze di lettere inesistenti nella nostra lingua, così come la scelta di tecnicismi consente di aumentare il livello di difficoltà della risoluzione. Ogni scelta lessicale è piegata alle esigenze di gioco.

I redattori dei cruciverba soffrono con tutta evidenza di due tabù: il sesso e la morte. Mai, infatti, si trovano quiz che rimandino a quei temi. Perché succede?

Immagino che sia per lo stesso motivo per cui non vi si trovano mai le parolacce: si evitano tutte quelle espressioni che evocano argomenti spinti, scabrosi, o comunque suscettibili di urtare la sensibilità di un pubblico ampio e composito come quello delle principali riviste di enigmistica popolare. È curioso se si pensa che presso alcune popolazioni indonesiane indovinelli vengono proposti, a turno, proprio durante i riti funebri: bisogna considerare che nella nostra cultura l’enigma (antenato dell’enigmistica) si è affrancato di quella componente spirituale che aveva alle sue origini, per andare a rivestire una mera funzione ludica. Se sto giocando e qualcuno mi fa pensare alla morte, mi diverto forse un po’ meno. Però ho scovato un’eccezione: l’allusione al trapasso può generare un sorriso se si scopre che la soluzione non è quella pensata sulle prime: “La fine della vita”, due lettere e non cinque.

Chi è il cruciverbista?

Il cruciverbista è l’”antagonista” del solutore in quella sfida tacita fra i due che sta alla base di ogni gioco: io ti lascio un indizio, tu prova a trovare la soluzione. Antagonista del solutore, ma anche suo complice perché ogni gioco può dirsi ben architettato solo quando la soluzione è raggiungibile ed è alla portata del solutore tipo a cui il gioco è destinato: esistono, infatti, parole crociate facilitate, con alcune lettere già in chiaro nello schema, e poi c’è il “Bartezzaghi”.
Ricordiamo che il cruciverbista compie un percorso speculare rispetto a quello del solutore: le parole dello schema gli sono note perché sono state precedentemente incrociate e, armandosi di sinteticità, deve scovare delle “frasi” più o meno ambigue che vi alludano.
L’autore di cruciverba è come un fotografo che immortala un’entità linguistica secondo un particolare punto di vista. Uno potrà definire il cane in maniera più convenzionale come “Il migliore amico dell’uomo”, un altro cambierà angolazione e cercherà una definizione inedita, per esempio: “E’ escluso per Rino Gaetano”.

In un altro libro (“L’enigma batte dove la lingua vuole”, Esedra Edizioni) compare un tuo saggio sui “paraproverbi”. Che cosa sono e perché t’interessano?

Per “paraproverbi” intendo tutte quelle espressioni realizzate modificando volontariamente (non contano, quindi, gli svarioni e i lapsus da stupidario) un proverbio, perlopiù con intento comico e persuasivo, ma anche per puro gioco. Un campione nella creazione di queste battute è stato Marcello Marchesi, che ne ha coniato ben oltre il centinaio raccolti in 100 Neoproverbi. Alcuni esempi? “Meglio tardona che mai”, “L’occasione fa l’uomo ministro”, “Tra i due litiganti il terzo scommette”.
Queste manipolazioni m’interessano perché la loro osservazione concorre alla definizione del cosiddetto “minimo paremiologico”, cioè l’insieme dei proverbi la cui conoscenza è considerata indispensabile per il dominio di una lingua. Dato che un paraproverbio sortisce il suo effetto comunicativo - sia esso far sorridere, ridere, convincere - solo se il destinatario coglie il proverbio tradizionale sullo sfondo, allora i proverbi oggetto della trasformazione saranno sempre quelli che godono di un certo riconoscimento o, comunque, di una certa popolarità presso i parlanti.

………………………….

Francesca Cocco
L’italiano dei cruciverba
Pagine 96, Euro 12.00
Carocci Editore


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