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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Marta Roberti 1 e 2


Marta Roberti muove un segno originale nello scenario delle arti visive italiane.
Con un CLIC potete accedere al suo portfolio, con immagini sia fisse sia in video, e vi renderete conto che le parole usate poco prima non erano di natura formale.
Di sé stessa (qui in foto) così dice: Sono nata nel 1977 nella provincia di Brescia, dalla quale me ne sono andata a 18 anni per studiare filosofia a Verona. Mentre ero all'università, frequentavo corsi di disegno e ho cominciato a dedicarmi intensamente alla pittura, ma in realtà credevo di voler fare la scrittrice. Dopo aver vagabondato per il mondo qualche anno, ho frequentato tra il 2006 e il 2008 il biennio specialistico di Cinema e Video all'Accademia di Brera a Milano.
Adesso vivo a Roma, accanto all’attività artistica che m’impegna quotidianamente, continuo a leggere di filosofia perché questa disciplina è tra le componenti fondamentali dei miei lavori
.

In questi giorni espone in due prestigiose gallerie, a Milano e a Roma.
A Milano, alla Galleria Giuseppe Pero dove con Arianna Carossa e Tom Pnini è impegnata in “About Practice” a cura di Alessandro Facente.
La mostra è così presentata dal curatore: “About practice mette insieme tre artisti della stessa generazione, i cui lavori hanno in comune l’esperienza di aver collezionato in corso d’opera soluzioni formali e vicende specifiche legate alla loro realizzazione che ne hanno cambiano, influenzato e arricchito l’intento originario, stimolando quindi un dibattito sull’osservazione del gesto artistico. In quanto stratificazione cronologica di storie scritte nel tempo, la pratica è quindi essa stessa substrato argomentativo dell’opera d’arte, che impone alla curatela di delinearne criticamente una filologia che le appartenga profondamente e che diventi per essa una voce critica interna al processo di costruzione.
Questo approccio congiunto tra produzione e teoria fa di ‘about practice’ una mostra che ragiona sull’idea stessa di concetto, il suo ruolo e posizione nell’opera d’arte”.

L’altra esposizione è in corso a Roma, alla Muga Gallery dove, insieme con Annabella Cuomo, la troviamo in “Entre Nous” a cura di Simona Merra e Carmela Rinaldi.
Così la Galleria profila la mostra: “Entre Nous: un ciclo di mostre nate dal desiderio di instaurare ‘con’ e ‘fra’ coppie di artisti un dialogo attraverso cui riscoprire argomenti comuni e differenze. Il primo appuntamento del ciclo si apre con opere inedite di Annabella Cuomo e Marta Roberti. Nella serie “Terra sostienimi”, Annabella Cuomo rivela l’essenza del doppio e dello spaesamento attraverso una sovrapposizione di ambientazioni estranee, mentre Marta Roberti con “La grande pipì” e il video disegno animato “Sarà stato”, affronta teorie e temi filosofici e psicanalitici legati a maestri come Deleuze e Freud. La mostra nasce da numerosi scambi avvenuti dentro e fuori gli studi, da stimoli e influenze reciproche, basi essenziali per una conoscenza autentica, di qualcosa che va al di là della somma e dell’accostamento dei singoli pensieri individuali”.

Circa il lavoro che va svolgendo da alcuni anni a questa parte, la Roberti dice: La caratteristica più evidente della mia ricerca artistica è quella di svilupparsi simultaneamente su un piano teorico-filosofico e su un piano pratico-artistico: da filosofa mi approprio dello strumento artistico visuale, non più di quanto da artista mi occupo di temi filosofici. M’interessa superare il confine tra arte e filosofia lavorando a concetti propri della tradizione filosofica quali la ripetizione, il divenire, l’apprendimento e la neotenia.
Il disegno e la scrittura sono pratiche per me necessarie poiché il fare del corpo mette in moto il pensiero, che approda così ad altre forme espressive: archivi, video, fotografie, performance
.

Galleria Giuseppe Pero
“About Practice”
Via Porro Lambertenghi 3, Milano
Tel. +39 02 66823916
info@giuseppepero.it
Fino al 24 aprile ‘14

Muga Gallery
“Entre Nous”
Via Giulia 108/109, Roma
Info: muga@muga.it
+39 06 45540484
Fino al 27 marzo ‘14


Funzione guerriera


Questo il titolo della prima edizione d’Incontri con donne dissidenti e autorevoli del nostro tempo, come recita il sottotitolo di questa rassegna che è un progetto del Comune di Reggio nell’Emilia realizzato nell’àmbito di Primavera Donna 2014.
Conferenze, performance, mostre, proiezioni. Ospiti: Michela Marzano, Luisa Muraro, Nadia Pizzuti, Margherita Giacobino, Claudia Castellucci, NicoNote.
Il tutto a cura di Laura Severini e Adele Cacciagrano.
La Severini lavora dal 1988 nel settore dello spettacolo.
Cacciagrano è Dottore di Ricerca in Studi Cineteatrali presso il Dams di Bologna.

Le donne hanno affinato, nei secoli, una capacità politica e strategica che Angela Putino, filosofa napoletana e convinta femminista scomparsa nel 2007, definiva Funzione Guerriera, da qui il titolo di una rassegna (in foto il logo) tra convegnistica e spettacolo.
A Laura Severini e Adele Cacciagrano ho rivolto alcune domande.
Le sentirete rispondere con una voce sola: prodigi della tecnologia di bordo su Cosmotaxi.

Com’è nato questo progetto e quali le sue finalità di comunicazione?

Sentivamo che la recente attenzione posta dai media su alcune tematiche riguardanti le donne, in particolare la violenza, il femminicidio, il disequilibrio nei luoghi del potere e nel mondo del lavoro, mancava spesso di complessità limitandosi ad affrontare la questione solo in termini di negazione, nel senso del “deficere” anziché dell’essere (la donna in quanto sesso debole, non è forte… della donna sappiamo cosa non è, ma sembra che non si sappia cosa - chi - è) e che spesso vi fosse una voce referente esterna, non soggettivamente espressa, a parlare della donna (chi è che difende la donna? Lei stessa, soggettivamente, o qualcun altro che non è donna?).
Questa riflessione ci ha permesso di mettere a fuoco un’altra incongruenza: la scarsa attenzione della cronaca italiana verso le donne esemplari, le donne che agiscono, che spostano le masse, che inventano tracciando indelebilmente la memoria collettiva e delle quali, a nostro avviso, i nomi (e i volti) non sono ancora sufficientemente popolari.
Questa è la finalità di Funzione Guerriera. Celebrare le donne fattive: esporle, segnalarle, conoscerle, ringraziarle
.

Rispetto agli incandescenti anni Settanta (penso, ad esempio, a Germaine Greer, Kate Millet, Anne Koedt) com’è cambiato il pensiero femminista?

L'elemento di maggiore discontinuità tra il femminismo degli anni Settanta e quello odierno è probabilmente legato alla differenza di bersaglio e interlocutore. La seconda ondata del femminismo rappresentata nei paesi anglofoni da Germaine Greer, Kate Millet e Anne Koedt e in Italia da un personaggio di altrettanto calibro come Carla Lonzi, si metteva in polemica con lo sguardo e la teorizzazione maschile sulle donne.
Freud e la sua teoria della donna vaginale per “L'eunuco femmina” di Greer, un pensiero millenario androcentrico per “Sputiamo su Hegel” di Carla Lonzi, la battaglia per la differenza si combatteva contro i padri, mariti e eroi maschi del pensiero.
Ora l'interlocutore e il bersaglio è cambiato. Ci si è impercettibilmente, ma sempre più spostati verso un discorso tra donne comprendendo che è proprio lì, nella relazione da donna a donna, una relazione mai davvero costituita, ancora molto problematica e insoluta, che ci si deve concentrare per arrivare a una definizione del femminile, non tanto in termini di genere ma soprattutto di costituzione delle individualità.
Vanno letti in questo senso i tentativi, troppo avanzati all'epoca e in effetti male accolti in Italia, di Angela Putino, la filosofa napoletana che celebriamo nella nostra rassegna, di indirizzarsi alle femministe invitandole a guardarsi da un'altra prospettiva e a rimettersi in discussione per esempio con le tesi del suo “Amiche mie isteriche” (Cronopio, 1998).
Ed è anche rilevante il fatto che centro delle indagini femministe sia diventato sempre più il rapporto emblematico con la MADRE. Pensiamo alle ultime pubblicazioni di Luisa Muraro, anche lei teorica presente nella nostra rassegna, che già nel 1991 affrontava la questione ne “L'ordine simbolico della madre”.
Dopo la questione dell'uguaglianza e della parità dei diritti del primo femminismo, dopo la politica della differenza del secondo femminismo, il nuovo femminismo porta oggi le donne a concentrarsi su di sé, a iperscrutarsi, a mettersi in dialogo e anche in feconda polemica e discussione per combattere la tendenza alla fusione e all'indistinzione che aveva caratterizzato per esempio alcune esperienze di collettive e sviluppare, all'interno, o del tutto fuori, da reti e comunità, la propria specifica, preziosissima individualità.
Scriveva a questo proposito proprio Angela Putino:
Dovremmo saper esser tra noi straniere senza distanze, senza indifferenze e vicine senza identificazioni. Spesso tra donne si vive una fusione senza separazione: una sorta di indiviso. Tutto quello che non mantiene uno stato di uguaglianza che è il tratto distintivo e quanto rende stabile e compatto l'indiviso, viene privato di esistenza: così paradossalmente nell'indivisione si ha diritto di esistere e nel distinguersi si viene cancellate. Qui non vi è luogo per il giuoco, ci si serra per paura di perdersi. Ne vi è guerra perché non vi è una parola adeguata, parola che sappia dar separazione nell'indiviso, che inviti a diversificarsi, ma anche congiunga nello spezzare e che non ceda quindi ai codici del distacco.
(da “Arte di polemizzare tra donne”, Sottosopra, giugno 1987)

Tra i paesi occidentali, l’Italia com’è messa in quanto a parità di genere? E quale paese considerate più avanti di altri su questo tema?

l Global Gender Gap Report 2013, pubblicato dal World Economic Forum sulle diseguaglianze di genere in 136 paesi del mondo, pone l’Italia al 71° posto, ovvero tra i paesi a più basso GEI (Gender Equity Index) al pari di Armenia, Madagascar e Vietnam. Sempre secondo il GGG Report 2013, nelle pari opportunità di lavoro, fanno meglio di noi paesi come Nicaragua, Ecuador, Senegal, Belize, Azerbaijan, Tanzania, Bolivia, Botswana, Kenya, Ghana, Barbados. Crediamo non siano necessari commenti.
Tra i paesi più avanzati certamente i nostri principali riferimenti (quasi mitizzati) sono i paesi scandinavi, sia in ambito normativo, sia nel lavoro e nello stato sociale, sia nel potere politico, poi, diremmo, la Germania e la Francia.
Interessante è notare come culture tanto aperte ed avanzate non possano prescindere da alcuni fondamentali fattori: il sistema e la qualità dell’istruzione, la stabilità politica, un elevato accesso all’informazione e alla rete.
Un altro discorso invece riguarda lo sviluppo del filone dei cosiddetti Gender Studies per cui sentiamo che l'Italia, nonostante la presenza di figure di primo piano, soffre un ritardo istituzionale imbarazzante. Sono ancora poche le Università che hanno attivato al loro interno dei percorsi specialistici di genere e, spesso, anche quando li attivano, tendono a considerarli come corsi di serie B, un obolo dovuto a un percorso di formazione politically correct, ma su cui non vale la pena di investire seriamente.
In questo Stati Uniti e Inghilterra sono sicuramente tra i paesi occidentali più avanzati con cattedre già consolidate e studi di eccellenza che oramai toccano i più vari ambiti scientifici e disciplinari. In Italia, a onor del vero, alcuni timidi tentativi son stati e continuano a essere fatti, ma sono ancora davvero troppo timidi e di nicchia
.

Per il programma: CLIC!

Ufficio Stampa le Staffette
lestaffette@gmail.com
Raffaella Ilari: +39 333 – 43 01 603
Marialuisa Giordano: +39 338 – 35 00 177

Funzione Guerriera
Reggio Emilia
Info: funzioneguerriera@gmail.com
Mob: +39.328.9233525
Ingresso libero
Dal 28 febbraio al 2 marzo ‘14


Sacrosante risate


Se non siete baciapile e vi trovate a Livorno, o vi ci rechiate prossimamente in gita per consumare un cacciucco e triglie, non perdete l’occasione di farvi quattro Sacrosante risate presso il Nuovo Teatro delle Commedie dove inaugura domani una mostra di Vignette di satira religiosa.
Espongono: Altan – Bandanax – Bucchi – Disegni – Ellekappa – Evans – Franzaroli – Mangosi – Maramotti – Montt – Sardelli – Staino – Vauro.

Si comincia alle 17.30 con Staino e Maria Turchetto che inviteranno il pubblico a pregare con loro leggendo l'Oca pro nobis.

Su "L'Ateo", nel numero 82 (2012), in uno special dedicato alla satira Maria Turchetto così scriveva: La satira, in fondo, non è che una varietà del pensiero critico: una sua versione condensata con arte. Anziché proporre una complessa ed esauriente argomentazione, la satira si concentra in un punto, coglie una contraddizione e la mostra con grande efficacia, riuscendo a suscitare il riso. Dev’essere rapida e fulminante quanto il ragionamento argomentato è invece lungo e paziente. Deve scattare come una trappola per topi come diceva Vonnegut. La satira – ammettiamolo – è cattiva. Non risparmia nessuno, proprio come il pensiero critico: vuole anche colpire, beccare un punto debole e fare male. Ma ha un gran pregio: ha sete di giustizia. Colpisce il potere, il sopruso, la prevaricazione. Aiuta chi li subisce a non avere paura e a ribellarsi nella forma pacifica della risata.

Si può indicare quale sia il limite della satira?
Forse sì. Lo spiega Michael Moore: “La satira presume che il pubblico abbia un cervello".

Altra notizia che può interessare a chi non professa fedi: è in distribuzione (QUI l’elenco delle librerie) il nuovo numero del bimestrale dell’Uaar “L’Ateo”.
Come spiega Francesco D’Alpa nell’editoriale: “Questo primo numero dell’anno che precede i Darwin Days ci stimola ad affrontare tematiche legate all’evoluzionismo. Stavolta abbiamo scelto, per la parte monografica, ‘L’evoluzione della donna’. Il nostro intento originario era quello di trattare solo aspetti antropologici e biologici; ma alla fine abbiamo inserito anche contributi di tipo culturale e sociologico”.
Su questo e altri temi, interventi di Maria Turchetto, Anna Maria Rossi, Federica Turriziani Colonna, Enrica Rota, Carlo Tamagnone, Baldo Conti, Raffaele Carcano, Marco Delli Zotti, Mario Carparelli, Jacqueline Herremans, Paul Cliteur.

Sacrosante risate
Nuovo Teatro delle Commedie
Via Terreni 25, Livorno
Dal 28 febbraio al 10 marzo ‘14


La scuola della foresta


Livio Sossi, saggista, docente di Letteratura per l’infanzia all’Università di Udine, autore del saggio “Scrivere per i ragazzi” (Campanotto Editore), rispondendo a un’intervista di Mary B. Tolusso che gli chiede “Come scrivere per i ragazzi oggi? Quale linguaggio usare?” Così risponde: “Tra i registri stilistici, è da preferire sicuramente quello ironico, possibile a tutti i livelli, basti pensare che si può fare dell’ironia anche nella divulgazione scientifica […] I ragazzi si riconoscono in quello che leggono. Il problema dell’accostamento dei giovani alla lettura è determinato principalmente dalla necessità di riscoprire se stessi nella scrittura. Ecco perché in questo tipo di letteratura si presentino pure delle espressioni colorite, al limite anche le parolacce, o un linguaggio che deriva dai media, dalle formule degli sms. È necessario liberare la scrittura per l’infanzia dall’enfasi inutile, dall’eccessiva aggettivazione o dai “diminutivi”. Pare quasi che tutto il mondo del bimbo sia minuscolo, ridotto o riduttivo. Questo il bambino non lo accetta”.

Nei fumetti per i più piccoli i problemi sono ancora più estesi perché è ancora più urgente non dissociare il fine del divertimento con quello cognitivo.
Bene ci riesce Simone Frasca in La scuola della foresta Chi manca all’appello? edito da Mondadori per ragazzi da 1 a 6 anni.
L’autore vive e lavora a Firenze, e, talvolta, a San Paolo in Brasile.
Un passaggio della sua biografia così recita: “Essendo distratto spesso inciampa nelle storie e, se non si fa male, le scrive e le disegna. I bambini che lo guardano disegnare dicono che è veloce come un fulmine”.
Collabora con numerosi editori e ha realizzato campagne informative rivolte all’infanzia.

Alla scuola parlante di un’immaginaria foresta è il momento dell’appello. La maestra Gaia controlla la lista dei cuccioli e… manca Sofia!
Cuccioli e maestre la cercano ovunque.
Ma che aspetto avrà Sofia?
Sarà spinosa come un riccio? Pelosa come un gatto? Enorme come un ippopotamo?
Fin qui il racconto con un finale, ovviamente, lieto, ma – come scrivevo poco fa – l’autore tiene pure all’aspetto cognitivo ed ecco che alla fine del librino sono proposti dei quiz che hanno lo scopo di stimolare la memoria motoria dei piccoli lettori. Questi, infatti, sono chiamati a inscrivere in apposite nuvolette i nomi dei personaggi della storia, oppure indicare quale oggetto fra quelli che vede mai è comparso nelle inquadrature, e via di seguito.
Ho provato a misurarmi in quei giochi e me ne fosse andato bene uno!

Simone Frasca
La scuola della foresta
Pagine 48, Euro 6.50
Mondadori


Sportivi ad alta tecnologia

Dell’agonismo sportivo si hanno testimonianze fin dall’età preistorica.
Nel corso del XIX secolo molte scoperte d’esempi d’arte rupestre sono state fatte in Francia, per esempio a Lascaux, in Africa e in Australia, che dimostrano come in tempi lontanissimi, fossero effettuate cerimonie rituali che comportavano un'attività fisica dei partecipanti. Alcuni di questi ritrovamenti sono stati fatti risalire ad almeno 30.000 anni fa.
Da allora a oggi le cose sono cambiate in modo tanto radicale che a praticare varie gare troviamo non più la creatura umana nella sua originaria accezione ma un’ibridazione uomo-macchina che sempre di più, garantiscono molti scienziati, si affermerà.
Insomma, l’esempio di Pistorius (speriamo non quello di sparare alle fidanzate, cosa di cui è accusato), è destinato a moltiplicarsi.
Senza proiettarci in un futuro, più o meno lontano, già ai nostri giorni, però, l’addestramento sportivo – sia per l’agonismo individuale sia per quello a squadre – si avvale di strumenti impensabili appena fino a poco tempo fa.
La casa editrice Zanichelli, nella collana Chiavi di lettura – a cura di Federico Tibone e Lisa Vozza - ha mandato in libreria un prezioso volume che diffusamente spiega come oggi la tecnologia non possa garantire la vittoria, ma senza tecnologia sicuramente si perda.
Il titolo:Sportivi ad alta tecnologia La scienza che aiuta a costruire i campioni.

Ne sono autori: Nunzio Lanotte e Sophie Lem.
Nunzio Lanotte, Laureato in Ingegneria meccanica indirizzo Robotica a Roma, ha ottenuto un MBA presso l’ESCP-EAP a Oxford e Parigi. Nel 2000 ha fondato APLab, uno studio d’ingegneria specializzato in tecnologia per lo sport. È consulente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) per lo sviluppo di nuove tecnologie. Per molti anni ha praticato il pentathlon moderno a livello agonistico.
Sophie Lem, Laureata in Legge presso l’Université Sorbonne Panthéon e in Scienze Politiche presso l’Institut d’Études Politiques (SciencesPo) di Parigi.
È traduttrice, fotografa e redattrice freelance specializzata in opere scientifiche.

Poiché sarebbero stati necessari più volumi per illustrare gli strumenti tecnologici oggi applicati ai vari sport, gli autori, saggiamente, hanno affrontato gli argomenti che si adattano a quasi tutte le discipline, soffermandosi poi su ciclismo, nuoto, calcio e sci.
Si comincia con l’apprendere come un’attività sia più simile ad altre che immaginavamo lontane dalla prima, con conseguenze sui metodi d’allenamento e strumenti tecnici impiegati. Ad esempio, lo sci di fondo assomiglia più alla maratona che alla discesa libera, i tuffi simili più alla ginnastica che al nuoto, e così via.
E poi sono esaminati i tanti ritrovati che concorrono a capire e migliorare le performances.
Che cos’è l’estensimetro, l’indicizzazione elettronica, la match analysis, il metabolimetro, per non dire delle tante sigle note agli specialisti e ignoti a chi non lo è, qui spiegate nella loro funzione: Ccd (Charged-coupled device), Cfd (computational fluid dynamics), Mad (measurement of active drag), Mts (motion tracking system), e via di sigla in sigla.
A questo s’aggiunga la ricerca scientifica sui nuovi materiali; non è forse lontano il giorno in cui un telaio di bicicletta peserà 100 grammi e una canoa due etti.
Con questo libro, si entra in un mondo affascinante anche per chi è lontano dallo sport perché da quelle pagine ben si capisce come il nostro essere, come sostantivo e verbo, stia cambiando avviandosi su piani che prima d’essere pratici sono filosofici. Non è un caso che la tecnofilosofia transumana (si pensi a Drexler, Moore, Kurzweil) vada prevedendo un futuro dove saranno superati gli attuali limiti umani.

Per una scheda sul libro: CLIC!

Nunzio Lanotte
Sophie Lem
Sportivi ad alta tecnologia
Pagine 200,con repertorio fotografico
Euro 12.90
eBook QUI
Zanichelli


Centro Studi Manganelli

Il 28 maggio del 1990 perdevamo uno dei più grandi scrittori italiani del XX secolo: Giorgio Manganelli.
Attraversare i suoi testi (l’editore Adelphi ha il merito di curarne l’opera: QUI per il catalogo) significa viaggiare in una cartografia labirintica e rilucente.
Scrive Florian Marussig “… spingendo al limite le possibilità della scrittura, si avventura in quel ‘linguaggio abitabile’ che lui stesso definisce come ‘oscuro, denso, direi pingue, opaco, fitto di pieghe casuali; per lui tutto è racconto, dal Baldus alla ricetta dell'Artusi. Tutto, naturalmente, tranne il romanzo”.

Da tempo, la figlia Lietta porta avanti con grande sacrifici il Centro Studi Giorgio Manganelli dove potete leggere le imponenti e assidue cure che vi dedica da vent’anni.
Ora – come dice in una sua accorata lettera aperta – sta “per gettare la spugna”, le difficoltà economiche non le permettono di andare avanti.
È necessario un intervento di chi vuole bene alle pagine del “Manga”.

La stessa Lietta (in foto, col padre) suggerisce come farlo e così indica.
Con una donazione e conseguente iscrizione alla costituenda associazione (che verrà ufficializzata al più presto).
La quota per l'iscrizione minima è di 50 euro (30 per gli studenti, che, come è noto sono sempre ricchi di entusiasmo ma poveri di pecunia).
La quota può essere versata su una Poste Pay attivata a questo scopo. Tutto verrà registrato e l'iscritto riceverà un tesserino attestante l' iscrizione.

Poste Pay
4023 6006 4164 1685
intestato a Manganelli Amelia Antonia.
Onde evitare le lunghe file alle poste è possibile ricaricare la Poste Pay anche presso i tabaccai. In questo caso è necessario il mio codice fiscale:
MNGMNT47E60I153T

Eccovi anche i dati bancari utili allo stesso scopo
Cassa di Risparmio di Firenze
Filiale di Navacchio (Pisa)
IBAN IT77 Z061 6070 9510 0000 0004 248
BIC CRFIIT3F
Intestato a Manganelli Amelia Antonia
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Extrasensoriale


È chiamata percezione extrasensoriale o ESP (acronimo dell'espressione inglese Extra-sensory perception) ogni ipotetica percezione che non possa essere attribuita ai cinque sensi. Ci si riferisce, cioè, alla pretesa esistenza di canali d’informazione che sarebbero estranei e sconosciuti alla scienza e, infatti, gran parte degli studi al riguardo si muovono al di fuori del metodo scientifico, riguardando la cosiddetta parapsicologia.
La comunità scientifica è unanimemente schierata nel considerare la parapsicologia una bufala vista la mancanza, in più di un secolo di ricerche, di alcun tipo di prova oggettivamente verificabile circa l'esistenza di abilità paranormali; oggetto di critica sono sia i metodi utilizzati, sia i risultati ottenuti.
Le Edizioni Dedalo su questo tema hanno mandato in libreria un volume di Brian Clegg intitolato Extrasensoriale Scienza e pseudoscienza dei fenomeni paranormali.
L’autore, nato nel 1955, è un celebre e prolifico divulgatore scientifico inglese. Dopo una formazione come fisico sperimentale, si è dedicato alla comunicazione della scienza per il grande pubblico. Ha scritto numerosi saggi, già tradotti in molte lingue, e collabora con la «BBC».
Dello stesso autore, nelle Edizioni Dedalo: L'Universo dentro di noi.

È bene chiarire sùbito che quella parola “scienza” che si trova nel sottotitolo non vuole accreditare alcuna ipotesi di scientificità all’extrasensoriale, ma, forse vuole proprio meglio smentire i tanti creduloni, perché, come Clegg scrive “rifiutare un’osservazione senza esaminarla in dettaglio è totalmente antiscientifico”.
Le fandonie intorno a certi fenomeni hanno origine, nella modernità, nel XVII secolo quando Cartesio rilancia la dualità mente-corpo: un corpo materiale meccanico e una mente immateriale e sovrannaturale. Già ma come possono essere unite queste due parti? Cartesio se la cava identificando quel legame nella ghiandola pineale. “Oggi però sappiamo che non è affatto vero” conclude giustamente Clegg.
Il libro esplora quanto il mondo scientifico non si sia sottratto alle osservazioni anche le più spericolate. Ad esempio, è largamente illustrato quanto avvenne nel 1911 alla Stanford University che divenne il primo istituto accademico negli Stati Uniti a studiare la percezione extrasensoriale e la psicocinesi in laboratorio. I lavori erano guidati dallo psicologo John Edgar Coover. Nel 1930 la Duke University divenne la seconda maggiore università a indagare criticamente i presunti fenomeni ESP e ancora la psicocinesi. Sotto la guida dello psicologo William McDougall, con l'aiuto di altri come Karl Zener, Joseph B. Rhine, Louisa E. Rhine e utilizzando dei volontari scelti tra gli studenti, il laboratorio divenne operativo. Al contrario del tradizionale approccio della ricerca psichica, il quale generalmente richiedeva "prove qualitative" per i fenomeni paranormali, gli esperimenti alla Duke University puntarono alla ricerca "quantitativa".
Gli esperimenti alla Duke attirarono molte critiche dagli psicologi, i quali tacciavano tali studi di mancare di prove circa l'esistenza dell'ESP. Rhine e i suoi colleghi cercarono di indirizzare queste critiche verso nuovi esperimenti, articoli e libri. Rhine riassunse le critiche e le sue risposte al riguardo in: “Extra-Sensory Perception After Sixty Years". Il consiglio direttivo della Duke University ebbe nel tempo sempre meno interesse verso la parapsicologia, e dopo il pensionamento di Rhine nel 1965, ogni collegamento tra ricerca parapsicologica e l'università venne meno.
“Per chi vuole che là fuori ci sia qualcosa, c’è ancora speranza” – scrive Clegg – “Quanto a me, avendo affrontato questa ricerca con spirito aperto, devo trarre la conclusione che gli esperimenti esistenti non hanno mostrato altro che coincidenze, artefatti della progettazione dell’apparato sperimentale, malintesi e imbrogli”.
Da ricordare, inoltre, che nessuno abbia ancora vinto il premio di 1 milione di dollari messo in palio da James Randi per chi dimostra di avere poteri paranormali in condizioni controllate.
Un piccolo appunto per Clegg: aver trascurato di citare nel suo maiuscolo studio l’organizzazione italiana Cicap.
Concludo con un’illuminante riflessione di Ludwig Wittgenstein: Può suonare troppo semplice ma si può dire che la differenza fra magia e scienza consiste in questo, che esiste un progresso nella scienza ma non nella magia. La magia non ha una direzione di sviluppo che le sia intrinseca.

Brian Clegg
Extrasensoriale
Traduzione di Andrea Migliori
Pagine 296, Euro 16.00
Edizioni Dedalo



Mafalda ha cinquant'anni

È vero, i personaggi dei fumetti hanno per sempre l’età della loro effige.
La sola possibilità di attribuirgli un’età è data dalla loro nascita tipografica, compleanno extrabiologico con il tempo vissuto sulle onde di un fiume d’inchiostro.
Per esempio, Yellow Kid – ritenuto il primo fumetto moderno stampato – resterà per sempre il monello calvo che indossa un camicione giallo, lo stesso che indossava nel 1895 quando il suo autore Richard Outcult lo fece nascere.
Aldilà di questa capacità di restare della stessa età in cui vennero alla luce, è, però, possibile, come scrivevo prima, attribuire loro lo stesso degli anni, quelli editoriali.
Il 2014, per dire dei nostri giorni, è un anno importante per Mafalda.
Compie infatti 50 anni il personaggio nato dalla penna del fumettista argentino Joaquìn Salvador Lavado, in arte Quino (Mendoza, il 17 luglio 1932).
Scrive lo storico dei fumetti Franco FossatiQuesta bambina ribelle è spesso presentata come la risposta sudamericana ai “Peanuts”; non è la solita ragazzina terribile dei fumetti, ma una critica osservatrice della nostra realtà ed è seriamente preoccupata di come vanno le cose in questo nostro povero mondo […] vive, infatti, in stretto contatto con i mass media ed è informata su quello che succede.
Aggiunge Antonio Crepax “Mafalda fa le domande che ognuno di noi a volte vorrebbe fare ma cui non sempre saprebbe rispondere".

La prima striscia è stata pubblicata il 29 settembre 1964 sul settimanale «Primera Plana». Poco dopo, nel marzo 1965, Mafalda si sposta sulle pagine de «El Mundo» di Buenos Aires, dove ha guadagnato uno spazio giornaliero.
Quando, un anno dopo, le vignette vengono raccolte in un volume, il libro ha un successo immediato, esaurendo in soli quindici giorni la prima tiratura.
L'Italia festeggia quest’anniversario con una mini expo itinerante che sarà ospitata da biblioteche, centri culturali e le maggiori fiere editoriali (Fiera del libro per ragazzi di Bologna, Salone del libro di Torino, Festivaletteratura di Mantova).

Magazzini Salani, editore italiano di Mafalda dal 2006, per l'occasione pubblica una nuova edizione delle strisce, raccolte in dodici volumi in formato orizzontale, uguale a quello originale argentino, e la collezione completa “Tutto Mafalda” con la copertina oro per il cinquantesimo compleanno.
In Italia il personaggio appare per la prima volta in un'antologia del 1968. Un anno dopo è pubblicata la prima raccolta, intitolata "Mafalda la contestataria" e introdotta da una prefazione di Umberto Eco.
Nel 1970, infine, appare quotidianamente su «Paese Sera», primo di molti giornali che decideranno di ospitarla.
Col passare degli anni la fama di Mafalda non ha smesso di crescere e oggi è un fenomeno mondiale del fumetto. Le sue strisce sono state pubblicate in 50 paesi, tradotte in 20 lingue e hanno venduto oltre 50 milioni di copie.
Al personaggio sono anche state dedicate una piazza e una statua a Buenos Aires, una via a Bruxelles, ad Angoulême e a Gatineau (Quebec) e un francobollo in Belgio.
In occasione della 41° edizione del Festival internazionale del fumetto, inoltre, ad Angoulême è stata organizzata una mostra di 250 metri quadri intitolata “Mafalda, una bambina di 50 anni”.
Dagli anni '70, le nuove vignette di Mafalda sono state rare e sempre legate alla promozione dei diritti umani. Fra queste ricordiamo il poster Unicef che illustra la Convenzione Internazionale sui Diritti dell'Infanzia del 1976, l'apparizione del personaggio in un manifesto del Ministero degli Esteri argentino che celebra la giornata universale dei diritti umani e il quinto anniversario della fine della dittatura (1988), il manifesto per l'ecologia realizzato per l'Italia nello stesso anno, la vignetta apparsa su «La Repubblica» nel 2009 che riprendeva la frase di Rosy Bindi “Non sono una donna a sua disposizione”.


Fuoricorso

Carnevale. Il vocabolario ci aiuta a capire l’ètimo della parola > Carnevale deriva dal latino "carnem levare" ("eliminare la carne") poiché anticamente indicava il banchetto che si teneva l'ultimo giorno di carnevale (martedì grasso), subito prima del periodo di astinenza e digiuno della Quaresima.
Viareggio è una delle città italiane famose per ospitare anche quest'anno un vivacissimo carnevale che si avvale della direzione di Marco Antonio Francesconi; in quest'edizione, ai tradizionali festeggiamenti si affiancherà una manifestazione che ha per obiettivo comunicare la città di Viareggio come punto di rilievo della creatività italiana, quella irriverente e dissacrante, giocosa e gioiosa.
Ed ecco Fuoricorso il colore nell'interpretazione trasversale dell'anima carnevalesca-
Il logo è stato ideato e realizzato da Laura Fiaschi di Gumdesign.
“Fuoricorso” affronta i temi dell'arte, del cinema, della fotografia, dell'artigianato, del design.
“Nasce quest’anno con l'edizione zero, concentrata a Palazzo Paolina” – recita un comunicato – “puntando su di un segnale controcorrente rispetto alla tradizione ed al passato; un segno che indica un senso ‘altro’ da seguire, non la solita direzione”.
Si segnalano le presenze di Bruno Larini con l'opera dal titolo "Childhood", un lavoro sulle mutazioni genetiche; di Carlo Galli che riflette sui ragazzi senegalesi che allestiscono bancarelle fuori dei corsi mascherati; del fotografo Matteo Cirenei il quale produce una ricerca in b/n sull'architettura; un lavoro supportato da Fotonomica, realtà innovativa che utilizza un nuovo modello dinamico di galleria di fotografia d'autore online.

In quest’occasione, Vittore Baroni, uno dei più importanti esponenti della Mail Art nel mondo, espone una sua installazione dedicata a G. A. Cavellini nel centenario dalla nascita del poliedrico artista bresciano, detto GAC, geniale inventore della "autostoricizzazione" scomparso nel 1990.
L’opera – una mostra nella mostra dal titolo “G.A. Cavellini 1914-2014. I Francobolli del Centenario” – a cura di Baroni e dell’Archivio E.O.N. di Viareggio presenta in forma di ufficio para-filatelico temporaneo i nuovi francobolli celebrativi creati da 118 autori di 14 nazioni. I visitatori possono creare le loro buste di "prima emissione" con originali timbri e francobolli d'artista. Un tributo a Cavellini, una leggenda della Mail Art che ha sdoganato con ironia fin dagli anni Settanta, con i suoi onnipresenti adesivi, un utilizzo creativo dei colori della bandiera italiana.

Fuoricorso
Palazzo Paolina, Viareggio

mostra online: CLIC!
ideazione / Gumdesign
art direction e grafica / Gumdesign
organizzazione / Fondazione Carnevale Viareggio + Gumdesign
partner: Fotonomica, Giovannetti Collezioni, Mac Design, Maxdesign, Puntoneon, Superego, Upgroup
creativi: Vittore Baroni, Matteo Cirenei, Carlo Galli, Massimo Giacon, Gumdesign, Maria Christina Hamel, Bruno Larini, Mac Design, Superstudio, Hannes Wettstein

Ufficio Stampa: Andrea Mazzi, tel. +39 0584 580757; a.mazzi@ilcarnevale.com

Fino al 9 marzo 2014
Ingresso libero


Livelli di vita

Erroneamente, a mio avviso, definito da alcuni quale romanzo, Livelli di vita è un complesso meccanismo letterario che usa la metafora del volo per atterrare sulla piana di una disperazione calma – per usare un’espressione di Giorgio Caproni.
L’autore, pubblicato da Einaudi, è Julian Barnes.
Nato a Leicester nel 1946. Si è dedicato al giornalismo, scrivendo sul «New Statesman», sul «Sunday Times» e sull'«Observer».
È stato vincitore del più importante premio letterario di lingua inglese, il Man Booker Prize nel 2011.
Tra le sue opere Einaudi ha in catalogo: Storia del mondo in 10 capitoli e 1/2, Amore, ecc. («Einaudi Tascabili»); Oltremanica, England, England («Supercoralli»), Amore, dieci anni dopo («Coralli») e Arthur e George («Supercoralli»). Il senso di una fine (pubblicato nel 2012 nei «Supercoralli», nel 2013 il racconto Evermore (Quanti), tratto dalla raccolta Oltremanica.
“Livelli di vita” si compone di tre parti. Nella prima presenta tre protagonisti ottocenteschi: Fred Burnaby, colonnello della Guardia Reale inglese ed esploratore di terre esotiche, l’attrice Sarah Bernhardt, il vignettista Félix Tournachon, meglio noto come il grande fotografo Nadar.
Sono accomunati dalla passione per il volo sugli incerti aerostati del tempo sui quali i tre volteggiano fra lussi e pericoli, champagne a bordo e atterraggi più di sfortuna che di fortuna.
Anche le loro storie intrecciano amori e rischi: quella di Burnaby e la Bernhardt, quella di Nadar e l’afasica moglie Ernestine.
Qualche cedimento alla forma romanzesca è rilevabile e – perfino da uno come me che non ama il romanzo, perdonabile – nella seconda parte di quelle storie, ma per fortuna del lettore – sempre secondo il mio punto di vista – si tratta di un limitato numero di pagine perché poi si passa alla terza, bellissima, parte.
Qui diventa chiara la metafora del volo perché ogni storia d’amore, chiarisce Barnes, è come volare. Eppure Abbiamo perso le antiche metafore e dobbiamo trovarne di nuove. Noi non possiamo scendere negli Inferi come Orfeo. Perciò dobbiamo farlo in modo diverso, possiamo scendere nella memoria.
C’è una Euridice nella vita dell’autore? Sì, è Pat Kavenagh, sua moglie, morta nel 2008 cui è dedicato il libro e mai nominata nelle pagine.
“Il dolore”, ha detto Barnes in un’intervista al Guardian, “all’inizio sembra non solo distruggere tutti gli schemi, ma anche la convinzione che uno schema possa esistere.”
Lui, durante la malattia di Pat, tiene un diario di quanto accadeva, ma dopo la fine della donna con la quale aveva vissuto trent’anni, si rende conto che sono parole da cancellare perché scritte sotto l’impulso di ciò che succedeva.
“Solo perché l’emozione è enorme e si è in uno stato di estrema agitazione”, continua Barnes nell’intervista, “non significa necessariamente che ciò che ne scaturisce sia più vero di ciò che arriva da un momento più calmo”.
Ora, come Nadar che fotografava la terra dal suo pallone volante, lo scrittore può vedere la grande terra del dolore dall’alto, tra i gelidi venti della memoria.
L’altezza del dolore aumenta, non è più stordimento ma perenne vertigine.

QUI Barnes in un’intervista a Repubblica.

Julian Barnes
Livelli di vita
Traduzione di Susanna Basso
Pagine 128, Euro 16.50
Einaudi


In difesa dell'illuminazione a gas


Certamente in Italia, ma, forse, non soltanto da noi, Robert Louis Stevenson (Edimburgo, 13 novembre 1850 – Vailima, 3 dicembre 1894) famoso per i suoi romanzi “L’isola del tesoro” e ““Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, e poi per “La freccia nera” e “Il signore di Ballantrae”, è meno noto per il versante che va dalla poesia al teatro e per la sua pur imponente (per quantità e qualità) produzione saggistica.
Un’occasione per conoscerla è data dalle Edizioni Mimesis che propongono ai lettori In difesa dell’illuminazione a gas E altri saggi.
Il libro, a cura di Flora De Giovanni (QUI un profilo dei suoi studi), si avvale di una sua scorrevolissima traduzione e di un suo splendido intervento saggistico. Gli scritti di Stevenson, qui per la prima volta in italiano, sono stati divisi in sezioni e non secondo l’ordine testuale che avevano nell’edizione originale; scelta acuta perché permettono di meglio approfondire il perimetro culturale nel quale agì lo scrittore.
Così abbiamo Flora De Giovanni che usa le sue competenze da anglista nell’osservare Stevenson, critico dell’età vittoriana; Fabrizio Denunzio, sociologo della cultura, profila efficacemente dell'autore scozzese il modo in cui il lavoro è stato pensato e rappresentato nelle figure moderne del suo tempo (elettricisti e cotonieri) rispetto ai dominatori della natura (gli ammiragli): La modernità tra simboli e figure del lavoro; Gino Frezza, da mediologo ci offre un vigoroso studio della pluralità di figure e temi trattati da Stevenson e il loro ritrovarsi nel circuito mediale odierno, sezione intitolata Vivere appassionatamente, segretamente.

A Flora De Giovanni ho rivolto alcune domande.
Qual è l’importanza dei saggi nella produzione letteraria di Stevenson?

La sua produzione saggistica è ampia e articolata, perché, sebbene oggi sia sostanzialmente conosciuto come narratore, Stevenson vi si è dedicato lungo tutto l’arco della carriera letteraria, affiancando sempre i due tipi di scrittura. E i suoi saggi hanno goduto di grande popolarità: anzi, tra i suoi contemporanei vi è chi lo giudicava soprattutto un saggista. Del resto anche Borges afferma che ricordarlo solo come l’autore de “L’isola del tesoro” è riduttivo, perché è stato uno dei grandi maestri della prosa inglese.

In che cosa riconosci Stevenson come un anticipatore della letteratura dei primi del ‘900?

Il primo novecento non fu tenero con Stevenson e lo relegò, all’interno del canone, in una posizione marginale, ma in realtà non sono pochi i tratti che i cosiddetti modernisti condividono con lui, al di là delle differenze visibili. In primo luogo, la battaglia contro il realismo ottocentesco, specchio fedele di un mondo interamente leggibile, con il suo narratore onnisciente e il suo intento didascalico, al quale Stevenson contrappone la convinzione che la creazione narrativa sia artificio e che il suo scopo sia distaccarsi dalla vita piuttosto che riprodurla. Poi l’interesse per la psicologia, che diventa centrale nel romanzo dei primi decenni del ventesimo secolo. E infine l’attenzione alla cura formale, preoccupazione costante dei grandi scrittori modernisti, che si interrogano non tanto su ‘cosa’ dire ma su ‘come’ dirlo: Stevenson parla, ad esempio, di “ritmo della prosa”, proprio come farà anni dopo Virginia Woolf. Pensiamo a quella che oggi è la sua opera più nota, “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”: narratore multiplo, negazione dell’onnipotenza della scienza come strumento d’interpretazione del reale, riconoscimento della duplicità dell’uomo – anzi, della sua molteplicità e intima incoerenza, come, aggiunge profeticamente, sarà dimostrato in futuro. Mi sembra, insomma, che ponga implicitamente quella questione epistemologica che è la dominante della narrativa modernista.

Stevenson contrasta la modernità consegnando la propria figura a quella del conservatore, ma, ha lampi di ribellione in più pagine. E allora?

Non mi pare ci sia contraddizione: si può essere decisamente, vigorosamente ribelli anche volgendo lo sguardo al passato in cerca di una soluzione ai mali del presente. Non di rado nell’età vittoriana la critica alla società industriale si riveste di medievalismo, intersecandolo, in alcuni casi, con i principi socialisti (penso ad esempio a William Morris, al quale Stevenson è stato talvolta accostato). Benché Stevenson rinneghi il socialismo giovanile, il suo rifiuto dello scientismo imperante, del mito darwiniano del progresso, del “vangelo del lavoro” e del culto della produttività - dell’ideologia dominante, in una parola - è netto, radicale e costante, da qualunque prospettiva lo pratichi, tanto da tradursi nella scelta di abbandonare la culla del capitalismo industriale per trasferirsi nelle isole Samoa.

Robert Louis Stevenson
In difesa dell’illuminazione a gas
Traduzione e cura di Flora De Giovanni
Pagine 134, Euro 12.00
Mimesis


Darwin Days


Come ogni anno, dal 2003, l’Uaar promuove una serie di manifestazioni per ricordare la nascita di Charles Darwin (Shrewsbury, 12 febbraio 1809 – Londra, 19 aprile 1882).

A Pisa, sabato 15 febbraio alle ore 16.30, alla Scuola Normale Superiore (Aula Dini) - via del Castelletto 11, ci sarà un Darwin Day di particolare interesse per scelta tematica.
E' affidato a tre voci.

L’evoluzione della donna
Letture maschiliste e femministe dell’evoluzione umana
Maria Turchetto (epistemologa, Università Ca’ Foscari di Venezia)

La donna del pleistocene
Anna Maria Rossi (biologa, Università di Pisa)

La superiorità mentale della donna
Marirosa Di Stefano (neurofisiologa, Università di Pisa)

Cosmotaxi si è procurato un’anticipazione dell’intervento di Maria Turchetto.

Darwin propose una concezione dell’uomo rivoluzionaria – non a caso Freud la paragonò alla rivoluzione copernicana; fu anche un progressista su una questione eminentemente politica legata alla concezione dell’uomo: il problema delle razze, in tempi in cui era ancora intensa la discussione sull’abolizione della schiavitù. In questo trascese non solo il suo tempo, ma anche buona parte del secolo successivo, tristemente legato al “razzismo scientifico”. Ma su un altro versante Darwin si mostra pienamente figlio della propria epoca: nell’affermare l’inferiorità mentale della donna.
La reputazione delle donne non migliorò molto negli sviluppi successivi della teoria dell’evoluzione. A cavallo tra ’800 e ’900 si affermò la teoria della ricapitolazione di Ernst Haeckel, che si prestò a usi ideologici razzisti e sessiti. E anche negli ultimi decenni del ’900 Edward O. Wilson, il fondatore della sociobiologia, scrive: “Nelle società di cacciatori raccoglitori, gli uomini vanno a caccia e le donne stanno a casa. Questa forte predisposizione persiste nelle società agricole e industriali, e su questo terreno sembra avere un’origine genetica” (Human decency is animal, New York Times, 1975). Mentre Desmond Morris, nel celeberrimo La scimmia nuda (1967), traccia un’evoluzione della femmina umana tutta in funzione del piacere maschile.
Un detto veneto prescrive così le virtù della donna: “Che a piasa, che a tasa, che a stae a casa” (Che piaccia, che taccia, che stia a casa). Che piaccia – secondo Morris – lo ha assicurato la selezione naturale. Che stia a casa – stando a Wilson – lo prescrive il patrimonio genetico. Ma che taccia… ahimé, con gli autori citati siamo ormai negli anni ’70 del ’900 e le donne non sono più tanto disposte a tacere. Nel 1972 Elaine Morgan scrive L'origine della donna, una vera sfida alle interpretazioni dell’evoluzione umana in chiave androcentrica

Basta un CLIC per conoscere tutti gli appuntamenti dei Darwin Days italiani e stranieri.


Il bambino di Varsavia


Bene ha fatto l’editore Laterza a ripubblicare Il bambino di Varsavia Storia di una fotografia di Frédéric Rousseau, docente di Storia contemporanea all’Università Paul Valéry di Montpellier.
A chi fosse sfuggita la prima edizione italiana del 2011, è data oggi l’opportunità di leggere un libro straordinario.
Si tratta di uno studio in due parti su di una delle icone del secolo scorso che ancora adesso accompagna mostre, libri, cataloghi, cartoline: quel bambino - in prima fila di un gruppo di ebrei rastrellati - dalle gambette magre con in testa un berretto più grande del suo capo, uno zaino sulle spalle e le braccine alzate mentre un soldato tedesco lo tiene sotto tiro col mitra.
Uno studio in due parti dicevo: nella prima è ricostruita la storia della famosa fotografia, nella seconda si legge uno studio semantico sulla forza delle immagini, sull’uso politico delle stesse, sul loro declinare e risorgere.
Il bambino, si è saputo, si chiamava Artur Siemiatek, nato a Lowic da Leon e Sarah Domb, nel 1935; il soldato SS che gli punta contro l’arma è consegnato alle cronache dell’infamia con il nome di Joseph Blösche e faceva parte delle truppe comandate da Jürgen Stroop che incendiarono tutte le abitazioni nel ghetto di Varsavia, operazione cominciata il 19 aprile, ossia il giorno precedente al compleanno di Hitler, che avrebbe in questo modo festeggiato l'annientamento del ghetto. La resistenza opposta fu eroica, la battaglia proseguì per tutto il mese di aprile, ma solo il 16 maggio Stroop inviò un rapporto a Berlino (con un corredo fotografico che conteneva la foto del bambino con le mani in alto) intitolato: “Non esiste più un quartiere ebraico a Varsavia”.
Quel rapporto fu sequestrato ed esibito davanti al Tribunale di Norimberga, ma quella foto – scattata da una SS – non divenne famosa allora né nel processo che anni dopo fu osservata dai giudici che condannarono a morte Stroop.
Bisognerà aspettare gli anni ’60 per vedere man mano sempre più fittamente riprodotta quell’immagine; lampeggerà in “Notte e nebbia” di Alain Resnais, ci sarà il libro “La stella gialla” di Gerhard Schoenberner, poi ancora il cinema con “Vincitori e vinti” di Frédéric Rossif, e così via via. Negli anni ’80 e ’90 la fotografia vede sempre più amplificata la sua diffusione arrivando a essere citata anche su più mezzi: quadri, poesie, canzoni.

La conclusione dell’autore è amara, e riguarda l’uso e il destino dei mezzi di comunicazione della nostra epoca.
Scrive Frédéric Rousseau: La fotografia del bambino di Varsavia è vittima della sua grande efficacia. Nell’era multimediale planetaria, un piccolo clic ci fa passare da una vittima a un’altra […] L’immagine del ghetto di Varsavia non è più un documento: ha smesso di essere uno strumento pedagogico. Il suo uso e abuso le hanno fatto perdere la sua capacità di messa in guardia, oggi l’analisi e la comprensione dei processi storici vengono messe da parte a favore della sola dimensione emotiva delle immagini. In sostanza, in una certa misura sono delle storie senza storia – né quella degli individui né quella dei popoli – quelle che oggi offrono agli occhi e alla comprensione queste immagini.

Per una scheda sul libro: QUI.

Frédéric Rousseau
Il bambino di Varsavia
Traduzione di Fabrizio Grillenzoni
Pagine 216, Euro 9.00
Laterza


Alter Ego Alias

Chi è Silvia Veroli? E perché parlano tanto bene di lei?
Donna mercuriale, fantasia saettante, attraversa da anni territori sociali ed estetici del nostro tempo analizzandoli con i plurali strumenti della sua cultura che va dal classico al pop indagando su fenomeni ed espressività che intrecciano più codici.
Una sua autobiografia la si trova su di un iperprint spaziale a bordo dell’Enterprise di Star Trek, cliccare per credere.

Ora l’editore Guaraldi ha pubblicato Alter Ego Alias Narrazione di una ricerca, anzi di un nuovo mondo.
Si tratta di alcuni articoli (in verità, autentici microsaggi) ampliati, scelti e organizzati in cinque temi.
E allora indaghiamo: chi sono gli alieni? Quelli immaginati da Verne o quelli indagati dagli scienziati? (“Alieni su Alias”).
Andiamo alla ricerca di un altrove rintracciabile solo attraverso la risoluzione di prove e tramite una ridefinizione di spazi e forme (“Codici, enigmi, linguacce”).
Cerchiamo un centro di gravità provvisorio, una terra sotto i piedi, i sassi come fortezza o come elemento di un misterioso equilibrio gravitazionale (“Rolling Stones”).
Incontriamo modelli femminili erranti, in ascolto, fragili e magici come Cappuccetto Rosso, Dorothy Gale, Goliarda Sapienza (“Ragazze devianti”).
Pensiamo pure a mettere su casa cercandola fra i tetti di Leopardi, Snoopy e Lombroso (Case, Dimore, Domicili).
Scorrendo attraverso queste derive magnetiche ci troviamo tra le mani un libro di lussuosa intelligenza.

A Silvia Veroli ho posto due domande.
Come nasce questo volume?

Il libro raccoglie i temi degli articoli, riveduti e corretti, approfonditi negli ultimi dieci anni collaborando ad alias, supplemento culturale del manifesto, e al manifesto medesimo. Gli argomenti, legati all'ambito culturale, sono intersezioni tra materie; mi spiego meglio. In questi anni non ho recensito una mostra o un libro ma ho parlato delle arti nel momento in cui queste venivano in contatto tra di loro: i rebus e i giochi enigmistici nella rappresentazione dei pittori, il recupero di un edificio storico già manicomio a partire dai racconti che ne hanno fatto i ricoverati nel giornale diretto da Lombroso, l'esperienza amministrativa di Licini intersecata alla sua carriera artistica e indagata dagli indizi che ha lasciato a casa sua, la tendenza a inventare lingue inventate dal punto di vista dei musicisti. Quando un’arte non è solo una cosa ma si contamina - e chiedo perdono per abusare di un verbo già troppo abusato - con un'altra ecco che vengo fuori io. Per questo dico che mi occupo, mi sono occupata, di argomenti inqualificabili, perché non posso classificarli in maniera netta e tradizionale. Per necessità, inclinazione, per amore dell'ibrido (anche nelle auto).

A chi consigli questo libro? E a chi, invece, lo sconsigli?

Con questa premessa la selezione tra i possibili, eventuali, lettori penso sia già fatta... comunque potrebbero gradire gli amanti delle scienze inesatte e i saltatori di pala in frasca. Chi crede che la via più corta tra due punti sia non la linea retta ma il labirinto (copyright Ennio Flaiano).
Meno chi, comprensibilmente, preferisce percorsi di indagine e lettura più nitidi e lineari
.

Per una scheda sul libro e un assaggio di lettura: QUI.

Silvia Veroli
Alter Ego Alias
Pagine 102
Edizione su carta, euro 8.90
Edizione PDF, 4.99
Guaraldi


Giornale notturno di Fabre


Prima d’inoltrarvi in questa nota dedicata all’artista, scenografo e regista belga Jan Fabre consiglio un breve video che con le dichiarazioni estreme contenute, meglio introdurrà a quanto leggerete.

Fabre (Anversa, 14 dicembre 1958) dopo aver studiato all’Istituto di Arti Decorative e Belle Arti e all'Académie royale des Beaux-Arts d’Anvers, all'inizio degli anni '80 dirige ad Anversa i suoi primi spettacoli. Soprattutto con “Questo è teatro come ci si doveva aspettare e prevedere”, dalla durata di otto ore, dal tramonto all’alba, ottiene una grande notorietà, non tutta benevola.
Nel 1984 presenta alla Biennale di Venezia “The power of theatrical madness” (5 ore… ah, ma allora è vizio!) che connota ancora più chiaramente il suo stile eccessivo e conferma la tendenza totalizzante e interdisciplinare della sua ricerca.
Caratteristiche che sono evidenziate nel Giornale notturno 1978 - 1984, curato da Franco Paris, pubblicato da Cronopio in occasione della mostra al Maxxi di Roma che, inaugurata il 16 ottobre ’13, è possibile visitare fino al 16 febbraio incluso.

Scrive Franco Paris: “… un’inesauribile energia ruota in queste pagine intorno al ruolo del corpo, un corpo che è nel contempo spirituale e materiale, culturale e viscerale, sede del pensiero ma anche di sangue, urina, sperma, nucleo dell’eterno flusso di nascita-vita-morte-rinascita. ‘Performance significa una persona che per-fo-ra se stessa e il suo ambiente (è nello stesso tempo analizzare, distruggere e onorare’. Così scrive nel Giornale notturno in data 20 febbraio 1982 a New York”.

Qualche assaggio dal libro a cominciare da una delle prime note del 1978.
Anversa, 9 marzo
Le donne hanno il privilegio assoluto della trasgressione.
Sono loro, le donne, che detengono l’accesso all’eccesso.
Le donne sanno che noi uomini siamo donne
.

Milwaukee, 14 maggio 1981
Io sono un nomade.
Mi piace “essere in cammino”.
Si evita la catastrofe d’essere accasati
.

Bruxelles, 27 febbraio 1983
La strada è il mio museo invisibile.
Le fogne sono la mia collezione invisibile
.

L’ultima annotazione del Giornale notturno: Anversa, 23 dicembre 1984.
Custodisco e mi prendo cura
Di tutti gli animali che mi abitano
.

Lettura elettrizzante come lo è il personaggio dell’autore che, maratoneta di percorsi magnetici, ha per traguardo se stesso e proprio per questo, forse, quel traguardo è irraggiungibile.

Jan Fabre
Giornale notturno
A cura di Franco Paris
Pagine 224, Euro 16.00
Cronopio


Briganti romantici


In un recente numero dell’Espresso, riflettendo sull'attuale periodo letterario che vede sempre più spesso scrittori inserire vicende inventate inserite in fatti veri della Storia, Paolo Di Paolo sostiene, con la sua solita raffinatezza e ricchezza d’esempi, la liceità di “raccogliere dicerie, fraintendimenti, fondarsi su briciole di memoria raccattate nelle stanze di casa o per la strada, sulle bugie, le contraddizioni”.
Gli esempi che fa non mi convincono, inoltre sono da tempo dell'opinione che oggi sia del tutto inutile il romanzo stesso e come diceva Manganelli: "Basta che un libro sia un romanzo per assumere un connotato losco".
Poi, questo incrociare narrativa e ritratto storico (specie in Italia) è un gran pasticcio, perché non tutti hanno la forte penna di quel tale (pur da me non particolarmente amato) che aveva venticinque lettori.
Inoltre, quel modo di scrivere è stato travasato anche nelle biografie con risultati agghiaccianti, con astruse romanzerie lontanissime dalle invenzioni vertiginose di Schwob o dagli splendidi falsi di Borges che sono riusciti a restituire a fatti e personaggi un vero più vero del vero.

Da noi, chi da tempo ci dà splendide pagine biografiche costruite su seri studi e ricerche, illuminando angoli storici finora oscuri e scrivendo in modo avvincente, è Silvino Gonzato.
Editorialista del giornale «L’Arena» di Verona, è il massimo biografo di Emilio Salgari (“Emilio Salgari. Demoni, amori e tragedie di un capitano che navigò solo con la fantasia”; La tempestosa vita di capitan Salgari; oltre a numerosi articoli e saggi sul “capitano”) ha pubblicato l’anno scorso Esploratori italiani. Autore che vanta numerose traduzioni, adesso è nelle librerie - edito, come i precedenti titoli, da Neri Pozza - con Briganti romantici.
Dal quarto di copertina: “Scritte col piglio del racconto d’avventura ma arricchite dalle splendide e rigorose ricostruzioni storiche cui Silvino Gonzato ci ha ormai abituato, Briganti romantici è un affresco che, dal Seicento all’Ottocento, narra di gendarmi e soldati, sicari e spie, vagabondi e generali, e dell’avventuroso destino di coloro che sarebbero passati alla storia come briganti”.

A Silvino Gonzato ho rivolto alcune domande.
In Italia, Il brigantaggio è prevalentemente associato alla fine del ‘700 fino ai primi del ’900, ma si parla di un fenomeno ben più antico; tu, non a caso, riferisci di Zanzanù che agisce tra la fine del ‘500 e gli inizi del ‘600. E’ così? Puoi fare qualche altro esempio?

Il brigantaggio, sotto diverse forme, è sempre esistito. Silla e Cesare, nell’Antica Roma, impegnarono le loro Legioni nella lotta al brigantaggio che rendeva insicure le vie di comunicazione. Dal Medioevo ci sono arrivate storie di briganti efferati che depredavano e massacravano interi villaggi. Ma anche in quell’epoca si possono ritagliare figure di briganti “gentiluomini”, per non dire romantici, del genere, insomma, di quelli del mio libro, che ebbero il sostegno della popolazione dalla quale erano considerati come eroi. Un esempio: Ghino di Tacco che si era dato alla macchia assieme al padre, un conte ghibellino, a un fratello e a uno zio. Scampato all’eccidio della banda, continuò a fare il brigante ma il Boccaccio lo ricorda come un brigante gentiluomo che talora cedeva alla generosità. Brigante era anche la figura semileggendaria di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri. I briganti hanno comunque sempre suscitato un grande fascino sulla gente povera cui non dispiaceva che, attraverso di loro, si attuasse una sorta di redistribuzione del reddito secondo una discutibile, violenta, concezione di giustizia sociale.

La figura del brigante, pur essendo massicciamente presente nel Meridione d’Italia, è presente, come il tuo libro dimostra, anche al nord. Ma perché proprio al sud il fenomeno è più esteso?

Il brigantaggio è intimamente legato alla miseria, e al Sud c’è sempre stata molto più miseria che al Nord. Nell’Italia post-unitaria, stante il peggioramento delle condizioni di vita del Sud nel passaggio tra il Borbone e i piemontesi, il brigantaggio ebbe un grande sviluppo e furono molte anche le donne che si diedero alla macchia, in gran parte al seguito dei loro uomini. Michelina Di Cesare, che è una delle figure del mio libro, è una di queste.

Da una parte il brigante è preso a simbolo di giustizia popolare, ma dall’altro molti furono al servizio di grandi reazionari tanto che parecchi di loro ingrossarono le file del Cardinale Ruffo. Come spieghi che il brigante possa essere visto come eroe popolare e, al tempo stesso, trovarsi agli ordini di antiliberali?

I briganti diventano eroi popolari nel momento in cui agiscono con le loro bande, non quando si intruppano in eserciti. Se lo fanno, e tu alludi ai briganti che si arruolarono nell’”Esercito della Santa Fede” del cardinale Ruffo, è per calcolo e convenienza. Nessuno dei briganti del mio libro è al servizio di potenti o di fazioni, al contrario, li combatte. È un solista della rapina e del sequestro di persona e i nemici giurati sono il regime al potere e chi lo favorisce. La simpatia popolare gli deriva da questo. Uno dei briganti del mio libro, Mayno della Spinetta, combatte addirittura contro l’esercito di Napoleone e si prende beffa dei suoi generali.

Silvino Gonzato
Briganti romantici
Pagine 256, Euro 18.00
Neri Pozza


Ricordo di Humphrey Osmond

Dieci anni fa, il 6 febbraio 2004, nella sua casa di Appleton nel Wisconsin moriva a 86 anni lo psichiatra Humphrey Osmond (in foto).
Osmond è stato il pioniere nell’uso terapeutico di Lsd e mescalina entrando nella storia della cosiddetta controcultura (termine discutibile, si trattava di un nuovo modo di praticare cultura che condivisi e condivido).
Fece conoscere quelle droghe allo scrittore Aldous Huxley, che ne descrisse le esperienze in Le porte della percezione, da cui il gruppo rock dei "Doors" prese in parte spunto per il suo nome; in inglese il titolo del libro è "The Doors of Perception".
Osmond è il creatore della parola "psichedelico".

Dal sito Finzioni: “Osmond era convinto che l’uso di sostanze psicoattive potesse essere utile a svelare il modo in cui la mente si relaziona al mondo circostante, aprendo anche alla possibilità di inventare nuovi modelli relazionali, nuove forme di percezione e, quindi, una nuova arte. Osmond era alla ricerca di un nome in grado di evocare gli effetti dell’acido lisergico, per questo si mise in contatto con lo scrittore americano Aldous Huxley, tramite un amico comune. Così nel 1953 Osmond fece visita a Huxley, convincendolo a provare l’acido. Qualche settimana più tardi Huxley mandò una lettera all’amico in cui proponeva il termine “phanerothyme”, dal greco “mostrare” e “spirito”, includendo una rima: To make this mundane world sublime / Take half a gram of phanerothyme. [Per rendere sublime questo banale mondo / prendi mezzo grammo di fanerotima]. In risposta, Osmond propose il termine “psychedelic”, letteralmente “che mette a nudo la psiche”, offrendo anche la prima poesiola psichedelica in cui appare il neologismo: To fathom Hell or soar angelic / Just take a pinch of psychedelic. [Per provare l’inferno o sentirti angelico / prendi giusto un pizzico di psichedelico].
La lesse per la prima volta di fronte al dotto pubblico della New York Academy of Sciences nel 1957”.

La parola fu conosciuta soprattutto attraverso Timothy Leary – col quale, però, Osmond ebbe qualche dissenso – per poi diffondersi in tutto il mondo letterario, musicale, delle arti visive.
Osmond nei suoi ultimi anni insegnava nella facoltà di medicina dell’Università dell’Alabama.


Fotografia post mortem


Henri Cartier-Bresson diceva “Le fotografie possono raggiungere l'eternità attraverso il momento”.
Il libro di cui mi occupo oggi sembra quasi il rovesciamento di quell’aforisma, si tratta, infatti, di un volume che presenta immagini che dall’eternità raggiungono il momento di chi le guarda.
Il titolo – editore Castelvecchi – è eloquente e non troppo allegro: Fotografia post mortem.
Ne è autore Mirko Orlando, appassionato d’arte, disegno, grafica e fotografia, si è diplomato all’Accademia delle Belle Arti di Roma e insegna Fotografia e Grafica pubblicitaria. Ha esposto i suoi lavori in molte città italiane. Tra le sue pubblicazioni, “Ripartire dagli addii” (Mjm) e Il volto (e la voce) della strada .

Dalla quarta di copertina: “Prima dell'invenzione della dagherrotipia, nel 1839, l'unico modo per tramandare la propria immagine era il ritratto, ma erano in pochi a poterselo permettere. Con l'avvento della fotografia si diffuse l'usanza della foto post mortem, una pratica sviluppatasi in epoca vittoriana e caduta in disuso negli anni Quaranta del Novecento. All'epoca, il tasso di mortalità infantile era assai elevato, e non di rado le fotografie post mortem erano l'unico modo che i genitori avevano per conservare l'immagine dei figli. I soggetti erano spesso ritratti come ancora in vita: con gli occhi aperti, o così dipinti, o addirittura impegnati in piccole attività quotidiane. Alcuni recenti studi suggeriscono che questa pratica possa ricondursi a più antiche e radicate pratiche di tanatometamorfosi (trattamento delle spoglie). Se così fosse, rappresenterebbero una sorta di mummificazione visiva, dove la sembianza di vita sia resa necessaria per esprimere lo stato di salute dello spirito del defunto. Lo studio di Mirko Orlando giunge a colmare una carenza critica su un tema tabù, su una pratica che, seppure in vesti macabre, nasconde significati che vanno ben di là dalla semplice foto ricordo”.

Lo fa (imponente la bibliografia) passando attraverso la storia, non solo della fotografia, della psicologia, dell’antropologia.
Questo tipo di fotografia – riferisce Wikipedia – è ancora praticata in alcune regioni del mondo, come l'Europa orientale e, tra i fedeli delle chiese europee orientali, sono diffuse foto di santi situati nelle loro bare. È anche possibile vedere questo genere di foto che ritraggono generalmente bambini morti pochi giorni dopo il parto.
Il libro (assai ricco l’apparato iconografico) mi ha riportato a un mio terrore d’infanzia: in una stanza della casa dei nonni c’era un grande ritratto di una bambina, occhi aperti, che sapevo fotografata dopo morta. Attraversavo quella camera col cuore in gola.

Mirko Orlando
Fotografia post mortem
Pagine 192, con foto in b/n
Euro 25.00
Castelvecchi


Clero Criminale

Edito da Laterza è nelle librerie Clero Criminale L’onore della Chiesa e i delitti degli ecclesiastici nell’Italia della Controriforma.
Autori: Michele MancinoGiovanni Romeo.

Michele Mancino insegna Storia moderna nell’Università di Napoli Federico II. S’interessa di giustizia ecclesiastica e di conflitti giurisdizionali nel Cinque-Seicento, di storia della confessione e della predicazione nell’Italia della Controriforma. Ha pubblicato saggi in riviste e in volumi collettanei e il libro “Licentia confitendi. Selezione e controllo dei confessori a Napoli in età moderna” (Roma 2000).
Giovanni Romeo insegna Storia moderna nell’Università di Napoli Federico II. Tra le sue pubblicazioni: “Ricerche su confessione dei peccati e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento” (Napoli 1997); “Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma“ (Milano 2004); “Esorcisti, confessori e sessualità femminile nell’Italia della Controriforma” (Firenze 2003).
Per Laterza ha pubblicato L'Inquisizione nell'Italia moderna e Amori proibiti. Concubini fra chiesa e Inquisizione .


Clero criminale spiega come per tutta l’età moderna la Chiesa cattolica difese a spada tratta il diritto degli ecclesiastici responsabili di crimini comuni di essere giudicati da suoi tribunali. Fecero eccezione solo i delitti più efferati, su cui lo Stato rivendicò precise competenze, sia pur tra mille difficoltà. È un problema storico mai studiato in profondità e questo libro colma la lacuna, grazie all’esame di una ricchissima documentazione inedita, non solo di natura giudiziaria. Teatro della ricerca è l’Italia del Cinque-Seicento, alle prese con gli eccessi di varia natura di chierici, preti e frati delinquenti e con le scelte di giudici quasi sempre conniventi e interessati soprattutto a tutelare l’onore del clero e della Chiesa tutta. Il libro, che dà ampio spazio alla vita quotidiana, apre squarci sorprendenti su dimensioni della storia religiosa e civile della penisola pressoché sconosciute.
Su Laterza.it e su Fedoa.unina.it (Archivio istituzionale della Università degli Studi Federico II) un’ampia selezione dei documenti presi in esame nel volume.

Ho rivolto alcune domande ai due autori, li sentirete rispondere con una voce sola.
Prodigi della tecnologia di cui dispone a bordo Cosmotaxi.

Dal libro traspare un lavoro imponente di ricerche. Quanto tempo avete impiegato fra reperimento dei documenti e stesura?

Gli ultimi tre-quattro anni a tempo pieno, ma per altri sette-otto abbiamo raccolto, nel corso di altre ricerche, le fonti che poi ci hanno permesso di ‘pensare’ il libro.

Qual è il tratto che più distingue la Chiesa nell’Italia della Controriforma?

Al contrario della tendenza corrente a rivalutare la Controriforma anche nei suoi aspetti più discutibili – si pensi alle amenità che si continuano a leggere sull’Inquisizione – il quadro è poco esaltante. Gli aspetti più incisivi del Concilio di Trento, a cominciare dal ruolo riformatore affidato ai vescovi, si infransero prestissimo contro il centralismo della Curia romana. Le ricerche confluite in questo volume sono esemplari. Soprattutto in Italia, i pochi vescovi che cercarono di arginare i tanti ecclesiastici criminali che formavano il nerbo delle Chiese locali (là dove possiamo misurarne i tassi di delinquenza, finiva sotto processo il 15-20% del clero, con percentuali molto maggiori per l’alto clero) dovettero fare i conti con migliaia di piccoli Berlusconi in tonaca, abilissimi nell’insinuarsi nelle maglie della giustizia.

E i vescovi ’riformatori’?

Ebbero quasi sempre la peggio, sistematicamente delegittimati da sentenze d’appello che annullavano o annacquavano le condanne di primo grado. Decisivo fu il ruolo dei Nunzi apostolici e dei tribunali romani, devastanti gli esiti per la vita civile della penisola. Ritrovarsi tra i piedi ancora in pieno Settecento, come parroci, confessori e uomini di Chiesa, delinquenti recidivi, rei spesso di delitti che i laici pagavano con la vita, compiuti a danno di vicini o familiari, non dovette essere un’esperienza gradevole per tanti fedeli del nostro paese. I confronti finora possibili con altre nazioni cattoliche fanno pensare che la debolezza degli Stati italiani e la forte centralizzazione delle istituzioni ecclesiastiche locali abbiano scavato un solco tra la penisola e il resto dell’Europa cattolica: è istruttivo ciò che si sa sulla Francia, e sulla capacità della sua giustizia statale di imporsi su quella della Chiesa, almeno per i delitti più atroci.

Verso quali reati i tribunali ecclesiastici manifestarono maggiore rigore e verso quali si comportarono in modo più indulgente?

E’ difficile rispondere in breve a questa domanda. Non c’è alcun dubbio sul fatto che stuprare e uccidere i bambini, è forse, in assoluto, il delitto più grave, seguito a ruota da altri atti di violenza efferati: le autorità ecclesiastiche non possono che allinearsi al rigore dei tribunali secolari e alla sensibilità corrente. Ma è altrettanto vero che la preoccupazione principale dei giudici della Chiesa è quella di difendere il proprio diritto di processare e punire gli ecclesiastici, di impedire che siano tribunali secolari a condannarli a morte, o, se proprio non ci riescono, di evitare che sia data pubblicità alla loro esecuzione capitale.

Reazioni che avete registrato all’uscita del libro?

Il silenzio pressoché generalizzato di giornali, riviste, radio e tv ci è parso il segnale più doloroso della crisi della laicità nell’Italia di questi anni. Sul versante della Chiesa, due penosi trafiletti comparsi su “Avvenire”, il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, attenti solo a tacere i nomi dei reprobi che avevano osato scrivere il volume e a tentare di ridicolizzare i due illustri recensori che avevano osato presentarlo in termini positivi sulle colonne del “Sole 24ore” (Massimo Firpo) e del “Corriere della Sera” (Francesco Margiotta Broglio), sono forse lo specchio di quanto papa Francesco dovrà lavorare per riformare in profondità l’istituzione che guida. Ben diverse le reazioni dei lettori - il libro ha avuto tre ristampe in quattro mesi -, e di tanti cattolici, anche sconosciuti e anche ecclesiastici, che hanno apprezzato il coraggio e la novità della ricerca. In una Chiesa aperta, che vuole voltare le spalle alle tristi vicende dei preti pedofili, questo, a nostro modesto avviso, sarebbe un libro da discutere nelle parrocchie...

Michele Mancino
Giovanni Romeo
Clero criminale
Pagine 248, Euro 22.00
Editori Laterza


Facce da Bucci


Un gruppo di frequentatori del Teatro Bucci di San Giovanni Valdarno si è prestato a diventare protagonista dell’esperimento Facce da Bucci.
Durante la passata stagione teatrale sono state invitate a calcare il palcoscenico del teatro condividendo una performance visiva, ideata da Lucia Baldini, che prevedeva una sessione fotografica con una particolare macchina “a foro stenopeico”.

Gli apparecchi che permettono di riprendere le immagini attraverso un forellino, detti stenopeici sono costituiti essenzialmente da una scatola chiusa a perfetta tenuta di luce annerita al suo interno, dal forellino denominato “stenope” e da un congegno di otturazione che permette di aprire e chiudere il passaggio della luce attraverso il foro.
In era digitale - scrive Gino Mazzanobile - ripercorrere questa strada non è soltanto un fatto di moda o di controtendenza. Imparare o riscoprire i principi base nei quali affondano le radici tutti i fenomeni di trasmissione della luce può essere affascinante quanto misterioso. La tecnica del foro stenopeico potrebbe sembrare argomento di nicchia ma non è scomparsa del tutto: la si insegna a vari livelli scolastici per dimostrare il funzionamento della macchina fotografica e viene impiegata come sistema fotografico, da appassionati e artisti per le proprie ricerche espressive. In altre parole, chi si diletta a fotografare con un foro al posto dell’obiettivo c’è sempre stato e sempre ci sarà.
La peculiarità di quest’apparecchio è che richiede tempi di posa molto lunghi, tempi nei quali il soggetto ritratto deve rimanere perfettamente immobile, cosa che costringe a una profonda concentrazione.

Lucia Baldini (QUI il suo sito web) ha realizzato così alcuni ritratti “stenopeici” di oltre 10 minuti di posa. Inoltre, ha realizzato altri ritratti in cui i protagonisti di Facce da Bucci sono stati chiamati a misurarsi con Alice nel paese delle meraviglie.
Il materiale prodotto nella prima fase di Facce da Bucci è stato selezionato, strutturato e utilizzato per costruire una video-installazione.

Gli ingressi: dal tramonto, nei giorni di spettacolo e nei fine settimana.

Lucia Baldini
Facce da Bucci
Teatro Bucci, San Giovanni Valdarno
Febbraio – Marzo ‘14
Info: 055 – 94 08 75
info@luciabaldini.it


perlascena


È online una nuova edizione, contenutistica e grafica, di un sito (nato nel settembre 2011) dedicato al teatro: perlascena non periodico per una drammaturgia dell’oggi.
Nuovo layout, nuovi spazi per on-stage, le news e tutte le altre, numerose, iniziative in corso.
Attori che presentano monologhi alla webcam estratti da loro spettacoli, autori che pubblicano testi teatrali, segnalazioni di spettacoli, festival, rassegne.
Il sito possiede una buonissima interattività e vi consiglio di visitarlo, basta un Clic.


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