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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Il fotoromanzo (1)


Un saggio destinato a durare per il taglio con cui affronta il tema prescelto lo ha pubblicato la casa editrice Meltemi.
È intitolato: Il fotoromanzo Metamorfosi delle storie lacrimevoli
L’autrice è Silvana Turzio.
Ha insegnato all’Università Statale di Milano e di Bergamo. Saggista e curatrice, ha lavorato in alcuni programmi televisivi e collaborato con numerosi periodici culturali italiani e stranieri. Per il Patrimonio fotografico del ministero della Cultura francese ha prodotto mostre e cataloghi, tra cui “Corps et décors du crime” (1999) realizzata a partire da fondi archivistici istituzionali. Tra le pubblicazioni: Scala Diva (1993), Lombroso e la fotografia (2005) e Gianni Berengo Gardin (2009).

L’autrice con una scrittura veloce, lontana da ogni angustia accademica, fa al tempo stesso storia e aneddotica, interpretazione linguistica e sociologica di un fenomeno che investì la società italiana e, se pure in misura minore rispetto agli anni ’50, ancora interessa una consistente fascia di lettrici e lettori.
Inoltre, Turzio studia i modi e i perché il fotoromanzo entra negli opposti schieramenti politici – cattolico e comunista – che dapprima lo avevano vivacemente osteggiato e poi lo useranno sia ai fini di comunicazione sociale e sia perché rappresenta un buon affare.
“Il fotoromanzo” è anche un libro che nell’interpretare quel mondo di “storie lacrimevoli” ha suscitato in me (e certamente non sarò solo) plurali pensieri su com’era fatta un tempo tanta parte della società italiana e quale melassa di sentimentalismo le avvelenava il cuore.
Dal fingere di credere in un bel sogno, ci siamo trovati in gran brutti sogni.

Dalla presentazione editoriale
«Che cosa ha significato il fotoromanzo per la cultura italiana? Cosa ne ha determinato l‘impressionante successo nel corso degli anni Cinquanta? Superando l’idea di un prodotto subculturale in cui si narrano solo banali storie d’amore a lieto fine, Silvana Turzio ripercorre l’evoluzione di questo genere, di fama ambivalente, indagandone i rapporti con il cinema e la letteratura “popolare” (dal rosa al giallo), ma non solo. Scopriamo infine che il fotoromanzo è stato un genere anche politico e di controinformazione. Arricchito da un prezioso apparato fotografico, questo viaggio nelle “storie lacrimevoli” è la più completa ricostruzione di un genere, fondamentale per portare uno sguardo più contemporaneo sulla cultura visiva popolare».

Segue ora un incontro con Silvana Turzio.


Il fotoromanzo (2)

A Silvana Turzio (in foto) ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro?

Il libro è nato da una richiesta del direttore della collana, Maurizio Guerri che mi aveva chiesto di partecipare con una relazione su questo tema a un suo seminario. In effetti ci lavoravo da un bel po’. Mi sono interessata al fotoromanzo intorno al 1992-3 circa, quando Bordas, un editore francese, mi aveva proposto di redarre le schede sulla fotografia italiana per il “Dictionnaire mondial de la photographie”. Avevo deciso di dedicarne una al fotoromanzo come espressione particolare della fotografia da stampa italiana. In quell’occasione avevo avuto modo di visitare una redazione - ma non ricordo quale, forse era Grand Hotel - dove mi avevano regalato qualche lucido con le didascalie. Avevo trovato molto interessante il procedimento. Poi negli anni ho via via approfondito: nel 2011 ho curato la parte storica della mostra ‘Ricordami per sempre’ al Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo e organizzato un convegno sul tema - Scene da fotoromanzo - i cui atti non sono mai stati pubblicati. Due brevi saggi sull’argomento sono usciti per Aracne nel 2011 e per Progetto Grafico nel 2013. Nel 2018 ho curato la parte storica della mostra Nessuna Colpa allo Spazio Gerra di Reggio Emilia.

Esiste un confine tra il fumetto e il fotoromanzo?

Certo che sì. Il fumetto utilizzava i disegni che non avevano come scopo il realismo né, se non raramente, una narrazione di tipo sociale. Di rado presentavano un melodramma e facevano ampio ricorso alle onomatopee. Lo avvicinavano invece al fotoromanzo altri aspetti: la gabbia grafica, la suddivisione in riquadri delimitati dai canali, la ricerca di un parlato che imitasse il linguaggio orale sia nella sintassi che nella scelta del vocabolario.

Nei testi dei fotoromanzi degli anni ’50 e ’60 esistono tracce che denuncino influenze della narrativa italiana di quegli anni, oppure si tratta di una forma narratologica a sé stante?
Fosse vera la prima ipotesi, da che cosa traspare? Se, invece, fosse vera la seconda ipotesi quale la sua principale caratteristica
?

Direi che si tratta di forma narratologica a sé stante rispetto alla narrativa italiana tra il ’50 e il ’60 che era molto distante dalle forme del fotoromanzo.
I temi erano spesso ripresi da testi di Giacosa, Manzoni, Maupassant, Flaubert, Zola, Verga. Narrativamente erano questi gli autori che si prestavano di più a una trasposizione fotoromanzesca dal tono melodrammatico. E poi scrivevano sceneggiature scrittrici popolari come Liala - Amalia Odescalschi - o scrittori ‘realisti’ come Damiani, Zavattini…

A proposito della fotografia nei fotoromanzi, nel libro, sottolinei il nome del grande Gabriel Figueroa. Perché?

Nel mondo del fotoromanzo degli anni d’oro, Figueroa è stato un riferimento costante. In Italia era famosissimo. Anche Fabrizio Albertini, fotografo di fotoromanzi molto conosciuto, lo cita in un'intervista come un esempio da seguire. Figueroa è stato il primo ad adottare per il cinema un apparato di luci adatte ad illuminare sia i primi piani che le panoramiche. Il mondo del fotoromanzo ha fatto sue le modalità di illuminazione frontale, laterale e di retroilluminazione.

Sia da parte cattolica sia comunista ci fu una marcata ostilità nei riguardi del fotoromanzo. Che cosa differenziava fra i due schieramenti la stessa avversione?

Per lo più i timori coincidevano, ma i due schieramenti avevano scopi molti diversi: il consenso politico e l’evangelizzazione portavano a modalità differenti di comunicazione. I ‘comunisti’ erano debitori della propaganda sovietica: per loro vi era la necessità di tenere a bada un mondo che implicava sia nuovi stili di vita che la possibile apertura al voto liberale. E poi la propaganda politica era tutta giocata sul sociale.
I cattolici manifestavano la volontà di erigere un muro ideale a difesa di dettami morali - al contempo religiosi e sociali - che riguardavano sia la pratica religiosa che la struttura chiusa della famiglia italiana del ceto medio e popolare. I temi ’sociali’ erano un mezzo per proporre un nuovo tipo di evangelizzazione.

Come spieghi che in un breve volgere di tempo sia i cattolici con “Famiglia cristiana” che pubblica le biografie di S. Agnese e Maria Goretti, sia i comunisti con “Noi donne” che presenta le vite di Gramsci e Di Vittorio, da detrattori che erano divennero loro stessi produttori di fotoromanzi?

Quando ci si rende conto che i fotoromanzi vendono cifre da capogiro - una sola testata arrivava a un milione e mezzo di copie la settimana - è giocoforza prenderne atto e cercare di utilizzarli a proprio vantaggio. Ciechi sì, ma non stupidi…

Nella storia del fotoromanzo e del suo declino di vendite – rispetto agli anni dai ’50 ai ’70 dove registrava, come dicevi poco fa, un milione e mezzo di copie settimanali alle attuali pur rispettabili 250.000 copie vendute – ha un ruolo la televisione?

L’avvento della televisione è importante ma non è il solo: entrano in gioco molti altri fattori connessi con la società del Boom. La spesa pro-capite aumenta e permette quindi di allagare il paniere degli acquisti. Per esempio si può andare al cinema (la frequentazione delle sale in quei due decenni è alta), in vacanza e all’estero. Alla generazione più giovane il benessere permette di studiare nelle grandi città, di viaggiare, di uscire la sera e di fare sport. Cambiano gli stili di vita.

Che cosa significò nel fotoromanzo l’irrompere della satira – "Una flebo per due", "La Cieca di Manhattan" – in pubblicazioni quali “Frigidaire” e “Frizzer”?

Sono pubblicazioni dirompenti, ma limitati all’ambito del pubblico giovane e colto.
Nel mondo del fotoromanzo classico cambia ben poco. Uno degli effetti indicati nella risposta di prima, sta nella chiusura delle pubblicazioni ‘classiche’ alle sperimentazioni formali.
…………………………….

Silvana Turzio
Il fotoromanzo
Con corredo iconografico
Pagine 211, Euro 24.00
Meltemi


Janis

Si avvicina un triste anniversario.
Il 4 0ttobre 1970, era di domenica, il mondo perdeva una grandissima voce, quella di Janis Joplin.
Fu trovata morta nella stanza 105 del Landmark Hotel a Hollywood. Aveva 27 anni.
Overdose di eroina, questo il rapporto dell’autopsia.
Stava lavorando al suo nuovo album; il 5 ottobre avrebbe dovuto registrare le parti vocali di un brano dal titolo che, visto quanto accadde, appare ancora decisamente inquietante: “Buried Alive In The Blues”.
L’oceano riceverà la dispersione delle sue ceneri.
Aveva debuttato nel 1967 nel gruppo “Big Brother & The Olding Company” con cui incise i suoi primi dischi e conobbe il successo.
«Sul palco faccio l'amore con venticinquemila persone, poi torno a casa da sola», così usava dire.

«Una voce» – scrive Claudio Fabretti - «appassionata e straziante, che era insieme ruggine e miele, furore e tenerezza, malinconia blues e fuoco psichedelico. Un canto unico e inimitabile in tutta la storia del rock. Uno stile che diventerà un riferimento preciso per intere generazioni di vocalist, da Patti Smith a PJ Harvey, da Annie Lennox degli Eurythmics a Skin degli Skunk Anansie».
E Riccardo Bertoncelli: «Era una musa inquietante, una strega capace di incantare il pubblico, la sacerdotessa di un rock estremo senza distinzione tra fantasia scenica e realtà».

Un grande ritratto di Janis lo trovate su Kainowska, sito bellissimo che vi consiglio di mettere tra i preferiti.

QUI Cosmotaxi ricorda Janis Joplin con uno dei suoi maggiori successi.


Asiatica Film Festival

A Roma dal 2000 agisce Asiatica Film Festival considerato in Italia e all’estero il più autorevole Festival esistente in Europa fra quelli dedicati al cinema asiatico.
La rassegna, ideata e diretta dal regista Italo Spinelli (in foto), oltre a presentare pellicole inedite in Italia, si avvale d’incontri con autori e produttori asiatici, presentazioni di libri e studi sulle dinamiche culturali e sociali di quei paesi lontani non solo geograficamente perché spesso poco sappiamo delle loro culture.
Anche quest’anno il Festival si svolge al Nuovo Cinema Sacher per le proiezioni, mentre incontri, mostre, dibattiti e brindisi di chiusura (il 10-10, alle 11.30) saranno ospitati dall’adiacente Palazzo WeGil.

CLIC per visionare il programma del Festival.

A Italo Spinelli (in foto) ho rivolto qualche domanda.

Che cosa puoi dire sul cinema indipendente dei paesi asiatici?

Il cinema indipendente, senza voler generalizzare, in molti paesi asiatici deve confrontarsi con la censura, il controllo politico, religioso, sociale e, inoltre, la mancanza di una distribuzione nelle sale cinematografiche del proprio paese. Sono i Festival internazionali, con le loro fondazioni e istituzioni, che spesso sostengono il cinema indipendente, particolarmente l’Europa. Ci sono anche alcune istituzioni dei paesi del Golfo, gli Stati Uniti, con i Fund o la co-produzione, dallo script alla postproduzione, ed è principalmente nei Festival che trova spazio la distribuzione di un certo cinema, molto di frequente con una visione critica del proprio paese o degli effetti drammatici della globalizzazione.

Rapporti fra le altre produzioni e le tv?

Le piattaforme digitali sono tra i maggiori produttori di cinema, la fruizione del prodotto va ben oltre la sala e\o la televisione

Da vent’anni dirigi questo Festival, a te regista che cosa ha dato?

La libertà e il lusso d’innamorarmi di culture non eurocentriche e coltivare questi amori.
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Asiatica Film Festival
Nuovo Cinema Sacher
Largo Ascianghi 1
Palazzo WeGil
Largo Ascianghi 5
Roma
1 – 9 ottobre 2019


Sono innamorato di Pippa Bacca

La tv satellitare Sky ha trasmesso Sono innamorato di Pippa Bacca documentario per la regìa di Simone Manetti sulla tragica fine di quell’artista il cui nome all’anagrafe era Giuseppina Pasqualina Di Marineo ma in arte si firmava Pippa Bacca.
Era nipote di Piero Manzoni, morì nel corso della sua performance “Brides on tour”.
Intendeva dimostrare la bontà della natura umana viaggiando incolume con l’autostop, vestita da sposa, insieme con Silvia Moro, attraverso paesi toccati dalla guerra quali Slovenia, Croazia, Bosnia, Bulgaria… Turchia. Qui, a Istanbul, si separò dalla compagna, con cui prevedeva di rincontrarsi dopo pochi giorni a Beirut.
Mai più si rivedranno. Il 31 marzo 2008 Pippa Bacca fu violentata e strangolata a Gebze dal trentottenne Murat Karataş (questo il nome da consegnare alle cronache dell’infamia) che le aveva dato un passaggio. L’uomo, dichiaratosi colpevole, dapprima fu condannato all’ergastolo, ma vide poi ridotta la sua pena a trent’anni (… cose turche all’italiana) nonostante mai si fosse pentito del delitto commesso.
La generosa artista finì vittima del cervello rettiliano che alberga nella natura umana da lei troppo generosamente immaginata.
A Pippa Bacca è stato dedicato nel 2010 il romanzo “Crociera” di Loris Zecchini edito da Arduino Sacco e, nel 2014, Mauro Covacich, per Bompani, ha dato alle stampe “La sposa” una raccolta di racconti ispirati alla cronaca che si apre con uno che ha per protagonista l’artista uccisa.
Nel 2016, questo sito ha ospitato Giulia Morello che da poco aveva pubblicato Sono innamorata di Pippa Bacca. Ditemi perché! (Castelvecchi, 160 pagine con foto b/n, 14.50 euro) una splendida testimonianza su quella tragica avventura.
QUI un’intervista con l’autrice.
Merita una piccola spiegazione il titolo del documentario e del volume di Giulia Morello.
Una volta, un avvocato, cui lei teneva, le disse “Non sono innamorato di te”. Ed ecco che lei fa confezionare 1500 spille con la scritta, in versione maschile e femminile, “Sono innamorata/o di Pippa Bacca. Chiedimi perché!” – notare il punto esclamativo e non interrogativo – distribuite con la raccomandazione di ostentarle nei luoghi frequentati da quell’avvocato.

I Radiodervish hanno dedicato una loro canzone alla Bacca: Velo di sposa.

CLIC per visitare il sito in Rete dell’artista.


La Terra e il suo satellite

La casa editrice Quodlibet ha pubblicato un originale libro: La Terra e il suo satellite.
L’autore è Matteo Terzaghi.
Nato a Bellinzona nel 1970, ha studiato filosofia, ha scritto “Il merito del linguaggio” (Casagrande, 2006).
Numerose le mostre e pubblicazioni realizzate insieme con il grafico e artista Marco Zürcher, tra cui i libri “The Tower Bridge” e altri racconti fotografici (Periferia, 2009), “Appunti per una grande enciclopedia dello spazio scritta e illustrata senza uscire di casa” (Periferia, 2012) e “Hotel Silesia” (Czytelnia Sztuki, 2013).
Presso Quodlibet ha pubblicato Ufficio proiezioni luminose (2013, Premio svizzero di letteratura)

L’autore, sotto forma di temi in classe, ispirandosi, come ha affermato in alcune interviste, al connazionale Robert Walser (1878 – 1956) e, in particolare, al libro “I temi di Fritz Kocher”, rovista in una soffitta di ricordi fatti sia di personaggi sia di sensazioni, sia di episodi sia di emozioni. Lo fa andando avanti e indietro nelle età della sua vita, dove il suo sguardo ora bambino ora adulto ha lo stesso incanto perché chi osserva è – direbbe Giordano Falzoni – un bambulto.
Quello sguardo fissa avvenimenti e volti che nulla li unisce narrativamente (Antoine Doinel e la pioggia, Francis Ponge e un incendio, Anna Frank e la neve, film imperdibili e dentini da latte), ma pure sono chiamati allo stesso appello: quello della scrittura di Terzaghi.
Una scrittura che per intonazione e stile unifica brividi e prodigi, guarda a creature vegetali e animali quali presenze favolistiche ora vissute in modo irreale e ora in maniera icastica.
Si potrebbe dire che l’autore troppo divaga. Ma non è così. La risposta a quel dubbio è nel libro stesso, quando un certo professor Rossini svela allo scolaro Terzaghi un’occulta legge che ha plurali approdi: «Il segreto del tema in classe, ma questo vale più in generale per la vita, è la divagazione».
Divagazioni che l’autore esprime attraverso la scrittura di più difficile esecuzione: la brevità.
Diceva un tale: “Ti scrivo una lettera perché non ho tempo per una cartolina”.

Per una video intervista QUI partendo dal minuto 13’40”

Dalla presentazione editoriale
«Questo libro parla di infanzia, esperimenti zoologici, musicali e cinematografici; tuffi, invenzioni linguistiche e altri gesti di resistenza; gli astri e la pioggia, la malattia e la salute, gli incendi che tutto annientano e la salvezza; case fantasma, baffi lunari, piante a rotelle, borsaioli da circo e altri prestigiatori; e lo fa sviluppando la forma del tema in classe in alcune delle sue varianti più comuni, dal raccontino autobiografico alla «recensione», dal commento di un testo d’autore o di una notizia di attualità al componimento filosofico.
Inoltre, i lettori incontreranno qui alcuni campioni del tema in classe inteso come genere letterario: un Giacomo Leopardi alle prime armi, Francis Ponge, Antoine Doinel (da Truffaut), Andreas Sam (da Danilo Kiš), Anne Frank e, sullo sfondo, l’ombra di Fritz Kocher, il ragazzino a cui nel 1904 Robert Walser attribuì le prose del suo primo libro, e con queste l’osservazione: «Scrivere significa accalorarsi in silenzio».

Matteo Terzaghi
La Terra e il suo satellite
Pagine 112, Euro 14.00
Quodlibet


Un legame sottile (1)


Sul parto, sul nascere, esistono una grande quantità di detti celebri d’altrettante famose figure. La maggior parte sono trionfali o zuccherosi, ne esistono, però, anche di amari. Da quelle del profeta Geremia (“Sfortunato e maledetto sia il dì in cui nacqui”, né gli andò meglio l’ultimo suo giorno, infatti, morirà lapidato) a Seneca (“Meglio essere mai nati”; e condannato a morte, da stoico qual era, si suicidò), al grande Céline che in in ‘Morte a credito’ scrive: “È il nascere che non ci voleva”.
Sul nascere, ci sono poi riflessioni che accettandone l’ineluttabilità, riflettono sul significato che a quell’atto segue: la vita. Ed ecco, ad esempio, Anton Čechov: “Nei certificati di nascita è scritto dove e quando un uomo viene al mondo, ma non vi è specificato il motivo e lo scopo”.

La casa editrice Baldini Castoldi ha pubblicato un poderoso saggio che riflette più aspetti del nascere: una panoramica storica sul parto, un momento particolare della storia dell’ostetricia, i tratti di un’epoca.
Il tutto con una scrittura sapientemente veloce che appassiona pagina dopo pagina mentre tratta i temi di cui dicevo sopra.
Titolo: Un legame sottile Madame Boivin, Monsieur Tarnier e l’ostetricia.
L’autrice è Paola Cosmacini, medico, specialista in radiologia, storica della medicina. È responsabile della rubrica di Paleoradiologia per la rivista «Il radiologo» e contribuisce all’Enciclopedia delle donne. Oltre a studi di radiologia e storia della medicina, ha sino a oggi pubblicato quattro libri: “Alla ricerca dell’arte necessaria. Storia di un medico, di un papiro e di una mummia” (2009); “Il medico delle mummie. Vita e avventure di Augustus Bozzi Granville” (2013), “Il medico d’oggi è nato in Egitto. Alle origini del pensiero medico moderno” (2015); “Paleoimaging” (2018).

Le due figure i cui nomi appaiono nel sottotitolo, protagonisti del libro, sono Marie-Anne Boivin (Versailles, 9 aprile 1773 – Parigi, 16 maggio 1841) e Stéphane Tarnier (Aiserey, 29 aprile 1828 – Parigi, 23 novembre 1897)
I due non si conobbero, ma sembra quasi che si passino di mano il testimone della scienza dell'ostetricia e della ginecologica.

Dalla presentazione editoriale
«Una storia francese del XIX secolo su un aspetto fondante della vita: il venire al mondo, la nascita, il nascere. Nella provincia rurale e soprattutto a Parigi si viene guidati in angoli talora ancora presenti e da riscoprire. E attraverso le vite e le opere di Marie-Anne Boivin e di Stéphane Tarnier si ricostruisce un passaggio epocale del modo di nascere: da arte secolare sviluppata nella pratica, tutta al femminile, delle levatrici ai primi apporti della nascente specialità ostetrico-ginecologica, subito rigorosamente difesa dal monopolio della scienza medica maschile.
Una indagine storica, che porta l’attenzione sul ruolo delle donne, svolta con la sensibilità di un medico donna. Ma anche un movimentato racconto fatto di ricerche e di rimandi letterari, scritto con l’intento di portare un particolare aspetto della storia della medicina alla ragione, ma anche al cuore di chi legge».

Segue ora un incontro con Paola Cosmacini.


Un legame sottile (2)


A Paola Cosmacini (in foto) ho rivolto alcune domande.


Da storica della medicina, e medico quale lei è, che cosa l’ha tanto interessata da farle scegliere proprio quelle due figure, fra tante della storia, per questo suo recente studio?

A me pare che la storia della ostetricia sia affascinante soprattutto per i diversi ruoli che le donne vi hanno avuto quali protagoniste attive e passive, attrici e spettatrici della “scena del parto”: partoriscono e fanno partorire. Poi dalla fine del Seicento entra “in scena” la figura maschile e nel XIX secolo dalla pratica artigianale delle levatrici si passa alla tecnica degli specialisti: alla levatrice si affianca o, meglio, si contrappone il medico; alla donna, l’uomo. Il sapere ostetrico teorizzato e insegnato dagli uomini inizia così a scivolare via dalle piccole, agili e abili mani delle donne, mentre permette all’uomo di entrare a pieno titolo nella sfera più intima del mondo di una donna.
Nel periodo di cui scrivo Madame Boivin (1773-1841) non solo incarna in tutto e per tutto la levatrice ottocentesca con il suo grande sapere teorico e pratico, ma è anche una donna colta, coinvolta nell’arte medica e che, come sa e può, si pone proprio come medico. Monsieur Tarnier (1828-1897), vissuto poco dopo, è invece la tipica figura del grande medico francese ottocentesco, importante accademico con indubbio potere, senza però quei risvolti negativi che tale ruolo talvolta comporta; anzi, Tarnier è le bon docteur, il medico che pur incarnando il pensiero accademico dominante, si fa carico non solo dei problemi igienico-sanitari, ma anche delle istanze sociali dettate dai vertiginosi mutamenti economici di fine Ottocento. Il tutto declinato sempre con modi genuini e con grande disponibilità d’animo.
Le ho scelte, in definitiva, perché sono due figure integerrime e bellissime.

Si può considerare Marie-Anne Boivin una femminista anche se non risultano sue esplicite affermazioni su questo tema?

Bisogna intendersi e rifuggo da facili anacronismi: il termine "femminismo" fa la sua comparsa in Europa alla fine dell’Ottocento e comunque «nasce dalla presa di coscienza di una disuguaglianza tra i sessi a livello sociale» (C. Saraceno, Femminismo, Enciclopedia delle scienze sociali, 1994). Possiamo dunque parlare di “proto-femminismo”, ma Madame Boivin non fu una Olympe de Gouges nella cui persona indole femminile e pensiero proto-femminista si sposarono perfettamente. Tuttavia, Marie-Anne Boivin con la sua opera, la sua professionalità e i suoi scritti, sostenne sicuramente la ”emancipazione femminile” insistendo, come di fatto fece, sulla uguaglianza di uomini e donne nella attività scientifica. Il suo fu un “proto-femminismo” non urlato, ma vissuto sulla propria pelle con ferma coerenza e intransigente onestà intellettuale. Non solo: negli anni in cui la cura del parto, da sempre esercitata in campo esclusivamente femminile, nel ricercare la propria episteme scientifica «cambia campo», ecco che lei cambia campo e, cogliendo la trasformazione sul nascere, diventa medico. Fu dunque ostetrica, nella doppia veste di antica levatrice e di medico «moderno», cioè in quella di un medico che unisce la pratica clinica all’insegnamento au lit de malade e alla ricerca. Nella Francia post-rivoluzionaria, la Boivin declina al femminile il mestiere medico, allora solo maschile: una idea e una scelta decisamente “proto-femministe”.

Qual è quel “legame sottile” che lei ha individuato fra Boivin e Tarnier?

Direi che il legame che li unisce possa grosso modo poter compendiare la stessa storia del parto. È però un fatto che quel legame resti “sottile” dal momento che un dialogo, seppure ideale, tra questi due medici fu impossibile. E non tanto perché vissero in tempi non coincidenti, ma perché l’operato femminile non fu riconosciuto al pari di quello maschile e, quindi, mentre Madame Boivin si confrontò sempre con il lavoro di colleghe levatrici e di «colleghi» medici, fu impossibile da parte di Tarnier poter prendere in considerazione Marie-Anne Boivin come interlocutrice parigrado e con lei dialogare, seppur virtualmente. Questo anche perché, nonostante Madame Boivin ricette il titolo di dottore honoris causa in medicina dalla Università di Marburgo (la prima e più antica università protestante prussiana, una delle rare ad ammettere le donne), a Parigi non fu mai accolta dalla Académie royale de médecine (la prima donna medico eletta Membre titulaire sarà Thérèse Bertrand-Fontaine solo nel 1969).

Limitandoci all’Occidente qual è il più evidente segno che differenzia la rappresentazione psicosociale del parto dall’epoca ottocentesca (epoca dei personaggi del suo libro) rispetto ad oggi?

La differenza sostanziale tra il nostro presente e un passato a noi anche molto prossimo sta nel fatto che la donna di oggi non contempla la morte come evento possibile, mentre la donna di ieri ne paventava la “naturale” probabilità. Ancora oggi però tra la attuale rappresentazione sociale della maternità e i vissuti reali delle donne permane uno scarto del vissuto (peraltro recentemente bene indagato) ove, se non la tocofobia (il terrore del parto), paure e timori paiono non sporadicamente affiorare e abitare il nostro inconscio proprio come se ce li “portassimo dietro” da un lunghissimo e non lontano passato.

I premi Nobel assegnati finora a maschi per la medicina sono 204, a donne: 12. Oggi in Italia, varie ricerche concordano sostanzialmente che per le donne medico è altamente improbabile il raggiungimento di ruoli apicali sia nella sanità pubblica sia in quella privata.
Quali vie, secondo lei, sono da percorrere per porre riparo a tale situazione
?

Settant’anni fa Simone de Beauvoir scriveva (in Le Deuxième Sexe) che “il dramma della donna consiste nel conflitto tra la rivendicazione fondamentale di ogni soggetto che si pone sempre come essenziale e le esigenze di una situazione che fa di lei un inessenziale”. Questi ultimi settant’anni sono stati per noi donne molto importanti e “la situazione” è decisamente cambiata. Io sono stata una studentessa di medicina tra le tante del mio corso di laurea: e noi ragazze ci sentivamo esattamente alla pari dei nostri compagni. Ma la via da percorrere per arrivare al raggiungimento di ruoli apicali, anche nella sanità, è sempre difficile, è sempre la stessa ed è unica: è quella della costante e quotidiana ricerca della parità. È una via fatta di grandi battaglie, ma anche di piccole quotidiane, e altrettanto faticose, rivendicazioni. Come dice Ruth Bader Ginsburg (seconda, e per un periodo anche unica, giudice donna della Corte Suprema americana, nonché icona vivente del pensiero femminista), “non intendo favorire il mio sesso, ma quello che chiedo è che smettano di calpestarci”.

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Paola Cosmacini
Un legame sottile
Pagine 218, Euro 17.00
Baldini + Castoldi


Frammenti e Connessioni

L’interesse per l’arte cinese contemporanea, cominciata in Italia all’incirca vent’anni anni fa, con occasionali mostre, ha poi visto via via infittirsi impulsi e avvenimenti con esposizioni e pubblicazione di studi critici.
Come in tutti i paesi retti da regimi autoritari, anche in Cina i destini delle arti, specie d’avanguardia, sono segnati dall’occhiuto potere censorio del governo.
Dando un rapido sguardo agli avvenimenti che riguardano questo rapporto, è di grande importanza il discorso di Mao del 1942 a Tan’ An con il quale seguendo il dettato leninista dava la cosiddetta linea agli intellettuali e agli artisti: operare solo al servizio delle masse esaltando l’impresa del Partito.
La censura e la repressione s’inasprirono con la Rivoluzione Culturale (1966) lanciata da Mao che portò alla radicalizzazione della teoria marxista-leninista sull’arte.
Guai seri per chi se ne allontanava
In seguito alla repressione di Piazza Tienanmen (1989) molti artisti lasciarono il paese.
Fra questi, ricordo in una mostra che vidi a Milano allo Spazio Oberdan, uno (di cui purtroppo non ricordo il nome) il quale prima di fare le valige, s’era amputato un dito, lo aveva sotterrato in un giardino ripromettendosi di riportarlo alla luce – un po’ malconcio, immagino – se e quando un giorno avesse fatto ritorno in patria.
Altri restano e inventano uno stile. Nasce il ‘Realismo Cinico’ si ispira ad un atteggiamento molto cinese che viene definito ‘popi’. Lo si può tradurre come punk o underground. Si afferma il ‘Pop politico’ come quelle di Wang Guangy: icone grafiche maoiste dove sono inseriti marchi commerciali, volti di stelle del cinema, cadillac bianche.
Anche intorno alle arti visive accadranno poi nel tempo cose prima impossibili: il rock di Cui Jian, lo scandalistico romanzo “Candy” (oggi proibito in Cina) scritto da Mian Mian una ex tossica di Shangai. Personaggi e ambienti ritratti nelle dure foto del grande fotografo: Rong Rong.
Passano gli anni, la censura si riorganizza ma lascia spazi a ciò che può promuovere l’immagine della Cina quale paese libero e – come il caso della fattoria 798 di Pechino, luogo di fama internazionale – purché produca denaro come, appunto, la 798. S'impone il metodo denghista, tanto vale tenersi questi artisti problematici e guadagnarci su. I Gao Brothers fanno un Mao con le tette? D’accordo, vietato esporre l’opera in pubblico, ma in spazi privati, vedi la 798, si tollera.

Una nuova occasione di conoscere l’arte cinese contemporanea è data dalla stagione espositiva negli spazi di Visionarea, qui è visitabile la rassegna di arte contemporanea internazionale realizzata con il sostegno della Fondazione Cultura e Arte, filiazione della Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, presieduta da Emmanuele F.M. Emanuele.
Il programma 2019-2020 vedrà, infatti, un focus sulla Cina con una mappatura di 5 mostre con 6 artisti.
A curare il primo progetto ci sarà Gianluca Marziani critico e curatore, che introdurrà la nuova stagione di Visionarea, presentando al pubblico italiano il giovane curatore cinese Wang Meng, con cui collaborerà.
Ed ecco alla ribalta LI ZI che presenta a Roma suoi lavori sotto il titolo Frammenti e Connessioni: una video installazione e una serie di opere pittoriche che definiscono la sua poetica al femminile, la sua riflessione sulle identità di genere, il suo legame con l’arte classica italiana che incontra la più antica cultura d’oriente.

Dal comunicato stampa
«L’arte di LI ZI è ricca di tracce e sedimenti. Si sente una coscienza geologica dietro le opere, un humus di elementi eterogenei che si sono amalgamati in una materia attualissima. Ogni soggetto figurativo pulsa in maniera densa e si porta appresso strati di memorie condivise. LI ZI parte idealmente dal Rinascimento, dal nostro spazio filosofico che ha creato un pensiero universale attraverso la pittura e la scultura, i due linguaggi che hanno aperto lo sguardo oltre l’apparenza del mondo.
Li Zi parte dai temi figurativi della statuaria classica e li intreccia con le iconografie dell’arte cinese tradizionale. Dal corpo parte, quindi, la visione di Li Zi, la sua scrittura pittorica e filmica che ricerca un’empatia sensoriale con lo spettatore, dialogando con lo spazio e la luce, con la materia e la forma complessa. Il corpo rimane un centro leonardesco per l’artista, il modo giusto per valorizzare l’anatomia, le azioni, la sessualità, le simbologie, le metafore e i pensieri filosofici dietro ogni essere umano».

Scrive Gianluca Marziani nel catalogo: Vedere giovani artisti cinesi che ascoltano le voci del Rinascimento o della statuaria romana imperiale, significa molto in termini di crescita culturale condivisa. Ritrovare frammenti di archeologie per noi comuni, inserite nelle elaborazioni figurative di un artista come Li Zi, significa far maturare dialoghi senza finzione, usando una lingua comune che varca le limitazioni del parlato. Esiste ormai un esperanto visivo che riguarda le dimensioni dell’antico mediterraneo, un’estetica grammaticale che avvicina italiani e cinesi in un abbraccio filosofico e morale….

Commenta Emmanuele Emanuele, Presidente della Fondazione Terzo Pilastro: Sono davvero molto lieto che il programma di Visionarea di questa stagione sia interamente dedicato alla ricerca artistica contemporanea cinese, sposando in tal modo quella che è la mia filosofia da sempre: l’assoluta necessità di aprirci ai Paesi emergenti, di esplorare attraverso i loro codici espressivi – spesso, come in questo caso, positivamente influenzati dall’arte classica occidentale, ma rielaborati secondo una poetica del tutto originale – quelle che sono le caratteristiche peculiari dei nuovi protagonisti (Cina, India e Medio Oriente su tutti) della storia e della geopolitica attuali. Da oggi e per un anno intero “Visionarea” diventa la prima galleria d’arte dedicata alla “nuova Via della Seta”: una finestra sull’arte cinese di nuova generazione, quella finora sconosciuta in Italia ed in Europa, che si propone di inaugurare attraverso l’arte e la cultura un nuovo dialogo, parallelo a quello rispondente ad istanze di tipo economico o diplomatico, ma non per questo meno efficace, in quanto sicuramente democratico e di portata universale.

Ufficio Stampa HF 4, Marta Volterra: marta.volterra@hf4.it ; 340.96 900 12

Frammenti e Connessioni
a cura di Gianluca Marziani e Wang Meng
Visionaria Art Space
Via della Conciliazione 4, Roma
22 settembre / 27 ottobre 2019


Diari di Cineclub


Tra le pubblicazioni dedicate al cinema, merita attenzione Diari di Cineclub ben diretta da Angelo Tantaro.
Si legge nella presentazione editoriale: «Diari di Cineclub è un periodico digitale di cultura e informazione cinematografica nato nel 2012. Esce il primo di ogni mese ad eccezione del mese di agosto. Non contiene pubblicità e non richiede finanziamenti.
È distribuito gratuitamente online con file in formato PDF in dimensioni idonee anche per la stampa a colori. Tutti i collaboratori sono volontari provenienti dal mondo accademico, e dai circoli del cinema. Diari di Cineclub è distribuito anche tramite una rete di edicole virtuali: circa 100 siti la cui lista è continuamente aggiornata, che divulgano il periodico».

La redazione è a Roma e si avvale di un comitato di consulenza e rappresentanza composto da Cecilia Mangini, Giulia Zoppi, Luciana Castellina, Enzo Natta, Citto Maselli, Marco Asunis.
Il canale Youtube del webmag è a cura di Nicola De Carlo.

Basta mandare una mail a diaridicineclub@gmail.com per richiedere l’abbonamento gratuito on line.


Vite interconnesse (2)


A Michela Drusian (in foto) ho rivolto alcune domande

Come nasce questo libro?

Il libro nasce da una ricerca, finanziata dall’università IUSVE – Istituto Universitario Salesiano di Venezia-, che ha indagato le implicazioni dell’utilizzo delle mobile app, ovvero delle applicazioni disponibili attraverso lo smartphone, in relazione a differenti ambiti dell’esperienza dei giovani italiani, in particolare rispetto a: i processi di costruzione dell’identità e di articolazione delle relazioni sociali, l’aspetto infrastrutturale della comunicazione in mobilità, gli usi e i significati di musica e fotografia attraverso lo smartphone, le pratiche di consumo digitali e infine le riflessioni legate alla dipendenza.
Le ragioni che hanno motivato questa ricerca vertono sulla necessità di indagare e interpretare come cambia la relazione tra giovani e media attraverso le applicazioni utilizzabili in mobilità. Attraverso un approccio socio-antropologico, abbiamo intervistato 26 ragazze e ragazzi, di età compresa tra i 18 e i 30 anni, residenti in varie città del Veneto. Grazie ai loro racconti abbiamo potuto tracciare un quadro delle loro esperienze con questa tecnologia che rende le nostre vite sempre più interconnesse. Nonostante si parli molto di giovani e nuove tecnologie e dei tanti vari aspetti che caratterizzano questa relazione, il nostro libro si concentra su una dimensione ancora poco esplorata, che è appunto quella delle app utilizzate attraverso lo smartphone.

In quale modo lo smartphone ha riformulato fra noi la percezione dello spazio e del tempo?

La nostra ricerca ribadisce la centralità dell’esperienza quotidiana dello smartphone, una tecnologia da cui non si può prescindere, che è diventata parte essenziale dei nostri vissuti. Una parte importante di questa esperienza è molto spesso paradossale perché lo smartphone ci avvicina, ma ci allontana allo stesso tempo, ci assorbe ma ci facilita anche in alcuni compiti, ci permette di personalizzare modi e tempi ma ci obbliga a fidarci. Per esempio, alcuni ragazze e ragazzi usano lo smartphone come un magazzino virtuale in cui stoccare le informazioni di cui potrebbero aver bisogno o da condividere con altri; un ragazzo lo ha definito ‘telefono post-it’: lo strumento diventa un supporto alla memoria su cui si fa affidamento, almeno finché ci sono batteria e connessione. Però questo magazzino alle volte diventa ingestibile perché troppo grande, oppure viene perso in seguito a qualche inconveniente tecnico o ad altre sventure. In definitiva, spazio, tempo, memoria, relazioni attraverso lo smartphone evidenziano tutta la loro potenziale ambivalenza, e di questo abbiamo ancora molto da comprendere.

Quale la differenza – se esiste – tra l’uso dello smartphone che ne fa il cosiddetto nativo digitale e quello praticato da appartenenti a precedenti generazioni definiti immigrati digitali?

Uno dei presupposti su cui si basa la nostra ricerca è il definitivo superamento dell’etichetta di nativi digitali, che è stata abbandonata dagli studi sociali, mentre rimane ancora visibile nelle cronache e nella comunicazione divulgativa. Ragionare in termini di “nativi digitali” ha poco senso, almeno in sociologia, perché appiattisce gli usi e i significati delle tecnologie solo sull’appartenenza a una generazione, mentre sappiamo che questi cambiano tra persone della stessa età così come tra persone di età diverse. Le differenze negli usi delle tecnologie sono spesso riconducibili ad altre caratteristiche sociali e culturali che sono più trasversali, come lo status, il genere, la scolarità. Nei racconti dei nostri intervistati, per esempio, emergono esperienze che riflettono il fatto che siano studenti piuttosto che lavoratori, e che per questo li differenziano.

Questo sito si occupa prevalentemente delle arti contemporanee, perciò ti chiedo come si configura alla luce delle nuove tecnologie il rapporto dei giovani con la musica?

Uno degli aspetti più interessanti, e per certi versi controversi, è il ruolo delle piattaforme di streaming nella fruizione musicale. Lo smartphone offre una nuova modalità di accesso al consumo di contenuti sonori, che presenta opportunità ma anche vincoli e limitazioni. Se le opportunità sono abbastanza evidenti, e risiedono soprattutto nella vastità degli archivi delle piattaforme, sono invece gli aspetti legati alle scelte operate dagli algoritmi di selezione musicale a far riflettere. I ragazzi e le ragazze da noi intervistati molto spesso basano i loro ascolti sulle proposte provenienti dalle piattaforme, che quindi li profilano in base agli ascolti, e di conseguenza si affidano agli algoritmi che decidono cosa far ascoltare e cosa no. Per alcuni si tratta di una funzione utile e interessante, perché sembra che effettivamente incontri i propri gusti musicali, tuttavia è necessario riflettere sul potere che le piattaforme hanno di orientare non solo la fruizione ma anche la formazione del gusto musicale. Molti dei nostri intervistati ci hanno poi raccontato che preferiscono l’uso gratuito di Spotify, per esempio, cosa che va a limitare fortemente la possibilità di scelta. Tuttavia è anche da rilevare come i giovani tendano a ovviare a questi vincoli usufruendo di una molteplicità di piattaforme musicali.

Molti lamentano una dipendenza dei più giovani – quasi avvicinandola al consumo di droghe – da smartphone, app e altre odierne tecnologie di comunicazioni.
Ma è proprio così
?

Il capitolo conclusivo del libro, scritto da Marco Scarcelli, si concentra proprio su questo interrogativo e quello che emerge è un quadro molto più complesso di quanto il senso comune non ci porti a pensare. Il concetto di dipendenza è relativamente recente ma ha acquisito una certa rilevanza soprattutto nei discorsi legati alle tecnologie, che sono state avvicinate ad altri tipi di abusi, come quello da sostanze. I ragazzi e le ragazze intervistati si sono dimostrati molto attenti e sensibili alla tematica, ma in modi molto spesso stereotipati, legati cioè al senso comune sulla dipendenza da smartphone. Alcuni utilizzano ‘pratiche di privazione’, cioè si disciplinano rispetto a un uso eccessivo e a una presenza invadente dello smartphone nella loro vita quotidiana attraverso regole autoimposte, come per esempio lascare il cellulare in un luogo poco visibile in modo da non essere attirati dalle notifiche. Altri riflettono, quasi in modo apocalittico, sul fatto che il cellulare rappresenti una rottura con un passato in cui le persone si parlavano più facilmente, mentre oggi sono distratte dal telefono. Qui c’è una grossa ambivalenza, perché da un lato il cellulare serve alla propria socialità, dall’altro la mette in pericolo. Per questo e per altro, il tema è molto complesso e non può essere ridotto a una generica preoccupazione sulla dipendenza che rischia di far perdere di vista tutti gli usi e i significati che oggi lo smartphone ha nella vita interconnessa dei giovani.

Diceva John Cage: “Molti hanno paura del nuovo. A me spaventa il vecchio”.
Perché in tanti, perfino non della terza età, arretrano di fronte alle nuove tecnologie? Da dove viene quel panico
?

Il panico morale che aleggia attorno allo smartphone e alle nuove tecnologie in generale non è di certo una novità: in passato è stato il turno della televisione o del telefono e prima ancora quello del fumetto e del cinema. Quando arriva una tecnologia che introduce qualche modificazione in uno degli aspetti primari della vita quotidiana degli individui, e cioè il comunicare, accade che si attivino paure e allarmismi che tentano di annullare o rallentare questi cambiamenti. Del resto, l’intento è quello di proteggere quello che si conosce e che ha funzionato fino a quel momento e quindi c’è la tendenza a disconoscere i vantaggi rispetto alle presunte perdite di ciò che si conosce bene. Ma non solo, la tecnologia è spesso un utile capro espiatorio a cui è facile dare la colpa delle nefandezze che ci circondano, piuttosto che cercarne le spiegazioni nei fatti personali, sociali, culturali che invece possono influire. Bisogna sempre ricordare che ‘correlation is not causation’ e che anche laddove sembra evidente una responsabilità specifica dello smartphone in qualche dinamica più o meno infausta, il cellulare non è mai l’unico elemento in gioco, ma solo uno tra i tanti.
…………………………..

Michela Drusian
Paolo Magaudda
Cosimo Marco Scarcelli
Vite interconnesse
Pagine 150, Euro 18.00
Meltemi


Marta Roberti 1 e 2

C’è un crescente interesse intorno al lavoro di Marta Roberti, in foto, che vede infittirsi sia mostre sia testimonianze di critici sulla stampa specializzata e sul web.
Anche dall’estero arrivano riconoscimenti, quali ad esempio inviti a seminari tenuti a Johannesburg, residenze a Taipei e Shangai di cui troviamo tracce in quest'intervista dove è delineato anche un suo ritratto stilistico.
QUI uno sguardo al suo portfolio.


La troviamo ora, il 21 settembre, alla terza edizione di “Festa Franca” a Cannara, vicino a Perugia, nel sontuoso spazio ideato dagli artisti Adelaide Cioni e Fabio Giorgi Alberti,.
L’edizione 2019 di “Festa Franca” ha per titolo Forare il tubo, è curata da Cecilia Casorati e Vasco Forconi.
Che cosa vorrà dire quel titolo della mostra?
Ecco un estratto dal comunicato stampa: «Forare il tubo è la metafora di un allontanamento dal consueto, di uno spostamento laterale.
Come rileva Deleuze, fare un buco nel tubo non è un atto di sabotaggio ma un gesto cosciente che permette di far fluire il mondo in altro modo, rendendo discontinuo e imprevisto il suo divenire. È un atto semplice, che non procede nella direzione del senso e tuttavia rivela l’inefficace staticità dei codici interpretativi».

Alla mostra (realizzata con la collaborazione di un gruppo di studenti del Biennio curatoriale dell’Accademia di Belle Arti di Roma che ha promosso e patrocinato l’iniziativa) partecipano Riccardo Baruzzi, Lucia Bricco, Simone Cametti, Antonio Della Guardia, Giuseppe De Mattia, Diana Legel, Matteo Rovesciato, Vincenzo Sparagna, il collettivo Scomodo.
Marta Roberti, presenta “Natural Assemblage”, 2019.
Dal catalogo sul suo lavoro: “I fogli che compongono la serie multiforme degli assemblaggi costituiscono il doppio residual dei lavori realizzati dall’artista riportando su carta copiativa fotografie di elementi vegetali. Centinaia di disegni di foglie accumulati nel corso di diversi anni, vengono risignificati all’interno di grandi collage-assemblaggi che si dispiegano nello spazio espositivo. I disegni delle mangrovie realizzati con ossessiva dedizione diventano lo schermo su cui l’artista, con segno più veloce e autografico, traccia il suo autoritratto presentandosi come un soggetto teso a indagare l’eterno rapport con il mondo naturale”.

Per info e appuntamenti: +39 328 168 8775; +39 340 383 7989

Ufficio stampa: UC STUDIO - Roberta Pucci
robertapucci@gmail.com - mob 340 817 40 90

Forare il tubo
Opening: sabato 21 settembre, 15:00–20:00
Via Intorno Fosso 41
Cannara (Pg)


Troviamo ancora Marta Roberti all’Office Project Room uno spazio fondato a Milano da Francesco Macchi.
“Paradiso” è il titolo della mostra.
Estratto dal comunicato stampa: “È un’esposizione collettiva che vede Ettore Tripodi (Milano, 1985) Liza Ambrossio (Mexico City,1993) e Marta Roberti (Brescia, 1977) dialogare attorno al tema del paradiso. Gli autori affrontano e declinano il soggetto secondo attitudini narrative differenti. L’approccio al tema da parte degli artisti coinvolti è molto distante, diverse pratiche espressive e diversi medium (disegno, pittura, scultura, fotografia) restituiscono la complessità di un soggetto che attraversa la storia dell’umanità in un allestimento eterogeneo, dove le singole individualità si rafforzano nel confronto”.
Circa Marta Roberti si legge: “Il lavoro proposto (parte di una serie di quattordici opere aventi per soggetto lo stesso tema), guarda all’assetto storico e antropologico del medesimo soggetto, riproducendo, con un segno forte e caratterizzante in tutta la sua pratica, le mappe del mondo del commentario all'Apocalisse del monaco e teologo spagnolo Beato di Liebana, scritte nell'ottavo secolo e trascritte e illustrate tra il decimo e l'undicesimo secolo”.

Office Proyect Room
Paradiso
Ettore Tripodi, Liza Ambrossio, Marta Roberti
info@officeprojectroom.com
Via Altaguardia 11, Milano
Dal 24 settembre al 5 dicembre ‘19


Cosa Nostra spiegata ai ragazzi


Da pochi giorni si è aperto il nuovo anno scolastico e mi piace inviare un consiglio agli insegnanti che svolgono (mal retribuiti e con tante altre difficoltà) l’impegnativo compito di produrre cultura e formare coscienze.
Probabilmente alcuni di loro ci avranno già pensato, ma a chi fosse sfuggita una pubblicazione che indico qui di seguito, segnalo Cosa Nostra spiegata ai ragazzi.
L’autore è un famoso magistrato: Paolo Borsellino (Palermo, 19 gennaio 1940 – Palermo, 19 luglio 1992).
“Fu assassinato” – come ricorda Wikipedia – “da Cosa Nostra e con il consenso di parti deviate dello Stato italiano. Nella strage di via D'Amelio, con lui morirono i cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina”.

Nel 1989 Paolo Borsellino parlò di mafia in un liceo a Bassano del Grappa.
A dimostrazione di quanta importanza abbia la scuola nel combattere la mafia, diceva Gesualdo Bufalino che per sconfiggerla era necessario un esercito di maestri elementari.
Quella lezione, grazie a Paper First, è diventata un libro arricchito da documenti storici e dalla prefazione di Salvatore Borsellino fratello del giudice.
In uno dei momenti in quell’aula scolastica, quel giorno, il giudice parlò anche dei limiti imposti alla magistratura, un possibile freno dovuto agli stretti legami tra mafia e politica.
Una lezione, letta 30 dopo, quanto mai attuale.
In questo video una parte di quell’intervento.

Anche in altre occasioni Borsellino si era soffermato sul ruolo della Magistratura nella lotta alla mafia sottolineando apertamente le difficoltà che venivano frapposte all’attività giudiziaria e certe sorprenderti disfunzioni. Qui dalla sua voce alcune considerazioni, fatte l’otto maggio 1984, concluse con una caustica battuta.

Concludo questa nota presentando un'intervista a Marco Lillo su “Cosa Nostra spiegata ai ragazzi”.

Paolo Borsellino
Cosa Nostra spiegata ai ragazzi
Prefazione di Salvatore Borsellino
Pagine 92, Euro 8.00
Kindle Euro 4.99
PaperFirst


Questione di vita e di morte


Mentre si approssima la data in cui la Consulta dovrà decidere (a meno del solito rinvio di stampo italico) sul fine vita, dobbiamo alla casa editrice Einaudi la pubblicazione di un piccolo libro quanto a dimensioni, ma grande per il contenuto e per il modo in cui è esposto: Questione di vita e di morte.
L’autore è una delle più forti voci laiche esistenti: il filosofo Paolo Flores d’Arcais.
Nato a Cervignano del Friuli l’11 luglio del 1944, è stato ricercatore e docente di filosofia morale presso l'Università di Roma “La Sapienza” fino al 2009.
Iscritto al Partito Comunista Italiano nel 1963, ne viene espulso nel 1967 per aver ricordato i crimini di Togliatti in Spagna e aver appoggiato i dissidenti polacchi Kuron e Modzelewski. Protagonista del “Sessantotto” romano, pubblica nel 1976 la rivista “Il Leviatano”. Nel 1977 è l’organizzatore del convegno di apertura della Biennale di Venezia dedicata al Dissenso. Con Giorgio Ruffolo fonda nel marzo del 1986 la rivista “Micromega”, di cui è direttore.
Nel 2002 è tra i protagonisti del movimento dei girotondi. Editorialista di “Il Fatto Quotidiano” e collaboratore di “El Pais”.

L’argomento trattato in “Questioni di vita e di morte” è il diritto all’eutanasia.
La nostra vita ci appartiene, fine vita compreso. Specialmente quando il male che ha colpito il corpo lascia l’ammalato in preda a sofferenze, spesso atroci, senza che vi siano speranze di guarigione. Abbiamo diritto a decidere noi, liberamente. Perché mai dovremmo sottometterci a un Dio, una Chiesa, un potere politico?

QUI Flores D’Arcais in un video di presentazione del volume alla Festa Scienza e Filosofia il 12 aprile 2019

Dalla presentazione editoriale

«A chi appartiene la nostra vita? Detto altrimenti: sul nostro fine vita è preferibile che decidiamo noi o un estraneo che non conosciamo, scelto dal caso o dai rapporti di forza, che potrebbe essere anche un nostro nemico? Questo è l’unico interrogativo intellettualmente onesto, logicamente e moralmente onesto, con cui affrontare il tema del fine vita, del suicidio assistito, dell’eutanasia. Ed è l’interrogativo che Paolo Flores d’Arcais si pone in questo pamphlet, lucido, serrato e implacabile nel carattere stringente delle sue argomentazioni. La risposta ovvia è che preferiamo decidere noi. Perché mai dovremmo sottometterci a un altro, alla Chiesa, a una maggioranza politica? Tutti e ciascuno, senza eccezioni, preferiremmo essere noi a scegliere. Ad essere logicamente e moralmente onesti, perciò la questione del fine vita non costituisce un problema, non dovrebbe, almeno. Ha in sé la sua risposta: nessuno può imporre la propria volontà sul fine vita di un altro».

Paolo Flores d’Arcais
Questione di vita e di morte
Pagine 136, Euro 12.00
Einaudi


L'autunno del Medioevo (1)


La Galleria Nazionale dell'Umbria (in foto l’ingresso), diretta da Marco Pierini , sta conoscendo meritati consensi grazie a mostre eccellenti.
Nel maggio scorso, ad esempio, questo sito visitò Bolle di sapone: una straordinaria quanto affascinante esplorazione fra arte e scienza.
Da sabato 21 nelle sale di Palazzo dei Priori sarà aperta al pubblico una ghiotta esposizione fra storia e società: L’Autunno del Medioevo in Umbria Cofani nuziali in gesso dorato e una bottega perugina dimenticata a cura di Andrea De Marchi e Matteo Mazzalupi.
Quei cassoni raccontano momenti della vita privata delle nobili famiglie che li avevano commissionati, documentando uno spaccato della cultura figurativa perugina, e non solo, del XV secolo.
Troppo spesso il Medioevo è stato sbrigativamente definito come un’età interamente buia.
Umberto Eco presentando nel 2014 la serie “Il Medioevo” pubblicata in 14 volumi dall’Espresso, affermava: “È opportuno precisare che il Medioevo non è quello che molti affrettati manuali scolastici hanno fatto credere, che cinema e tv hanno presentato (…) È utile chiederci che cosa il Medioevo ci ha lasciato che sia attuale perfino oggi e che cosa esso è stato qualcosa di radicalmente diverso dai tempi in cui viviamo”.
La mostra permette di lanciare un inconsueto sguardo su di un angolo di quella lontana società della quale, per dirne una, si è in disaccordo addirittura sulle date d’inizio e fine. Rivolsi perciò alla medievista Maria Serena Mazzi proprio una domanda su quella intrigante curiosità storica , la sentirete illustrare anche la presenza femminile in quei secoli.

Estratto dal comunicato stampa.
«L’élite cittadina si rispecchiò nei cofani nuziali perché in quei manufatti esplodeva la dimensione festosa dei cortei musicanti e dei carri nuziali, o si mettevano in scena episodi memorabili di virtù femminili. Solo pochi esemplari sono giunti fino ai giorni nostri: l’esposizione diviene, così, l’occasione per radunare e mettere a confronto i pezzi, facendo conoscere un aspetto inedito, intensamente profano, dell’arredo domestico di lusso nel pieno Quattrocento. I cassoni nuziali, antenati della moderna cassapanca, costruiti sempre in coppia, erano destinati a contenere il corredo delle spose di famiglie nobili e borghesi. Al momento dell’insediamento della donna nella casa del marito, o “domumductio”, erano trasportati nella camera matrimoniale e lì conservati. Il coperchio, i fianchi e il retro erano raramente decorati, mentre gli ornamenti si concentravano sulla faccia anteriore: in pittura, in intaglio, in gesso dorato (talvolta chiamato ‘pastiglia’) o utilizzando più tecniche insieme».

La Galleria Nazionale dell’Umbria per avvicinare il pubblico dei più piccoli al clima degli anni evocati dalla mostra, ha pubblicato un racconto per bambini, edito da Aguaplano e scritto da Cristiana Minelli (la incontreremo nella seconda parte di questa nota). Illustrazioni di «Bimba Landmann» .

Il catalogo, edito da Silvana Editoriale – curato da Andrea De Marchi e Matteo Mazzalupi che intervengono anche con loro saggi – presenta testi di Chiara Guerzi, Veruska Picchiarelli, Alessandra Tiroli, Gaia Ravalli, Emanuele Zappasodi

Promozione e Comunicazione:
Lara Anniboletti | tel. 075.58668436 | lara.anniboletti@beniculturali.it

L’autunno del Medioevo
A cura di Andrea De Marchi e Matteo Mazzalupi
Galleria Nazionale dell'Umbria
Corso Pietro Vannucci 19, Perugia
Info: +39. 075 – 57 21 009
21 settembre 2019 – 6 gennaio 2020



L'autunno del Medioevo (2)


Originale la scelta della Galleria Nazionale dell’Umbria di associare alla mostra in corso nelle stanze di Palazzo dei Priori un testo letterario (bilingue: italiano e inglese; traduzione di Liam Boyle) destinato ai più piccoli e volutamente ambientato proprio nell’epoca alla quale si riferisce l’esposizione “L’autunno del Medioevo”.
Titolo Come angeli che han messo le ali, Edizioni Aguaplano.
L’autrice è Cristiana Minelli, disegni di Bimba Landmann.
Di Cristiana Minelli, ricordo alcuni precedenti lavori: “Pacco di Natale” (2011); Il colombo è andato alla toilette (2013); Ascolta le cicale (2016).

L’iniziativa della Galleria umbra di associare arti della visione alla letteratura per l’infanzia, ha pure il pregio di riproporre considerazioni critiche su quel genere di scrittura a partire dalla differenza tra favola e fiaba.
A Cristiana Minelli ho rivolto alcune domande.

Com’è nata l’idea di associare alla mostra quel tuo lavoro letterario?

L’idea è di Marco Pierini, direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria, un mago della creatività e un protagonista della comunità scientifica nazionale e internazionale di lungo corso, e del suo staff, che non ho ancora avuto occasione di conoscere personalmente ma che si è mostrato via etere, da subito, competente, motivato, appassionato, come solo chi si occupa di arte davvero riesce a essere. Un’avventura condivisa dall’editore, Raffaele Marciano, che ha scommesso su questa idea mettendo a disposizione alcuni titoli per i tipi di “Aguaplano”, dando così vita a una collana di testi originali scritti in occasione delle mostre ospitate a Palazzo dei Priori, che parleranno anche al mondo oltreconfine, perché sono tradotti in inglese, e al cuore, perché sono illustrati. In questo caso, magistralmente, da Bimba Landmann.
Mi hanno fatto la proposta di scrivere una favola ispirata a un cassone nuziale del Quattrocento; accettare non è mai stato nemmeno in discussione. Ci sono volata dentro in una notte, ci sono rimasta per qualche giorno, e tutto, ma proprio tutto, dentro e fuori la cassa con la dote di nozze, ha preso vita.

“Hai scritto una favola o una fiaba rifacendoci a quel distinguo morfologico, esaminato da Propp a Calvino, cui accennavo prima?

Potrei dirti che è una favola che contiene una fiaba e così cominciare un’altra storia ma a me piace pensare che, in fondo, come altre cose che scrivo, è, semplicemente, una vertigine di fantasia. L’elemento magico è irrinunciabile, perché il sogno, anche in letteratura, dà dipendenza, quindi sì alla magia, agli oggetti animati, e sì anche agli animali antropomorfi e perché no, anche a un messaggio, di fondo, che si scrive quasi da solo a piè di pagina con lettere scarlatte. Dove l’Amore con la a maiuscola, e tutte le sue contraddizioni, salgono su un trono.

In questa nostra epoca di rivoluzione informatica che vede fra i protagonisti i “nativi digitali”, in virtù di quale meccanismo psicosociale i personaggi dei videogiochi (da SuperMario a Lara Croft, alla Principessa Daisy, a tanti altri), hanno conquistato uno spazio e successo nell’immaginario infantile ponendosi, per popolarità, alla pari o a superare quel livello, ai personaggi delle favole e delle fiabe di un tempo su carta?

La fantasia non è digitale. A volte popola il suo milieu straripante, ma non è lui che la genera. Gli esseri umani, che sono macchine naturali meravigliose, sono dotati di due caratteristiche, in particolare, che li rendono tali: il pollice opponibile e la fantasia, entrambi racchiusi, come un segreto, nel DNA delle persone, non in quello dei computer.

Ok. Game over.



Un visionario felice


A un grande personaggio dello spettacolo e della letteratura la casa editrice Il Foglio ha dedicato una sua pubblicazione: Biagio Proietti Un visionario felice.
Firma il volume Mario Gerosa. Giornalista professionista e saggista. Laureato in Architettura, redattore capo di AD. Studioso di storia del cinema e della televisione, è conosciuto da noi e all’estero quale uno dei grandi teorici dei nuovi media con particolare attenzione alla relazione tra l’arte contemporanea e le tecnologie emergenti. Nel 2006, infatti, ha scritto il primo libro in Italia su Second Life, ha creato l’agenzia di viaggi nei mondi virtuali “Synthravels”, e ideato la mostra Rinascimento Virtuale, sull’arte di Second Life, allestita nel 2008 al Museo di Storia Naturale a Firenze.
Lo troviamo, quindi senza sorprenderci, sceneggiatore del primo film italiano girato nel 2009 con tecnica Machinima intitolato “VolaVola”.
Tra le sue produzioni editoriali, la più recente è Il collezionista di respiri.
QUI più diffuse note biobibliografiche.

Questo libro che illustra la carriera di Biagio Proietti è costituito da due parti. Nella prima c'è l'inedito diario della sua intensa attività professionale, nella seconda, la sua opera è analizzata con schede monografiche dedicate a sceneggiati, film, romanzi e saggi da Mario Gerosa affiancato da tre famosi scrittori di gialli e di spy stories, Andrea Carlo Cappi, Stefano Di Marino e Enrico Luceri.

Proietti (Roma, 1940) appartiene a quel particolare tipo di artista che ha frequentato plurali aree espressive: dalla radio alla televisione, dal cinema al teatro, dal giornalismo audiovisivo alla letteratura. Partendo sempre dalla base degli elementi del mestiere per poi approfondirlo e senza stancarsi d’apprendere. Scrive nella sua autobiografia: Di una cosa sono molto orgoglioso: che a quasi ottant’anni sono convinto che ci sia ancora tanto da imparare e da fare, quindi a me piace sempre sperimentare e sono disponibile a buttarmi.
Dei tanti momenti del suo lavoro ha sempre una visione felice, perfino quando illustra le cose non andate a buon fine perché per un motivo o l’altro non furono realizzate; ne scrive senza mai dispetto e, meno che mai, rancore, ma ricordando ancora con gioia i compagni di cammino allora incontrati.
Dei suoi tanti successi, fra gli altri spicca come in molti sanno – lo ricordo ai più giovani – “Dov’è Anna” (scritto nel 1976 con Diana Crispo sua compagna di vita e anche di altre imprese di scrittura) serie tv che appassionò l’Italia intera e che nell’ultima puntata totalizzò ben 28 milioni di spettatori.
Qual è il segreto della scrittura, se ne esiste uno?
Risponde in questo video proprio Proietti.
Della sua scrittura, però, uno spazio di assoluto rilievo l’assume il giallo da lui frequentato prima che come genere accadesse, come assistiamo da alcuni anni a questa parte, nel bene e nel meglio come nel male e nel peggio, a una sua larga affermazione editoriale.
Che cos’è il giallo per Proietti? In un incontro sul web che ebbi con lui, così mi disse: Per me un delitto è come uno specchio: costringe a guardarti dentro. A me interessano le vite di tutti i personaggi, protagonisti e non, e cerco di descriverli, di farli rivivere senza giudizi né pregiudizi. Uno di loro dice che “il dolore, quando non ti divora, ti unisce. Se non ti soffoca e ti lascia vivere, diventa un legame profondo. Più di qualunque altro sentimento.

Scrive Mario Gerosa nell’Introduzione: “Biagio Proietti, che oltre a essere un visionario capace di inventare storie di ogni genere, siano esse fantastiche, fantascientifiche, western, rosa, noir, o combinazioni nelle più svariate forme dei suddetti generi, è prima di tutto un finissimo osservatore. La narrazione di Proietti, anche quando riguarda soggetti che tendono al fantastico, è sempre riconducibile a un precisissimo hic et nunc contemporaneo, che legge e descrive la realtà in modo scrupoloso e sistematico, indugiando molto sulla descrizione dei luoghi in cui avviene l’azione. Ecco allora che gli sceneggiati, ma anche i film di Proietti, quelli scritti e quelli diretti, hanno idealmente una doppia traccia, sono storie multicanale: c’è lo sviluppo della vicenda e c’è l’aspetto del documento storico drammatizzato”.

QUI un’intervista sul libro rilasciata da Proietti a Radiorai 2.

Mario Gerosa
“Biagio Proietti”
Prefazione di Luca Rea
Interventi di:
Andrea Carlo Cappi
Stefano Di Marino
Enrico Luceri
Pagine 600, Euro 20.00
Con corredo iconografico
Edizioni Il Foglio


Premio Brian


Dal 2006 l'Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (Uaar).assegna il Premio Brian a un film in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Il Premio Brian, dal nome del film satirico dei Monty Python “Brian di Nazareth”, viene conferito ogni anno alla pellicola che meglio evidenzia ed esalta «i valori del laicismo, cioè la razionalità, il rispetto dei diritti umani, la democrazia, il pluralismo, la valorizzazione delle individualità, le libertà di coscienza, di espressione e di ricerca, il principio di pari opportunità nelle istituzioni pubbliche per tutti i cittadini, senza le frequenti distinzioni basate sul sesso e l’orientamento sessuale, sulle concezioni filosofiche o religiose».

La giuria (Michele Cangiani, Paola Casanova, Paolo Ferrarini, Paolo Ghiretti, Maria Giacometti, Chiara Levorato, Marcello Rinaldi, Maria Turchetto) quest’anno ha assegnato il premio al film "The perfect candidate” di Haifaa Al Mansour-

La motivazione: “Il film denuncia la difficile condizione delle donne in un paese islamico fondamentalista, l'Arabia Saudita, attraverso il percorso della protagonista, ostacolata nella vita lavorativa e nell'impegno politico da una misoginia diffusa e sedimentata nelle istituzioni. La regista mostra con ragionevole speranza il contributo che le donne saudite possono dare alla società emancipandosi dalle anacronistiche tradizioni”.

QUI momenti del film.

A concludere una riflessione. Nel dare i risultati dei vari premi assegnati, i media, stampati e audiovisivi, in larghissima parte, con costante tenacia degna di miglior causa si astengono rigorosamente di citare il Premio Brian che merita – non foss’altro per la sua singolare destinazione – d’essere ricordato
Mi auguro che i redattori si ravvedano nella prossima edizione del Festival.


Una bella data


Era l'alba del 20 settembre del 1870, quando l'artiglieria dell'esercito italiano entrava in azione per aprire un varco nella cinta muraria vaticana.
Dopo 5 ore il muro cedeva nel tratto tra Porta Pia e Porta Salaria. Alle 9.45 i bersaglieri entravano attraverso quella breccia in Roma.
Era la fine della teocrazia vaticana. E Roma diventava capitale d’Italia.
Fu così sconfitto l’esercito papalino di Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti. Scrisse il ‘Sillabo’ documento finora mai smentito dal Vaticano che in 80 proposizioni condannava tutta la filosofia moderna, ogni forma di progresso e perfino il cattolicesimo liberale; fu ferocemente antisemita tanto da confinare nuovamente gli ebrei nel ghetto.
Pio IX è stato puntualmente beatificato da Wojtyla il 3 settembre 2000.
A proposito del Sillabo, per intenderne appieno la portata storica, consiglio la lettura de “Il Sillabo e dopo” commentato da Ernesto Rossi, Kaos Edizioni.
Quest’anno la data del 20 settembre sarà ricordata a Roma con un itinerario storico condotto da Maria Mantello - Presidente dell’Associazione Nazionale Libero Pensiero, - in Via XX settembre fino al luogo della famosa Breccia.

Appuntamento alle 9.30 a S. Maria della Vittoria, via XX settembre 17.

Ecco che cosa dice della festosa data Maria Mantello: In quel famoso 20 settembre Roma divenne finalmente capitale d’Italia e finiva il potere del papa re. Si apriva un orizzonte di fattiva emancipazione dalla sudditanza della fede. Oggi, di fronte a rigurgiti che vorrebbero la legge dello Stato laico e democratico asservita a diversi catechismi religiosi, Porta Pia è un simbolo di progresso e di civiltà. E’ un monito contro i fanatismi della fede di casa nostra e d’importazione, perché ci aiuta a ricordare che prima di omologanti appartenenze di gruppo, c’è l’individuo che ha il diritto dovere di autodeterminarsi e di progettarsi nel rispetto responsabile della propria ed altrui libertà.

Info: 3297481111 – liberopensiero.giordanobruno@fastwebnet.it


Fai l'uomo! (1)


La casa editrice Meltemi nella collana DeviAzioni ha pubblicato Fai l’uomo! Come l’eterosessualità produce la maschilità.
L’autore è Vulca Fidolini.
Dottore in Sociologia e ricercatore presso il laboratorio CNRS Dynamiques Européennes di Strasburgo, insegna Sociologia della famiglia e del genere alla facoltà di Scienze sociali dell’Università di Strasburgo. Adottando un approccio comparativo e qualitativo, specie su scala europea, le sue ricerche si interessano alla costruzione delle maschilità, articolandosi con le sociologie della sessualità, delle età, delle relazioni interetniche, della religione e più recentemente della salute.

Dalla presentazione editoriale
«Esiste un'"affinità elettiva" tra forme d'espressione della maschilità e produzione dell'eterosessualità? In che modo l'esortazione "fai l'uomo!" si iscrive nei meccanismi di costruzione dell'egemonia eteronormativa in società? Attraverso l'analisi di un ampio materiale etnografico, l'autore ripercorre il suo cammino di ricerca attorno ai temi della maschilità e dell'eterosessualità analizzandone le interconnessioni. Lo studio delle norme di genere da un punto di vista sociologico permette di esplorare le molteplici facce del significato attribuito all'attrazione verso il sesso opposto e come questo influenzi i processi di identificazione maschile».

Dalla prefazione di Emanuela Abbatecola e Cirus Rinaldi
«… il lavoro di Vulca Fidolini rappresenta il segno di un importante passaggio generazionale tracciato da una maggiore facilità nel cogliere, vedere e nominare dimensioni che risultavano più opache allo sguardo delle studiose e degli studiosi delle generazioni precedenti (…) In particolare questo lavoro permette di comprendere come il regime eterosessuale contribuisca a creare forme di maschilità specifiche – dimensioni egemoni che, nella lettura offerta da Fidolini, si ritrovano a rinsaldarsi e rafforzarsi reciprocamente».

Segue ora un incontro con Vulca Fidolini.


Fai l'uomo!

A Vulca Fidolini.(in foto) ho rivolto alcune domande.


Quale il principale obiettivo nello scrivere “Fai l’uomo!”

Il volume presenta una parte di risultati di una ricerca di dottorato che, da un punto di vista sociologico, analizza la questione della costruzione delle maschilità. Cosa significa essere uomo? Cosa costituisce la maschilità? Come, gli individui (sia gli uomini che le donne), riconoscono e identificano la e le maschilità? Queste sono alcune domande cui il testo cerca di offrire una risposta. L’analisi è focalizzata, in particolar modo, sul potere che la norma dell’eterosessualità ha nei meccanismi di identificazione maschile, sia tra gli eterosessuali che tra gli omosessuali.

Qual è la chiave che rende possibile applicare una norma rilevata su giovani marocchini immigrati su altri maschi eterosessuali? In breve: esiste una superlegge che può rendere simile tra maschi eterosessuali un musulmano marocchino con un ateo svedese?

Direi che l’obiettivo del testo non è tanto quello di scovare una superlegge ma di mostrare che, indipendentemente dalla popolazione di studio, si possono identificare alcune caratteristiche ricorrenti nella riproduzione dell’egemonia eterosessuale all’interno delle nostre società. La ricerca empirica ha avuto come oggetto di studio una popolazione di giovani marocchini immigrati in Francia e in Italia e si sofferma lungamente sul ruolo delle traiettorie migratorie, della religione (l’islam), delle origini sociali e familiari degli intervistati, per disegnare un quadro prettamente circoscritto al gruppo sociale su cui ho lavorato. Tuttavia, devo dire che, soprattutto nelle fasi finali della ricerca – quelle dell’analisi dei dati e di redazione della tesi di dottorato – mi sono reso conto di quanto alcuni meccanismi d’espressione dell’eteronormatività tra i maschi intervistati potessero essere osservati facilmente presso altri gruppi sociali. Un esempio: ho riconosciuto numerose analogie tra le esperienze e i racconti dei giovani marocchini incontrati ed alcuni episodi che ho vissuto io stesso durante il mio percorso di socializzazione primaria e secondaria, specie nel rapporto tra pari durante l’adolescenza e la fase dell’entrata nell’età adulta.

Il libro riporta in primo piano il rapporto Natura-Cultura.
È possibile considerare in maggior parte i maschi eterosessuali soggetti ancora oggi alle leggi di un’antica predazione: territoriale, sessuale, sociale
?

No, non parlerei di leggi di “un’antica predazione”: mi sento di poter rispondere piuttosto fermamente su questo punto. Il mio lavoro e il mio approccio cercano di mettere in evidenza quanto la costruzione dei tratti della maschilità – compreso quindi il supposto carattere “predatorio”, di cui parlo peraltro lungamente nel libro – sia innanzitutto un fenomeno sociale. Detto altrimenti, cerco di mostrare come le maschilità si realizzano nelle relazioni sociali, come taluni tratti ritenuti universali siano semmai l’effetto – variabile – dei meccanismi del rapporto tra maschi, tra maschi e femmine, o più intimamente dell’individuo con sé stesso e la sua identità, ma sempre nella prospettiva di come sarà poi percepito dagli altri e/o dalle altre, in società.

Qual è la cosa che nel comporre il testo è stato deciso assolutamente per prima da fare e quale quella per prima assolutamente da evitare?

Senza dubbio la mia preoccupazione principale è stata quella di rendere conto di questo lavoro di decostruzione minuzioso dei presunti caratteri “naturali” della maschilità, che ha inspirato non solo la redazione del volume ma soprattutto la ricerca di campo effettuata durante quattro anni e composta da interviste e osservazioni etnografiche. Il libro, in effetti, dopo l’introduzione, si apre con un capitolo in cui faccio chiarezza sulle trappole da evitare quando si affronta un tema simile e sulle specificità – l’originalità direi – di un approccio sociologico delle dinamiche di identificazione di genere, in questo caso maschili.

Vulca Fidolini
Fai l’uomo!
Prefazione di
Emanuela Abbetecola
Cirus Rinaldi
....................................
Pagine 180, Euro16.00
Meltemi


Fenomenologia di Grand Theft Auto (1)

Cosmotaxi riprende oggi le pubblicazioni; lo so: non è una notizia emozionante.
Riprendo da dove ci eravamo lasciati, lì promettevo (o minacciavo, fate voi) che mi sarei occupato estesamente del più recente libro di un vecchio amico di questo sito.

Edito dalla casa editrice Mimesis è nelle librerie Fenomenologia di Grand Theft Auto di Matteo Bittanti.
Artista, curatore e studioso, insegna media studies all’Università IULM di Milano, dove coordina un Master universitario di primo livello in Game Design. Ha svolto attività di ricerca e insegnamento presso l’Università di Stanford, l’Università della California a Berkeley e il California College of the Arts di San Francisco e Oakland.
È riconosciuto come uno dei più grandi esperti a livello internazionale della relazione tra l’arte contemporanea e le tecnologie emergenti.
Più diffuse notizie biografiche QUI.
Per marzo 2020, annuncia il Milan Machinima Festival .
Con Mimesis ha pubblicato Machinima (2017) e Giochi video insieme con Enrico Gandolfo (2018).

Che cosa vuol dire Grand Theft Auto? A più distratti basterà un CLIC e lo sapranno.

“Grand Theft Auto” è una lucente collezione di saggi che oltre da interventi del curatore, si avvale delle firme di Hava Aldouby – Alistair Brown – Michael Fleisch – Steffen Krüger – David J. Leonard – Marc A. Ouellette – Kiri Miller – Soraya Murray – Matthew Thomas Payne – Martin Pichlmair – Adam W Ruch – Jon Saklofske – Mark David Teo – Alberto Vanolo.

Dalla prefazione editoriale
«Grand Theft Auto è più di un videogioco: la popolare saga di Rockstar Games ha conquistato l’immaginario collettivo grazie a una magistrale riscrittura in chiave interattiva del crime movie e della narrativa pulp. Con cinque episodi all’attivo e oltre duecentocinquanta milioni di copie vendute negli ultimi vent’anni, Grand Theft Auto ha trasceso la sfera dell’intrattenimento. I vari capitoli – ambientati nelle repliche virtuali di metropoli come Los Angeles, New York e Miami – sollevano infatti questioni cruciali in merito alla rappresentazione della violenza, alla simulazione degli spazi urbani e alle politiche di gender. “Fenomenologia di Grand Theft Auto” esamina gli aspetti sociali, culturali e artistici della serie grazie al contributo di studiosi internazionali. Unica nel suo genere, questa antologia di saggi porta in primo piano la complessità del testo videoludico e delle pratiche di consumo a esso associate».

Segue ora un incontro con Matteo Bittanti.


Fenomenologia di Grand Theft Auto (2)


A Matteo Bittanti,(in foto), ho rivolto alcune domande

Prima di passare ad analizzare alcuni aspetti di Grand Theft Auto (in seguito indicato con la sigla GTA), ti chiedo: che cos’è un videogame?

Il videogioco dona l’onnipotenza sintetica a soggetti piegati, offrendo nuove prospettive a chi ne ha poche IRL. Non è un caso che l’ascesa del medium abbia coinciso con l’affermazione globale del neoliberismo: il progressivo smantellamento della società civile è accompagnato dal nuovo spirito del capitalismo tecnoludico: quantificazione, ottimizzazione del sé, “meritocrazia”, “accountability”, “premialità”, “gamification” e altre bellissime iniziative. ‘Candy Crush’ è il crack, la realtà virtuale è l’oppio dei popoli: non a caso, Facebook è un mega spacciatore, quasi come la famiglia Sackler. È noto che il creatore di Oculus Rift è un criptofascista mentre Steve K. Bannon ha fatto la grana con ‘World of Warcraft’. C’è da sorprendersi se i troll oggi sono al potere?

Perché definisci GTA specchio “riflettente e deformante” della società americana?

Perché è, al tempo stesso, la sua copia fedele e una grottesca distorsione. Oggi è impossibile distinguere la simulazione dal simulato, come scrive Soraya Murray. L’errore che molti commettono è considerare GTA una satira della società americana. Semmai, è il contrario. In una nazione in cui acquistare un fucile mitragliatore in un supermercato per massacrare i compagni di classe è considerato un sacrosanto diritto, sancito dalla Costituzione, accusare i videogiochi di incitare comportamenti asociali, o peggio, violenti, presenta aspetti tragicomici. In una nazione in cui per risolvere il summenzionato problema si suggerisce di armare i docenti, accusare i videogiochi di incitare comportamenti asociali, o peggio, violenti presenta aspetti tragicomici. In una nazione in cui il settanta percento degli studenti universitari è indebitato a vita e gran parte del corpo docente sottopagato, accusare i videogiochi di incitare comportamenti asociali, o peggio, violenti presenta aspetti tragicomici. Si parla spesso degli effetti deleteri dei videogiochi sulla società, ma così facendo si sottovalutano le conseguenze raccapriccianti della società sui videogiochi. Per fortuna, il Presidente Greg Stillson ha riportato l’America al suo originale splendore.

Qual è stata l’idea guida che ti ha portato a scegliere i saggisti convocati nel libro?

Idea guida è una parola grossa. Anzi, due. Diciamo che mi piace paragonare un progetto editoriale a un’orgia, pardon, a una sessione multiplayer. I gusti, le preferenze, le inclinazioni, gli stili dei giocatori coinvolti sono differenti, a volte divergenti, ma è proprio questo aspetto che mi intriga. Una monografia può degenerare in un interminabile monologo, mentre un’antologia è più simile a una conversazione a più voci. Lo scrittore è un cantante, il curatore un deejay. Un’antologia è come una playlist: alcuni brani ti fanno ballare, altri pensare, sognare, dormire.

Dal tuo libro apprendiamo di 100 milioni di copie vendute in tutto il mondo solo del quinto episodio, generando profitti che superano i 6 miliardi di dollari. Tutto questo accompagnato anche da un vastissimo consenso critico. Qual è la chiave di questo successo insieme commerciale e artistico?

Guarda, se lo sapessi, ci scriverei sopra un libro. Anzi, due.

A proposito della violenza sono state rivolte molte critiche a GTA. Tu come le commenti?

Non le commento. Lascio agli esperti l’onere, l’onore e l’onanismo del caso. Per esempio, l’ex-ministro Carlo Calenda.

Altro putiferio è stato suscitato dalle accuse di misoginia rivolte a GTA.
Nel tuo saggio è riportata quella polemica con una larga, esaustiva documentazione. Quale la tua conclusione
?

A questo proposito, lo scrittore Tom Bissell ha paragonato la comunità dei videogiocatori a una fogna. Ecco, parliamone.

Possiamo considerare GTA uno delle più perfette esemplificazioni del post-moderno?

Massì, perché no? Per alcuni è proprio così. Fredric Jameson, comunque, tace. Altri spergiurano che è l’apoteosi del moderno, per cui Rockstar Games non sarebbe altro che la versione duepuntozero di James Joyce, anche se duepuntozero fa tanto duemilaquattro. In compenso, Bruno Latour direbbe che non siamo mai stati moderni e allora vai di “cheat mode”. Forse Fabio Vittorini lo giudicherebbe un paradigma del metamoderno. Guarda, per andare sul sicuro, dovresti rivolgerti ai turgidi membri di 4Chan. Loro se n’intendono.

……………………………….

A cura di Matteo Bittanti
Grand Theft Auto
Pagine 350, Euro 26.00
Mimesis Edizioni


Guido Fink

Grande personaggio della cultura italiana, Fink era nato a Gorizia il 28 luglio 1935 ed è morto a Firenze il 6 agosto di quest'anno.
Il suo pensiero critico attraversa la letteratura, il cinema, il teatro.
V’invito a leggere un ricordo pubblicato su Moked.

Ebbi l’onore di averlo ospite di questo sito anni fa nella taverna spaziale dell'Enterprise e vi ripropongo quell'incontro.
Nonostante sia trascorso parecchio tempo da allora, per merito suo le sue parole sono ancora attuali. Così come attuale resterà la sua figura di studioso.


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