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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine (1)

Roma, 24 marzo 1944, strage delle Fosse Ardeatine, 335 martiri.

“Ricordate! Chi per la Patria muor vissuto è assai!
Ebbene, se per la Patria io dovessi versare il mio sangue, se essa mi
chiedesse il supremo olocausto, non indietreggerei! Non indietreggerò.
Sono Italiano e mi vanto di appartenere alla Nazione
più bella del mondo, a questa bella Italia cosí martoriata!
Se non dobbiamo più rivederci ricordate che avete avuto un
figlio che ha dato sorridendo la sua vita per la Patria guardando
in viso i carnefici!”

Biglietto scritto a matita ritrovato in tasca a una delle vittime.

Queste righe sono poste a epigrafe d’un libro di monumentale importanza, di assoluta necessità, destinato ad essere qualcosa di più, molto di più, di un ever green, perché testo dal quale sarà imprescindibile passare per conoscere un grande quanto grave passaggio della Storia italiana e dell’antifascismo di cui si tenta in questi giorni di sminuirne il valore civile.
Pubblicato dalla casa editrice Einaudi è intitolato Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine Le storie delle 335 vittime dell'eccidio simbolo della Resistenza
Gli autori sono Mario Avagliano e Marco Palmieri

Avagliano, giornalista professionista e studioso di Storia contemporanea, è membro dell'Istituto Romano per la Storia d'Italia dal Fascismo alla Resistenza e della Sissco e dirige il Centro Studi della Resistenza dell'Anpi di Roma-Lazio. Tra le sue opere: Roma alla macchia. Personaggi e vicende della Resistenza (Cava de' Tirreni 1997); «Muoio innocente». Lettere di caduti della Resistenza a Roma (in collaborazione con Gabriele Le Moli, Milano 1999). Per Einaudi ha curato il volume Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945 (2006) e ha pubblicato, con Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945 (2009), Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia (2010) e Voci dal lager. Diari e lettere di deportati politici 1943-1945 (2012).

Palmieri, giornalista pubblicista e studioso di Storia contemporanea, ha lavorato per diverse testate; è membro del Centro Studi della Resistenza dell'Anpi di Roma-Lazio e ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla deportazione, l'internamento e le vicende militari italiane nella Seconda guerra mondiale. Per Einaudi ha pubblicato, con Mario Avagliano, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945 (2009), Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia (2010), Voci dal lager. Diari e lettere di deportati politici 1943-1945 (2012) e Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine. Le storie delle 335 vittime dell'eccidio simbolo della Resistenza (2024)

Di questi due autori Cosmotaxi si è già occupato in occasione di un loro precedente lavoro I militari italiani nei lager nazisti.

Le fosse Ardeatine sono uno dei momenti più riusciti della propaganda fascista fin dal dopoguerra a oggi sostenendo che la strage fu causata dal mancato costituirsi dei gappisti autori dell’attentato di via Rasella. Bugia colossale. Un manifesto dell’epoca recitava “L’ordine è già stato eseguito” dando notizia della già avvenuta esecuzione di “comunisti badogliani”. Anche volendolo, Capponi, Bentivegna e altri partigiani non avrebbero avuto neppure il tempo per costituirsi. Altra inesattezza – ripetuta anche appena giorni fa da La Russa, presidente del Senato (seconda carica della Repubblica) – vorrebbe il plotone tedesco ucciso in via Rasella solo “una banda di musicisti”.
No, appartenevano alla polizia germanica.

Avagliano e Palmieri ricostruiscono le biografie dei 335 martiri non con poche righe ma n modo dettagliate con diffuse notizie sulle professioni e sui mestieri svolti, sull’appartenenza politica di ciascuno, delle amicizie, e talvolta dei nomi di chi li ha traditi.

Dalla presentazione editoriale di Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine.

«Roma, 24 marzo 1944: in una cava sulla via Ardeatina, i tedeschi uccidono 335 uomini sparando a ognuno un colpo alla testa. Sono prigionieri politici e partigiani di tutte le forze antifasciste, civili e militari, molti ebrei, alcuni detenuti comuni e ignari cittadini estranei alla Resistenza, sacrificati in proporzione – che poi si rivelerà sbagliata per eccesso – di dieci a uno in seguito a un attacco partigiano in via Rasella, costato la vita a 33 militari del Reich. È il piú grande massacro compiuto dai nazisti in un’area metropolitana e segnerà profondamente la storia e la memoria italiana del dopoguerra. Dell’eccidio delle Fosse Ardeatine molto si sa. Poco invece si conosce delle vicende individuali delle vittime, alle quali – tranne poche eccezioni – fino ad ora nelle cerimonie e nelle pubblicazioni era dedicata solo una riga con le generalità in un lungo elenco. Questo libro per la prima volta racconta la loro storia, una per una».

Non è molto noto, ma esiste un brano musicale del 1968 dedicato a quella tragedia, è del compositore William Schuman (1910-1992): Sinfonia No.9, Le fosse ardeatine.

Segue ora un incontro con i due autori.


Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine (2)

A Mario Avagliano e Marco Palmieri ho rivolto alcune domande.
I due autori (in foto) rispondono con una voce sola.

Quanto tempo vi è servito dalle prime ricerche fino alla redazione del volume per rintracciare tutto quell’ingente materiale biografico?

L’idea di questa ricerca nasce alcuni anni fa, sulla base della considerazione che a ottant’anni di distanza della gran parte delle vittime delle fosse ardeatine si era persa traccia e memoria della storia personale e individuale. C’era quindi da riscoprire e tutelare un patrimonio di informazioni e notizie che rischiavano di andare irrimediabilmente e definitivamente perdute. Negli anni scorsi, quindi, abbiamo cominciato a raccogliere informazioni e notizie dalle fonti più varie, anche nel corso delle ricerche che hanno portato alle nostre altre pubblicazioni di questi anni sulle vicende di quel terribile frangente storico. Nel corso dell’ultimo anno, infine, avvertendo l’urgenza di riportare alla luce le vicende personali dei martiri delle Ardeatine, anche ai fini di una maggiore e più diffusa comprensione di quella drammatica vicenda e del contesto storico in cui si inseriva, abbiamo lavorato a tempo pieno per arrivare a questa spoon river italiana, come giustamente è stata definita da Einaudi che ha condiviso con noi questo progetto.

Come vi siete mossi? A quali fonti vi siete riferiti?

La base di partenza è stata la raccolta di informazioni fatta dal professor Attilio Ascarelli al momento dell'identificazione delle salme e le schede compilate dai familiari dei martiri. Per molti di essi c'erano solo nomi e cognomi e poche altre scarne informazioni. Per ricostruire le loro biografie abbiamo scandagliato archivi familiari, comunali, degli istituti storici, del museo di Via Tasso, le carte della polizia politica, i fascicoli del casellario politico centrale per gli antifascisti di vecchia data, il fondo per il riconoscimento della qualifica di partigiani, gli archivi delle formazioni partigiane e dei partiti politici antifascisti e della comunità ebraica. Alcuni di loro hanno lasciato anche diari, lettere e biglietti clandestini dalle carceri naziste e fasciste. Infine, abbiamo utilizzato le testimonianze dei parenti, gli atti del processo Kappler e di altri processi a spie e collaborazionisti fascisti, i verbali di interrogatori.

Dalle storie individuali quale ritratto della società italiana di quel tempo emerge?

Come scriviamo nell’introduzione del libro, dalla tale ricerca emerge uno spaccato altamente rappresentativo dell'intera storia italiana di quel tempo, in uno dei suoi snodi più drammatici e cruciali, tra fascismo, occupazione nazista, Resistenza e Liberazione. Le vittime sono italiani provenienti oppure originari da ogni parte della penisola, dalla Lombardia alla Sicilia, più alcuni stranieri (un belga, un francese, un libico, un turco, un ungherese, tre ucraini e tre tedeschi). Le vittime erano militari e civili e appartenevano a tutti i ceti sociali, dagli aristocratici ai poveracci venuti in città per sbarcare il lunario e sopravvivere alla miseria. Erano impiegati, commessi, commercianti, avvocati, professori, studenti, militari, venditori ambulanti, artigiani, contadini, pastori, operai. Erano di ogni fascia d’età, dagli anziani ai giovanissimi. Di ogni livello d’istruzione, dagli analfabeti ai grandi intellettuali. Erano persone oneste o colpevoli di reati comuni, che stavano scontando la loro pena in carcere. Quanto al credo religioso, vi erano cattolici (tra cui un sacerdote, don Pietro Pappagallo, che ispirò uno dei personaggi di Roma città aperta di Roberto Rossellini), ebrei e atei. I militari appartenevano alle differenti armi – diversi i carabinieri, tra cui gli ufficiali che avevano arrestato Mussolini il 25 luglio – ed erano di diversi gradi, dagli alti ufficiali (come Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, capo del fronte militare clandestino) ai soldati semplici. Tra i “politici”, infine, erano presenti esponenti di tutte le forze antifasciste e della Resistenza, e perfino un ex sottosegretario dei governi fascisti, Aldo Finzi. Dentro la storia delle 335 vittime, quindi, c’è tutta la storia d’Italia – sociale, politica, economica, culturale – e della Resistenza.

Gli assassinati sono tutti uomini, ma avete dedicato spazio anche alle loro donne. Quale ruolo svolsero all’epoca della strage?

Le donne hanno un ruolo importante in questa storia. Sono proprio loro, infatti, che nella Roma ancora occupata dai nazisti dopo aver appreso della rappresaglia con il famoso annuncio “l’ordine è già stato eseguito”, continuano ad andare alle porte di via Tasso e Regina Coeli pretendendo informazioni sui propri cari di cui non hanno più notizie. Così come sono le donne che, quando si sparge la voce del ritrovamento del luogo della strage, si occupano del riconoscimento dei corpi dei propri mariti, figli, fratelli e si battono affinché sia preservata la loro memoria e quella del loro sacrificio. C’è anche una trecentotrentaseisima vittima, che è una donna. Si tratta di una contadina di Gaeta, Fedele Rasa, sfollata, che si reca nella zona del massacro in corso in cerca di qualcosa da mangiare, non sente o non comprende l’ordine di allontanarsi dei soldati tedesche che la feriscono a morte con un colpo d’arma da fuoco.

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Mario Avagliano – Marco Palmieri
Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine
pagine XL – 576 * euro 24.00
Einaudi


Bella Ciao


Le origini di quel canto vedono gli storici non tutti d’accordo.
Vi hanno speso studi: da Cesare Bermani a Emilio Jona, da Sergio Liberovici a Lionello Gennero da Michele Straniero a Marcello Flores.
Parlare su “Bella ciao” forse obbliga a ricordare anche “Fischia il vento”, altra bella e severa canzone partigiana che, pur cantata da molte formazioni era preferita da parte comunista, mentre “Bella ciao” era più giovale e anche a questo deve la sua fortuna diventando oggi l’inno dell’internazionale radicalità giovanile e di tutti i ribelli del mondo contro il potere.
Nella storia di questo brano, va dato primario merito all’antropologo Alberto Maria Cirese per essersene interessato e aver notato come fosse un riadattamento (con altre parole) della canzone epico-lirica che Costantino Nigra (1828 – 1907) chiamò “Fior di tomba”, canto diffuso in tutta Italia, entrato stabilmente nel repertorio militare sin dalla guerra del 1915-1918. Sta di fatto che oggi quella canzone, da tempi lontani fino a piazze di molti paesi risuona forte e perfino nella triste America di Trump quelle note e quei versi diventarono un canto d’opposizione e per la libertà.
Tantissimi gli artisti che l’hanno incisa, eccone un elencofolto sì, ma probabilmente non esaustivo.

La casa editrice il Saggiatore ha pubblicato un libro molto interessante dedicato a quel brano: Bella ciao Una canzone, uno spettacolo, un disco.
L’autore è Jacopo Tomatis.
Nato a Mondovì nel 1984, è musicologo, giornalista, musicista.
Insegna Popular Music ed Etnomusicologia all’Università di Torino.
Per il Saggiatore ha pubblicato “Storia culturale della canzone italiana” (2019) e curato il libro di interviste di Lucio Dalla “E ricomincia il canto” (2021).

Originale il Prologo del libro: una fotografia in b/n.
Scattata ad Hanoi nel dicembre 1966.
Ritrae, Enrico Berlinguer, in rappresentanza del Partito comunista italiano, mentre offre il discp “Bella ciao” a Nguyễn Sinh Cung, meglio noto come Hồ Chí Minh, presidente della Repubblica Democratica del Vietnam.

Dalla presentazione editoriale

«Una canzone, uno spettacolo, un disco
Bella ciao è il racconto di un pezzo di storia della musica italiana rimasto volutamente lontano dalle classifiche e dai circuiti ufficiali, ma fondamentale per la costruzione della nostra identità nazionale e politica. Un libro che ci ricorda le appassionanti (e animate) origini di una canzone divenuta inno della lotta per la libertà in tutto il mondo.

«Bella ciao» è una e trina. Nell’immaginario collettivo, è il brano simbolo della Resistenza partigiana. I più però dimenticano che è anche il nome di uno spettacolo di «canzoni popolari italiane» che tanto fece scalpore al Festival dei Due Mondi di Spoleto del 1964, e del 33 giri a firma del Nuovo Canzoniere Italiano che quello spettacolo fissò su disco, entrambi con un ruolo cruciale nella diffusione della canzone. In queste pagine Jacopo Tomatis attraversa le vicende del progetto culturale che ruota intorno a «Bella ciao» nella sua triplice forma e ne ricostruisce la fortuna in anni di profondi mutamenti sociali: dalle prime apparizioni durante la Seconda guerra mondiale alla prima versione registrata – quella di Yves Montand –, fino al successo discografico e alla sua trasformazione in simbolo dell’incontro fra politica e musica.

Quella di Tomatis è l’esplorazione di un brano iconico; un’indagine capace di stare in equilibrio tra fatti e leggende, revival e interpretazioni errate, che riesce a smantellare la mitologia di una canzone senza sminuirne il fascino e l’importanza. Perché, sicuramente, «Bella ciao» è stata, ed è ancora, un oggetto divisivo: «Cantarla – o non cantarla – rappresenta una scelta ben precisa».

Concludo con l’ascolto di quel brano famoso.
Ma una piccola sorpresa l’ho riservata ai lettori di queste righe: un video.
Una versione jazzistica.
Al clarinetto Woody Allen con la sua New Orleans Jazz Band.
Buon ascolto

………………………

Jacopo Tomatis
Bella ciao
240 pagine * 18.00 euro
Il Saggiatore



La memoria e la lotta

Titolo di un libro di maurizio Maggiani uscito in questi giorni di sfacciato revisionismo.

La Storia esiste e si tramanda finché è raccontata, e nessuno sa raccontarla come Maurizio Maggiani, che fra le pagine del suo ultimo libro si fa testimone di personaggi e avvenimenti ormai quasi dimenticati: dal coraggio della “principessa con il fucile in mano” immortalata all’ingresso della casa museo di Giuseppe Mazzini a Genova, all’accorata forza dell’appello del Presidente della Repubblica Sandro Pertini ai giovani.

Il video è della giovanissima (2002) Anna Balducci


Storie di errori memorabili


“Sto lavorando duro per preparare il mio prossimo errore”, diceva Einstein.
E Warhol: “Chi mai ha commesso un errore, nulla di nuovo ha mai sperimentato”.
Insomma l’errore può contenere opportunità, risorse.
Ne sa qualcosa Cristoforo Colombo.
E se vogliamo verità e saggezza e decidessimo di entrare nella terra dei filosofi per saperne di più sull’Errore? Se consultiamo un Dizionario di filosofia ci verrà risposto che “A differenza della menzogna e del sofisma, l’errore rappresenta un fallimento inconsapevole del pensiero nel raggiungimento della verità, e può attuarsi sia nel campo logico-gnoseologico sia in quello morale”.
Ma l’errore è sempre dannoso?
Parola al filosofo Giulio Giorello: “L’errore ha perduto il suo valore conoscitivo, mandando in soffitta uno dei modi di dire più comuni che ci ha accompagnato per generazioni, l’altrimenti saggio “sbagliando s’impara”. L’errore ci sgomenta, non può riguardarci: soprattutto in ambito medico tendiamo a considerarlo troppo spesso inaccettabile e scandaloso. Ma la nostra storia genetica ci ricorda come le specie sopravvivano adattandosi all’ambiente a partire da errori “casuali”, talvolta fatali ma spesso utili e risolutivi. Nel mondo al tempo dell’Artificial Intelligence, l’anomalia inevitabile dell’imperfezione è ancora necessaria per avanzare nel cammino della conoscenza.

La casa editrice Laterza ha pubblicato un libro che indaga sull’errore e lo fa in campo scientifico dove gli errori possono costare molto caro.
Titolo: Storie di errori memorabili.
L’autore è Piero Martin.
L’editore informa: professore ordinario di Fisica sperimentale all’Università di Padova, attualmente distaccato presso il Centro Interdisciplinare “B. Segre” dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Studia la fusione quale sorgente di energia. Fellow dell’American Physical Society, è stato responsabile scientifico di grandi progetti internazionali e oggi coordina le attività di fisica di DTT, il nuovo grande esperimento di fusione italiano. Scrive per “La Stampa” e “lavoce.info” e ha vinto il Premio Fiuggi Scienza. Ha pubblicato L’era dell’atomo (con A. Viola, Il Mulino 2014), Zerologia (con C. Bartocci e A. Tagliapietra, Il Mulino 2016) e Trash. Tutto quello che dovreste sapere sui rifiuti (con A. Viola, Codice edizioni 2018, finalista al Premio Galileo 2018 e vincitore del Premio nazionale di divulgazione scientifica, sezione Scienze).
Per Laterza: “Le 7 misure del mondo” (2021), tradotto in otto lingue e finalista al Premio Galileo 2022).

C’è del genio nell’errore questo l’incipit di “Storie di errori memorabili”.
Facciamo tesoro degli errori questo l’explicit.
Fra questi due poli verbali si muove l’indagine di Martin con scrittura veloce e comprensibile anche a chi non fa parte del mondo scientifico. Inoltre, illustra e commenta errori famosi con un sorriso dietro le righe che ancor più rendono piacevole la lettura.

A questo punto, visti i tempi, è necessaria una precisazione, affinché complottisti, no vax,
terrapiattisti, esoteristi e monoteisti non approfittino degli errori illustrati in questo libro per gettare discredito sulle scienze. La risposta da dare loro è semplice: gli scienziati ammettono i loro errori (talvolta perfino proficui) quelli che ho nominati prima mai li ammettono nonostante le smentite che piovono loro addosso ripetutamente da secoli.

Dalla presentazione editoriale

«Non si tollera, non si riconosce, non si perdona, ma non si può evitare. È l’errore, prezioso compagno di quel meraviglioso errare che è la vita. Un viaggio sorprendente tra memorabili incidenti di percorso della scienza: sbagliare non solo è umano ma spesso è anche molto utile!
Spesso si considera la scienza il regno della certezza e della verità. Invece, il dubbio e l’errore sono fondamentali per il progresso del sapere in ogni settore. E, come accade nella vita di ogni giorno, anche nella scienza l’errore si presenta sotto molteplici forme: c’è l’errore che è motore di nuove conoscenze, ma anche quello frutto dell’ideologia o della fretta. C’è l’errore riconosciuto e quindi fecondo, ma anche quello testardo.
In questo libro scopriremo storie affascinanti di chimica, biologia, medicina e soprattutto di fisica, dal punto di vista di chi sbaglia. Incontreremo scienziati come Fermi, Einstein e Pauling e studiosi quasi ignoti. Scoprire che anche i grandi della scienza hanno sbagliato sarà una iniezione di ottimismo. Viviamo in un mondo che con l’errore ha un rapporto difficile. Oggi più che mai è importante rivalutarlo: lunga vita all’errore!».

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Piero Martin
Storie di errori memorabili
200 pagine * 18.00 euro
Ebook euro 11.99
Laterza


Pahsi Lin

Il nome di Taiwan risuona da tempo solo per le tensioni che ha con la Cina per via di una travagliata storia che ha origine alla metà del secolo scorso.
Ma aldilà del conflitto diplomatico, qual è l’opera d’arte più ammirata a Taiwan?
Con tanti visitatori da fare invidia all’europeo Louvre?
È un cavolo.
Ma aldilà di questo capolavoro che raffigura magistralmente quel vegetale, l’arte taiwanese ha rappresentanti di valore internazionale.
Letteratura? Segnalo qui solo libri disponibili in italiano.
Musica e musicisti… non pochi.
Teatro? Non mancano autori, attori, registi.
E il cinema? E i cineasti taiwanesi? Cliccate sul loro schermo.
QUI Giulia Giaume ci accompagna in un veloce giro fra artisti taiwanesi.
Quanto a musei, ce ne sono tanti da visitare, date uno sguardo qua.
E italiani noti a Taiwan? Molto apprezzati i nostri ceramisti, tra i letterati il più conosciuto è Calvino, tra i cineasti Fellini, nelle arti visive (aldilà dei grandi personaggi storici del passato) ha conquistato in questi più recenti anni un primo piano tra i contemporanei Marta Roberti.

Ma ora torniamo in Italia.
Nei primi tre mesi della Biennale Arte 2024, il maestro taiwanese Pahsi Lin (in foto) – CLIC per entrare nel suo sito web – presenta a Venezia un nucleo di dipinti appartenenti alla serie Infinity Art realizzati per l’occasione e testimoni delle sue più recenti sperimentazioni.
Le opere saranno allestite suggestivo salone a volte di La Cavana Gallery, un ex ricovero coperto per imbarcazioni tipico della città di Venezia situato lungo la calle che collega il Ponte dell'Accademia alla famosa passeggiata delle Zattere, al centro del Sestiere di Dorsoduro, un quartiere ricco di Musei, che comprende Gallerie dell'Accademia, Collezione Peggy Guggenheim, Palazzo Cini, Fondazione V.A.C., Fondazione Vedova e Fondazione Punta della Dogana/Pinault nonché più di qualche eccellente bàcaro da me frequentato disubbidendo al mio medico.

Estratto dal comunicato stampa.

«Pahsi Lin (Kaohsung Pingtung-Taiwan, 1960) è pittore e scultore la cui opera getta un ponte tra spirito orientale e occidentale. I suoi quadri testimoniano una conoscenza approfondita dell’astrattismo occidentale - appreso anche grazie ai lavori di maestri appartenenti a generazioni precedenti, come Ho Kan - e nello stesso tempo riconducono all’arte cinese antica, come ad esempio le ricercate citazioni di manufatti tradizionali o la riscoperta di particolari tecniche del colore.
Pahsi Lin riprende l’arte dei ‘letterati’, un tipo di pittura caratterizzata da un’unione di pittura e calligrafia che si affermò sotto l’imperatore Yuan (1271-1368) e diede vita a una forma d'arte raffinata, caratterizzata dall’uso sapiente dell’inchiostro, da pennellate ritmate e da un uso audace del colore.

Pahsi Lin crea composizioni solo in apparenza casuali, dove traspare il conflitto, il contrasto tra idealismo e realismo, tra il profondo ed il superficiale. Il suo modo di dipingere oggi, dimostra un uso attento della tecnica pittorica occidentale, ma anche una vicinanza con le opere di famosi artisti cinesi contemporanei, quali Zhang Daqian (1899-1983) e Zao Wou-ki (1921-2013), per il ruolo cruciale che il colore ebbe nella loro arte. La pittura di Pahsi Lin, come quella di Zhang Daqian, si ispira al loro particolare uso dei materiali naturali per realizzare colori più ricchi e sgargianti e nello stesso tempo sofisticati, che lo spingono sempre di più all’abbandono completo dell’oggetto reale.
Un ultimo, ma non meno importante, elemento che caratterizza le sue opere è l’utilizzo sapiente e raffinato dell’oro, anch’esso testimone di un’arte antica che riaffiora e non è mai dimenticata, che egli accosta a inchiostri e pigmenti colorati realizzati con minerali speciali e rari, provenienti da tutto il mondo.

Bai Yu (Pahsi Lin) dal 2015 è professore onorario dell'Accademia Reale di Belle Arti di Liegi in Belgio ed è editorialista per l'Hong Kong Economic Journal. Negli ultimi anni ha tenuto mostre personali in Belgio a Theuax (Biennale d‘Art), a Brionde (Festival d'Aquarelle); in Francia a Parigi (Fo Guang Yuan Art Gallery); in Italia a Milano (Galleria Scoglio di Quarto) e Monza (Villa Reale); in Gran Bretagna a Londra (Bloomsbury Gallery); in Cina a Shanghai (Yunjian Art Museum), Xiamen (Amoy art Frair), Shenyang (M56 Art Museum) e Jinan (Museum of Fine Art); Taiwan a Kaohsiung (Museum of Fine Art), Taipei (World Trade Center)
Molto legato all’Italia da alcuni anni sostiene, tramite BAI YU ART FOUNDATION da lui presieduta, gli studenti più meritevoli dell’Accademia di Belle Arti di Brera. L’iniziativa ha cadenza biennale e si è svolta nel 2019, 2021 e 2023. L’ultima edizione, lo scorso 11 dicembre, ha assegnato 7 ‘Premi Borsa di Studio’ a studenti che si sono distinti durante l’anno accademico 2022-2023 per l’impegno e la serietà nel partecipare all’attività accademica e per la qualità del lavoro. A Grazia Varisco invece è stato consegnato il ‘Premio alla Carriera’ per l'attività svolta come docente e artista.

BIG EYES INTERNATIONAL VISION è una società formata ad un gruppo di professionisti che operano da diversi anni tra Oriente e Occidente in diversi settori (turismo, non profit, arte e musica, fashion, comunicazione ecc.). La sua Mission è l’incontro di queste due diverse culture».

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Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web:
Ufficio stampa Big Eyes International Vision
Alessandra Pozzi Mob. +39 338 59 65 789 * press@alessandrapozzi.com

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Pahsi Lin
InfinitY art
La Cavana Gallery, Venezia, Rio Terrà Foscarini, Dorsoduro 909/C
19 aprile - 07 luglio 2024
Orario: mercoledì > lunedì 11 -19, chiuso martedì
Ingresso Libero


Arte Scienza

Un’occasione per approfondire la conoscenza dei rapporti fra Arte e Scienza è data dall’omonimo web magazine.
Direttore responsabile è Luca Nicotra.

A capo della redazione c’è Isabella De Paz (in foto).

Eccola in una corsa su Cosmotaxi.

Quando è nato il magazine “Arte Scienza” e come si è formato il gruppo dei fondatori?

«ArteScienza_magazine» nasce, su mia proposta benevolmente accolta dal presidente e dal comitato di Arte e Scienza. Nasce nel dicembre del 2020 come supplemento elettronico e cartaceo del periodico telematico semestrale «ArteScienza» ed è orientato verso contenuti prevalentemente grafici e fotografici. La registrazione della testata e il Direttore responsabile (ingegnere Luca Nicotra) sono gli stessi della rivista «ArteScienza» mentre il direttore di redazione sono io: Isabella De Paz.
La casa editrice è UniversItalia S.r.l. di Roma, che già dal 2014 cura annualmente la pubblicazione dei volumi stampati annuali di «ArteScienza».

In redazione quale cosa vi guida assolutamente per prima? E quale cosa è quella che decidete per prima assolutamente da evitare?

Il requisito primario e irrinunciabile è definito nel carattere espresso nella testata della rivista madre: “La Rivista pubblica preferibilmente articoli e saggi sull'unità della cultura o che mettano in evidenza collegamenti e contaminazioni fra le discipline letterario-umanistico-artistiche e quelle scientifiche. Sono accettati anche articoli e saggi di solo contenuto storico, letterario, filosofico, artistico e scientifico, purché presentati in forma divulgativa, comprensibile anche da parte di lettori con formazione culturale non specialistica”.
Sono, quindi, assolutamente respinti articoli specialistici non espressi in forma intelligibile anche da parte dei “non addetti ai lavori”. Lo scopo primario di «ArteScienza_magazine» è lo stesso della rivista madre «ArteScienza»: favorire il dialogo fra le due culture attraverso una buona divulgazione.
Per quanto mi riguarda vivo il Magazine come una città invisibile di calviniana memoria, cioè un'opera aperta, costruita "per schede" e in tempi successivi. Mi piace di questa idea l’ispirazione diretta dal libro di Italo Calvino di cui ricordo una riflessione che è un buon consiglio per tutti: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio».

Qual è la principale risorsa ricevuta dagli artisti dalle nuove tecnologie?

Per la prima volta nella storia umana, gioco e lavoro utilizzano gli stessi strumenti. Si tratta di una rivoluzione profonda, che genera stupore e inquietudine, sostanze stimolanti che nutrono l'incantevole autismo dell'artista scienziato e attraggono il pubblico, ansioso di trovare nell'arte stimoli e conoscenze utili anche per la vita quotidiana. La realtà aumentata, la stampa 3D, l’intelligenza artificiale e il software di elaborazione digitale hanno aperto nuove frontiere espressive, permettendo agli artisti di esplorare dimensioni inedite e di creare opere che erano inimmaginabili fino a pochi decenni fa. Queste tecnologie hanno anche democratizzato l’arte, rendendola più accessibile e coinvolgendo il pubblico in esperienze immersive e personalizzate. L’interazione tra arte e tecnologia continua a evolversi, promettendo di plasmare ulteriormente l’esperienza artistica nel futuro. L’arte, da sempre specchio dell’evoluzione umana, si trova oggi al centro di una rivoluzione digitale che sta ridefinendo il modo in cui percepiamo e interagiamo con il mondo creativo.

“Molti sono spaventati dal nuovo, a me terrorizza il vecchio”. Così diceva John Cage. Perché in molti hanno paura (fino ad avversarle) delle novità scientifiche? Da dove viene quel panico?

Il timore del nuovo è un sentimento naturale dell’uomo, che esprime anche a livello del subconscio una legge universale della Natura: l’inerzia, ovvero la resistenza ad accettare un cambiamento. Ciò vale per la fisica quanto per la psiche. La paura delle novità scientifiche, in particolare, è dovuta, oltre che all’inerzia, alla incomprensione della scienza, che è largamente diffusa anche nella nostra epoca tecnologico-scientifica, creando disagi e problemi vari. È naturale avere paura e diffidare di ciò che non si conosce. Uno degli obiettivi delle due nostre riviste è proprio quello di cercare di eliminare o quanto meno attenuare questo disagio, favorendo la comprensione della scienza da parte di persone comuni.


Anime creative (1)

Chi sono i creativi? Che cos’è la creatività?
C’è chi pensa che consista nel fare esperimenti folli. Così, ad esempio, la pensava Charles Darwin che diceva di adorarli, aggiungendo “Li faccio in continuazione”.
E sostenere che 2 + 2 fa 5 è solo un errore? Macché! È proprio questa l’arte della creatività secondo Arthur Koestler.
La creatività ha un nemico? Sicuro, Il nemico della creatività è il buonsenso risponde Pablo Picasso.

La casa editrice il Mulino ha pubblicato un imponente saggio dal titolo Anime creative Da Prometeo a Steve Jobs.
Imponente il saggio, imponente l’autore: Paolo Perulli.
Sociologo dell'economia, ha insegnato nelle Università del Piemonte Orientale, Venezia, Cambridge (Usa), Parigi, Lugano.
Tra i suoi volumi “Terra mobile” (Einaudi, 2014), “The Urban Contract” (Routledge, 2017), Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo” (La Nave di Teseo, 2020).
Per il Mulino: Nel 2050. Passaggio al nuovo mondo (2021).
QUI alcuni suoi articoli.

Dalla presentazione editoriale.

«Chi sono i creativi nell'epoca della conoscenza? Un viaggio nel tempo e nello spazio per capire come la creatività ha dato forma al mondo. Chi sono i creativi oggi, da dove vengono? Questo libro li colloca in una precisa genealogia: sono gli eredi di Prometeo e Faust, dell'uomo creatore di Nietzsche e dell'imprenditore innovativo di Schumpeter, delle avanguardie europee novecentesche e della grande migrazione in America, fino ai tecnologi visionari della Silicon Valley. In epoca recente, siamo rapidamente passati dall'uomo creatore, che inventa opere d'arte e d'ingegno singolari e risponde solo a sé stesso, alla classe creativa, che innova disegnando prodotti per i mercati da cui noi tutti dipendiamo. I creativi non sono una categoria privilegiata, piuttosto sono portatori di una condizione dello spirito che produce effetti universali e può dare speranza al mondo. Tuttavia, oggi non sanno di appartenere a tale tradizione e mancano di un canone. Come evitare che questa massima diffusione della creatività si trasformi in banalità, in serialità, nel vuoto creativo?».

Segue ora un incontro con Paolo Perulli.



Anime creative (2)

A Paolo Perulli (in foto) ho rivolto alcune domande.

Un gioco caro ai ludolinguisti dell’Oulipo.
Una sua definizione della creatività in 10 parole tanta quante sono le lettere che compongono quella parola

Conoscenza, relazione, emozione, attesa, transizione, innovazione, visione, immagine, tecnica, arte.

Nella stesura di questo saggio qual è la cosa che si è proposto di fare assolutamente per prima e quale cosa per prima assolutamente da evitare?

Ho voluto creare una genealogia dei creativi! Mostrare che stanno sulle spalle di giganti! Essi oggi mancano di tradizione critica e di identità collettiva. Ho voluto invece evitare la tesi della classe creativa come gruppo sociale privilegiato perché è falsa: oggi in Italia la metà degli artisti è sotto la soglia della povertà, documenta l’ISTAT.

Il concetto di creatività cambia attraversando le epoche storiche oppure ha un suo perno su cui sempre gira?

La creatività è un dono, ce lo dice il primo creativo: Prometeo, che porta in dono agli uomini il fuoco cioè la tecnica.
È quindi qualcosa che eccede la semplice utilità.

Tra le cose (poche, in verità) che non condivido del Sessantotto c’è il motto “Siamo tutti artisti”. Lei che ne pensa su quelle tre parole? La creatività appartiene proprio a tutti?

No, ma può essere insegnata e largamente diffusa, come dimostra il caso della Scuola del Bauhaus di cui il libro si occupa, che ha segnato - prima in Europa poi in America - tutte le discipline artistiche e tecniche del ‘900.

Un tema che rimbomba su tutti i media: l’Intelligenza Artificiale; sfociando anche sul piano giuridico specie sul diritto d’autore.
Dobbiamo, secondo lei, assegnare oppure no all’’IA un ruolo di creatività
?

Solo nel senso di “machina sapiens”, non nel senso di “homo sapiens”. In altri termini la creatività umana non ha paragoni, nel bene e nel male. La conoscenza è prodotta dalla sofferenza, come dice Simone Weil (“il desiderio di conoscere e comprendere non ha problemi a portar via la sofferenza”), e le macchine non soffrono…

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Paolo Perulli
Anime creative
220 pagine * 17.00 euro
Il Mulino


Una data storica

81 anni fa fu scoperto l’LSD.

Da un librino “Millelire” (“Viaggi Acidi” di Pino Corrias, Stampa Alternativa, 1992)
.
“Zero virgola cinque milligrammi di acido lisergico in soluzione. Tre gocce, un sorso. Si siede e aspetta. Sono le due del pomeriggio di un giorno speciale, il 19 aprile 1943: il chimico Albert Hofmann, 37 anni, da cinque impegnato in esperimenti sugli alcaloidi contenuti nella segale cornuta, ha appena ingerito la prima dose di Lsd della Storia. Aspetta, e ancora non sa di avere appena socchiusa quella che Aldous Huxley, un decennio più tardi, avrebbe chiamato la Porta della Percezione. Ancora non sa che quella sostanza incolore avrebbe conquistato ragazzi californiani, musicisti anglosassoni, scrittori, filosofi di tante parti del mondo”.

Albert Hofmann (in foto) nell'ottobre 2007 è stato inserito nella classifica dei 100 Geni Viventi alla prima posizione, a pari merito con Tim Berners-Lee, inventore del World Wide Web.
Nato nel 1906 è morto all’età di 102 anni nel 2008.

Una sua frase celebre: “Invece di sprecare tutte queste energie e sforzi diretti a far guerra alle droghe, perché non si presta attenzione a droghe che possano porre fine alla guerra?”


Elogio del mangiare con le mani

Dalla Treccani.
«Elogio. Da “Elogium” è parola di dubbia origine (eligere, eloquium, ἐλεγεῖον, εὐλογία), e di vario significato. Latinamente non dice soltanto lode, ma prima ancora motto o breve iscrizione, e nel periodo imperiale anche clausola testamentaria, lista poliziesca di colpe d'un individuo, e anche sentenza penale. In Plauto vale iscrizione: in Catone il Vecchio, iscrizione onorifica per eroe morto in guerra, per Leonida spartano: corto epigramma, dunque, a rilevare o esaltare le virtù o i meriti di uomo illustre».

Insomma, fin dall’antichità ‘Elogio’ è parola anfibia e multiuso.
Diceva Gesualdo Bufalino: “Quanto male è nato dal pregiudizio che il biasimo sia intelligente e l'elogio stupido”.
Se non fossi ateo, io direi: parole sante!
Si pensi all’elogio dantesco di S. Francesco nel canto XI del Paradiso, all’Elogio della Follia di Erasmo, all’Elogio degli Uccelli nelle Operette morali di Leopardi, e i tanti elogi, spesso anonimi, alla modestia, all’eroismo, alla maternità, e, perfino, alla povertà, alla miseria, alla morte… ma in quest’ultimo caso francamente mi pare che si esageri.
Né mancano ai nostri giorni (escludendo quelli fatti per servilismo su qualche foglio) altri nobili scritti: Elogio della lettura di Vargas Llosa, Elogio della letteratura di Zygmunt Bauman, Elogio dell’imperfezione di Rita Levi Montalcini, Elogio della penna stilografica di Giuseppe Neri, Elogio della Disarmonia di Gillo Dorfles… e come non ricordare Umberto Eco che elogia Il riso di Franti considerato malvagità solo perché per l’Enrico deamicisiano il Bene sta solo nell’ossequiente ordine di cui si nutre.

La casa editrice il Saggiatore ha pubblicato un nuovo elogio letterario:Elogio del mangiare con le mani.
L’autore è Allan Bay.
L’editore informa: “Bay (Milano, 1949), è critico, scrittore e giornalista enogastronomico.
Ha collaborato a lungo con il Corriere della Sera. Tra le sue numerose opere ricordiamo Cuochi si diventa (2003) e la Garzantina della Cucina (2010).
Il Saggiatore ha pubblicato Nuova cucina italiana (con Paola Salvatori, 2021).

“Il cibo è il carburante della storia” – scrive Marino Niola – “dalla scoperta del fuoco all’invenzione della piastra a induzione le grandi rivoluzioni dell’umanità sono legate alla cucina. Molti miti raccontano che il primo uomo venne impastato e cotto come un pane. Come dire che cottura e cultura sono la stessa cosa”.
Ma, scartando l’ipotesi cannibalesca, altri cibi come si mangiano?
Molte pietanze, sostiene Allan Bay, si mangiano con le mani e spiega come ha costruito il suo libro : “La prima corposa parte di questo elogio, introdotta da una teoria generale del mangiare con le mani, racconta la storia di questa preziosa «tecnica», dai primordi al trionfo della forchetta. È e vuole essere una sintesi, come fosse un racconto da fare d’inverno, mentre fuori nevica, in un salotto pieno di amici e gatti fidati, avendo un buon distillato in un bicchiere e del delizioso cibo in pancia, ovviamente mangiato con le mani.
La seconda parte racconta di quel che si può e non si può mangiare con le mani e, soprattutto, di come farlo”.

Dalla presentazione editoriale.

«Elogio del mangiare con le mani è un’esortazione ad assaporare l’esistenza in modo più leggero e spontaneo: ad accarezzarla e maneggiarla, toccarla e soppesarla, per poi portarla alla bocca e goderne.

Molti anni fa, quando eravamo solo semplici bipedi e cercavamo di sopravvivere tra bestie feroci e intemperie, noi umani godevamo di un grande privilegio: quello di riunirci intorno a un fuoco per mangiare quel poco che avevamo con le mani. Era una necessità, ma anche un modo più diretto, e in un certo senso più poetico, di affrontare la realtà. Oggi quell’antica gestualità sopravvive, minacciata tuttavia dall’avanzare delle forchette. Come gazze ladre, negli ultimi secoli ci siamo lasciati sedurre dal loro luccichio e abbiamo così sacrificato la bellezza del leccarci le dita per seguire il comandamento più brutale: “Non sporcarti”.

Allan Bay decide allora di celebrare questa usanza “antica e bella” indagandone il passato, il presente e il futuro con giocosità e charme, sempre convinto che ogni indagine gastronomica finisca per mescolarsi alla biografia: in ogni fetta di pizza margherita o spiedino ricoperto di fonduta mongola, infatti, si annida la storia di un’amicizia, un incontro d’amore o il ricordo di una vacanza. Questo libro è un viaggio storico e antropologico, un racconto fotografico e molto altro: un’opera che ci permette di riscoprire il piacere di trasgredire, di sporcarci, di dire sì alla vita».

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Allan Bay
Elogio del mangiare con le mani
336 pagine * 18.00 euro
Il Saggiatore


Pensare in piccolo

La casa editrice Lindau ha pubblicato Pensare in piccolo titolo originale: “Life Is A Miracle” con un’efficace traduzione dall’inglese di Davide Platzer Ferrero.
L’autore è Wendel Berry.

L’editore informa: “Wendell Berry è un romanziere, poeta e critico culturale, ma anche agricoltore, attivista ecologista, pacifista.
Autore di saggi, romanzi, raccolte di poesie, ha ricevuto una lunga serie di riconoscimenti e fellowship e ha insegnato in diverse università nordamericane. Critico di quella che chiama l’«economia faustiana» del nostro tempo, Wendell Berry intreccia la riflessione poetica e spirituale sui valori della vita rurale con i temi del rispetto ambientale e dell’agricoltura sostenibile, pronunciando una condanna impietosa dell’American Way of Life. Oggi vive con la moglie in una fattoria del natio Kentucky.
Di lui Lindau ha pubblicato i romanzi ambientati a Port William: Jayber Crow, Hannah Coulter, La memoria di Old Jack, Un posto al mondo, I primi viaggi di Andy Catlett, Un mondo perduto; la raccolta di poesie Perché l’amore tocchi terra e le raccolte di saggi Mangiare è un atto agricolo e La strada dell’ignoranza.
Nel Texas, la regista Laura Dunn ha realizzato un documentario sull'autore americano: “Look & See: A Portrait of Wendell Berry”.
Nel 2018 la Library of America ha pubblicato la prima parte di una serie di volumi a lui dedicata. La prima raccolta si intitola: Wendell Berry: Port William Novels & Stories: The Civil War to World War II”.

Ho scelto due parti del libro (una tratta dalle prime pagine e l’altra dalle ultime) che mi pare bene illuminino il pensiero di Wendell Berry.

Prima parte.

La crisi ambientale è molto vicina a casa nostra.
Ogni volta che respiriamo, ogni volta che beviamo un bicchiere d’acqua, la stiamo subendo. E ancora più importante: ogni volta che ci concediamo gli sprechi della nostra economia (o dipendiamo da essi) – e il principio alla base della nostra economia è lo spreco – stiamo causando la crisi. Quasi ognuno di noi, quasi ogni giorno della sua vita, contribuisce direttamente alla rovina del pianeta. Una manifestazione di protesta sul tema dell’abuso ambientale non la organizzano degli accusatori, ma dei colpevoli. Questa consapevolezza dovrebbe dissipare la nebbia del moralismo che di solito aleggia su queste manifestazioni e indicare il lavoro da compiere.
In questa crisi è certo che ognuno di noi ha una responsabilità
pubblica
.

Seconda parte.

Ogni uomo è inseguito da un’ombra che è la sua morte.
Scura, indistinta, muta. E per ogni uomo c’è un posto dove quest’ombra si chiarisce, e in essa riconosce il suo riflesso. È il posto in cui il suo volto si specchia nella terra.
Vede la sua origine e il suo destino, e li accetta. Accoglie ciò che lo inseguiva, e ciò che lo perseguitava diventa il suo compagno.
Questo è il mito della mia ricerca e del mio ritorno
.

Dalla presentazione editoriale.
«Nel saggio che dà il titolo al volume, Wendell Berry mette in guardia il lettore dal pensare che qualsiasi causa – da quella per i diritti civili a quella pacifista – abbia una dimensione esclusivamente pubblica e politica. È nella sfera personale, nell’azione quotidiana e individuale, che si gioca la partita più importante. Se non si è consapevoli di questo, ogni lotta scade in una moda ideologica.
L’ecologismo non fa eccezione. Sostenere organizzazioni e movimenti e criticare l’operato di governi e istituzioni non è sufficiente. Prima di tutto dobbiamo cambiare noi stessi. “Per la maggior parte della storia di questo Paese” – scrive Berry – “il nostro motto, espresso o implicito, è stato ‘pensare in grand’e’. Un motto migliore, e oggi necessario, è ‘pensare in piccolo’, che implica un cambiamento necessario nel modo di pensare e di sentire, e indica il lavoro da fare».
Se non ci rendiamo conto che la crisi ambientale è causata dalle nostre scelte e abitudini, tutte le associazioni ambientaliste del mondo potranno fare ben poco. Se non siamo disposti a compiere rinunce importanti, la distruzione della natura e del pianeta sarà inevitabile. Dobbiamo metterci in gioco, ognuno nel suo piccolo, riscoprendo un rapporto genuino con la terra (coltivando, per esempio, un piccolo orto) e tornare a vivere quella relazione di interdipendenza che lega tra loro tutti gli esseri, umani, animali, vegetali. Solo così faremo la differenza.
Nel secondo saggio che compone il libro, “Una collina nativa”, Berry racconta invece il suo rapporto con la terra d’origine e come abbia vissuto in prima persona ciò che teorizza e di cui scrive».

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Wendell Berry
Pensare in piccolo
Traduzione di Davide Platzer Ferrero
80 pagine * 12.00 euro
Lindau


Oh scusa dormivi (1)

È questo il titolo di un lavoro di Jane Birkin.
Il titolo originale è “Oh pardon tu dormais” testo teatrale scelto da Alessandra Vanzi e Marco Solari per il loro più recente spettacolo tratto proprio da quell’atto unico di Birkin intitolato ora Oh scusa dormivi nella traduzione di Alessandra Aricò che dell’autrice francese ha anche pubblicato per le edizioni Clichy "Post-Scriptum" e "Munkey Diaries".

I nomi di Alessandra e Marco rappresentano un importante momento nella storia del teatro italiano. Di solito, qui si aggiunge l’espressione “di sperimentazione” oppure “di ricerca”. Intendiamoci, sono definizioni corrette, ma cerco di evitarle perché - pur essendo io un settario sostenitore del teatro tecnologico e robotico – considero il corpo teatrale come un organismo unico con articolazioni diverse per pubblici diversi perché non esiste un pubblico, ma pubblici. E non esiste, quindi, uno spettacolo che possa piacere a tutti i pubblici.
Solari e Vanzi sono anche autori di maiuscoli esempi di videoteatro

Per chi meno conoscesse storia e profili d’origine del prezioso tandem Solari – Vanzi, suggerisco una conversazione che ebbero con Oliviero Ponte di Pino che si può leggere QUI.

“Oh scusa dormivi” ha avuto un’anteprima nazionale il 10 settembre 2023 nella rassegna Tempora Contempora al Convitto Palmieri di Lecce e in prima nazionale il 14 e 15 ottobre ‘23 al Florian Espace di Pescara.
Fra poco debutta a Roma nel seicentesco Teatro Tor di Nona.

Dal programma di sala

«Negli anni ’90 Jane Birkin scrive , con l’andamento di un lungo racconto, un atto unico che si sviluppa in 17 quadri nell’arco di tempo di una notte in una camera da letto.
Una coppia che convive da anni, in cui la donna cerca conferma di amore dal suo compagno, ma lui non riesce a dimostrarglielo. In questa notte difficile i due si rimproverano, lottano, si lasciano, si riuniscono, si straziano ed inteneriscono in un gioco doppio, tra parole e azioni che a volte le contraddicono: come se un filo parallelo al dialogo materializzasse pensieri e desideri più o meno espliciti.
Alle volte la vita di una coppia può trasformarsi in un vero terreno di lotta. Un ring. Rivendicazioni, insicurezze, rimproveri, debolezze, gelosie. Tutti i colpi sono ammessi, anche i più bassi. Ma nel confronto c’è spazio anche per alcuni momenti di dolcezza, di tenerezza.
Per osservare da fuori questo agone niente di meglio di una scena vuota dove si disegnano i percorsi dei due protagonisti: incroci, faccia a faccia, schivate, rifiuti, accerchiamenti.
Un atlante sentimentale dove ogni passo è un messaggio per l’altro, un segnale che può essere di minaccia o di coinvolgimento. C’è spazio anche per la seduzione naturalmente. Ma anche quella in un attimo può trasformarsi in vendetta o in un ricatto.
C’è spazio anche per la simulazione. I protagonisti ci sono o ci fanno? Ognuno mette in scena un teatrino per l’altro che è complice nella finzione. Quante volte l’hanno già fatto!
È un gioco che può sorprenderli, che può animare la noia data dall’abitudine. Sono disillusi, stanno invecchiando, forse non si amano più, ma hanno bisogno l’uno dell’altro. Il confronto è crudele e il testo di Jane Birkin è asciutto, battute brevi e secche, un ritmo implacabile che costringe i protagonisti a uno svelamento che ci rende voyeur, che ci fa tifare per l’uno o per l’altro, ci rimanda alla nostra vita, al nostro personale confronto con l’altro che amiamo.
Un allestimento volutamente essenziale, una scenografia fatta di luce, per un’ora circa di spettacolo».

Segue ora un incontro con Marco Solari e Alessandra Vanzi.


Oh scusa dormivi (2)

A Marco Solari e Alessandra Vanzi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Perché avete scelto questo lavoro di Birkin? Che cosa vi ha attratto in questo testo?

Marco – Questo testo della Birikina l’avevo letto in francese, ma non so dove, o quando, l’ho comprato, nemmeno so a chi l'ho prestato, il librino, il libricino. Ma, leggendolo, avevo pensato: forte! forse troppo! (Quindi: non per me). E così l’avevo fatto girare: amici, book crossing, chi sa? Perso! Poi mi chiama Ale: mi dice di aver letto questo testo, in italiano, perfetto per noi! Sì, in italiano (amo il doppiaggio, la traduzione, i sottotitoli) e lo leggo: la traduzione è ok, mi piace, però pesto sempre un po’ i piedi: non mi piacciono le trippaglie, le intimerie, le robe di coppie. Ma tutti insistono, fanno grancassa, dài! devi! dài, e allora va be', scialiamo, concediamoci, facciamoli felici. E fàmolo. E lo famo. In prove , lunghe, in casa, poi a Trist e Trans Tevere, in via dei Salumi, nel bello spazio di Artisti 7607, poi in Sicilia, Lecce, Pescara, Angelo Mai. E ora eccoci qua, all’ex teatro Apollo, al Tordinona. (Apollo cosa c’entri col teatro non si sa…)
La storia funziona, la dinamica (antica), ancora funziona

Ale - Il testo di Jane Birkin mi è stato regalato qualche anno fa l’avevo letto ma in quel periodo non avevo la possibilità di metterlo in scena e quindi l’avevo lasciato in letargo nella libreria. Poi, l’anno scorso, dopo un periodo difficile causato da troppi lutti che mi avevano lasciato stremata e ammutolita, una mattina mi sono svegliata decisa a reagire, forse spinta da un sogno di cui non ho memoria. Ho cercato tra i testi teatrali qualcosa di adatto e subito mi è venuta incontro Jane B. che si è fatta scegliere al primo colpo nonostante il dorso fosse sottile e nascosto tra molti altri testi ben più paffuti. L’ho riletto velocemente e prima ancora di finirlo ho capito che era giusto per me e Marco bisognava solo convincerlo a farlo… ci sono riuscita!

Dopo una vostra storica presenza nella post-avanguardia, che cosa vi ha convinto a misurarvi – va detto: vittoriosamente – col teatro di parola?

Marco – Per tutti gli smemorati (di Collegno & C.) o gli inconsapevoli, frattura di poetica e non di solo esaurimento di rapporto, si produsse nella Gaia Scienza dopo l’ultimo spettacolo, “Cuori strappati”, proprio sulla parola, quella detta, profferita, spifferata o declamata. Ma l’idea, che c’era dietro, era quella che la parola, la parolina o la parolona, potesse giocare altrettanto bene, e con altrettanta leggerezza o profondità, di una luce, un gesto, un colore: cioè che si potesse passare dalla felicità del movimento, della luce, dello spazio a quella dei suoni, dei sensi, delle immagini, della parola. Che fosse difficile ci era ben chiaro.

Ale – Ho sempre scritto, mi piace farlo, anche quando nei nostri spettacoli la parola era relegata solo a brevi dialoghi o ancor più brevi monologhi. Dopo la scissione della Gaia Scienza ho cominciato a elaborare dei testi più lunghi e strutturati drammaturgicamente quindi anche nel gioco attoriale la voce è entrata a pieno diritto

A chi consigliate questo vostro spettacolo e a chi lo sconsigliate?

Marco – Sconsiglierei lo spettacolo alle maggiorate e per par condicio ai maggiorati; sempre per par condicio lo consiglierei ai minorati e alle minorate. Sempre per la benedetta par condicio lo caldeggerei a chi ha il gusto del gioco, quale che sia!

Ale – Sconsiglierei lo spettacolo a chi non ha mai dubbi, a chi non ha mai sofferto di insicurezza o di disamore forse non lo capirebbe.

Come è stato accolto finora “Oh scusa dormivi”?

Marco e Ale – “Oh scusa dormivi” è stato accolto benissimo nelle sue diverse versioni, che ora citiamo.
Una bellissima terrazza di un baglio, casa di amici che ci hanno accolto a Marausa, vicino Mozia (TP); un bel palco all’aperto, in una rassegna a Lecce, dal titolo evocativo, Tempora/Contempora; lo spazio del debutto a Pescara, con bella partecipazione e incontro finale col pubblico; l’Angelo Mai, qui a Roma, uno dei pochi luoghi nei quali si respira.
Ora, sotto gli argini dei piemontesi, scusandoci, dormiamo…

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Marco Solari – Alessandra Vanzi
in “Oh scusa dormivi”
di Jane Birkin
collaborazione di Gustavo Frigerio
Produzione Florian Teatro / Centro Produzione Teatrale
Teatro Tor di Nona
Via degli Acquasparta 16, Roma
Info: tel. 06 – 700 49 32
tordinonateatro1@gmail.com
dal 16 al 21 aprile
Poi in proseguimento di tournée


Ship of Fools

Traggo dagli atti del Congreso Internacional De Estudios Visuales, tenutosi a Madrid qualche anno fa un frammento che rifletteva sul digitale.
“Ogni strumento nel repertorio delle scienze digitali è un organismo senziente, e conseguentemente, la percezione è, ad un tempo, dentro e fuori di noi, nelle protesi che la tecnologia ha ormai spinto nella nostra coscienza senziente e sensibile. Il superamento della soglia del moderno, in questo "neomoderno", è dato dalla realtà dei media digitali che presuppongono un sistema di comunicazione che assimila la rappresentazione all’interno della tecnosfera, della neurosfera e della genosfera”

In una conversazione con Valentino Catricalà gli chiesi: quali casi sono riconducibili allo specifico settore di arte e tecnologia, e quali no?
La sua risposta fu: “Superata la classica dicotomia arte+tecnologia, i nuovi ambiti di ricerca sono complessi e ricchi di implicazioni. Abbiamo identificato: l’iperintelligenza; il postumano fra cyborg e antropocene; l’Expanded Internet Art; dalla realtà estesa alla videogame art; la sound art; “l’artista inventore”. Pensiamo che studiare il lavoro degli artisti, comprendere le dirompenti potenzialità del loro pensiero laterale, permette di acquisire indispensabili strumenti di lettura della nostra società iper-tecnologica, anche nel campo della tecnologia e della scienza.

Un’occasione di riflessione su questi temi la propone da tempo Federico Solmi pioniere della media Art, tra i primi a esplorare il confine tra fisico e digitale, Solmi torna dopo vent’anni in Italia, con la LX Biennale d'Arte di Venezia, con una grande mostra personale che per 3 mesi, tra le mura del seicentesco palazzo veneziano Donà dalle Rose affacciato sulle Fondamente Nove della laguna, renderà omaggio alla sua arte dissacrante e sovversiva, (fra meno giovani alcuni lo ricordano anche per un clamoroso episodio di cui fu protagonista anni fa) in un'originale immersione e interazione fra analogico e digitale, fondendo black humor, critica sociale, denuncia e senso del grottesco con le nuove tecnologie.
Titolo: Ship of Fools.

10 opere video, 10 dipinti, sculture in ceramica insieme a un’opera in VR, una scultura olografica e una nuova opera monumentale ispirata alla Zattera della Medusa di Gericault: La mostra "Solmi – Ship of Fools" è curata da Dorothy Kosinski e co-curata da Renato Miracco che ricordo in una sua felicissima performance marinettiana che ospitai a Radio Rai parecchi anni fa.

Estratto dal comunicato stampa

«La mostra “Solmi – Ship of Fools” è realizzata in partnership con Var Digital Art by Var Group, con il contributo della Thoma Foundation (Chicago - Santa Fe) e il supporto della Phillips Collection di Washington DC.
La mostra è più di un tradizionale assemblaggio di singole opere d'arte, ma l’artista le coreografa all'interno di un ambiente onnicomprensivo” spiega la curatrice Dorothy Kosinski, “utilizzando e sfidando l'ambiente storico del palazzo che la ospita. La mostra è un'opera d'arte totale, modellata dalla visione dell'artista utilizzando la tecnologia più innovativa disponibile per creare un'esperienza coinvolgente con musiche firmate dal pluripremiato Grammy Awards sound designer Marc Urselli e una proiezione olografica che apre nuovi orizzonti”.

A dare il titolo alla mostra è “Ship of Fools”, un’allegoria della società attuale che, con riferimenti alla Repubblica di Platone, in cui un capitano è circondato da membri dell’equipaggio insubordinati, e a un libro del 1494 di Sebastian Brant intitolato Ship of Fools, pubblicato a Basilea e illustrato con 114 xilografie, prende ispirazione dal famoso dipinto di Gericault “La zattera di Medusa”. In “stile Solmi”, l’opera ritrae su un’imbarcazione alla deriva personaggi storici e contemporanei come Elon Musk, Kim Kardashian, Papa Benedetto XVI, Napoleone, Oprah Winfrey, Cristoforo Colombo, l’Imperatrice Teodora, George Washington e Mark Zuckerberg.

Quello di Federico Solmi in Italia con la personale "Solmi – Ship of Fools" è un ritorno di eccellenza che riporta in patria uno sperimentatore di linguaggi in grado di esaminare, attraverso la sua arte, impulsi e desideri umani inconsci, mostrandone la fallacia; un ritorno per conoscere da vicino un artista italiano che - dal 1999 negli USA e insignito della nomina di visiting professor presso la celeberrima Yale University - è stato protagonista di alcune delle biennali d’arte più autorevoli del mondo, tra Stati Uniti, Europa e Cina.

Con i suoi colori vivaci, l’estetica espressiva e la sua visione satirica e distopica della società, Federico Solmi è stato, inoltre, protagonista con le sue opere nel cuore di New York, quando a Times Square nel luglio 2019, ogni notte tutti i billboard di uno dei luoghi più conosciuti e iconici d’America hanno proiettato le sue opere vertiginose lì dove di solito girano le pubblicità dei grandi marchi globali. Una consacrazione per l’artista che, già nel 2009, veniva premiato dalla Fondazione Guggenheim di New York con la John Simon Guggenheim Memorial Fellowship nella categoria Video & Audio.

“Il lavoro di Solmi” spiega ancora la curatrice Dorothy Kosinski “sfugge al peso dell’allegoria morale attraverso un umorismo allegro e beffardo coinvolgendoci con ammiccamenti cospiratori e sguardi di traverso”. “Capitalismo, consumismo, cultura della celebrità, avidità, corruzione, oppressione sistematica e demagogia sono solo alcuni dei suoi temi” afferma Larry Ossei-Mensah.

“La mostra” spiega il co-curatore Miracco “è il punto di arrivo della ricerca di un Rabbioso videologo che aiuta la Società a guardarsi allo specchio; un audace Muralista del XXI Secolo, un nuovo Rabelais che sfrutta l’esperienza grottesca del cinema felliniano per fornirci una nuova chiave di lettura della realtà contemporanea”.

"Solmi – Ship of Fools” è accompagnata da un catalogo edito da Gangemi Editore in lingua inglese con una completa storiografia dei suoi lavori. Il progetto è guidato dalle intuizioni curatoriali degli storici dell’arte Dorothy Kosinski, Direttore Emerito della Phillips Collection, e di Renato Miracco. Oltre agli scritti di Kosinski e Miracco, i contributi in catalogo di Larry Ossei-Mensah, Serena Tabacchi e Davide Sarchioni esplorano il rapporto e impatto della tecnologia con l’arte contemporanea. La presentazione è resa possibile dalla collaborazione con Var Digital Art by Var Group, che è attivamente impegnata nella promozione dell'arte attraverso le tecnologie digitali. La Carl & Marilynn Thoma Foundation ha generosamente contribuito al successo di questo progetto, mentre il supporto museale proviene dalla Phillips Collection.
La strategia di comunicazione della mostra è affidata a HF4 di Marco del Bene»

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Ufficio stampa HF4 www.hf4.it
Marta Volterra
marta.volterra@hf4.it
Valentina Pettinelli
valentina.pettinelli@hf4.it --- 347.449.91.74

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Federico Solmi
Ship of Fools
Palazzo Donà dalle Rose
Venezia
dal 18 aprile al 28 luglio 2024


A Milano a Milano!

da il Manifesto.

«Il 25 aprile 1994 una manifestazione enorme riempì Milano, sotto la pioggia battente.
A lanciare l’idea un po’ folle eravamo stati noi del manifesto.
Fu una festa e un trionfo di popolo.

La minaccia neofascista era forte trent’anni fa, quando erano al governo per la prima volta Berlusconi e Fini, ed è fortissima oggi che il governo con Meloni è spostato ancora più a destra.

Una destra aggressiva e rivendicativa che non riesce a rendersi presentabile a distanza di un anno e mezzo dalla vittoria. Ed è naturale che sia così, perché ha le radici nel ventennio fascista e nelle sue nostalgie, nella storia più nera di questo paese, in tutto quello che il 25 aprile è stato sconfitto.

Ecco perché il 25 aprile è ora di tornare a Milano!».

Per informazioni CLIC!

Qui la cantante ucraina Khrystyna Solovyy in Bella Ciao.


Da Corso Vercelli a Treblinka

Primo Levi in “Se questo è un uomo”, scrive: L'Olocausto è una pagina del libro dell'Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria. Avvenimento di grande rilevanza civile che centra due volte l’obiettivo: perché riflette su com’è possibile diffondere disprezzo e ostilità proprio nell’età dell’infanzia e dell’adolescenza in cui è più facile impadronirsi dei cervelli; perché è proposto in un momento in cui c’è un riacutizzarsi del razzismo e del negazionismo.
Parole di anni fa che sono drammaticamente di attualità oggi perché l’antisemitismo e in generale il razzismo si è riaffacciato sulla scena del mondo contemporaneo. .
La storia, con la S maiuscola la conosciamo (a quanto pare facendone scarso profitto), ma essa è composta di tante microstorie agghiaccianti che ben evidenziano la brutalità di un’epoca vissuta in un passato che non passa.
La casa editrice Giuntina è attenta a quelle microstorie e pubblica memorie che riguardano figure che hanno sofferto e pagato con la vita la loro innocenza e il loro coraggio.
Per esempio, la storia di Enrica Calabresi della quale questo sito si è occupato qui.
O, più recentemente, il caso di Susanna Pardo in Da Corso Vercelli a Treblinka.
L’autrice è Carlotta Morgana.
Giornalista professionista, caposervizio di cronaca e cultura per oltre venticinque anni al Giorno, da anni si occupa, in virtù della sua appartenenza alle associazioni Italia-Israele e amici di bereshit lashalom, di promuovere la cultura della Memoria.
Collabora con numerose scuole medie e superiori nell’organizzazione di incontri tra testimoni della Shoah e studenti. Vive e lavora a Milano
Qui parla di Susanna Pardo in questo video.

Scrive in Prefazione Debbie Josephine Kafka: “Susanna è morta a Treblinka – un conciso comunicato della Croce Rossa lo ha confermato. Assieme a lei sono stati uccisi il marito David, che tanto aveva lottato affinché almeno lei e la piccola figlia Esperance si salvassero rientrando in Italia, dove per tanti anni Susanna aveva vissuto con le sorelle e la famiglia. Oltre a loro un’intera comunità felicemente integratanei Balcani da secoli è stata spazzata via in un brevissimo spazio di tempo. Un totale di settantadue persone appartenenti alla famiglia Pardo ha subìto la deportazione dalla città di Salonicco per concludere il proprio viaggio senza ritorno nel campo di sterminio.
Ora a Treblinka non restano tracce evidenti di questo scempio. Durante l’estate del 1943, dopo un tentativo di fuga di qualche centinaio di prigionieri, i nazisti decisero di smantellare il lager per occultare le prove dello sterminio di circa novecentomila ebrei. Il campo fu raso al suolo, vennero uccisi gli ultimi internati superstiti e furono avviate alcune attività agricole per nascondere appunto le atrocità commesse”.

Dalla presentazione editoriale

«Poco dopo la nascita di Susanna, nel 1916, la famiglia Pardo aveva deciso di lasciare Salonicco e trasferirsi a Milano. Joseph Pardo, il padre, era un commerciante di tessuti che aveva accettato le sfide di una città ricca e dinamica. Qui, nel grande appartamento di corso Vercelli, circondata dall’affetto di parenti e amici, Susanna era cresciuta tra i vivaci stimoli che il capoluogo lombardo, negli anniTrenta, poteva regalare a una giovane ragazza. Susanna era innamorata di Milano, ma era ancor più innamorata di Davide, suo cugino, anche lui imprenditore e proprietario di una fabbrica di tessuti a Monastir, l’attuale Bitolj, in Bulgaria. Lo sposò nel 1940 e lo seguì nei Balcani, pronta a iniziare una nuova vita. Ma tutta la zona era controllata dai tedeschi e nel marzo 1943 la ferocia antiebraica si abbatté implacabile sulla giovane famiglia, che fu infine deportata a Treblinka. Di Susanna, di Davide e della piccola Esperance, la figlia nata nel 1941, si persero le tracce fino a tre anni fa quando, grazie al lavoro degli storici Sara Berger e Marcello Pezzetti, sono venuti alla luce documenti dei ministeri dell’Interno e degli Esteri italiani dove si ha la certezza di quanto accadde. Grazie a questi studi, a interviste e ad accurate ricerche, Carlotta Morgana è riuscita a ricostruire, con precisione e grande sensibilità, il tragico gioco del destino che travolse la vita di una ragazza dolce e radiosa. Il testo è arricchito dalle lettere che Susanna scrisse da Bitolj alla famiglia d’origine».

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Carlotta Morgana
Da Corso Vercelli a Treblinka
Prefazione: Debbie Josephine Kafka
144 pagine * 16.00 euro
Prezzo ebook: 9,99 euro
Giuntina



Biennale Donna a Ferrara


Al sociologo Paolo Perulli, su questo sito, nel presentare il suo recente “Anime creative” gli ho proposto un gioco alla maniera di quelli dell’Oulipo: definisca la creatività in 10 parole, tante quante sono le lettere che compongono proprio quella parola.
Questa la sua risposta: conoscenza, relazione, emozione, attesa, transizione, innovazione, visione, immagine, tecnica, arte.
La prima delle parole da lui usate è stata “conoscenza” e mi ha ricordato quanto dice la grande Margherita Hack: “Dobbiamo essere riconoscenti a Eva, è stata lei la prima a voler conoscere, disubbidire all’interdizione dell’albero della conoscenza che le veniva imposta, conoscere l'universo, la terra, il proprio corpo, di rifiutare l'insegnamento calato dall'alto, in una parola Eva rappresenta la curiosità della scienza contro la passiva accettazione della fede”.
Dalla conoscenza si salgono quelle scale tanto ben salite prima da Perulli.
Creatività femminile e creatività maschile. Definizioni, differenze, giudizi che non conoscono risposte unanime.
Segnalo qui una risposta che sottoscrivo. È della pubblicitaria e saggista Anna Maria Testa: cliccate QUI

Queste righe mi sono state suggerite dalla notizia della prossima apertura di Biennale donna storica manifestazione dedicata alla creatività femminile contemporanea promossa da UDI – Unione Donne in Italia, Biennale che compie vent'anni.
Nasce, infatti, nel 1984, dal 1990 è riconosciuta dai Ministeri alla Cultura e Pari Opportunità.
Per celebrare questo speciale traguardo, a Ferrara, Palazzo Bonacossi, apre la mostra Yours in Solidarity Altre storie tra arte e parola a cura di Sofia Gotti e Caterina Iaquinta con opere di sei artiste internazionali: Binta Diaw, Amelia Etlinger, Bracha L. Ettinger, Sara Leghissa, Muna Mussie e Nicoline van Harskamp.
In mostra anche un nucleo di materiali storici dell’UDI - tra documenti d’archivio, pubblicazioni, stendardi e fotografie - che ripercorre le principali tappe della Biennale Donna illustrando la sua evoluzione dal 1984 ad oggi.

Estratto dal comunicato stampa.

«Il progetto Yours in Solidarity – Altre storie tra arte e parola, a cura di Sofia Gotti e Caterina Iaquinta, si propone di mettere in luce alcuni aspetti peculiari della manifestazione ferrarese fin dai suoi esordi e al contempo di rilanciare la sua immagine sul territorio nazionale. L’idea è quella di continuare a far emergere “figure dallo sfondo” e, al contempo, di presentare “un nuovo arsenale di voci” pronte a levarsi per affermare la necessità di ripensarsi dentro un mondo divenuto sempre più complesso e polarizzato. Al corpus dei lavori delle artiste verrà affiancato un prezioso nucleo di materiali storici dell’UDI, tra documenti d’archivio, pubblicazioni, stendardi e fotografie, utili a ripercorrere le principali tappe della Biennale e a ricostruire la sua evoluzione.

Il titolo dell’esposizione, Yours in Solidarity, è tratto dal video dell’artista olandese Nicoline van Harskamp. L’opera si sviluppa a partire da un ricco epistolario, in seguito organizzato dall’artista in un archivio personale, proveniente da una rete internazionale di anarchici che tra gli anni Ottanta e Novanta erano soliti concludere le loro missive con il saluto “Yours in Solidarity”.

L’esposizione è organizzata dal Comitato Biennale Donna dell’UDI – composto da Lola G. Bonora, Silvia Cirelli, Ada Patrizia Fiorillo, Catalina Golban, Anna Quarzi, Ansalda Siroli, Dida Spano, Liviana Zagagnoni – e dal Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara in collaborazione con la Fondazione Ferrara Arte, con il sostegno della Regione Emilia-Romagna.

In occasione della mostra sarà pubblicato un catalogo bilingue italiano e inglese con i testi delle curatrici e le immagini delle opere esposte».

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Per i redattori della stampa, radio-tv, web:
Ufficio stampa, Sara Zolla
346 8457982 – press@sarazolla.com

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L’Udi presenta
XX Biennale Donna
Yours in Solidarity
A cura di
Sofia Gotti e Caterina Iaquinta
Palazzo Bonacossi
via Cisterna del Follo 5, Ferrara
Info: 0532.20 62 33 * udi@udiferrara.it
0532.244 949 * diamanti@comune.fe.it
14 aprile - 30 giugno 2024
Aperto anche 25 aprile, 1 maggio, 2 giugno
Ingresso gratuito


L'autentica vita di Billy the Kid

“Il mito è la formula secondo cui la vita si esprime quando fugge al di fuori dell’inconscio”.
(Thomas Mann)
“La letteratura e il cinema spesso invadono storia e leggenda fondendo quei territori”.
(Tommaso Landolfi)

È realmente esistito Gilgamesh o è solo un monarca leggendario?
E Re Artù, Robin Hood, la Contessa Dracula Bathory, Jesse James?
Alcuni sono veri, altri immaginari, altri ancora personaggi in terra anfibia fra storia e leggenda.
Molti sostengono che oggi più non potrà capitare un fenomeno d’insicura memoria in virtù dei moderni mezzi di registrazione, sicché noi umani più non saremo vittime d’incertezze.
Ma non tutti sono d’accordo.
Ad esempio, l’informatico Jaron Lanier – un pioniere della realtà virtuale – sostiene che in un futuro meno lontano di quanto si creda, potrà accadere che grazie alla potenza generatrice dell’Intelligenza Artificiale saranno creati personaggi dalla particolareggiata biografia, di sembianze e voce assolutamente realistiche, tanto da rendere ben difficile separare realtà da invenzione e sarà possibile credere reale l’immaginario o viceversa.

Ma restiamo all’oggi. Domandate in giro: Billy the Kid è esistito davvero oppure no?
Da scommettere che molti lo daranno per personaggio immaginario.
E invece no. È esistito davvero.
Il suo vero nome è William Harrison Bonney Jr., meglio noto alla storia come Billy the Kid. A causa della sommaria scrittura anagrafica nel Far West alla fine dell’800, di Billy the Kid si sa che nacque il 23 novembre a New York ma è difficile decifrare l'anno. Sui documenti è solo certa la data della sua morte per mano dello sceriffo Pat Garrett. Morì il 14 luglio del 1881 presso Fort Summer nel New Messico, e sapendo che Billy aveva all'incirca 21 anni, l'anno di nascita potrebbe essere stabilito nel 1859 o il 1860.
Perché c’è in tanta incertezza nell’attribuire o meno realtà storica al personaggio?
Perché è accaduto quanto dice Landolfi nelle sue parole che ho riportato in apertura.
Letteratura e cinema si sono impossessati del bandito Billy e fra tanti ritratti di lui, emerge soprattutto il famoso film “Pat Garrett e Billy Kid” (1973) del regista Sam Peckinpah, con Kris Kristofferson nella parte del Kid, James Coburn in quella di Garrett.

La casa editrice Lorenzo de' Medici ha il merito di un’importante pubblicazione: L’autentica vita di Billy the Kid.
L’autore è proprio Pat Garrett.
Nato nel 1850 è stato uno dei più popolari sceriffi nell’epoca del Far West. Inizialmente cacciatore di bufali e poi barista, divenne sceriffo di Lincoln County nel New Mexico. Ebbe anche la nomina a Deputy US Marshal (agente federale aggiunto), che gli permetteva di inseguire i ricercati oltre i confini di un singolo Stato. Gli venne quindi affidato il compito di arrestare, o comunque eliminare Billy the Kid mettendo fine alle sue imprese criminali e all’attività della sua banda. Nel dicembre del 1901 il Presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt lo nominò uno dei tre ‘pistoleri della Casa Bianca’.
Dopo alterne vicende, venne ucciso in un agguato, sebbene non si sia mai saputo con certezza da chi. Alcuni hanno dato credito a una voce la quale racconta che fu ucciso durante una imboscata, per motivi non chiari, dal pistolero Jesse Wayne, il 28 febbraio 1908. Più certa la notizia che sia stato seppellito nel cimitero massonico di Las Cruces.

Il libro si avvale della traduzione e cura di Aldo Setaioli che in una bella introduzione scrive:
«Occorre precisare che Garrett era lui stesso tutt’altro che un santo. Cacciatore di bufali
in Texas nel 1876, vi aveva ucciso un uomo, che dopo una zuffa a mani nude tentava di ucciderlo con un’ascia (…) Garrett e il Kid certamente si conoscevano, e del resto il primo dichiara apertamente di averlo non solo conosciuto, ma anche frequentato (…) I motivi che indussero Garrett a pubblicare questa vita di Billy the Kid, indicandola fin dal titolo come “autentica”, sono da ricercarsi in parte nel desiderio di sfatare l’aura di leggenda e di sensazionalismo che circondò la figura del fuorilegge, ma anche le accuse moralistiche dei predicatori religiosi, riconoscendo gli aspetti positivi della personalità del Kid. In parte anche maggiore, tuttavia, il motivo di Garrett va ricercato nella volontà di difendersi dalle accuse che gli furono rivolte di averlo ucciso a tradimento. Infine, non nega di sperare anche d’integrare in questo modo la ricompensa che aveva ricevuto per l’uccisione del bandito. Cosciente di non possedere capacità letterarie, come dichiara lui stesso all’inizio del libro, chiese l’aiuto di un amico che lo aiutasse nella redazione dell’opera, nella funzione di quello che oggi si chiamerebbe un ghost-writer: Marshall Ashmun (Ash) Upson, giornalista (…) Il libro, pubblicato per la prima volta nel 1882, porta però solo il nome di Garrett come autore, anche se i due si divisero i profitti e restarono sempre amici».

Dalla presentazione editoriale.

«Per la prima volta in traduzione italiana la biografia del più famoso bandito del Far West scritta dallo sceriffo Pat Garrett che, dopo
avergli dato la caccia, lo uccise nel 1881.
Probabilmente il libro più interessante, tra i tanti che sono stati dedicati al Kid, perché fu scritto quasi a ridosso dei fatti e rimane anche il primo a proporsi di offrire una versione autentica della vita e delle imprese del famoso fuorilegge che, dal momento della morte fino ad oggi è stato spesso rappresentato avvolto in un’aura quasi di leggenda, senza tener conto dell’effettiva realtà dei fatti».

Nel 2021 si è appreso che l'arma che ha ucciso Billy the Kid, è stata venduta per oltre 6 milioni di dollari all'asta a Los Angeles, più del doppio della stima pre-vendita. Si tratta proprio del revolver Colt che Pat Garrett usò contro Billy the Kid nel 1881 ed è stato acquistato per telefono da una persona che ha voluto rimanere anonima.

Ancora una cosa.
Della storia di cui fin qui abbiamo detto volete sapere che cosa ne pensa Bob Dylan?
Se sì: CLIC!

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Pat Garrett
L’autentica vita di Billy the Kid
Traduzione di Aldo Setaioli
176 pagine * 15.00 euro
Lorenzo de’ Medici Press


Salve di Christian Holstad


Con quali e quanti materiali si può fare arte?
Oltre ai colori, il bronzo, il marmo, la cera, esistono tante altre possibilità.
Alcune alquanto singolari. Valentina Papaccioli ricorda, ad esempio, Vincent Richel e Heather Jansch che utilizzano i legni spiaggiati, l’artista brasiliana Nele Azevedo posiziona migliaia di statuine di ghiaccio sotto il sole per allarmare sui cambiamenti climatici, Nele Azevedo lavora con tappi delle penne Bic. Ma il più strano materiale lo notai molti anni fa in Federico Paris il cui lavoro aveva una caratteristica materica, assai rara: la figura che creava era fatta con le ceneri di un personaggio cremato; stava ricercando persone che volessero affidargli le ceneri dei loro cari. Chissà se le ha trovate, io non ne ho notizie. Se per caso legge queste righe, m’informi.
Esistono però altri materiali meno bizzarri, anzi recepiti a pieno titolo nei palinsesti delle arti visive come la cartapesta.
Questo sito ne ricorda alquanti.
A proposito, si è appena concluso il Salon du Dessin 2024, una delle fiere più importanti del mondo dedicata all’arte su carta. Una 32esima edizione (20-25 marzo 2024) che ha visto 15mila visitatori.

In Italia una figura di primo piano è quella di Luigi Varoli non solo artista ma uomo di riconosciute virtù civili come si apprende dalla sua biografia.
Nato a Cotignola lì c’è oggi il Museo Civico Varoli dove è in corso la mostra Salve dell’artista statunitense Christian Holstad (Anaheim, California, 1972).
L’esposizione è nata all’interno di un più ampio progetto di indagine e valorizzazione della cartapesta nell’arte contemporanea sviluppato dal curatore Gioele Melandri.
In un’intervista rilasciata tempo fa così disse: “Penso che la video-arte, quella legata alle intelligenze artificiali o al rapporto con la robotica e con la musica digitale siano potenzialmente fascinose, ma ci sono artisti che sentono la necessità di rapportarsi con la materia in una maniera diretta. L’utilizzo della terra, della cartapesta, del colore, della materia e della gravitas non possono passare in secondo piano. C’è quindi il ritorno di un’idea di homo faber, di artista demiurgo che crea dalla sostanza e dalla materia informe”.

Estratto dal comunicato stampa

«All’interno del museo dedicato all’artista della cartapesta Luigi Varoli, la mostra “Salve” si focalizza sulla spiccata sensibilità di Christian Holstad per diverse tematiche che riguardano l’utilizzo di questa tecnica nella sua dimensione profonda e che sfociano naturalmente nella pratica dell’artista, come ad esempio il rifiuto, lo scarto e la trasformazione di questi ultimi in una possibile risorsa, mettendo così in risalto molte delle contraddizioni interne che caratterizzano lo sviluppo dell’attuale società dei consumi.
In mostra, la cartapesta è intesa dunque come un “innesco”, una suggestione che orienta la nascita e lo sviluppo di un evento espositivo.
Lesposizione occuperà anche gli spazi della Chiesa del Pio Suffragio, a pochi metri dal Museo Varoli, dove saranno installati alcuni lavori scultorei di Holstad.
Promossa dal Comune di Cotignola con un contributo di Gruppo Hera, “Salve” è la prima personale di Christian Holstad localizzata in Romagna, terra in cui l’artista trascorre la maggior parte del suo tempo da ormai diversi anni.
Accompagna la mostra un catalogo e un programma di visite guidate e laboratori didattici ispirati al lavoro di Holstad».

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Ufficio Stampa: Irene Guzman | mail: irenegzm@gmail.com | Tel. +39 349 1250956
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Christian Holstad
Salve
A cura di Gioele Melandri
Museo Civico Luigi Varoli
Corso Sforza 21
Cotignola (Ravenna)
Info: 0545 908810 – 320 4364316
museovaroli@comune.cotignola.ra.it
Fino al 30 giugno 2024


Sfidare lo Spazio

"Spazio: ultima frontiera"
È con queste parole del capitano Kirk, entrate nella leggenda, che nel 1966 inizia la grande epopea di Star Trek, destinata a influenzare tutta la fantascienza successiva e diventata una locuzione popolare.
A quasi cinquant’anni dal 1966, quella frase è ancora d’attualità e, forse, più di allora da quando tre anni dopo nel luglio 1969 Neil Armstrong ed Edwin “Buzz” Aldrin lasciarono le prime impronte umane sull’unico satellite naturale della Terra: la Luna.
Le grandi potenze oltre a massacrarsi da anni, per procura, competentemente sul suolo terrestre, studiano con impegno come farlo anche in quella piccolissima porzione di Spazio al momento raggiungibile dalle tecnologie odierne.
Solo guai dalla ricerca spaziale? No, non è così. Se ne ricavano anche vantaggi.
Percezione, visione e movimenti negli esperimenti in microgravità offrono informazioni preziose non solo per i prossimi viaggi interplanetari, ma anche per realizzare protesi più performanti. Inoltre, solo per restare nel campo della medicina, se ne vantaggiano i chirurghi in sala operatoria imparando a gestire le emergenze, le situazioni complesse ad alto rischio proprio con tecniche usate nelle stazioni spaziali; perché lo stress vissuto nello Spazio può diventare un punto di forza per esperienze terrestri”.

La curiosità per ciò che lo Spazio contiene vede in primo piano l’eterne domande: “Siamo soli nell’universo?” e “Siamo stati visitati da extra terrestri?”
Domande destinate a non trovare risposte chissà per quanto tempo e, forse, per sempre.
Quando si parla dello Spazio, la prima cosa che sfugge alla maggior parte di noi è la quantità delle distanze che intercorrono fra il nostro pianeta e altri mondi.
Le sonde Voyager della NASA, lanciate nel 1977, sono gli emissari più distanti del genere umano. Il Voyager 1 si trova, al momento, a circa 159 unità astronomiche (AU) da noi, ovvero a 159 volte la distanza media della Terra dal Sole, che è pari a circa 149,6 milioni di chilometri. Voyager 1 ha impiegato più di quarantaquattro anni per arrivare fin là.
La stella a noi più vicina (ma forse meglio dire: meno lontana), Proxima Centauri, si trova a circa 4,2 anni luce da noi. Vuol dire che la luce, che viaggia a 300.000 Km/s, impiega più di quattro anni per percorrere tale distanza. Se le Voyager stessero viaggiando nella giusta direzione, impiegherebbero circa 70.000 anni per raggiungere Proxima Centauri.
E i mitici Alieni?
La grande Margherita Hack nel suo ultimo libro, “C’è qualcuno là fuori?”, scritto poco prima della sua morte nel 2013, afferma: «Credo del tutto probabile che ci sia vita in altri mondi, ma credo anche che non avremo mai modo di incontrare un extraterrestre. Le distanze non ce lo permettono. In conclusione, penso che siamo destinati alla solitudine. Ma questo non vuol dire che dobbiamo rinunciare a cercare. Circa gli Ufo… gli alieni venuti sulla Terra migliaia di anni fa… tutto senza una prova: l’irrazionalità danneggia la scienza e il cervello».

Libri pubblicati sul tema Spazio ce ne sono tanti. Ma preferisco quelli scritti da gente di scienza invece di quelli, pur piccanti per fantasia e fascino dell’ignoto che sconfinano in ipotesi tanto vertiginose quanto improbabili.
Ecco un libro assai serio e di scorrevole lettura pubblicato dalla casa editrice Mursia: Sfidare lo Spazio Un astronauta racconta l’esplorazione del cosmo
Chi è quell’astronauta? Uno che nello Spazio c’è stato davvero.
È Umberto Guidoni.
Nato nel 1954 a Roma dove si è laureato con lode in Fisica.
Ha compiuto il suo primo volo in orbita nel 1996 ed è stato il primo europeo a salire a bordo della Stazione Spaziale Internazionale nel 2001.
In veste di divulgatore, ha condotto rubriche sullo Spazio alla radio e in tv, oltre a pubblicare libri per ragazzi, saggi e articoli.
Per i suoi contributi, ha ricevuto la nomina di Grande Ufficiale e la medaglia della NASA per Exceptional Service. Gli è stato dedicato l’asteroide nominato 10605-Guidoni.
Con Mursia ha pubblicato insieme con Donato Altomare il romanzo Wormhole (2022).
Nelle pagine di “Sfidare lo spazio” si trovano molte risposte a molte domande.

Umberto Guidoni: «Entro la fine di questo secolo, i nostri nipoti lavoreranno sulla Luna, vivranno in avamposti permanenti su Marte e utilizzeranno materie prime provenienti dagli asteroidi: in una parola, l’umanità diventerà una vera specie interplanetaria. (…) Sono convinto che l’umanità raggiungerà le stelle e guarderà al nostro pianeta con occhi nuovi, proprio come ha affermato lo scrittore francese Marcel Proust: «Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi (…) I nostri discendenti, nati su altri mondi, considereranno la Terra come la culla della specie umana, un luogo da amare e rispettare e, forse, sentiranno il bisogno di tornare a visitare quel piccolo pianeta azzurro, là dove tutto è cominciato»

Quali ispirazioni ha determinato lo Spazio nelle arti?
Escludendo il cinema e la letteratura di fantascienza, ma non dimenticando “Cancro Regina” di Tommaso Landolfi il più rimarchevole romanzo di fantascienza italiana, passiamo oltre.
Una velocissima – assolutamente non esaustiva – panoramica.
Poesia? Ecco a voi nomi che vanno da Montale a Onofri, da Solmi a Rodari.

Musica: quando nel 1968 uscì il film di Stanley Kubrick Odissea nello Spazio, David Bowie ne fu profondamente impressionato e compose “Space Oddity” il suo primo successo pubblicato l’11 luglio del 1969; qui il video.
.
Nella musica classica, la Luna è protagonista fra compositori di ieri e di oggi.

Nelle arti visive cito il solo esempio di Andy Warhol ma ne esistono tantissimi altri d’esempi e poi performance e installazioni, forse è il campo artistico dove è più presente lo Spazio.

Pochi esempi, invece, nel teatro. Il più recente che gira in Italia in queste settimane è Come giunsero i terrestri su Marte.
Ricordo, però, “Crollo nervoso”, un lontano spettacolo che era splendidamente ricco di atmosfere spaziali e azioni ipnotiche di enigmatiche viaggiatrici che si chiedevano se fosse possibile fare del surf su Marte, in scena i Magazzini Criminali.

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Umberto Guidoni
Sfidare lo Spazio
Pagine 208 * 17.00 euro
Mursia


Nella testa di un gatto (1)


Quest’anno, a Modena, al Festival di Filosofia è intervenuta Eva Meijer che ha detto: «Per molto tempo gli esseri umani hanno studiato il linguaggio animale come se gli animali non umani fossero capaci di parlare il linguaggio umano, ma questo non ha senso perché non è questo il linguaggio specifico della loro specie. Studiare quindi il linguaggio animale cercando di far loro imparare il linguaggio umano non ci porta molto lontano, ma ci fa considerare l’intelligenza animale in termini umani, portandoci a considerarli inferiori a noi. Ci sono mosche, per esempio, che comunicano attraverso gli odori, o altri attraverso l’uso dei colori. Quindi non possiamo studiare il linguaggio animale attraverso le regole della grammatica o del linguaggio umano, quello umano è solo uno dei tanti».

Ho scelto quest’apertura perché è uno dei maggiori problemi della comunicazione fra noi umani e gli altri animali non umani. E anche perché il libro che presento oggi tratta quest’argomento avendo per oggetto l’animale domestico più presente nelle nostre case: il gatto.
Secondo un censimento realizzato da Fediaf, ossia la Federazione europea dei produttori di cibo per gli animali, in Italia i gatti domestici, al dicembre ’23 sono 10.228.000. Questo il numero. Senza contare quelli che vivono per le strade.
Io stesso sono un amante di questa “tigre da salotto” come la chiama il poeta Pablo Neruda, ho un gatto che si chiama Spock come il Vulcaniano di Star Trek.

Amo questi piccoli felini, perciò ho letto parecchi libri che li riguardano, però mai fino ad oggi mi era capitato di leggerne uno qual è Nella testa di un gatto pubblicato dalla casa editriceCarocci.
L’autrice è Jessica Serra.
Etologa specializzata nella cognizione degli animali, conduce sia attività di ricerca sia di divulgazione. Ha studiato in particolare il comportamento dei mammiferi, mettendo a punto particolari tecnologie di tracking che seguono lo spostamento degli animali domestici fuori dal domicilio. Consulente scientifica di molti documentari, per la televisione francese ha condotto la trasmissione “La Vie secrète des chats”.

Tutto il mondo felino è osservato e interpretato dall’autrice: fisicità e psiche, affettività e sessualità, abilità e furbizie, rapporti con l’ambiente e con gli umani.

Dalla presentazione editoriale.

«Come sarebbe guardare il mondo attraverso gli occhi di un gatto? Il legame tra l’uomo e questo animale è così speciale e di lunga durata che ci sembra di conoscerlo bene. In effetti, spesso i tratti che gli assegniamo sono umani e spieghiamo i suoi comportamenti sulla base dei nostri. E se invece non interpretassimo correttamente il modo in cui percepisce la realtà? In un racconto avvincente, Jessica Serra conduce un’esplorazione nella mente dei gatti, attingendo agli ultimi progressi dell’etologia e a innovativi test comportamentali per svelare il loro sorprendente mondo cognitivo: la percezione del tempo, il labirinto delle emozioni, l’istinto al servizio dell’intelligenza, persino la sensibilità alla musica (soprattutto rock!), le grandi doti terapeutiche e antidepressive e la fenomenale capacità di orientamento. Il risultato è un ritratto vivido della loro vita interiore che dischiude tutta la bellezza e genialità del mondo felino e ci fa comprendere gli enormi benefici della loro presenza nella nostra vita».

Di solito non trascrivo l’Indice dei libri che recensisco, ma stavolta ho deciso di fare un’eccezione. Perché sono tante e particolareggiate le informazioni che contiene “Nella testa di un gatto” che per quanto se ne possa dire bene di quelle pagine solo mostrando l’estensione scientifica dei capitoli si può compiutamente apprezzare il valore del volume.

Segue l’Indice del libro, versi di Neruda e musica felina di Alessandro Scarlatti.


Nella testa di un gatto (2)

Questo è l’Indice di “Nella testa di un gatto” di cui è autrice Jessica Serra .

Prima propongo versi di Pablo Neruda: Ode al gatto

In fondo, Alessandro Scarlatti: “La fuga di un gatto”

In foto: il mio gatto Spock.

1. Come si è formata la testa del gatto? 15
Il suo cervello 16
Le sue origini e la conquista dell’Uomo 19

2. Una percezione del mondo tipicamente sua 37
Una comunicazione olfattiva che ci sfugge 37
Un secondo organo olfattivo e un linguaggio codificato! 41
Quando l’odore diventa ricordo 44
Molecole odoranti irresistibili… 45
Selezionare più che gustare 45
Un’acuta visione del mondo, ma in toni pastello 47
Il gatto vede un mondo a noi invisibile 49
La sua capacità di organizzare il mondo 50
Un corpo ipersensibile 51
Una sinfonia di ultrasuoni 54
I sensi di un predatore 55
La personalità del gatto 56

3. Un essere pensante 67
L’intelligenza del gatto 68
Capisce le nostre intenzioni 73
Un senso di equità 74
Sono più intelligenti dei cani? 75
Un cervello artificiale di gatto 77
Come apprende il gatto? 78
Prima di nascere… 82
L’apprendimento con l’osservazione 83
Perché un cane sembra apprendere più rapidamente
di un gatto? 85
L’influenza dell’ambiente 86
Innato vs acquisito 87
Un essere immorale? 89
La coscienza di sé e il test dello specchio 90
Esiste la consapevolezza della morte? 92
La sua percezione del tempo 94
Il suo cronometro biologico 96
Anche lui ha bisogno di sognare 98
Preferisce il rock! 99

4. Un essere emotivo 103
La paura come forma di protezione 106
In nostra assenza può essere ansioso 106
La ricerca del piacere 107
Può soffrire in silenzio 109
Gli succede di deprimersi 110
Prova disgusto 111
Empatico o egoista? 112
È possibile che si affezioni ad altri? 115
La gelosia non è un brutto difetto 119
Un ipocrita? 120
Ci vuole bene davvero? 121
Un falso calmo? 122
Vive le emozioni come le viviamo noi? 124
Ha un’anima? 126
Il gatto ha nostalgia? 127

5. L’incredibile rapporto fra l’Uomo e il gatto 129
Il suo musetto ci fa impazzire 130
La nostra empatia dipende dalla nostra esperienza di vita
con loro 132
Un gattino nel corpo di un felino 134
Solitario? Non del tutto… 137
Parla una lingua speciale per gli umani 138
Fa finta di non sentirci? 140
Né Dio né gatto: ci classifica in una categoria a parte 142
Nessun machiavellismo 144
Il suo padrone: un modello per lui 145
È membro della nostra famiglia 146
Un rivelatore di personalità 147

6. Gli straordinari poteri del gatto 151
Un potente antidepressivo 152
Un catalizzatore sociale 155
Un terapeuta 155
Uno stimolatore delle prestazioni cognitive 158
Un’“arte di vivere” che ci dà le ali 159
Un navigatore impareggiabile 160
10 nella testa di un gatto
Uno stuntman di altissimo livello 164
Poteri soprannaturali? 166
Una doppia vita 171
Note 175
Ringraziamenti 193
……………………………………

E dopo l’Indice finale in musica:
Domenico Scarlatti, Sonata in G minor K30 (L499): La fuga del gatto (durata: 2’30”)

…………………………….

Jessica Serra
Nella testa di un gatto
196 pagine * 19.00 euro
Carocci


Quel vecchio rasoio ancora buono

Che il titolo di questa nota non vi dissuada dalla lettura.
Non si tratta dell’elogio di vecchi strumenti domestici per radersi, qui si parla di roba antica sì, ma roba di lussuosa filosofia.
Quel rasoio è il rasoio di Occam.
Il Dizionario di Filosofia così sinteticamente lo descrive: “È conosciuto come principio di economia, o principio di parsimonia, è un principio metodologico che indica di scegliere la soluzione più semplice tra più soluzioni egualmente valide di un problema. Venne formulato nel XIV secolo dal filosofo e frate francescano Guglielmo di Occam ed è ritenuto alla base del pensiero scientifico moderno”.
Quel vecchio rasoio è stato usato come strumento d’indagine da Stefano Ciliberti in un libro pubblicato dalla casa editrice Dedalo intitolato proprio Quel vecchio rasoio ancora buono Storia dal Medioevo per capire il presente

Ciliberti è dottore di ricerca in fisica, ha collaborato con il premio Nobel Giorgio Parisi, ma in seguito ha intrapreso una carriera in finanza quantitativa. Dopo 15 anni, molti viaggi e circa 30 pubblicazioni scientifiche, si è laureato in storia medievale.

Usando quel vecchio rasoio, ha scritto dodici brevi storie-saggo che con un approccio vivace e diretto, mettono di volta in volta l’accento su un diverso aspetto della società medievale, e non mancheranno le sorprese.
In una eterogenea folla di personaggi scorgiamo le radici del mondo contemporaneo.

Il Medio Evo è epoca calunniata?
Ma, tanto per cominciare, qual è il periodo che sia lecito definirlo Medio Evo?
Perché non tutti gli storici concordano sulle date. Ciò è dovuto al fatto che in un periodo così lungo non c’è stata solo un’epoca. C’è un abisso fra il tempo dei Longobardi, un tempo di distruzioni e di violenze e il ‘300 con la nascita di tanti geni in una società colta e raffinata. Le date prescelte per l’inizio e la fine sono state per lungo tempo, e per convenzione, il 476, identificato con l’anno della presunta caduta dell’Impero romano, e il 1492, scoperta delle Americhe da parte di Cristoforo Colombo. Il progredire delle ricerche ha arricchito le prospettive di identificare punti di snodo da un’età all’altra e sono state avanzate proposte di datazione diverse, in base a fattori economici, sociali, demografici, culturali, politici.
Perché si tratta di secoli da molti descritti come secoli bui?
Umberto Eco presentando nel 2014 la serie “Il Medioevo” pubblicata dall’Espresso, affermava: “È opportuno precisare che il Medioevo non è quello che molti affrettati manuali scolastici hanno fatto credere, che cinema e tv hanno presentato (…) È utile chiederci che cosa il Medioevo ci ha lasciato che sia attuale perfino oggi e che cosa esso è stato qualcosa di radicalmente diverso dai tempi in cui viviamo”.
In un’intervista con la grande medievista Chiara Frugoni le chiesi che cosa pensasse di quelli che definivano il Medio Evo epoca oscura. Rispose: “Medioevo uguale secoli bui è un’invenzione di Montanelli che da un punto di vista giornalistico è una definizione perfetta. Ma non ha alcun senso. Come si possono giudicare bui i secoli con Dante, Boccaccio, Petrarca, Cimabue, Giotto? E il secolo appena passato con due guerre mondiali, la bomba atomica e il massacro degli ebrei è stato un secolo luminoso?”.

Giorgio Parisi, premio Nobel per la Fisica 2021 sul libro di Ciliberti ha scritto: «Guardare la storia da vicino ci sorprende sempre e ci aiuta a comprendere il presente».

Luciano Canfora: «Un significativo contravveleno rispetto alla visione prescientifica del Medioevo».

Dalla presentazione editoriale.

«Perché non riusciamo a scrollarci di dosso l’immagine di un Medioevo buio e violento? Come cogliere le sfumature di un periodo plurisecolare che ha avuto il merito di porre le basi della moderna società occidentale? In questi brevi saggi Ciliberti esamina i singoli aspetti di un mondo complesso e le sue evoluzioni, non senza sorprese.
Si scoprirà, tra l’altro, che cosa hanno in comune il granduca di Toscana nel Seicento e lo sceicco di Dubai ai nostri tempi; come vivevano nel XII secolo i cavalieri, quando, come e perché abbiamo cominciato a leggere in silenzio; come mai le crisi finanziarie di oggi sono incredibilmente simili a quelle del Trecento; che cosa lega il filosofo del Trecento Occam, il premio Nobel per la Fisica Enrico Fermi e l’intelligenza artificiale».

………………………………………..

Stefano Ciliberti
Quel vecchio rasoio ancora buono
192 pagine * 17.00 euro
Dedalo


A cavallo di un manico di scopa


La casa editrice Mimesis ha pubblicato una storica raccolta di saggi di Ernst Gombrich: A cavallo di un manico di scopa Le radici della forma artistica
Ernst Gombrich (Vienna, 1909 - Londra, 2001) è stato uno dei più influenti storici dell’arte di tutti i tempi.
Austriaco, a causa del nazismo si rifugiò a Londra, dove diresse il Warburg Institute dal 1951 al 1976 insegnando, contemporaneamente, Storia dell’arte a Oxford. Tra le sue opere principali tradotte in italiano: La Storia dell’Arte; Freud e la psicologia dell’arte; Arte percezione e realtà (con J. Hochberg e M. Black); Arte e illusione; Ombre; La preferenza per il primitivo. Episodi dalla storia del gusto e dell’arte occidentale.
Per una più estesa biografia: CLIC.

"A cavallo di un manico di scopa" raccoglie alcuni dei saggi più noti e apprezzati di Gombrich. Attraverso un percorso teorico che parte dall'analisi delle radici della forma artistica e dallo studio dei meccanismi della percezione visiva per poi toccare argomenti come la natura morta, le immagini satiriche e la storia sociale dell'arte, Gombrich fa un viaggio nella comprensione di problemi chiave della storia dell'arte del suo tempo, in particolare il tema dell'espressione e quello dell'astrazione.

Dalle pagine di “A cavallo di un manico di scopa: “Quella strana zona che chiamiamo «arte» è come una sala tutta specchi, o una galleria acustica in cui sono percettibili da lontano i minimi sussurri. Ogni forma evoca mille ricordi e immagini secondarie. Non appena un’immagine è assegnata all’arte, viene a crearsi un nuovo nesso di rapporti al quale l’immagine non può sfuggire. Essa diventa parte di un ordine stabilito, tale e quale come il cavallo balocco. Se un Picasso lasciasse la ceramica per dedicarsi ai cavallucci a manico di scopa (cosa non inconcepibile), ed esponesse a una mostra i risultati di questo suo ghiribizzo, potremmo leggerli come dimostrazioni, come simboli satirici, come dichiarazione di fede nelle cose umili, o come autoironia – ma una cosa sarebbe negata perfino al più grande degli artisti contemporanei: nemmeno un Picasso sarebbe capace di fare un cavallo a manico di scopa che avesse per noi il significato che ebbe il primissimo cavalluccio di tal fatta per colui che nell’innocenza lo creò.
Quella via è sbarrata dall’angelo con la spada di fuoco”.

Ecco un illuminante ritratto del pensiero di Gombrich scritto dal semiologo Paolo Fabbri. “Il confronto con la psicologia della percezione – da Arnheim fino a Gibson – ha condotto Gombrich a una felice convergenza tra iconologia e semiotica. Lo dimostrano le ricerche svolte a partire da Arte e illusione (1959) e oggi documentate nei Gombrich Papers, a cura di Richard Woodfield.
Per Gombrich era centrale la tradizionale abilità con cui gli artisti creano, mediante espedienti visivi, un universo di illusioni significanti. L’arte è costruzione di linguaggio che comporta percetti, affetti e concetti.
Oltre all’approccio psicanalitico (Kris), sono questi i presupposti teorici che hanno orientato l’opera di Gombrich: I) verso una metodologia semiotica descrittiva delle immagini, lontana da interpretazioni formalistiche e impressioniste e II) a valorizzare il rapporto tra le forme dell’immagine artistica e l’esperienza dell’osservatore”.

Dalla presentazione editoriale

«Un semplice giocattolo, una testa di cavallo infilata su un bastone o un manico di scopa, fa da filo conduttore a questa raccolta di saggi sull’arte di Ernst H. Gombrich. Anche se il cavalluccio è protagonista di uno solo di questi studi, esso diventa sintomatico di un modo di elaborare la teoria dell’arte che lega l’osservazione iniziale su un singolo oggetto a una lunga serie di meditazioni sempre più ampie, e al tempo stesso sempre più specifiche, sulla teoria dell’arte. Collocando al centro delle meditazioni singoli oggetti/pretesti, Gombrich tesse una fitta rete di analogie e relazioni tra discipline diverse mostrando, oltre alle consuetudini della produzione artistica e alle specificità della teoria dell’arte, l’importanza di un approccio ampio e multidisciplinare».

Concludo questo pezzo con una riflessione di Gombrich di grande attualità che estraggo dal suo “Ciò che ho visto e imparato nella mia vita” (Capitolo 40).

«Conosco un vecchio e saggio monaco buddhista che una volta in un discorso ai suoi connazionali disse che gli sarebbe piaciuto sapere perché sono tutti d'accordo che quando qualcuno dice di sé “io sono il più intelligente, il più forte, il più coraggioso e più talentoso uomo al mondo” si rende ridicolo e imbarazzante, ma se al posto di “io” dice “noi”, e sostiene che “noi” siamo i più intelligenti, i più forti, i più coraggiosi e più talentosi al mondo nella sua patria lo applaudono entusiasti e lo definiscono un patriota. Mentre tutto ciò non ha nulla a che vedere con il patriottismo. Si può infatti essere attaccati al proprio paese senza per questo dover sostenere che al di fuori di esso vive solo gentaglia inferiore. E invece più persone caddero in questa insensatezza, più la pace fu in pericolo».

…………………………………….

Ernst Gombrich
A cavallo di un manico di scopa
Traduzione di Camilla Roatta
354 pagine * 26.00 euro
Mimesis


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