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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Otto passi nel futuro

Molti arretrano di fronte al futuro come se ogni minuto del giorno già non lo contenesse. Temono il futuro che scienza e tecnologia propongono a ritmi sempre più accelerati, si rifugiano in un passato – immaginato, chissà perché, sempre migliore del presente – e vivono ignorando che tantissimi avvenimenti straordinari si sono già avverarti, che, ad esempio, tanto per dirne una soltanto, – già dal 13 settembre del 2013 la sonda americana della Nasa “Voyager 1”, primo oggetto creato dall'uomo a uscire dal Sistema solare, sta navigando nella nostra galassia continuando a mandare ancora oggi, mentre leggete questa nota, sulla Terra nitide immagini e dati fino a ieri ignoti.
Eppure quegli stessi che parlano male del progresso, sono ben felici che sia stata inventata l’anestesia quando siedono dal dentista.
Nonostante i lunghi passi in avanti, c’è tanto ancora da sapere, l’astrofisico Giovanni Bignami, accademico linceo, dice: “Quello che ci resta da capire e da esplorare è il 96% dell’Universo”.
Ma come sarà quel futuro? Tante domande aspettano risposte.
Alcune siamo in grado di prevederle esattamente grazie alle ricerche in corso, altre con buona approssimazione, altre ancora possiamo solo immaginarle non senza il pericolo di prendere qualche colossale toppata.
Possiamo dire, ad esempio, che in un futuro non lontano esisterà la “carnicoltura” cioè la fabbrica delle bistecche allo stato puro, la carne che cresce senza l’animale in un mondo che non ha più bisogno di macelli e macellai.
Che disporremo di un laptop quantistico, vale a dire che più non penseremo in termini di bit, cifre binarie sempre determinate in modo univoco: 1 o 0, acceso o spento, bianco o nero e così via. L'informatica quantistica, invece, lavora con i qubit: elementi che possono essere (proprio come le particelle quantiche) in stati diversi nel medesimo tempo.
Non sappiamo, però, se mai entreremo in contatto con altri abitanti dell’universo QUI (un'interessante dimostrazione statistica di facile lettura) e se una volta, per ipotesi, tale contatto si stabilisse, fossimo poi in grado di raggiungere o essere raggiunti da esponenti di quella civiltà.

La casa editrice Editoriale Scienza ha pubblicato un libro – destinato ai ragazzi dagli 8 anni in su – che in termini semplici esplora il futuro che ci aspetta prospettandolo in otto tappe dal 2054 al 2114.
Titolo: Otto passi nel futuro Martino e Zioguido raccontano il mondo che verrà.
Ne sono autori Umberto Guidoni e Andrea Valente.
Guidoni è stato il primo astronauta italiano
Nel 1996 ha effettuato il primo volo a bordo della navetta Columbia. Il suo lavoro s’incentrò sul controllo degli esperimenti elettrodinamici del Satellite Tethered che dimostrarono, per la prima volta, la possibilità di generare potenza elettrica dallo spazio.
Il Columbia, lanciato il 22 febbraio 1996 atterrato al Kennedy Space Center (KSC) il 9 marzo di quello stesso anno, completò 252 orbite, percorrendo 10 milioni di chilometri in 377 ore e 40 minuti.
CLIC per visitare il sito web di Guidoni.

Valente, autore anche delle illustrazioni di questo libro, così si presenta: «Forse è capitato anche a te di svegliarti un bel mattino con la netta impressione che quel giorno era davvero un altro giorno. A me successe quando capii, senza ombra di dubbio, di essere una pecora nera, anzi, una Pecora Nera, con le maiuscole. Che mattino quel mattino!»
CLIC per entrare nel website di Valente.

Zioguido deve fare appello a tutto il suo sapere per dare risposte soddisfacenti alle domande del piccolo Martino: come cambierà l’alimentazione? quale rapporto avremo con i robot? A quale velocità si potrà viaggiare nello spazio? E tante altre.

Umberto Guidoni
Andrea Valente
Otto passi nel futuro
Pagine 128 con illustrazioni
Euro 11.90
Editoriale Scienza


#ioleggoperché

Un’iniziativa nazionale di promozione della lettura è organizzata dall’AIE (Associazione Italiana Editori) ed è intitolata #ioleggoperché (in foto il logo).
Dopo il successo del 2015, che ha visto la mobilitazione di migliaia di persone e la consegna di 240mila libri in tutta Italia, nel 2016 #ioleggoperché cambia veste per diventare un motore di nuove iniziative all’interno delle aziende e del mondo del lavoro.

#ioleggoperché ha pure una sua colonna sonora di Samuele Bersani e Pacifico, per ascoltarla: CLIC!

Cosmotaxi ha rivolto al direttore dell’Aie, Alfieri Lorenzon, due domande.
Quando e com’è nata quest’iniziativa?

#ioleggoperché in questa nuova veste è nata a Francoforte, alla Buchmesse. Là, in occasione della presentazione del nostro Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia, abbiamo evidenziato, sulla base dei dati Istat, come ben il 39% della classe politica e dirigente italiana non leggesse neppure 1 libro all’anno.Lì ci siamo resi conto di quanto fosse necessario riportare i libri nella quotidianità dei lavoratori e dei ragazzi per far riscoprire il piacere, l’utilità, il divertimento del leggere. Giusto qualche anno prima, nel 2013, avevamo realizzato infatti un’indagine a tutto campo sulle biblioteche scolastiche e gli esiti erano imbarazzanti: le dotazioni librarie in media erano inesistenti (4,7 libri per studente; 0,1 libri “nuovi” comprati all’anno sempre per studente). Gli istituti scolastici oggi hanno più o meno tutti una biblioteca scolastica ma non hanno i libri nuovi, non hanno le proposte per lavorare con la didattica sulla lettura, non hanno modo di tenere vivo l’interesse dei ragazzi sulla lettura.
Nasce da qui #ioleggoperché: un’alleanza tra AIE, Istituzioni (Centro per il Libro e la Lettura del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo in primis) e Confindustria – Gruppo tematico Cultura per riportare al centro i libri e la lettura nella quotidianità degli italiani. Con due obiettivi: nel breve periodo, lavorare sulla creazione e dotazione delle biblioteche scolastiche e di quelle aziendali. Nel medio periodo, tenerle vive, renderle un cuore pulsante e animato, non un semplice scaffale di libri
.

Quali le principali novità di quest’edizione?

Le novità saranno tantissime, in effetti. Il periodo prima di tutto, non più il mese d’aprile ma dal 22 al 30 ottobre in concomitanza con "Libriamoci" del Centro per il Libro e la lettura con le sue letture ad alta voce. Cambia la data e soprattutto cambia la formula: due saranno le strade attraverso cui viene proposto il coinvolgimento.
Le sintetizzo in due punti.
1) Favorire lo sviluppo e la creazione di una o più biblioteche scolastiche
Si chiederà a tutti gli italiani di acquistare in libreria dal 22 al 30 ottobre, uno o più libri da donare per contribuire ad adottare la biblioteca di una scuola precisa (elementare, media o superiore), con cui la libreria si è “gemellata”. Il libro sarà marchiato per sempre dal nome del donatore.
AIE, attraverso gli editori associati, raddoppierà, dopo il periodo 22-30 ottobre, i libri donati dagli italiani per la creazione/lo sviluppo della biblioteca scolastica. I libri che vengono messi a disposizione dagli editori saranno destinati in numero uguale a tutte le biblioteche delle scuole che hanno aderito al progetto.
2) La seconda strada, rivolta agli imprenditori, è quella di sviluppare, se esistente, o creare ex novo una biblioteca aziendale. Utilizzando la leva del ticket welfare, AIE e Gruppo tematico Cultura di Confindustria chiederanno a tutti gli imprenditori di investire nella creazione (o nel potenziamento) di una propria biblioteca interna all’azienda da mettere a disposizione dei propri dipendenti per la loro formazione, il loro svago, il loro piacere.
Il criterio con cui sarà assortita la biblioteca, l’individuazione dello spazio e il suo allestimento, la modalità di gestione sono elementi ovviamente lasciati alle decisioni di ogni singola impresa. La proposta è che i titoli dei libri prescelti non siano solo professionali ma possano davvero rispondere alle esigenze di tutti (senza esclusione di sorta, ad esempio includendo i titoli per bambini che poi possono essere prestati ai figli dei dipendenti)
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Ufficio Stampa #Ioleggoperché: Carmen Novella – Elisa Carlone; tel: 334 – 65 33 015

Ufficio Stampa Aie: Daniela Poli; tel. 02- 89 280 823


Corto Maltese e la poetica dello straniero (1)


Accademici, politici e preti hanno a lungo osteggiato i fumetti in Italia, si pensi agli anatemi della Chiesa o alle sprezzanti considerazioni di Togliatti.
Alla rimozione di quegli ammuffiti detriti, un contributo importante indubbiamente fu dato da “Apocalittici e integrati” (1964) di Umberto Eco che nel famoso capitolo ‘Lettura di Steve Canyon, Il mito di Superman e Il mondo di Charlie Brown’ portava il fumetto come esempio di letteratura di massa
Anche altre intelligenze fin dai primi anni ’60 si mossero sostenendo quell’arte verbovisiva, da Rodari a Vittorini, giusto per fare qualche nome.
Nel 1967, poi, Hugo Pratt (Rimini, 15 giugno 1927 – Losanna, 20 agosto 1995) fa nascere un protagonista delle nuvolette: Corto Maltese.
Eco dirà: «Quando ho voglia di rilassarmi leggo un saggio di Engels, se invece desidero impegnarmi leggo Corto Maltese».

“Corto” – fotografato dal web – “veste all'uso marinaio, con lungo paltò nero della marina, gilet rosso chiaro, camicia bianca con il colletto alzato e una sottile cravatta nera. Indossa un orecchino ad anello all'orecchio sinistro (simbolo di appartenenza alla marina mercantile e simbolo anarchico ricorrente nei primi anni del XX secolo). Porta fitti capelli neri arruffati, coperti da un cappello da marinaio, che nascondono degli occhi castano chiaro, dal taglio vagamente orientaleggiante. Porta delle lunghe e folte basette. È alto 1.83 ed ha un fisico asciutto e agile”.
Indossa soprattutto un apparente cinismo che contrasta con le azioni solidaristiche che compie, ha lunghe pause malinconiche interrotte da scatti di muscoli e pensiero, si oppone al destino fino ad accorgersi di non avere una linea della fortuna sulla sua mano e allora decide di farsela da solo con un rasoio.
Il marinaio di Pratt ebbe crescente successo tanto d’attraversare i mari di più media, dai cartoni animati al teatro, dalla letteratura alla musica; manca, ad oggi, il cinema solo perché Pratt (per lui era Dawid Bowie l’interprete ideale di Corto) si oppose a un progetto scritto da Folco Quilici.

Tanti gli articoli e non pochi i libri su di lui, ma ora le Edizioni Mimesis hanno pubblicato un libro di straordinaria acutezza, imperdibile non solo per gli studiosi del fumetto ma per tutti gli appassionati ai miti letterari: Corto Maltese e la poetica dello straniero L’atelier carismatico di Hugo Pratt .
Ne è autore Stefano Cristante, grande osservatore dei processi culturali e comunicativi, si occupa, bene come pochi altri, di sociologia dell'opinione pubblica e di produzioni e consumi nelle culture giovanili.
Nato nel 1961, insegna Sociologia della comunicazione all’Università del Salento, dove ha fondato l’Osservatorio di Comunicazione Politica.
Ha scritto, tra gli altri: Potere e Comunicazione (1999- 2004), Azzardo e conflitto (2001), Media Philosophy (2005), Comunicazione (è) politica (2009), Prima dei mass media (2011).
Dirige la rivista on line H-ermes. Journal of Communication.
A fine libro, nei ringraziamenti, ne indirizza uno alla madre che lo ha fatto nascere a quattro passi da corte sconta detta arcana.

Dalla presentazione editoriale.
“Stefano Cristante, in questo libro, oltre a rivivere i viaggi e le avventure del marinaio più ironico di tutti i tempi, si concentra su uno degli aspetti che rendono il suo personaggio quanto mai attuale: Corto Maltese è uno “straniero”, un apolide in perenne erranza. Non a caso, la sua fi gura unisce aspetto e carattere mediterraneo a una cultura anglosassone. Cristante, avvalendosi di un profi cuo confronto con i principali sociologi del Novecento che hanno analizzato la fi gura dello “straniero” (Sombart, Weber, Simmel, Park), mostra come la forza innovativa di Hugo Pratt consista proprio nella scelta di mettere in primo piano personaggi anomali e irregolari, solitamente relegati tra i ‘cattivi’ delle storie a fumetti”.

Segue ora un incontro con Stefano Cristante.


Corto Maltese e la poetica dello straniero (1)


A Stefano Cristante (in foto) ho rivolto alcune domande

Apri il libro indicando la mancanza di un “humus collettivo” che ha reso l’Italia un paese impermeabile ad accogliere il fumetto “tra le espressioni nobili dell’industria culturale”.
Che cosa ha formato quell’humus?

Direi piuttosto “Che cosa non ha formato quell’humus?”. Il fumetto è un’arte industriale, forgiata nel piombo dei giornali. Le strisce sono nate così negli Stati Uniti, merce tra le merci, forse più “merce-intrattenimento” che “merce-notizia”, ma veloce e ritmica come richiesto a un medium da sfogliare in pochi minuti. In Europa invece il fumetto si esprime attraverso riviste, e in Italia si declina attraverso vignette e illustrazioni che hanno più il gusto della satira che della narrazione. In generale, l’Italia soffre di una sotto-considerazione di ogni arte anfibia. Una specie di spirito crociano aleggia sullo studio delle immagini e sul significato delle narrazioni popolari. Gramsci probabilmente avrebbe scoperto il fumetto e la sua duttilità di nuovo attrezzo per la cura delle storie popolari. Ma Gramsci non è sopravvissuto al fascismo, mentre Croce sì, e per un paio di decenni post-guerra tutto ciò che ha assunto la dimensione del popolare è stato bistrattato. Anche quando più profondamente entrava in contatto con l’immaginario collettivo. Non a caso l’attenzione verso il fumetto come oggetto di studio comincia in Italia tardissimo, negli anni ’60. Un attimo prima che l’industria televisiva diventasse l’intero mondo mediale. Quel tempo sprecato è difficile da recuperare.

Quali sono state le letture che hanno maggiormente influenzato Pratt?

Su questo rimando al buon lavoro del 2006 di Giovanni Marchese (“Leggere Hugo Pratt”, Tunué) che racconta diffusamente la formazione e l’evoluzione letteraria di Pratt. Per condensare, direi che Pratt ha divorato da giovane una vasta letteratura avventurosa, poi si è gettato sulla documentazione storico politica, poi sulla letteratura sapienziale ed esoterica per approdare a una forma di ammiccamento verso l’archeologia del fantastico. Tanto ha tessuto Pratt tra queste componenti diverse da creare una trama originale lavorata sulle fondamenta della classicità. Pratt è un classico che propone innovazione narrativa nei circuiti della tradizione. La tradizione principale è quella novecentesca di impronta anglosassone, ma si tratta di un albero dai molti rami e dai molteplici frutti. Pratt era onnivoro, fortunatamente.

Come spieghi la presenza di Pratt autore tanto ironico nella poco ironica massoneria?

Pratt ha ironizzato pesantemente sulla Massoneria, basta leggere La favola di Venezia, dove Corto precipita (in senso letterale) in un tempio massonico occupato da una riunione e dove, passato lo sbigottimento dei presenti per l’inattesa apparizione, egli viene catalogato – per via delle sue sapienti risposte alle domande del Grande Maestro – come un iniziato. Corto risponde che egli non è affatto un “libero muratore”, ma un semplice “libero marinaio”. Credo che Pratt abbia in realtà messo in scena con la Massoneria un legame del tutto personale, pur rispettando il rituale collettivo, atteggiamento che gli consentiva di accedere a letture e conoscenze per lui significative dal punto di vista intellettuale e narrativo.

Perché Pratt sceglie nelle avventure di Corto di mettere insieme personaggi di fantasia e personaggi storici: Jack London, Hemingway, D’Annunzio, Hesse, Butch Cassidy, fino ai meno noti Tiro Fisso e Corisco de São Jorge?

Un soggetto di fantasia, intrecciato a soggetti reali, aumenta la propria potenza sul lettore se i soggetti reali fanno scattare il dispositivo “leggenda”. L’incontro con “la Storia” è sempre costitutivo di un legame con il lettore: i personaggi storici che si nominano e si disegnano pescano nella memoria di ognuno una particola di presenza, di partecipazione. Tutti li abbiamo conosciuti, ed essi ci appartengono. Il genio di Pratt è che la Storia viene messa a servizio dell’immaginazione, che equivale a dire che Jack London, Ernest Hemingway, Gabriele D’Annunzio, Herman Hesse e Butch Cassidy giocano alle condizioni volute da Corto Maltese, cioè da Pratt. La tendenza al dettaglio storiografico e geografico – che Pratt ha condiviso con altri mostri sacri del fumetto italiano, a cominciare da Gian Luigi Bonelli – testimonia l’intensità della rappresentazione affabulatoria della letteratura disegnata. Il genio di Pratt sta nell’invertire le gerarchie di status nella narrazione: nelle sue tavole non è Corto a doversi infilare nelle vicende di quei mostri sacri, ma sta invece a loro dover giustificare la loro presenza al cospetto dell’apolide prattiano. Sono i London e gli Hemingway che devono ringraziare per aver potuto conoscere l’eleganza vintage di quel misterioso “gentiluomo di fortuna”. Si tratta di un’illusione in cui è bello precipitare. Una forma di “fantasia aumentata”.

Corto Maltese, come scrivi, è straniero ma non è un migrante, nessuna necessità economica lo spinge a viaggiare, non è mosso da avidità nella ricerca di tesori (uno di questo è la clavicola di Salomone!), ma allora…?

Corto è cresciuto a Malta. Uno degli ombelichi del mondo. Non si può appartenere a un’isola così piccola in un mondo che – all’alba del XX secolo – si prepara alla prima ondata di globalizzazione. L’andare, per gli isolani e per i lagunari (come Pratt), è una condizione dell’essere. Non si tratta solo di un’insopprimibile ansia di viaggio e movimento, quanto di una reazione alla ristrettezza delle trame di vita che accadono in certi luoghi del Mediterraneo dove per esistere bisogna andare via, e per ritornare bisogna avere la testa piena di racconti. In realtà anche in questo caso Corto rappresenta una forzatura di Pratt: il narratore tornava nella sua Venezia quando riteneva fosse il caso, mente Corto addirittura oblitera la sua patria. La direzione di Corto è l’apolidia, l’assenza di patria, e ciò lo dispone necessariamente nelle condizioni di estrema attenzione verso l’Altro e gli altri mondi. Corto è la coscienza occidentale che necessita ancora di una giustificazione per l’andare, cioè dell’avventura. Ma l’avventura è in realtà il pretesto che giustifica l’erranza di Corto, un’erranza in realtà perfettamente giustificata da sé stessa, erede di una tradizione che comincia con Ulisse e prosegue con Marco Polo, con Ibn Battuta, con l’Ebreo Errante, con la ricerca dell’Eldorado, per finire nelle trame evanescenti dei continenti scomparsi e dell’esoterismo. Corto Maltese ha intraprendenza e capacità tali da garantirsi comunque un reddito. La sua molla non è il profitto, ma la conoscenza. Per questo molte tavole di Pratt, e spesso le più significative, sono senza testo. È il pensiero di Corto che viene rappresentato dall’assenza delle parole, perché le avventure umane si condensano nella riflessione sull’esito dei comportamenti e delle azioni. Le emozioni si susseguono grazie ai ritmi dell’avventura esotica e agli intrighi nazionali e internazionali, ma la quintessenza delle emozioni non è l’avventura, ma la scoperta del senso delle cose. Essere stranieri è la precondizione per avventurarsi nella scoperta della storia mondiale delle idee, e per rappresentarne l’amatissimo emblema libertario.

Stefano Cristante
Corto Maltese e la poetica dello straniero
Pagine 152, Euro 14.00
Mimesis


Fast Forward Festival


A proposito del Fast Forward Festival (in foto il logo) ricevo da Amelia Realino dell’Ufficio Stampa del Teatro di Roma una nota che volentieri rilancio.

«Il Teatro dell’Opera è di scena al Teatro di Roma con tre spettacoli sui palcoscenici dell’Argentina e dell’India per la prima edizione del Festival FFF – Fast Forward Festival. La rassegna ideata dal Teatro dell’Opera di Roma che si rivolge a tutti gli appassionati di teatro musicale, ma in particolare a chi è interessato alla musica contemporanea, e soffre di una mancanza di proposte nella città di Roma. Il festival – in collaborazione con le principali istituzioni culturali della capitale: l’Accademia di Santa Cecilia, il Teatro di Roma, Musica per Roma, l’Accademia di Francia Villa Medici – si svolgerà in differenti sedi e ospiterà dieci spettacoli dai linguaggi diversi come l’opera, il vero e proprio teatro strumentale e la danza.

Ad inaugurare la prima edizione del festival, venerdì 27 maggio (21) al Teatro Argentina, uno dei maggiori compositori contemporanei, il tedesco Heiner Goebbels con “Schwarz auf Weiss” (Nero su Bianco. Lo spettacolo – una coproduzione col Teatro di Roma e con il sostegno del Goethe-Institut Rom – vede il ritorno di eccezione del compositore Heiner Goebbels alla guida dell’Ensemble Modern di Francoforte: i musicisti danno vita a una vera e propria performance teatrale accompagnati da una regia luci di grandissima potenza espressiva. Protagonista è il collettivo dello stesso Ensemble: diciotto musicisti che agiscono simultaneamente come attori e musicisti, conquistando l'intero palcoscenico. Palle da tennis rimbalzano su una grancassa, si odono i suoni dolci dei ‘kodo’ giapponesi, il sibilo di un bollitore si trasforma in una complessa melodia di flauto. I musicisti non solo suonano i loro propri strumenti ma si uniscono a formare un gruppo, come un ensemble di fiati simile a una banda italiana. Le scene e gli avvenimenti dello spettacolo si susseguono scivolando gli uni negli altri, senza interruzioni e le luci, sapientemente disegnate da Jean Kalman, costruiscono una loro propria drammaturgia. Ancora e ancora si ascolta la voce registrata di Heiner Müller che legge “Shadow - A Parable” (Ombra) di Edgar Allan Poe. Perché “Schwarz auf Weiss” è dopotutto una riflessione sulla scrittura e sull’assenza dell’autore come simulacro di una memoria collettiva. Per Heiner Goebbels quest’opera è “un addio a Heiner Müller” ma denso di umorismo, luce e passione. Inoltre, il compositore incontra il pubblico alle 18.30 nella Sala Squarzina dell’Argentina.

La collaborazione con il Teatro di Roma prosegue al Teatro India con una doppia proposta: domenica 29 maggio (ore 21) il gruppo francese Ensemble Aleph debutta con Vie de famille, scene di vita familiare, interpretate da una voce solista e da un piccolo gruppo strumentale su musica di Jean-Pierre Drouet, percussionista e compositore che venerdì 3 giugno (ore 21) torna in concerto come solista con “One man show” ancora all’India.
“Vie de famille” – in coproduzione col Teatro di Roma – è un esempio di teatro strumentale che si articola per sequenze, frammenti, piccoli dettagli, come delle “foto sonore” ispirate a comportamenti che sembrano famigliari e, a prima vista, indolori. I brani tessono trame rassicuranti e nulla lascia pensare che sotto quel velo sonoro si nascondano drammi, tensioni, tragi-commedie. Un inventario di vita di famiglia tra sogno e realtà: I sei musicisti riuniti che costituiscono l’Aleph Ensemble sono la famiglia di cui questo concerto descrive la vita, mettendo in scena i diversi caratteri così come le relazioni fra loro. Tutto è immaginario, naturalmente! – annota Jean-Pierre Drouet – non si tratta di fare un ritratto reale dei musicisti: è una finzione, una “pièce teatrale”. Ho chiesto a ciascun membro di questa “famiglia” di scegliere dei testi che avevano a cuore, sui quali potessi poi costruire i diversi personaggi e i loro rapporti, in ogni sorta di forme musicali possibili, dal solo al quintetto. Mi sono riservato i sestetti per gli interludi fondati su testi di mia scelta, che intervengono con regolarità, come delle foto di famiglia. Non c’è uno stile musicale definito, ma piuttosto il risultato di una sonorità vissuta nel quotidiano che include canzoni, rumori, musica colta, parole, jazz, eccetera. Abbiamo evitato il ricorso a scenografie ed accessori ingombranti per restare nella forma del concerto, lavorando moltissimo sul comportamento dei musicisti-attori, sulle qualità vocali e gestuali di ognuno di loro e sulla presenza abbondante di piccoli oggetti famigliari, misteriosi, musicali o inutili.
Ma la “tranquilla” vita di famiglia può scatenare tali sentimenti terribili e allora scattano le crisi, dei veri e propri passaggi all’azione che la musica accompagna e alimenta in maniera distante e ironica: colpi di follia che si manifestano attraverso esplosioni virtuose».

Ufficio Stampa Teatro di Roma:
Amelia Realino tel. 06 - 684.000.308; 345 – 44 65 11 7 I
e_ mail: ufficiostampa@teatrodiroma.net

Teatro di Roma
Fast Forward Festival
Largo di Torre Argentina 52 - Roma

Ufficio Stampa Teatro dell’Opera
Renato Bossa - Responsabile Opere e Concerti
tel. 06 .48160291 - 366 .6973749 - e_mail: renato.bossa@operaroma.it


Nessun dogma (1)


La casa editrice Nessun Dogma è nata da un progetto avviato dall’UAAR (Unione Atei e Agnostici Razionalisti) nel 2012 – e già vanta un catalogo ricco di titoli e qualità.
Nel marzo di quest’anno ha ricevuto dal Ministero dei Beni Culturali il Premio speciale per la traduzione avendo raggiunto «un alto livello qualitativo delle traduzioni, all’insegna della diffusione in Italia della cultura laica».

Tra le novità presentate quest’anno al Salone del libro, c’è un titolo che ben indica le intenzioni delle pagine: Le scelte di vita di chi pensa di averne una sola.
Lo ha scritto Raffaele Carcano.
Laureato in Scienze storico-religiose a La Sapienza di Roma, oltre a un’intensa attività giornalistica sulla carta stampata e sul web, ha curato il volume Le voci della Laicità (Ed. Edup) ed è autore (con Adele Orioli) di Uscire dal gregge e di Liberi di non credere .
In questo volume, dalla scrittura serrata, documentatissima, non priva di angoli d’umorismo, tratteggia un quadro dell'assenza di laicità nel nostro paese.
Frutto di dieci anni di lavoro, le pagine scrive Carcano “si sono alimentate non solo degli eventi di cronaca, ma anche e specialmente di tanti dialoghi, con credenti e no […] Seguirete i non credenti nelle diverse tappe della loro vita. Un libro così compilato poteva risultare più lungo della Bibbia, se non di un’enciclopedia. È per questa ragione che mi sono soffermato soltanto su quegli ambiti influenzati dalla religione”.
Perché se è vero che gli atei non s’interessano alla religione, è questa a interessarsi a noi e in Italia, ovviamente, è quella cattolica che pervade la nostra vita anche in atti amministrativi, in molte parti dei codici civili e penali, in pratica dalla nascita alla morte.

La scheda editoriale.
“Qual è il pensiero dei milioni di italiani che non credono? Come si traduce in pratica? Come vivono? Quali scelte compiono? Perché le compiono? Raffaele Carcano risponde a queste domande e a molte altre. Partendo dal presupposto che quando si ritiene di avere una sola vita a disposizione si aprono immediatamente innumerevoli possibilità. Al punto che esistono forse tanti ateismi e agnosticismi quanti sono gli atei e gli agnostici.
Certo: vivendo in Italia si devono anche fare i conti con istituzioni profondamente clericali. L’assenza di laicità ha pesanti conseguenze sulla vita di ogni giorno di tutti i cittadini e, in particolare, sui cittadini che non sentono alcun bisogno di Dio. E porta dunque a compiere scelte molto differenti. Eppure tutte significative.
Questo libro racconta esperienze da cui potrete estrarre ciò che vorrete, se lo vorrete. Non vi dispenserà consigli: semmai l’invito a fare scelte consapevoli, corredato da qualche strumento utile allo scopo. Non vi proporrà un’etica a uso e consumo degli atei e degli agnostici. Ma cercherà invece di descrivervi le loro etiche, quelle che modellano vite qualche volta difficili, frequentemente belle, persino entusiasmanti”.

Segue ora un incontro con Raffaele Carcano


Nessun Dogma (2)

A Raffaele Carcano (in foto) ho rivolto alcune domande

Quanti sono oggi – volendo approssimare la cifra per difetto – gli atei in Italia?

Il numero dei non credenti, in Italia come nel resto del mondo, è difficile da quantificare. Dipende molto dal modo con cui sono poste le domande e dalle opzioni che sono messe a disposizione di chi risponde. Entra inoltre il gioco il meccanismo – ben noto alla sociologia – della desiderabilità sociale, che spinge tante persone a dare la risposta che si presume sarà meglio accolta dall’interlocutore.
Detto questo, un’analisi delle inchieste realizzate sinora porta a ritenere che i non credenti, in Italia, siano almeno sei milioni. Che possono arrivare fino a dieci, se si considerano anche coloro che, pur dichiarando di non appartenere a una religione, manifestano qualche credenza in realtà sovrannaturali. A mio avviso non sono comunque importanti né i numeri, né l’autodefinizione che ognuno dà di sé. È più significativo rilevare una generale tendenza verso la secolarizzazione e il pluralismo, di cui il Paese ha un bisogno quasi disperato.
Avrebbe bisogno anche di un po’ di “sano” razionalismo. Che è a sua volta in crescita, ma non quanto sarebbe necessario. Una maggior distanza dalla religione non significa peraltro anche una diffusione più ampia del razionalismo, perché l’estremismo, il settarismo e la chiusura mentale sono fenomeni diffusi anche in organizzazioni non esplicitamente religiose
.

Perché si è più liberi sapendo di avere una vita soltanto?

In prima battuta, perché non si è obbligati a seguire pedissequamente il percorso – talvolta assai stretto – che le religioni impongono a chi ritiene che esista un’altra vita e intenda raggiungerla. Soprattutto, vivere liberi da dogmi e precetti apre istantaneamente innumerevoli possibilità. Certo, sono ben conscio che non tutti si sentono a loro agio, disponendo di una libertà quasi infinita. Ma sono ragionevolmente convinto, evidenze alla mano, che l’esercizio continuo della propria autodeterminazione possa portare benefiche conseguenze su ogni essere umano, facendogli godere una vita incomparabilmente più piena di quella a cui potrebbe aspirare limitandosi a far propria un’etica ereditata in famiglia e tramandata all’insegna del “così fan tutti”.

Nonostante la secolarizzazione abbia compiuto enormi progressi, ti soffermi su di una grave mancanza di laicità. È dovuta solo alla invadente presenza politica del Vaticano sul nostro territorio oppure insieme a questa ci vedi altre cause? Anche non di oggi?

È questo un argomento su cui sono proprio tranchant: il Vaticano si limita a fare il suo lavoro. La Chiesa cattolica chiede di poter godere di privilegi esclusivi e di poter imporre a tutti la propria visione morale. Ma se centra spesso l’obbiettivo è soltanto perché la politica china quasi sempre il capo e l’elettorato tende a dimenticare, una volta entrato nella cabina, che il tasso di laicità dei politici è un elemento importante (anche se certamente non l’unico) da prendere in considerazione per votare consapevolmente. Ne consegue una legislazione che, nonostante le affermazioni di facciata, è ben poco improntata al principio costituzionale di laicità. Una legislazione che impatta in modo considerevole sulle aspirazioni di vita dei cittadini, anche se raramente se ne rendono conto.

Nel libro compi un’esaustiva esplorazione sui tanti modi in cui la Chiesa condiziona la vita del cittadino anche non credente…

Il mio libro è un tentativo di ricordarlo al lettore. È anche uno sforzo per far comprendere a tanti credenti come le loro opinioni non solo non sono così allineate al magistero ecclesiastico (tanto da apparire, a un osservatore neutrale, quasi indistinguibili da quelle di un non credente), ma anche come la mancanza di reazioni provochi un deterioramento della libertà di scelta di tutti. La legislazione non è allineata alle convinzioni dei cittadini, ma a quelle delle gerarchie ecclesiastiche. Talvolta non è nemmeno un problema di legislazione, ma di prassi: per fare giusto un esempio, la contraccezione d’emergenza è ora considerata legittima. Ma è comunque difficile accedervi: vuoi per una tolleranza de facto dell’obiezione di coscienza compiuta da medici e farmacisti, vuoi per la quasi totale assenza delle informazioni necessarie. Siamo arrivati all’assurdo che per la Chiesa può essere preferibile svuotare una legge una volta approvata, piuttosto che combattere con forza la sua approvazione.

Qual è il valore di una vita spesa senza Dio?

Il valore è inevitabilmente quello che ognuno gli assegnerà. Ciò che a me interessa è di mostrare come tali vite non debbano essere ritenute inferiori a quelle dei credenti. Anzi! Benché ogni giudizio sia necessariamente soggettivo, ritengo che la libertà di scelta sia un ingrediente essenziale di una vita ben spesa. Possiamo in teoria trovare motivi di gratificazione in ogni cosa che facciamo: benché in pratica sia difficile riuscirvi, penso che sia un ideale a cui tendere costantemente. E siamo soltanto all’inizio delle riflessioni su queste tematiche: chissà dove potremo arrivare, cammin facendo, nell’elaborazione delle etiche laiche.

Raffaele Carcano
Le scelte di vita di chi pensa di averne una sola
Pagine 250, Euro 12.00
Edizioni Nessun Dogma


Game Video/Art


Spesso in Cosmotaxi mi occupo di videogames, sarà perché m’intriga quel loro modo di proporre un intercodice tecnologico fra musica, immagine, letteratura, cinema, sia quando sono umoristici sia quando sono distopici, sarà che preferisco Lara Croft, la creatura di Toby Gard, con i suoi pixel che lèvati, all’altra Lara, quell’Antipov di Boris Pasternak, funesta crocerossina full time dello sfortunato Dottor Zivago.

Come definire un videogioco? Lascio la parola a Matteo Bittanti che ha dedicato alla materia alcuni suoi libri, fra i quali ricordo Per una cultura dei videogames e Schermi interattivi; insieme abbiamo parlato di videogiochi anche durante… ci crediate o no… un volo spaziale.
Ecco che cosa dice sul videogame durante un’intervista data a Marco Leonardi: “E’ una macchina della felicità: è appositamente sviluppato per soddisfare il giocatore per mezzo di una gratificazione istantanea […] I videogiochi producono endorfine e riducono i livelli di stress, ansia ed irritabilità. Non dimentichiamo che la prassi videoludica è performativa: richiede abilità, dedizione, pratica. Il videogame si colloca a metà strada tra lo sport e la danza, tra la narrazione e l’esplorazione. Quello che mi affascina di questo medium è che contiene tutti i linguaggi e i codici degli altri, ma non è per questo una forma espressiva inferiore o “minore”. L’errore da evitare è di applicare al videogame i criteri qualitativi dei media tradizionali, analogici e lineari”.

Proprio Matteo Bittanti e Vincenzo Trione sono i curatori della mostra in corso dal 4 aprile negli spazi espositivi dello Iulm Open Space.
Titolo: GAME VIDEO/ART. A SURVEY, evento ufficiale della XXI Esposizione Internazionale della Triennale di Milano, XXI Century. Design After Design.
La mostra, suggerita e fortemente voluta da Gianni Canova, storico del cinema e allo Iulm Pro-Rettore con delega alla Comunicazione, eventi e rapporti con le istituzioni culturali, è la più completa rassegna d’installazioni videoludiche mai organizzata in Italia e propone una selezione di opere realizzate da trenta artisti internazionali tra il 2006 e il 2016.
Le videoinstallazioni sono accompagnate dalle opere di Milton Manetas che ritraggono soggetti, spazi e situazioni dell’immaginario tecnologico.
È inoltre proposto, in anteprima assoluta per l’Italia, The Night Journey di Bill Viola sviluppato insieme con il Game Innovation Lab della University of Southern California di Los Angeles.

In questo video, una visita alla mostra guidata da Vincenzo Trione.

QUI i testi critici in catalogo dei due curatori.

Game Video/Art. A Survey
Iulm Open Space
Via Carlo Bo 1
Info: 02 - 891 411
Fino al 31 luglio


Charlotte Brontë

Fra le cose imperdonabili prodotte dall’editoria, a mio parere, spiccano, per bassezza, storie vere e biografie rese in forma romanzata; la trovo cosa atroce. Arbitrarie ricostruzioni d’ambienti, dialoghi inventati, addirittura personaggi mai esistiti che intervengono nel racconto, robe che risentono del peggio della fiction tv.
Il lettore ha diritto d’apprendere, invece, sui fatti realmente accaduti esattezze di date, citazioni di documenti, particolari riferiti da testimoni (e conoscerne attraverso l’autore la valutazione della loro attendibilità), eccetera. Testo, quindi, difficile da scrivere perché richiede una gran fatica (conoscere bene i luoghi dove si svolsero gli avvenimenti, intervistare studiosi, recarsi in biblioteche, tribunali, consultare eventuali referti medici presso ospedali), mica starsene a fissare il soffitto e, poi, ispirato da qualche ragnatela, imbrattare fogli.
La biografia romanzata è un ibrido da perdonare, forse, giusto a Senofonte per la sua ‘Ciropedia’, e pure in quel caso ho i miei dubbi.
Ecco perché mi è molto piaciuto un libro pubblicato da Fazi, volume lontano da quei vizi di cui dicevo che propone un lavoro tanto serio e documentato, quanto scorrevole e interessante; si tratta di Charlotte Brontë Una vita appassionata.
Ne è autrice Lyndall Gordon.
Nata nel 1941 a Città del Capo, ha scritto importanti biografie letterarie amate da pubblico e critica, come quelle di Virginia Woolf (Virginia Woolf: A Writer’s Life) ed Emily Dickinson (Come un fucile carico), nonché di un’opera monografica su T.S. Eliot (T.S. Eliot: An Imperfect Life) per la quale ha raccolto materiali in vent’anni di ricerca. Gordon ha studiato Storia e Letteratura inglese nella sua città natale e Letteratura americana del XIX secolo alla Columbia University di New York. Oggi insegna Letteratura inglese a Oxford.
Fazi pubblica questa biografia di Brontë nel bicentenario della nascita della scrittrice inglese di cui ha stampato:Il professore; Shirley e Villette che Virginia Woolf riteneva la più bella delle opere della Brontë, giudizio condiviso anche da molti altri i quali la giudicano superiore al più noto, quasi autobiografico Jane Eyre che, forse, per i suoi lati commoventi fino alla lacrima resa facile, ha ottenuto uno straordinario successo in film e sceneggiati tv come ricorda Elisabetta Rasy: “L’ultimo film dal romanzo Jane Eyre è stato fatto nel 2011 da Cary Fukunaga, il regista della serie iniziale di True Detective, il primo risale al 1910, un cortometraggio muto diretto dal pioniere del cinema Theodore Marston. In mezzo un numero considerevole di altre trasposizioni cinematografiche , tra cui una, la più celebre, con Orson Wells del 1944, e da noi quella di Zeffirelli del 1996, oltre a una nutrita serie di adattamenti per la televisione in vari Paesi europei. Ma Charlotte Brontë, la sua autrice, non ne sarebbe affatto stupita: quando scrisse Jane Eyre, nel 1846, a trent’anni, era convinta di scrivere un’opera rivoluzionaria e di aver inventato un’eroina di un tipo nuovo affidata al futuro, molto diversa dalle protagoniste dei romanzi scritti dagli uomini, create «dalla loro stessa fantasia», artificiali «come la rosa del mio cappello»”.

Charlotte lavorò come insegnante e governante prima di collaborare a un libro di poesie con le sue due sorelle, Emily e Anne, anche loro scrittrici.
QUI un ritratto della famiglia Brontë in un’immagine di Tomasi di Lampedusa.
Di Charlotte scrive Gordon: Charlotte non era una persona come le altre. Più volte, grazie all’immaginazione, seppe reinventarsi la vita partire da trame esistenziali che altri avrebbero trovate scoraggianti: la governante senza volto, l’inutile zitella, la figlia e moglie devota. Ebbe la determinazione del pellegrino. La disperazione non era nella sua indole; quando le speranze venivano a mancare da un lato, si voltava dall’altro.
Quando si sentì prossima alla morte, che avverrà il 31 marzo del 1855, disse al marito «Non sto per morire, vero? Non ci vorrà Dio separare, siamo stati così felici».

Per leggere la presentazione editoriale CLIC!

Gran bel libro questo della Gordon che ha meritato l’elogio del The Observer: “«Una magnifica biografia, focalizzata sui vuoti e i silenzi nella turbolenta vita emotiva di Charlotte Brontë. Questo è il miglior libro di Lyndall Gordon e la migliore opera sulla Brontë a oggi».

Lyndall Gordon
Charlotte Brontë
Traduzione di Nicola Vincenzoni
Pagine 498, Euro 18.00
Fazi Editore


Osservatorio Outsider Art


Tempo fa, in questo sito ho avuto ospite la storica dell'arte Eva Di Stefano. E' anche la maggiore studiosa in Italia dell’Outsider Art, ideatrice dell’Osservatorio su quest'arte e autrice – fra le sue numerose pubblicazioni saggi su Klimt, Schiele, Kokoska – di Irregolari. Art brut e Outsider Art.
Ecco che cosa mi disse a proposito di quest’arte spesso laterale rispetto al mercato, altrettanto spesso centrale rispetto alle creazioni.

L’Outsider Art (termine coniato nel 1972 dallo storico dell'arte Roger Cardinal), indica l'arte fuori dal recinto del sistema, creata spontaneamente da autori autodidatti che operano nell'ombra e in semiclandestinità, indifferenti o inconsapevoli rispetto ai linguaggi artistici correnti e alle regole del mondo dell'arte ufficiale. Gli artisti outsider seguono solo modelli interiori, in preda a una sorta di ossessione creativa totalizzante e incontrollabile capace di superare ostacoli e disagi esistenziali. Molto inventivi, creano il proprio linguaggio e la loro mitologia personale a partire dai materiali che hanno a disposizione. Individuale, senza ascendenze e discendenze, l’Outsider Art è perciò una variabile impazzita che mette in crisi gli strumenti consueti e classificatori della critica d'arte. In un'epoca di omologazione appare come una boccata di fresca autenticità, che ci confronta con le origini della pulsione creativa, bussando alla parte più profonda di noi, e lasciando spesso riemergere forme e simboli antichi e universali. Oggi la vicenda del suo riconoscimento estetico ha iniziato a riscrivere un capitolo della storia dell'arte contemporanea.

Ora, a Palermo, nel quadro della Settimana delle Culture è stato presentato il nuovo numero della rivista "Osservatorio Outsider Art" (160 pagine a colori) che è scaricabile al costo di 5 euro da questo sito, dove è anche possibile sfogliare gratuitamente un assaggio della pubblicazione.



Rigorosamente libri

Aperta il 7 maggio e tuttora in corso, la mostra Rigorosamente libri dedicata ai libri d’artista anche quest’anno torna per volontà della Fondazione Banca del Monte di Foggia.
Per il 2016, la mostra è dedicata a “Libri d’Artista. Libri Oggetto e Libri d’Arte” provenienti dall’Archivio Carlo Palli.

“La Fondazione” – spiega il suo presidente Saverio Russo nell’introduzione del catalogo dell’esposizione – “prosegue il suo viaggio attraverso il mondo del libro d’artista, ospitando una vasta e significativa selezione delle opere conservate nell’Archivio Carlo Palli di Prato. Si tratta di una delle più importanti collezioni al mondo di libri oggetto, d’arte e d’artista, cui hanno attinto, prima di noi, tra gli altri, il Mart di Trento e Rovereto, la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, la Triennale di Milano, e le mostre tematiche organizzate negli anni passati, ad esempio, a Bratislava, Taiwan, Firenze, Milwaukee, Göteborg, Buenos Aires”.

Nel catalogo, il presidente Russo ha espresso anche riconoscenza nei confronti di Vito Capone, alla cui felice intuizione si deve la nascita del progetto Tracarte, biennale internazionale dedicata alla “Paper Art”, che si alterna e s’integra, appunto, con la serie d’iniziative sul “Libro d’Artista”.

A curare la mostra è Laura Monaldi che nel suo intervento nel catalogo scrive: I libri d’artista sono un oggetto di studio difficile da definire e da classificare per la loro duplice natura di essere al tempo stesso prodotto artistico e culturale, nonché frutto dell’impulso creativo e oggetto di speculazione estetica. Si tratta certamente di un fenomeno ambiguo e sfuggente, nato in seno a una rivoluzione culturale che, dal XIX secolo a oggi, ha messo in luce l’esistenza di un nuovo rapporto fra l’artista, il pubblico e il manufatto editoriale. Fin dagli esordi del Livre de peintre – in cui si concretizza un rapporto biunivoco fra le pagine illustrate e la narrazione – la fisicità dell’opera ha lasciato spazio alla progettualità artistica e l’editoria si è legata indissolubilmente al mondo dell’Arte, attraverso un dialogo inedito e profondo che ha valorizzato e rinnovato il tradizionale modo di concepire il libro, donando dignità alla grafica d’arte e stimolando la creazione di un nuovo genere artistico-letterario, nato da processi d’inversione, spostamento o combinazione di uno o più generi antichi. Di conseguenza si evince che l’arte è un sistema in continua trasformazione e il problema delle origini di un canone è un problema sistematico più che storico e corrisponde alla codifica degli atti culturali operata dalla società, poiché la creatività poietica si nutre della capacità di rimettere in questione l’esistente, modellandolo secondo nuove regole di comprensione sia sul versante produttivo, sia su quello ricettivo.

Con piacere noto alcuni amici già ospitati da questo sito in mostra: da Baroni a Chiari, da Fontana a Lentini, da Niccolai a Pignotti.

QUI le immagine delle opere in esposizione.
QUI le foto degli autori e una loro sintetica biografia.

Rigorosamente libri
A cura di Laura Monaldi
Fondazione Banca del Monte
Via Arpi 152, Foggia
Fino all’11 giugno


Déchets


Pubblicato in Francia da Dernier Télégramme, Déchets (Rifiuti) è un felicissimo libro verbovisivo di Giovanni Fontana.

Ecco alcune parti dell’Introduzione di Serge Pey nella traduzione dal francese di Paolo Guzzi.

“La poesia è un pensiero.
Una poesia senza pensiero cessa di essere ciò che vuole essere, per rifugiarsi nella ginnastica verbale delle prodezze del virtuosismo.
Giovanni Fontana, tra i poeti più importanti della poesia sonora mondiale, ci rivela in questo suo libro il percorso della scrittura creativa di un poema. In un’epoca in cui il poeta sembri non pensare più o che giochi con la varietà delle sue lacrime neoromantiche, il poeta, direttore d’orchestra degli effetti speciali delle allitterazioni e delle musicalità del ritmo, interroga l’umanità sulla sua caduta.
Poeta sonoro, Giovanni Fontana è sicuramente uno dei poeti della lingua italiana sovvertita, ma anche un trasmettitore di senso. In perlustrazione nel mondo, la sua poesia è una dialettica tra lentezza e velocità, guerra e pace, armonia e disarmonia.
Artista visivo, architetto della voce, Fontana è tra gli artisti fondamentali che hanno infranto le frontiere dell’arte. Questa barriera-barricata fragile, tra la vita e il linguaggio che ci connota, è quella della poesia che abita il mondo e del mondo che per contro la abita. Viaggiatore, Giovanni Fontana lo è in tutti gli spazi letterari che frequenta, sia quelli della poesia, della filosofia o della sociologia.
Bulimico di suoni e di opere illegittime, folle e grafico, autore di silenzi gridati, creatore di ritmi, Fontana è anche pensatore della nostra società e della poesia […] La sonorità suggerita dal testo, con i suoi caratteri, corpi e stili tipografici, è sicuramente quella riferita ad una vocalità che segna accenti e melodie come in una partitura, ma è anche l’anarchia organizzata delle pattumiere, come un cut-up di scarti che riflette su se stesso i suoi specchi infranti. Il poeta stesso diventa pattumiera del riflesso dello scarto.
Ogni poesia diventa quindi una pattumiera organizzata dello stato di benessere di una lingua […] Il poema comincia con Voilà. Alcune proposte oscene succedono a bassezze. Déchets è un appello, una poesia-manifesto dove molti generi si incrociano, si chiamano, e s’interpellano. Poi, più oltre, in maniera nascosta, nasce l’“anomalia” come l’anomalia selvaggia di Negri a proposito di Spinoza, cioè, improvvisamente, la poesia che fa l’occhietto al risveglio della ragione.
Giovanni Fontana inventa una nuova geografia con dei rizomi di pattumiere. Le immagini del poeta sono “carogne spaventose”, “gole di cuoio” e “diarrea che brucia il cervello”.
Lo stile dell’autore, per cui ogni parola finisce con un punto, come ogni immagine, rinforza l’idea del rifiuto e dello scarto della merce come quello della lingua. La punteggiatura non vi sfugge, poiché si vorrebbe gridare a voce altissima, trovandosi a volte nell’impossibilità di parlare.
Gli splendidi collages di brutture di Giovanni Fontana, rinforzano il poema come fosse un’epopea dell’occhio. Questa è l’apocalisse, cioè la parola rivelatrice, che ci arriva attraverso l’occhio. Qui, fili spinati e musiche sono altrettante corde vocali che ci chiedono di cantare e di denunciare.
Giovanni Fontana ci dice che la “Poesia sporca i rumori”.

CLIC per visitare il sito web di Giovanni Fontana.


Pezzi

Come sanno quei generosi che leggono le mie pagine web, mi piace presentare lavori che non appartengono ai circuiti ufficiali.
Per il cinema, una mia predilezione va ai documentari; perciò, oggi, proprio un documentario presento.
Titolo: Pezzi; regìa di Luca Ferrari
Nel 2012 per il concorso Prospettive Italia - VII edizione del Festival del Cinema di Roma - a “Pezzi” è stato assegnato il riconoscimento come miglior documentario.

Luca Ferrari è regista, giornalista e fotografo.
Si laurea in Documentary Photography alla University of Wales, Newport, ed in Sociologia all’Università La Sapienza di Roma.
Vincitore di diversi premi fotografici in Italia e Inghilterra, ha realizzato reportage in Europa, Kosovo, Sierra Leone, Colombia, India, Filippine e Sri Lanka pubblicando su magazines e quotidiani italiani e stranieri come L’Espresso, D di Repubblica, Panorama, The Guardian, National Geographic.
Nel 2005, il suo primo libro Rebibbia; un reportage di testi e foto svolto all’interno del penitenziario romano.
Dopo 7 anni vissuti a Londra nel 2009 torna a vivere a Roma, sua città natale.
Nel 2015 partecipa alla X edizione della Festa del Cinema di Roma con il documentario Showbiz prodotto da Valerio Mastandrea, Simone Isola e Paolo Bogna per KimeraFilm.

Scheda film di Pezzi; durata: 1h’07”. Distribuzione Vivo Film.
“Il Laurentino 38, un quartiere periferico a Sud di Roma.
Armando, un anziano ex pugile, campione del mondo delle forze armate abita su un prato di fronte al complesso delle case popolari; passa settimane nella sua baracca fino ad incontrare Massimo, che per i compagni di bisca è “er pantera”.
Dalla vita Massimo non ha avuto niente, solo la miseria di una periferia romana, quella del Laurentino 38. La sua storia è anche quella di Giuliana, Stefano, Rosi, Bianca, Lillo: schegge impazzite, vittime di un’esistenza senza obiettivi vissuta sempre ai margini, schiavi delle violenze subite.
Vite piegate dalla droga, dall’alcool, dal cancro, una guerriglia quotidiana. Madri che piangono i figli. Padri che li rinnegano. La paura di tornare in strada dopo la galera. Una botta di coca per iniziare la giornata. Una birra, una grappa e una partita di biliardo per chiuderla. Per questi uomini e donne non c’è, né forse mai ci sarà, posto per la speranza”.

Un’occasione per vederlo è data a Roma presso il Museo Laboratorio della Mente (19 maggio, ore 19.00) che, in collaborazione con l’associazione culturale Teatri di Nina e CineMario, propone un programma d’attività per riportare il cinema in periferia, per riflettere sulla città, i suoi abitanti e le sue storie.
Gli incontri avverranno al museo, luogo non convenzionale per il cinema ma rappresentativo dei territori di confine e della storia del quartiere di Monte Mario, con le mura e il parco dell’ex ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà, con le sue storie di marginalità.
Le proiezioni sono introdotte dal videomaker Francesco Cordio e seguite dall’incontro con gli autori e i registi.

Informazioni e contatti
Museo Laboratorio della Mente
Piazza S. Maria della Pietà,5 - Roma
mail: edu@museodellamente.it
tel. 06 – 68 35 28 58; ore 10:00-16:00


Un video contro l'omofobia

Dal 2004, il 17 maggio si celebra la Giornata Internazionale contro l’omofobia e la transfobia; per la storia di questa iniziativa: CLIC.

In Italia è stato realizzato un video che vede quattro donne di professioni diverse e diverse età confrontarsi sul tema dell’omofobia, perché “l’omofobia uccide la consapevolezza di troppe persone che sull’omosessualità non si sono mai interrogate, e di coloro che, invece, inconsci/e subiscono tipi di omofobia interiorizzati. Ma l’omofobia e il bullismo omofobico uccidono, psicologicamente e fisicamente, nel nostro paese e in troppe parti del mondo”.

Il video – con il patrocinio dell’Assessorato alla legalità e ai diritti del Comune Genova, della Commissione Pari Opportunità della Federazione Nazionale Stampa Italiana, dell’Università degli Studi di Genova – è stato ideato da Nicla Vassallo (in foto) che si è avvalsa del coordinamento di Elvira Bonfanti e della regìa di Serena Gargani.
Nicla Vassallo è una filosofa. che dopo gli studi all’Università di Genova e al King’s College London, ha conseguito il dottorato in Filosofia della scienza diventando uno degli esponenti principali della filosofia analitica italiana; le sue ricerche riguardano prevalentemente l’epistemologia e la teoria della conoscenza.
Non sorprende che sia all’origine di questo video perché assai spesso i suoi interessi si sono orientati sui temi del femminismo e dell’identità di genere.
Ecco una parte della sua presentazione del video: Non so se sia la prima volta che in un video contro l’omofobia compaiano esclusivamente donne. Si è trattato di una scelta voluta e desiderata per trasmettere a tutti e a tutte donne intelligenti (eterosessuali o omosessuali) che nutrono idee precise e diverse contro la fobia, la malattia in questione. Purtroppo, il percorso non si è rivelato facile. Mi sono scontrata con eterosessuali “incallite” che al solo sentire parlare di persone (uomini o donne) che amano persone del proprio sesso inorridiscono, ovvero con donne standard nel nostro paese. E ho ricevuto rifiuti a recare la propria libera testimonianza contro l’omofobia nel video da parecchie donne, mediaticamente visibili, che, pur essendo lesbiche, rimangono nascoste, nel timore che una loro sola parola finisca con l’etichettarle presso il grande pubblico quali lesbiche, come se necessariamente essere lesbiche (o gay) generasse una sorta di ingiustificata repulsione omofoba capace di mettere in dubbio la loro mediaticità. Ho attraversato mesi tormentati, e poi ho deciso per le donne che nel video compaiono con entusiasmo, rigore, consapevolezza priva di stereotipi eternormativi. Donne diverse, tra loro. Donne che non fingono. Donne che non se la “tirano da vip”, nonostante di fatto lo siano, molto più di molte altre. Donne che oltre la loro notevole professionalità, s’impegnano nel contrapporsi alle discriminazioni omofobiche, senza alcun timore.

Quattro donne, come si diceva in apertura, così in ordine di apparizione nel video: Eva Cantarella – giurista, storica e saggista; Melania Mazzucco – scrittrice; Silvia Sicouri – velista olimpica sul Nacra17; Nicla Vassallo.

Basta un CLIC per vedere il video che sarà proiettato domani al Palazzo Ducale di Genova alle 12.00am

Ufficio Stampa di Palazzo Ducale: Camilla Talfani.


Cristo clandestino


Torna sulla scena romana Cristo clandestino di Pietro Favari.
Ne sono interpreti: Gaston Biwole e Marco Marciani.
Costumi: Laura Strambi; musiche: Paolo Conte; luci: Alessandro Pezza ; aiuto regìa e organizzazione: Luana Piermarini.
Scene e regia di Franco Gervasio.
Forse non tutti sanno che Favari oltre alle tante esperienze di scrittura è stato anche un valoroso astronauta… non ci credete?... cliccate QUI.

Su “Cristo clandestino”, ha scritto Rita Cirio: “Sulla scena ci sono due sedie, un tavolo e la capacità di comunicare emozioni di due attori, Gaston Biwole e Marco Marciani. Il Nero è uno delle migliaia di migranti che ogni giorno ci chiedono accoglienza; il Bianco è colui che ha il potere di concedergli asilo. Il Nero è solo un povero cristo come i tanti in fuga dai quattro cavalieri dell'Apocalisse o un mitomane vittima di un delirio mistico? Oppure con il suo martirio si compie ancora una volta la missione che gli ha affidato il Padre?
In una liturgia drammatica che ricorda i morality plays, tra ironia e violenza (anche fisica, fino alla crocifissione), il testo riflette sulla volontà di riscatto dell'Africa a conflitto con gli sclerotici egoismi e cinismi dell'Europa, sugli effetti perversi della religione creata dai mercati finanziari, dove non c'è misericordia per chi è povero o clandestino”.

A Pietro Favari, ho rivolto alcune domande.
Nell’affrontare il tema di “Cristo clandestino” qual è la prima cosa che hai deciso era da evitare e quale la prima da evidenziare?

Da evitare, per quanto possibile, la tentazione appiccicosa e melensa della retorica e soprattutto il ricatto emotivo e sentimentale ai danni dello spettatore, azzardi che stanno in agguato quando si trattano temi rischiosi e vischiosi come migrazione, razzismo, religione.
Da evidenziare, la violenza, mentale e fisica, insita in temi come migrazione, razzismo, religione
.

“Cristo clandestino”, come hai dichiarato, rappresenta una svolta nella storia della tua scrittura teatrale. In che cosa prevalentemente innova stile e temi?

Non mi sono mai permesso di pensare ai miei testi in termini di “stile e temi”. Lascio volentieri la poetica ai poeti della drammaturgia, se ce ne sono.
Per “Cristo clandestino” semmai ho pensato che il teatro, quello italiano, talvolta potrebbe ricordarsi che fuori, al di là della quarta parete, ci sono temi che varrebbe la pena di raccontare sulla scena. Come migrazione, razzismo, religione
.

In un’epoca definita delle “psicotecnologie” (copyright de Kerckhove) che in scena propongono strumenti tecnosensoriali, quale ruolo attribuisci alla parola in teatro?

Domanda difficile. Posso avere un aiutino? Tipo quattro risposte, una sola giusta, come negli esami per la patente o nei quiz televisivi. Se rispondo giusto vinco qualcosa?
Comunque, credo che in teatro la parola possa ancora avere una funzione fondamentale, in qualche caso perfino 2.0 (“2.0” espressione deprecabile, battuta solo da “carino”). Con buona pace di de Kerckhove.
Ho vinto qualcosa?

Pietro Favari
Cristo clandestino
Regìa di Franco Gervasio
Spazio Uno
Via dei Panieri 3, Roma
dal 17 al 29 maggio
Poi in tournée


Con Piero

Dal 29 aprile è in corso a Brescia, presso “Spazio Contemporanea” la mostra di Armida Gandini intitolata Con Piero Storia e controstoria di una relazione con l'arte.

In foto, di Gandini: Mi guardo fuori, 2013.

Contemporanea è il nome dello spazio d'arte che potrebbe essere un femminile oppure un plurale latino. Contemporanea è comunque l'arte che qui viene esposta. Più che una galleria aspira ad essere un piccolo museo che porge al pubblico bresciano esempi della ricerca sulle arti dell'oggi.
Da qui l’invito a Gandini ad esporre questo suo lavoro.

Dal comunicato che accompagna l’esposizione.
“Armida Gandini mette in gioco la propensione artistica alla relazione, presente in buona parte del suo lavoro, mostrando, con alcune sue installazioni mirate, quella che l'ha vista coinvolta in vari modi e condizioni, col tempo ed in più occasioni, con la personalità di Piero Cavellini, indagando alcuni aspetti del suo lavoro di gallerista ed osservatore dell'arte per oltre un quarantennio.
Oltre ad alcuni incontri artistici del passato tra i due autori, come tra Manerbio e Pontevico (messaggi telefonici tra un viandante autostradale e la sua Editor) e la memoria specifica di una partecipazione comune al progetto ‘Arte e Luogo’ attuato in Camerun e legato alle loro esperienze didattiche, il punto di partenza della mostra è un recente scambio di immagini e testi fornito per 57 giorni da Piero Cavellini ad Armida Gandini via web intitolato I Remember.
Una foto al giorno, come ricapitolazione e memoria di una buona parte dei propri trascorsi di gallerista, editore ed autore, che per l'occasione è divenuto un libro comune corredato da una corposa intervista e confronto di opinioni sull'arte tra i due.
Scavando nel ricordo del suo relatore Armida Gandini ne estrapola alcuni punti centrali che diventano opera in mostra, come la matrice dadaista e gli oggetti, libri ed edizioni appartenuti al suo vissuto nello specifico”.

Per visitare il sito web di Armida Gandini: CLIC!

Armida Gandini
Con Piero
Spazio Contemporanea
Corsetto Sant'Agata 22
Brescia
Info: 348 – 93 53 896
Fino al 29 maggio


90 senza paura

Il 26 aprile, a Roma, Lamberto Pignotti, in un affollato foyer del Teatro Porta Portese – bella l’elegante scenografia lì allestita con gusto lussuoso da Fernanda Salbitano cui è toccato il destino (l’aggettivo mettetelo voi) d’essere compagna di Pignotti Lamberto – ha festeggiato quegli anni, 90 in cifra e in lettere, che proprio non gli daresti a vederlo e meno ancora a vedere le sue produzioni.
90, quanti ne ha quest’anno il personaggio di Fleming James Bond, 90 quanti ne compiono gli Harlem Globetrotterse e i Baci Pergina.
Quale il segreto in Lamberto di tanta vitalità senza vitalismo, di tanta felicità senza spensieratezza, di tanta energia senza esibizione? Credo di rintracciare tutto questo nelle parole di un suo personaggio, l’immaginario direttore di un’altra immaginaria “Antica Accademia d’Arte Attuale”, che dice: Siamo i creatori e gli artisti delle nostre vite, del futuro, del passato. Ad esempio possiamo guardare al passato come un cadavere o come una risorsa… Ad ogni modo bisognerà costruire un mondo di qualità di artisti del quotidiano, artisti del gioco, della conversazione, della passeggiata, del cibo, dell’amicizia, del sesso, dell’amore, abbandonando l’ansia del come andrà a finire.

26 aprile: una data speciale.
E proprio nella sezione ‘Date speciali’ della mostra in corso al MACRO intitolata Dall'oggi al domani – a cura di Antonella Sbrilli e Maria Grazia Tolomeo – troviamo Pignotti con una sua opera.
Così come da oggi, presso lo Studio Varroni / EOS ci sarà una sua personale su libri d’artista e opere su carta dal nome In tutti i sensi, titolo anche del suo libro realizzato per l’occasione.
Ancora a Roma, il 19 maggio, alla Galleria Arte e Pensieri ci sarà la mostra Ugo e Lamberto Pignotti che riprende il titolo di quella fatta a Firenze nel 2009, al Museo Siviero dela Regione Toscana, associando le sue poesie visive ai dipinti del padre.
Cin Cin!


Nessun dogma

La casa editrice Nessun Dogma – progetto editoriale avviato dall’UAAR (Unione Atei e Agnostici Razionalisti) nel 2012 – sarà presente da oggi al Salone internazionale del Libro di Torino per tutta la durata dell’evento, fino al 16 maggio presso il padiglione 2 stand L165.

Due sono le nuove uscite che Nessun Dogma presenterà in questa occasione.
Il multiculturalismo e i suoi critici del filosofo britannico d’origine indiana Kenan Malik che in questo pamphlet tratta il tema del multiculturalismo nelle società occidentali. Lo fa in modo originale, contestando tanto il comunitarismo che penalizza individui, diritti e laicità, quanto l’insofferenza verso l’Altro, l’identitarismo e la xenofobia.
A presentare il libro – sabato 14 maggio, ore 17:00, Container Concept Store – Valentino Salvatore che ne ha curato la traduzione.

Le scelte di vita di chi pensa di averne una sola di Raffaele Carcano.
L’autore, laureato in Scienze storico-religiose a La Sapienza di Roma, in questo volume tratteggia un quadro dell'assenza di laicità in Italia mostrando come proprio quell’assenza abbia pesanti conseguenze sulla vita di ogni giorno di tutti i cittadini e, in particolare, su quelli che non sentono alcun bisogno di Dio.
Carcano, prossimamente, sarà intervistato proprio da questo sito sul suo libro.

Nel marzo di quest’anno la casa editrice Nessun Dogma è stata insignita dal Ministero dei Beni Culturali del Premio speciale per la traduzione «per l’alto livello qualitativo delle traduzioni, all’insegna della diffusione in Italia della cultura laica».

Per contatti con l’Ufficio Stampa: Ingrid Colanicchia, uffstampa@uaar.it ; 320 – 02 23 130



Fasciste di Salò (1)


Nonostante le tantissime pubblicazioni sul periodo che va dal 1943 al 1945 in Italia, esistono angoli di quella storia scarsamente esplorate, specie dalla Sinistra.
E’ il caso delle donne che aderirono alla Repubblica Sociale Italiana.
Ora va a riempire vasti spazi vuoti uno straordinario libro di Cecilia Nubola pubblicato da Laterza e intitolato Fasciste di Salò Una storia giudiziaria.
L'autrice è ricercatrice presso l’Istituto storico italo germanico di Trento. Si occupa di storia sociale e di storia della giustizia in età moderna e contemporanea.
Tra le sue pubblicazioni: Grazia e giustizia. Figure della clemenza fra tardo medioevo ed età contemporanea (a cura di, con Karl Härter, Il Mulino 2011) e Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana (con Giovanni Focardi, Il Mulino 2015).

Libro straordinario, dicevo, che oltre a interpretare motivazioni (non sempre nobilissime) che portarono alcune migliaia di donne a collaborare, clandestinamente o apertamente, con la Rsi, documenta in modo particolareggiato – attraverso una rigorosa ricerca negli archivi giudiziari – su come furono giudicate dalla giustizia italiana, dopo il ’45, una quarantina di collaborazioniste.
Nubola, riferisce con meticolosa puntualità il percorso e l’esito dei processi che videro alla sbarra quelle repubblichine alle quali andò di lusso anche quando si erano rese responsabili di gravi reati non contemplati da quell’amnistia voluta da Togliatti nel ’46 (insieme con la maggioranza dei dirigenti del Pci d’allora).
Il volume si avvale di accuratissimi apparati: estese note, fonti archivistiche, elenco delle sigle, indice dei nomi.

Dalla presentazione editoriale
“Tra il 1943 e il 1945 molte donne aderirono alla Repubblica sociale italiana e si schierarono a fianco dei tedeschi. Una parte di loro erano 'donne in armi'; inquadrate in bande e brigate nere, parteciparono a rastrellamenti e stragi, commisero omicidi e torture nei confronti di civili e partigiani. Altre erano spie al servizio dei tedeschi o degli uffici politici della RSI, denunciarono ebrei e partigiani contribuendo attivamente alla loro cattura e molto spesso alla loro morte. Nel dopoguerra furono processate e condannate per collaborazionismo. Le storie di queste fasciste saloine (e di alcuni loro camerati) permettono di riflettere su alcuni temi rilevanti per comprendere l'Italia uscita dal fascismo e dalla seconda guerra mondiale: il rapporto di queste donne con la violenza, le posizioni di dura condanna o di clemenza assunte dalle Corti nei loro confronti, le strategie che misero in atto per negare le accuse o per difendersi, l'atteggiamento dell'opinione pubblica. È una storia che non si conclude nelle aule dei tribunali. Le scelte politiche dei governi del dopoguerra, i numerosi provvedimenti di clemenza (amnistie, grazie, liberazioni condizionali), a partire dall'amnistia Togliatti del 1946, permetteranno, nel giro di un decennio, il ritorno in libertà degli ex fascisti, uomini e donne”.

Segue ora un incontro con l’autrice.


Fasciste di Salò (2)


A Cecilia Nubola (in foto) ho rivolto alcune domande.

Com’è nato in te l’interesse per il tema che ti ha portato a scrivere “Fasciste di Salò”?

Da alcuni anni all’interno dell’Istituto storico italo germanico, dove lavoro, sto portando avanti un progetto di ricerca che riguarda la giustizia di transizione in Italia nel secondo dopoguerra. In particolare sono interessata a studiare come vengono applicati i provvedimenti di clemenza: le amnistie e le grazie individuali, qual è l’iter seguito dal ministero della giustizia, quali sono le scelte politiche sottese, a quali detenuti (e per quali crimini) viene concessa o negata la grazia. Della grazia non se ne sa molto, sono provvedimenti che non giungono all’attenzione dell’opinione pubblica se non per alcuni casi controversi. Recentemente si era molto discusso sull’ipotesi di concedere la grazia a Berlusconi e sulla grazia concessa dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al colonnello Joseph Romano, condannato dalla Corte d'Appello di Milano in relazione al caso Abu Omar, l’imam rapito e portato in Egitto. In anni più recenti si ricordano le discussioni e i contrasti sorti sull’opportunità di atti di clemenza nei confronti di ex appartenenti a gruppi dell’estrema sinistra negli “anni di piombo” (ad esempio a Renato Curcio, Capo delle Brigate Rosse, o ad Adriano Sofri di Lotta Continua).
In quest’ambito stavo scrivendo un libro sui provvedimenti di clemenza nei confronti dei “collaborazionisti” (gli ex fascisti di Salò) negli anni 1945-1955, quando ho deciso di concentrare la mia attenzione e seguire le vicende giudiziarie di un gruppo di donne, circa una quarantina, che avevano aderito alla RSI e avevano subito processi per “collaborazionismo” negli anni successivi alla guerra. Da un lato, mi interessava approfondire un tema largamente passato sotto silenzio che è quello della violenza femminile, delle “donne in armi”; dall’altro ero interessata a capire se si poteva parlare di “giustizia di genere”, se i tribunali cioè, trattassero in maniera diversa le imputate ex fasciste, in quanto donne, rispetto ai colleghi maschi
.

Perché la saggistica storica è carente sullo studio del collaborazionismo femminile con il fascismo di Salò sia nella letteratura democratica e sia in quella neofascista?

In realtà, pur mancando ancora un libro di sintesi, negli ultimi anni sono usciti contributi importanti su questo argomento, sia sul collaborazionismo femminile che maschile (la bibliografia nel mio volume lo conferma). Il problema, che è più generale per gli studi storici, è che queste ricerche non sono conosciute, non escono, o escono con difficoltà, dai circuiti più interni degli “addetti ai lavori”. Spesso gli storici e le storiche pubblicano per case editrici “di nicchia”, specializzate, locali, che hanno dunque poca diffusione nelle librerie. In questo modo i risultati della ricerca storica “professionista” non arrivano al grande pubblico. Questo della diffusione della storia e della memoria storica è un argomento che meriterebbe un discorso più approfondito.

Avendo tu studiato il fenomeno del collaborazionismo femminile, quale idea ti sei fatta di quelle donne? Chi era la repubblichina?

All’interno del vasto mondo del fascismo di Salò le esperienze maschili e femminili sono state le più diversificate. Ci sono donne (e uomini) che aderiscono alla RSI per obbligo di fedeltà a Mussolini e al fascismo. Molte donne e ragazze per scelta ideologica: vogliono fare la loro parte a difesa dell’onore della patria (considerato tradito dall’armistizio Badoglio del 1943) e a fianco dei nazisti. Alcune di loro (non poche) vogliono avere un ruolo attivo nella guerra, non si accontentano del ruolo di ausiliarie (cuoche, infermiere, segretarie) pensato per loro dal regime. Vi sono anche donne e uomini che, in una situazione di guerra, semplicemente ne approfittano per esercitare ogni forma di violenza e crimine: dal furto, all’omicidio, dalla strage alle sevizie nei confronti dei prigionieri, dallo stupro (se uomini), alla delazione di ebrei, alla denuncia, anche per motivi futili o per semplice tornaconto personale, di vicini di casa, parenti, amici

L’amnistia Togliatti quanto ha pesato nella liberazione dei collaborazionisti?

L’amnistia del giugno 1946 che prende il nome dal ministro della giustizia Togliatti, ma che era condivisa dal più vasto schieramento di governo, ha avuto un impatto decisivo sul problema della giustizia e dei processi nei confronti degli ex saloini. La scelta politica di un atto di “pacificazione e riconciliazione nazionale” è stato il primo passo; sono seguite altre amnistie negli anni 1948, 1949, 1953 e grazie e liberazioni condizionali: tutti provvedimenti che hanno fatto sì che nel giro di un decennio la grandissima maggioranza dei collaborazionisti fossero rimessi in libertà.

A differenza degli uomini di Salò che prenderanno parte alla vita politica nella Destra (e taluni anche nella Dc), le donne – tranne qualche raro caso – scompaiono dalla scena pubblica. Come lo spieghi?

Come è sempre accaduto. Le donne, comparse per un attimo sulla scena pubblica in occasione di eventi eccezionali come una guerra, una sollevazione popolare, una rivoluzione, tornano, o meglio, sono costrette a tornare letteralmente a casa. In questo caso specifico poi sembra, da alcune ricerche, che il Msi non lascerà molto spazio alle candidature femminili e le donne elette nelle liste di questo partito saranno veramente poche

Cecilia Nubola
Fasciste di Salò
Pagine 222, Euro 11.00
Laterza


Cinevasioni (1)

Diceva Dostoevskij: “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”.
Date uno sguardo QUI .
Sono dati agghiaccianti. Siamo messi male. E qui si aprono due questioni.
La prima: esiste una diffusa abitudine sociologica e anche letteraria (a volte alta, più spesso di basso livello) che considera tutti quelli dietro le sbarre vittime di una società ingiusta (e che la nostra sia ingiusta è verissimo), ma non tiene conto che molti dei condannati appartengono proprio a quella società ingiusta che, grazie a loro, diventa ancora più ingiusta e violenta: mafiosi, stupratori, usurai, pedofili, terroristi…
La seconda: molti (responsabili di una società ingiusta) che dovrebbero stare in galera stanno altrove, e scorrazzano spesso in auto blu accompagnati pure da una scorta fornita dallo Stato. Sono gli stessi che fanno la faccia feroce sull'ordine pubblico e, poi, in Parlamento approvano (o manovrano per fare approvare) leggi che bloccano i processi, si oppongono alle intercettazioni, forniscono impunità ai potenti, negano mezzi alle già malpagate forze di polizia, attaccano la Magistratura un giorno sì e l’altro pure.
In attesa che questi ultimi raggiungano quelli nominati prima (ma i nostri giorni promettono pochissimo in tal senso), si pone un tema preciso per tutti i detenuti: la rieducazione sociale affinché il carcere non sia un luogo di tortura ma un’occasione per ripensare i propri errori, migliorarsi, accendere luci su di una nuova coscienza.

A prodigarsi in questo senso, più che lo Stato, ci sono gruppi di professionisti che in modo volontaristico si adoperano con varie iniziative in più campi.
Oggi Cosmotaxi ne segnala una di queste, lodevolissima.
Si tratta di Cinevasioni Festival del cinema in carcere che si terrà nella casa circondariale Dozza di Bologna.
Si avvale della direzione artistica di Filippo Vendemmiati, quella organizzativa è di Angelita Fiore.
Una produzione D.E-R (Associazione Documentaristi Emilia – Romagna) in collaborazione con la Dozza di Bologna.
Cinevasioni è lo sviluppo culturale e didattico di “CiakinCarcere” il percorso formativo che la D.E-R sta tenendo all’interno della Dozza dalla metà del mese d'ottobre 2015 con un gruppo di venti detenuti.
“L’obiettivo di entrambe le iniziative, CiakinCarcere e Cinevasioni” – afferma un comunicato –“ è di portare il linguaggio e la cultura cinematografica all’interno della realtà carceraria e aprire il carcere ad autori e studiosi del cinema. Portare il cinema inteso come esperienza di un gesto creativo e come strumento di rieducazione, crescita e condivisione, nel percorso di riabilitazione della vita carceraria”.
In foto, il manifesto disegnato da un detenuto italiano, 40 anni, la passione per il disegno.
Undici le opere in Concorso – 5 in forma fiction e 6 di genere documentario – che saranno proiettate all’interno della sala cinema della Dozza, presentate dai loro autori.
Matteo Garrone con “Il Racconto dei Racconti” e Daniele Luchetti con “Chiamatemi Francesco” apriranno e chiuderanno Cinevasioni.
La giuria di Cinevasioni, formata dai partecipanti al corso laboratorio CiakinCarcere è presieduta da Ivano Marescotti che assegnerà al film vincitore la Farfalla di Ferro disegnata da Mirko Finessi, costruita dalla F.I.D. – Fare Impresa in Dozza – l’officina metalmeccanica all’interno del penitenziario, nella quale lavorano insieme detenuti e lavoratori metalmeccanici in pensione.
Tutte le volte che sono entrato in un carcere per proporre al pubblico dei detenuti alcune letture – dice Marescotti – ne ho sempre ricevuto un’impressione fortissima, quella di un luogo chiuso e quasi impenetrabile. Ora il mio ruolo di presidente della giuria di Cinevasioni spero mi consenta invece di superare questa barriera e di entrare in contatto con le persone. Spero che il cinema possa concedere loro un angolo di libertà .

Per visitare il sito web del Festival: CLIC.

Segue ora un incontro con Filippo Vendemmiati


Cinevasioni (2)

Per notizie biografiche su Filippo Vendemmiati (in foto), cliccare QUI.
Ai più pigri che non lo faranno, segnalo che è autore di due straordinari docufilm: E' stato morto un ragazzo (è possibile visionarlo su Youtube) e Meno male è lunedì.
A lui ho rivolto alcune domande.

Il video che presenta il Festival è intitolato “La sfida”. Ti chiedo di riassumerla…

La sfida di Cinevasioni, Festival del Cinema in Carcere, è doppia, e non a caso abbiamo titolato proprio “La sfida” la sigla che hai ricordato di questo festival, ideata e registrata tutta all’interno della Dozza di Bologna.
La prima sfida è nei confronti dell’istituzione carceraria, come luogo di reclusione culturale e mentale oltre che fisica.
La seconda verso il mondo del cinema, verso il suo voler essere linguaggio universale che ora si mette in gioco nel tentativo di oltrepassare il muro sociale più alto, quello che separa il mondo dei “liberi” da quello dei “ristretti”
.

Il cinema italiano, dal dopoguerra ad oggi, ha prodotto sul carcere opere degne di quell’impegnativo tema? Se sì, con quali autori?

Quando ci si rivolge ad un produttore, ma anche al direttore di un festival, passando i anche per gli spettatori, e si dice loro che il tuo film parla di carcere cogli un mal celato dolore di pancia colpire i tuoi interlocutori. Il carcere è un soggetto impopolare, difficile si dice, a meno che non si inventino storie di evasioni e rivolte. Il detenuto nell’immaginario cinematografico è sempre altro rispetto a noi, mai una persona con il diritto ad una pena certa e “dignitosa”, il diritto ad formarsi ed informarsi, il diritto agli affetti. Un ragazzo albanese, 20 anni per omicidio, un giorno mi disse: - Guarda che è un attimo venire qua, cosa ti credi. Il problema non è entrare qua, ma cosa sei e cosa farai quando esci da qua-. A parte alcune necessarie inchieste sulla situazione carceraria italiana, il cinema e non solo quello italiano, sorvola su questi aspetti, privilegiando una visione apocalittica della prigione come popolata da mostri o cedendo all’opposto ad un facile e patetico buonismo, che per certi versi è anche peggio: la descrizione di un mondo cioè popolato di soggetti che hanno sbagliato sempre per condizionamenti esterni e mai per colpa loro, che si ritroveranno “detenuti senza speranza” nel cuore e nel cervello per tutta la vita. “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani è il primo film che ricordo. Ha vinto il festival di Berlino, premi e citazioni in tutto il mondo. Incasso: poco più di 700 mila euro, il solito 'malessere distributivo'. Un altro film che amo molto è “Tutta colpa di Giuda” di Davide Ferrario, un film nel carcere e non sul carcere. Proprio come vuole essere Cinevasioni, un Festival del cinema in carcere e non sul carcere.

Nel fare oggi in Italia un film sul carcere qual è la prima cosa da evitare e quale la prima da fare?

Secondo me non bisognerebbe proprio partire da questo presupposto e non porsi nella prospettiva di fare un film sul carcere. Il carcere è come un transatlantico che naviga nell’oceano in balia delle onde. Trasmette isolamento, ma anche sicurezza e paura. Io non immaginavo di incontrare detenuti che dopo anni di reclusione hanno in qualche modo “istituzionalizzato” il carcere, ne hanno fatto la loro casa, perché qui si sentono protetti da un “fuori sconosciuto”. Hanno paura della libertà, perché è piena di incognite e di mostri. Cosa m’importa di una presunta libertà, mi ha detto un signore, se non so come usarla, se non so cosa farmene. Mi sembra un spunto narrativo molto interessante. Pensiamoci.

Ufficio stampa del Festival: Michela Giorgini, stampa@cinevasioni.it +39 339 8717927

Cinevasioni
Direzione artistica: Filippo Vendemmiati
Direzione scientifica: Angelita Fiore
Casa circondariale Dozza, Bologna
dal 9 al 14 maggio ‘16


La guerra non era finita (1)


Non chiedete a un giovane di oggi che cos’è la Volante Rossa.
Ascoltereste, forse, risposte imbarazzanti del tipo: un’auto da corsa… un gioco del Luna Park… uno dei tanti nomi dell’ecstasy. Colpa dei giovani? Io credo di no. Colpa di come viene scritta la storia nei libri di testo e, peggio ancora, di com’è insegnata (quando è insegnata).
Del resto, anche nei libri per adulti i saggi storici sono scritti in modo che, spesso, si ronfa già a pagina 3.
Questo non succede in un libro magnifico, edito da Laterza, firmato da Francesco Trento, intitolato La Guerra non era finita I partigiani della Volante Rossa, ora nelle librerie in edizione economica dopo il successo della precedente uscita.
Trento, oltre a numerosi racconti e reportage, ha pubblicato con Aureliano Amadei “Venti sigarette a Nassirya” (Einaudi 2005), ne ha scritto anche la sceneggiatura (20 sigarette, miglior film al Festival di Venezia 2010, sezione “Controcampo”).
È autore di vari documentari, trai quali Matti per il calcio e Stessa spiaggia, stesso mare.
Ha scritto e diretto con Franco Fracassi "Zero" inchiesta sull’11 settembre.

Questo volume ha vari meriti: dal fare piena luce su di un angolo di storia a dissipare in modo provato sciatti paralleli; il tutto raccontato da una scrittura tesa, senza pause, in cui coincidono felicemente cronaca degli avvenimenti e critica storica. Inoltre, nessuna romanzeria, tutto rigorosamente documentato come dimostra l’imponente apparato di note. Uno studio serissimo condotto, come dicevo, con una scansione narrativa serrata che avvince il lettore come in un giallo ben scritto.
Perché la ricerca storica sulla Resistenza, purtroppo, soffre spesso di una narrazione di scarso fascino.
“Troppo spesso la ricerca” – disse Giovanni De Luna in un'intervista rilasciata a questo sito – “soprattutto quella più seria, non si è neanche posto il problema di come raccontare, di come sfidare la seduttività narrativa dei media. Fare storia non basta; bisogna trasmetterla e confrontarsi con le altre narrazioni sapendo che la posta in gioco è la costruzione della coscienza civile di un paese”.
Il libro si apre con il ricordo di un terribile episodio avvenuto a Milano il 10 agosto 1944, quando in seguito ad un attentato (senza vittime) a un mezzo militare tedesco, quindici partigiani prelevati da San Vittore furono fucilati da militi della “Muti” e i cadaveri esposti a Piazzale Loreto dove subirono oltraggi dai repubblichini che perfino impedirono ai parenti delle vittime d’avvicinarsi ai loro cari trucidati.
A quello spettacolo terribile assiste un diciottenne, si chiama Giulio Paggio, diventerà il capo della Volante Rossa con il nome "Alvaro".
L’ultima pagina (in un ideale gioco di tragiche parentesi che raccolgono il testo) ricorda che Theodor Saevecke, reo confesso d’aver deciso quella strage del ‘44, mai scontò un solo giorno di carcere, anzi fece carriera nel dopoguerra nella polizia tedesca.
“La guerra non era finita”: un libro imperdibile per chi voglia conoscere uno degli episodi sui quali è caduta la peggiore cipria del tempo, per chi di quegli anni voglia conoscere anche lati talvolta scomodi, per chi voglia scorgere non solo le ombre ma anche le luci di un’epoca che segnò riscatti e promise un futuro che – ora sappiamo – non si avverò.

Segue ora un incontro con Francesco Trento.


La guerra non era finita (2)


A Francesco Trento (in foto) ho rivolto alcune domande.
Com’è nato in te l’interesse sul tema della Volante Rossa?

Beh, in realtà è nato quando ero all’Università, le prime interviste agli ex militanti della Volante le feci da studente di Storia che stava scrivendo la sua tesi di laurea, quando sull’argomento esisteva soltanto il saggio di Bermani del 1976.
Uno dei motivi che mi ha spinto a proporre ora questo libro è senz’altro la quantità di fesserie che pseudostorici e “controstorici” scrivono su quel periodo. Ero un po’ stufo di leggere pansane qui e là, e siccome sulla Volante esistevano solo gli ottimi libri di Massimo Recchioni e Cesare Bermani, oltre al volume del 1995 di Guerriero e Rondinelli, ho pensato di dare il mio contributo. Con un libro leggermente diverso e forse più completo. Che racconta, attraverso una piccola storia, la storia dell’Italia del dopoguerra, in quei tre anni e mezzo che hanno deciso le sorti successive di questo paese
.

Quando hai scritto il testo qual è la prima cosa che hai deciso era da evitare e quale la prima cosa, invece, da fare?

Quella che volevo evitare era scrivere un libro ideologico, e quindi nascondere sotto il tappeto fatti che contraddicessero una visione politica. La mia tesi di fondo è che nel dopoguerra milanese non ci troviamo di fronte ad atti di vendetta, ma a una sorta di continuazione della guerra civile. Però non per questo mi astengo dal raccontare azioni della Volante Rossa che sembrano fuori da questo quadro, come il fallito agguato all’industriale Bezzi e l’attentato contro Achille Cruciani (su cui però, come si legge nel libro, è possibile proporre letture diverse).
D’altronde, come scrive Keith Lowe nel suo Il continente selvaggio, “I fatti distorti sono molto più pericolosi di quelli reali”.
La miglior dimostrazione che questo è un libro onesto, e anche uno dei premi migliori al lungo lavoro che ha preceduto questa pubblicazione, è stato ricevere nell’arco di 24 ore i complimenti di Nadia Paggio, la figlia del comandante della Volante Rossa, e dei nipoti di De Agazio, che grazie a questo libro hanno scoperto che non furono gli uomini del “tenente Alvaro” a uccidere loro nonno

… e la prima cosa da fare?

La prima cosa da fare invece era secondo me cercare una scrittura che potesse avvicinare al libro i più giovani. Ho tentato di farlo lavorando molto sul ritmo, che qualcuno ha definito cinematografico. E visto che sono uno sceneggiatore, lo ritengo un gran complimento.

È possibile, oppure è sbagliato, tracciare una somiglianza o, addirittura, secondo alcuni, una discendenza delle Br dalla Volante?

A mio avviso l’accostamento tra la Volante Rossa e il terrorismo di sinistra degli anni settanta è assolutamente fuorviante. E nasce da una leggenda: Franceschini, nel suo “Mara, Renato e io”, raccontò d’aver incontrato nel carcere di Saluzzo un ex della Volante Rossa in prigione da trent’anni. Tutto ciò nel 1975. Impossibile, però, perché l’ultimo della Volante Rossa a uscire dal carcere è Eligio Trincheri, graziato nel 1971.
Volante Rossa e Brigate Rosse sono da considerare come due fenomeni completamente distinti, frutto di contesti profondamente diversi. Gli stessi uomini della Volante hanno rifiutato ogni continuità storica con le esperienze successive. Durante il periodo dell’“emergenza terroristica”, Angelomaria Magni giunse addirittura a scrivere una lettera aperta a “l’Unità”, dichiarandosi fortemente avverso alla scelta armata dei brigatisti rossi. E quando parlai con Leonardo Banfi, altro militante della formazione di Lambrate, mi disse che le due esperienze erano incomparabili per vari motivi
.

Quali?

Il primo è la componente sociale, il legame con la classe: la Volante non è un gruppo di guerriglieri isolato, ma una formazione armata di estrazione quasi totalmente operaia (e di derivazione partigiana): il gruppo di Lambrate ha un legame saldo e reciproco con la classe operaia, alla quale fornisce il suo aiuto e dalla quale viene assistita in particolari occasioni. Poi, come diceva Banfi, “Nella Volante c’era una dirittura morale, nessuno ha mai pensato a rapine, o altre cose per finanziarci, anzi ci compravamo le cose con i nostri soldi, come l’autocarro, le divise: lo stesso giubbotto ce lo siam comprati con i nostri soldi”.
Infine, e non è cosa da poco, “La Volante Rossa non ha mai attaccato le istituzioni, né i giornalisti... in fondo anche per un rifiuto di azioni ‘immorali’, perché non è mai esistita nella prassi l’ipotesi de il fine giustifica i mezzi. Fra l’altro, un gruppo armato che volesse attaccare le istituzioni non andrebbe ai cortei in divisa”.
Il nemico della Volante Rossa non è lo Stato, sono i fascisti. La Volante avrebbe attaccato le istituzioni soltanto se vi fosse stato un colpo di Stato anticomunista o una durissima repressione nei confronti del partito della classe operaia.
Inoltre, mentre i brigatisti nascono proprio in opposizione ad un partito che viene considerato colluso col padronato e incapace di difendere gli interessi dei lavoratori, i partigiani di “Alvaro” mantengono uno stretto legame con il Pci, sostenendolo in tutte le sue iniziative. La Volante non giunge mai a contrapporsi al partito come gruppo autonomo, ove invece le Br arriveranno a considerarlo addirittura come uno dei propri nemici. E credo che il caso più lampante sia proprio la rivoluzione mancata del 16 luglio 1948
.

Due giorni dopo l’attentato a Togliatti

Proprio così. Il 16 luglio del 1948, pensando di trovarsi di fronte a un colpo di Stato, la Volante Rossa parte per andare ad assaltare la caserma dei carabinieri di Milano. Ma pochi secondi prima che scatenino una guerra il più importante dirigente del Pci milanese, Alberganti, riesce a raggiungerli e dice: tornate a casa. Il partito dice no, e loro obbediscono. Magari come Garibaldi, obtorto collo, ma obbediscono e tornano a casa, proprio mentre stavano andando – finalmente, nella loro ottica - a fare la rivoluzione. Ecco, ora immaginati un gruppo di brigatisti che sta andando a fare un’azione e viene fermato da un dirigente del Pci

Hai ragione, impossibile.
Gli studi da te condotti a quale conclusioni ti hanno portato circa il giudicare il periodo italiano ’43 – ’45 come una “guerra civile”? Sei d’accordo con quella dizione?

Sì, sono talmente d’accordo che di fatto ho scelto come titolo per il libro “La guerra non era finita”, e parlo proprio della guerra civile. È questo quel che ho cercato di raccontare: che a Milano in quegli anni non c’è un gruppo di pazzi che si fa giustizia da sé. A Milano in quegli anni c’è una guerra tra i gruppi armati neofascisti da una parte e molti ex partigiani dall’altra (non solo la Volante Rossa, perché ci sono almeno altre due organizzazioni armate, all’interno di sedi del Pci).
Quello che molti pseudostorici o “controstorici” dimenticano spesso di dire è che i fascisti sono rimasti armati, e nel dopoguerra si riorganizzano in fretta, e colpiscono quotidianamente le sedi dei partiti di sinistra, le attaccano con bombe, esplosivi, colpi di mitragliatrice. Attaccano la sede della Camera del Lavoro, e la custode, Stella Zuccoletti, ci rimette la vita. Attaccano la sezione comunista di Porta Genova, e un bambino di 5 anni, Franco Flammeni, è dilaniato dall’esplosione di una bomba. Attaccano la Casa del Popolo di Lambrate, sede della Volante Rossa, che solo grazie a un infiltrato riesce a organizzare una difesa e impedire una carneficina.
Non va nemmeno dimenticato che Paggio e i suoi agiscono in un’Italia che più passano i mesi più si rivela un paese alla rovescia, dove fascisti responsabili di incredibili atrocità invece che venire puniti rimangono ai loro posti nelle amministrazioni pubbliche e nelle forze di polizia, mentre i partigiani entrati subito dopo il 25 aprile vengono via via allontanati con una serie di risibili cavilli. Un paese in cui l’unica epurazione che davvero ha luogo con successo è quella dei partigiani dalle forze di polizia. Un paese che vede chi ha lottato per liberare l’Italia incarcerato per azioni commesse durante la guerra partigiana, e per le strade, liberi, i fascisti.
Questo è il contesto storico in cui agiscono gli uomini di Paggio, e raccontarlo per quello che era non è una questione di giudizio storico o etico, è semplicemente una questione di fare bene il proprio lavoro. Se uno vuole “revisionare” la storia prima la deve studiare. Tutto qua.
Però, per tornare alla tua domanda sugli anni precedenti: come notava giustamente Enzo Santarelli, Pavone “non identifica Resistenza e guerra civile, dice piuttosto che la prima si svolse in un contesto di guerra civile”. E questo mi sembra innegabile
.

Ma alcuni tentano un'equiparazione delle parti...

Ecco, il problema, infatti, sorge quando la dizione “guerra civile “ viene usata per tentare una impossibile equiparazione delle parti in lotta. Perché certo, sicuramente la storia della Resistenza comprende momenti tragici e singoli orrori, come tutte le guerre. Sicuramente dei giovanissimi sono finiti da una parte e dall’altra per scelta a volte familiare, o per un insieme di ragioni che non è sempre facilissimo comprendere o condannare.
Ma c'è un fatto molto semplice, che spesso incredibilmente sfugge ai revisionisti e ai loro affezionati e interessati lettori: il peggiore tra i partigiani combatteva per la libertà, e il migliore tra i fascisti, tra i repubblichini di Salò, per quanto giovane, per quanto "innocente", combatteva per un'Europa disseminata di campi di concentramento, per lo sterminio di etnie e minoranze, per un mondo schiavo di Hitler
.

Già, esistono anche testimonianze letterarie al proposito…

Sì, ricordo un ottimo esempio dato da Italo Calvino, ne "Il sentiero dei nidi di ragno". Ne leggo qualche rigo: "C'è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall'altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro [...] tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un'umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L'altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori; perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell'odio".
Per questo, semplicemente, i combattenti delle due parti non potranno mai, mai stare sullo stesso piano
.

Francesco Trento
La guerra non era finita
Pagine 200, Euro 11.00
Laterza


Sguardi paralleli

La Fondazione Ragghianti di Lucca propone una nuova mostra a cura di Paolo Bolpagni.
Due i protagonisti: il francese François Morellet (Cholet, 1926), e Mario Ballocco (Milano, 1913-2008), pittore e teorico di cui è in atto da alcuni anni la riscoperta.
La mostra è realizzata in collaborazione con l’Associazione Archivio Mario Ballocco di Milano e lo Studio Morellet di Cholet, con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e il Patrocinio del Comune di Lucca.

Dedicare una mostra, una doppia personale, a Morellet e a Ballocco - scrive il curatore – costituisce il primo tentativo, mai compiuto finora, di accostare i percorsi di due artisti che non si conobbero, ma, soprattutto in alcune fasi delle rispettive carriere, imboccarono “parallelamente” strade analoghe e anticipatrici. I due furono, uno in Francia e l’altro in Italia, precursori, già all’inizio degli anni Cinquanta, di molti aspetti dell’arte cinetica e programmata (e in certa misura anche della Optical Art), che sarebbe esplosa come tendenza generale nel decennio successivo.
Sono esposte nelle sale della Fondazione Ragghianti circa settanta opere, molte delle quali inedite in Italia (e anche inedite in senso assoluto), che documentano la carriera artistica di Mario Ballocco e di François Morellet dal 1945 agli anni Ottanta. Oltre ai due autori, ci saranno anche dipinti di Alberto Burri, Giuseppe Capogrossi ed Ettore Colla (“compagni di strada” di Ballocco nell’avventura del Gruppo Origine), e inoltre documenti originali, fotografie, un video e cataloghi e riviste d’epoca. Da segnalare, poi, la presenza in mostra dei primi neon di François Morellet, risalenti agli anni Sessanta, straordinariamente concessi in prestito per l’occasione nonostante la loro rarità e fragilità
.

Il catalogo, delle Edizioni Fondazione Ragghianti Studi sull’Arte, è firmato dal curatore della mostra Paolo Bolpagni e contiene anche un saggio del filosofo Massimo Donà, un testo scritto da Morellet nel 1971 tradotto per la prima volta in italiano, le schede scientifiche delle opere esposte e apparati biobibliografici.

QUI un video dedicato alla mostra.

Ufficio Stampa Fondazione Ragghianti:
Elena Fiori, elena.fiori@fondazioneragghianti.it

Sguardi paralleli
A cura di Paolo Bolpagni
Fondazione Ragghianti
Via San Micheletto 3, Lucca
Telefono 0583.467 205 - Fax 0583.490 325
email: info@fondazioneragghianti.it
Ingresso gratuito
Fino al 26 giugno 2016


Lettere alle amiche


La pubblicazione postuma delle lettere intime di famosi personaggi è lecita oppure no?
La domanda sorge specialmente ogni volta che un editore dà alle stampe epistolari quando contengono pagine con riferimenti a gusti sessuali, a scene erotiche vissute o desiderate.
Tantissime quelle lettere stampate dopo la morte di chi le ha inviate, i primi nomi che mi vengono sulla tastiera: Gustave Flaubert, Marina Cvetaeva, James Joyce, Simone de Beauvoir, Jan Fleming, Sibilla Aleramo, Charles Bukowski… è proprio necessario frugare in quegli scritti?
Avvicina o allontana la conoscenza dello scrivente o della scrivente?
Ivan Cenzi pone la questione con chiarezza: “Questo tipo di discussioni è in realtà una versione più piccante del vecchio dibattito sull’Opera e l’Autore. Secondo la scuola semiologica della seconda metà del ‘900, qualsiasi testo va analizzato isolandolo dalle informazioni para-testuali che abbiamo a disposizione (come ad esempio le vicende biografiche dell’autore), perché il suo valore deve consistere unicamente in se stesso. Secondo l’esperienza di molti altri critici, invece, non si può apprezzare intimamente un’opera se non abbiamo elementi che ci permettano di comprendere meglio l’umanità di chi vi sta dietro, la personalità dell’autore. Se amo un quadro, mi piacerebbe sapere chi l’ha dipinto, come ha vissuto, in cosa credeva… e forse, sì, anche come amava”.
Scelta difficile. Ci sono buone ragioni dall’una e dall’altra parte.
La sola cosa che trovo intollerabile è quando vivente uno dei due della coppia – coppia fissa oppure occasionale che sia stata – decide di pubblicare le lettere ricevute da lei o da lui che più non sta su questo mondo, peggio ancora se si tratta di missive audaci.

Nessuno dei rischi di caduta di gusto, di voyeurismo, in una pubblicazione di Adelphi che ha dato alle stampe Lettere alle amiche di un gigante della letteratura: Louis-Ferdinand Céline.
Questo perché quanto pubblicato – anche se non privo di angoli licenziosi – serve a meglio capire lo scrittore e i suoi percorsi pubblici così come li vive e li racconta fuori dell’Opera, ma conservando l’eco della “petite musique” del suo stile confermandosi – come di se stesso diceva – d’essere “homme à style” e per nulla “homme à idées”.
Uomo che per tutta la vita avrà sempre una donna al suo fianco e, in alcuni periodi, avrà diverse amanti contemporaneamente.
Tempo fa furono pubblicate le lettere a Elisabeth Craig, la ballerina americana che fu una protagonista per lunghi anni della vita sentimentale dello scrittore (le dedicherà il Voyage), in questa raccolta di Adelphi ci sono sei gruppi di lettere indirizzate ad altrettante donne. Ognuno di questi gruppi è preceduto da un’articolata, ben documentata, nota che illustra il quando il come e il chi era di queste sue corrispondenti.
“Sei donne” – recita il quarto di copertina – “che Céline continua a seguire e proteggere: e, se si guarda bene dal parlare d’amore, non lesina consigli su come usare gli uomini nel modo migliore, cioè «per il piacere e per i soldi». Ma soprattutto, lettera dopo lettera, con una generosità che rende lacerante la violenza autodenigratoria («Già vecchio, depravato, non ricco, malmesso insomma. Tutt’altro che un buon partito. Battona e malfido»), non cessa di illuminare per barbagli, a loro beneficio, il mondo. In fondo, scrive a Évelyne Pollet, «Crepare dopo essersi liberato, è almeno questa l'impresa d'un Uomo! Aver sputato ogni finzione...»”.

Louis-Ferdinand Céline
Lettere alle amiche
A cura di Colin W. Nettelbeck
Traduzione di Nicola Muschitello
Pagine 257, Euro 15.00
Adelphi


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