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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

In extremis (1)


“Il fatto che siamo tutti votati alla scomparsa, produce in noi un sentimento insopportabile. Ma lo sarebbe ancora di più se fosse la morte a scomparire”
Jean Baudrillard.

La casa editrice Carocci ha pubblicato un saggio poderoso In extremis Il tema funebre nella narrativa italiana del Novecento.
Ne è autore Mario Barenghi.
Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Milano-Bicocca. Si occupa di narrativa otto-novecentesca, di teoria letteraria, di memorialistica. Tra le sue pubblicazioni, Poetici primati. Saggio su letteratura e evoluzione (Quodlibet, 2020) e Il chimico e l’ostrica. Studi su Primo Levi (Quodlibet, 2022).
Per leggere suoi articoli su Doppiozero: CLIC.

Dalla presentazione editoriale.

«Al pari dell'amore, la morte è uno dei temi prediletti della letteratura di ogni epoca, e viene declinato in una inesauribile varietà di modi. L'autore affronta la trattazione del motivo funebre in alcuni fra i più importanti narratori italiani del secondo Novecento: Giorgio Bassani, Carlo Emilio Gadda, Giorgio Manganelli, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Le prospettive non potrebbero essere più diverse. Si va dalla liturgica celebrazione del lutto del Giardino dei Finzi-Contini all'immedicabile strazio della Cognizione del dolore, dall'estenuata attesa della morte del Gattopardo agli estrosi, ossessivi funambolismi dei libri di Manganelli. In ognuno di questi casi, la morte è sempre anche qualcosa di diverso rispetto alla semplice conclusione di un'esistenza: può fungere da pretesto, da alibi, da dispositivo apotropaico o depistante, perfino da gioco, non di rado diventando emblema di un'intera visione della realtà. L'introduzione del volume è dedicata al ruolo della morte nell'opera di Italo Calvino e di Primo Levi, mentre il capitolo finale esamina un brano di Giuliano Scabia in cui il protagonista visita l'aldilà: un'interpretazione della condizione ultraterrena insieme lieve e serissima - oltre che pregnante dal punto di vista antropologico - che vale come discreto quanto incondizionato omaggio alla vita, alla convivenza, alla condivisione dei destini».

Segue ora un incontro con Mario Barenghi.


In extremis (2)

A Mario Barenghi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Perché nell’affrontare il tema funebre in letteratura ha scelto il periodo del Novecento italiano? Che cosa l’ha attratto di quell’epoca?

Per la verità io non ho mai pensato di affrontare il tema funebre in quanto tale. Il punto di partenza è stato un confronto tra due romanzi tra loro diversissimi come “Il giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani e “La cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda. A ben vedere, dal parallelo emerge un paradosso: nel primo si parla continuamente di morte, ma in verità il nocciolo della vicenda – l’amore mancato fra il protagonista e Micòl – con la morte non c’entra affatto, mentre nel secondo, dove si parla di un sacco di cose, tutto in realtà gravita intorno a un evento tragico – la morte in guerra del fratello di Gonzalo – al quale è riservato uno spazio testuale ridottissimo. La mia prospettiva, però, era uno studio sugli autori, non un’indagine di tipo tematico. Tant’è vero che uno degli approdi di questo percorso è che “Il giardino dei Finzi-Contini”, romanzo ‘ben fatto’, equilibrato, classico, tende a occultare un nodo narrativo decisivo – a occultare, o a nascondere dietro paramenti luttuosi che a volte sembrano quasi un pretesto; mentre “La cognizione del dolore”, romanzo incompiuto, irregolare, asimmetrico, a ben vedere trova nel finale, con l’uccisione della madre, una sua sostanziale compiutezza.

E gli altri saggi su Manganelli e Lampedusa?

Sono stati concepiti e scritti in occasioni diverse, e sempre con intenti monografici. Quello che mi interessava era parlare di singoli autori o di singoli libri. Soltanto a posteriori mi sono reso conto che anche in questi casi il tema della morte aveva un ruolo importante; e, di nuovo, la differenza fra i due autori è vistosa. Sull’opera di Lampedusa aleggia un senso di inevitabile decadenza, e la morte appare quasi con un meritato riposo, perfino come un sollievo. Tancredi, che non è uno sciocco, coglie bene questo aspetto nella psicologia dello zio. Il principe di Salina è incline a corteggiare la morte come se fosse una bella donna (e infatti nella scena del suo decesso c’è la visione di una bella viaggiatrice che lo conduce con sé). L’effetto è una sorta di amara dolcezza, o di dolce amarezza: una rassegnazione non priva di serenità, anche perché nel frattempo il principe ha avuto modo di godersi una vita di privilegi.

Circa Manganelli?

Manganelli invece tratta la morte come una metafora, come un topos letterario, come un personaggio fantastico: ne fa quasi l’oggetto di un esercizio di giocoleria stilistica. Per dirla in soldoni: agli occhi di Lampedusa la morte è un fatto reale, ma tutto sommato lontano o comunque non traumatico, mentre per Manganelli è una presenza assidua ma a ben vedere inoffensiva, o comunque neutralizzabile. La decisione di mettere in evidenza il tema mortuario è dunque eminentemente editoriale. Non perché l’abbia deciso l’editore: l’ho deciso io; ma solo quando mi sono posto il problema di trovare un elemento comune a una serie di saggi che avevo scritto, come dicevo, in tempi diversi, al di fuori di qualunque progetto complessivo di ricerca.

Come si apprende dalle sue pagine il primo titolo al quale aveva pensato per questo volume era “Appressamenti della morte” successivamente diventato l’attuale “In extremis”.
Oltre – come lei ricorda – ad evitare quel titolo perché poteva portare a intuibili gesti apotropaici in alcuni lettori, mi pare che sia possibile ipotizzare anche altra sostanza in quel mutamento d’intitolazione o è un mio abbaglio
?

“Appressamenti della morte” non sarebbe stato un titolo improprio. “In extremis” però mi pare più efficace, perché più ambiguo. Letteralmente, “in extremis” significa “all’ultimo momento”, e un uso tradizionale considera tale espressione sovrapponibile a “in punto di morte”. Negli usi correnti mi pare invece che “in extremis” si usi in contesti assai diversi: le cronache calcistiche, tanto per dirne una, parlano spesso di “salvataggi in extremis”, di “pareggi in extremis”. Alla morte si può pensare o non pensare, si può affrontare il pensiero della morte per evitare di parlare d’altro e si può parlare di morte fingendo di parlare d’altro, ma in ogni caso quello che lo scrittore persegue è una forma più o meno simbolica di salvezza.

Perché ha scelto gli autori che ho citato nell’introduzione a questa nota pur avendo tutti trattato sì il tema funebre ma ciascuno secondo prospettive notevolmente diverse?

Nell’introduzione parlo di altri due autori, Primo Levi e Calvino, semplicemente perché sono gli scrittori di cui mi sono occupato di più. Una volta assodato che analizzando altre figure del secondo Novecento mi ero trovato, per un verso o per l’altro, a inquadrare il tema funebre, mi sono chiesto come la questione si potesse porre riguardo a loro. Anche in questo caso il confronto mi pare istruttivo. Calvino di morte non parla volentieri: il tema è confinato negli scritti di argomento partigiano, quindi alle opere degli anni Quaranta, “Il sentiero dei nidi di ragno” e “Ultimo viene il corvo”. Tuttavia è interessante che nella trilogia araldica ci sia sempre un padre che muore (“Il visconte dimezzato”, ”Il barone rampante”), o che è morto da poco (“Il cavaliere inesistente”): con ogni evidenza, si tratta di un riflesso dell’esperienza biografica dell’autore, Mario Calvino muore nel 1951. Levi invece parla abbastanza spesso di morte, ma la morte in sé non è mai un tema centrale. Che ai viventi tocchi in sorte morire è un dato che Levi accetta senza sorpresa e senza angoscia. Il suo interesse non si concentra sull’inevitabile limitatezza dell’esistenza, bensì sulla violenza di chi sopprime altri viventi senza motivo (e qui non c’è solo il tema della Shoah, ma anche, ad esempio, la violenza degli umani sugli animali). Ora che ci penso, forse non è senza motivo che per i due scrittori ai quali mi sento più vicino la morte non sia il tema centrale.

L’ultimo saggio del libro è dedicato a Giuliano Scabia

Sì, vorrei dire due parole su quelle pagine. Anche Scabia è uno scrittore che celebra la vita senza mai indulgere alla contemplazione della morte e senza abbandonarsi a fantasticherie luttuose o autodistruttive. Ora, in uno dei romanzi della serie di Nane Oca il protagonista visita l’Aldilà, e il modo in cui l’Aldilà è organizzato è molto interessante. Non c’è alcuna distinzione fra beati e dannati, nessun premio divino e nessuna divina punizione. In compenso, tutti sanno tutto di tutti: la condizione oltremondana è caratterizzata da un’assoluta trasparenza. E per i malvagi si tratta in verità di una punizione severissima, perché sono oggetto di un imperituro biasimo collettivo. In realtà questa immagine dell’oltretomba rappresenta una proiezione di un meccanismo sociale fondamentale, cioè la regolazione del comportamento ad opera dello sguardo altrui. Detto così suona male, sembra una negazione della spontaneità, ma non è questo il punto. Noi umani, in quanto animali sociali, siamo inclini a dare un grandissimo peso all’opinione che gli altri hanno di noi: la costruzione della socialità poggia sulla sensibilità per la reazione del prossimo alle nostre scelte, alle nostre azioni, alle nostre parole. Di nuovo: nulla a che vedere con l’elogio del conformismo – anzi. L’idea di fondo è che vivere è sempre convivere, condividere, partecipare, vivere insieme, in una parola. E questo mi pare bello. Momón direbbe Scabia.

………………………

Mario Barenghi
In extremis
Pagine 148, Euro 17
Carocci


Archetipi danzanti

Ho conosciuto anni fa un tandem di artisti-curatori dotati della straordinaria capacità di scorgere cifre espressive da sotterranei collegamenti riuscendo a legare correnti carsiche che attraversano aree lontane fra loro dai videogiochi a musei di cultura materiale così come, per citare una loro recente impresa, potete notare QUI.

Chi sono? Presto detto: Debora Ferrari e Luca Traini.

A coloro che tutto ciò può sembrare una forzatura, faccio rispondere da Paul Heidenberg che in “Dissonanze e Diivergenze” così scrive: “I segni apparentemente dissimili possono attraversare lampi di forma e linee creative che viaggiano dalle Grotte di Altamira a un Luna Park”.

Ed ecco i due approdare in Liguria, ad Arcola, e insieme con Marco Castiglioni e Sara Conte, presentare Archetipi danzanti.
Per sapere di che cosa si tratta, leggete appresso.

Estratto dal comunicato stampa.

«Con l’apertura del MAP_Museo Arti e Paesaggi nella Torre Pentagonale Obertenga di Arcola (XI secolo) inizia una lunga stagione di proposte espositive di rilievo che mirano a valorizzare il territorio e a creare sinergie anche interregionali.
“Archetipi danzanti” con le maschere in ceramica di Walter Tacchini e quelle africane del Museo Castiglioni di Varese riflette sulla forza evocativa dell’archetipo in un luogo dove la maschera è importante nella tradizione dell’Omo ar bozo e dove le attività artistiche si moltiplicano per continui scambi culturali.
L’operazione è stata fortemente sostenuta dal sindaco Monica Paganini con la Giunta e i collaboratori, interni ed esterni, per dare al borgo una forza aggiuntiva nell’attrattiva culturale e turistica e convalidare la volontà di valorizzazione del patrimonio storico-architettonico da parte dell’Amministrazione.
Nelle sculture di Tacchini c'è il segno di una grande stagione della cultura europea che si muoveva tra Sartre, le sorelle De Beauvoir, Cocteau e Prévert, con cui ha lavorato. Oggi ottantenne sempre dedito alla creazione con una verve ineguagliabile (sculture, quadri e mobili rigenerati con Liguria Vintage e le opere da Crastan), Tacchini nel tempo elabora una vena creativa molto personale, dedita al recupero di forme e archetipi ancestrali, ispirati sia alle Steli antropomorfe di 5.000 anni fa della Lunigiana, sia alle maschere tipiche come nella tradizione del Carnevale storico di Ameglia dell’Omo ar Bozo che lui stesso risveglia e rinvigorisce coi suoi costumi. Accanto alle opere di Tacchini nella Torre si possono ammirare maschere africane della collezione dei gemelli Angelo e Alfredo Castiglioni, noti archeologi ed etnologi a cui è dedicato il museo di Varese. La maschera non è un oggetto a sé stante ma parte di un contesto che comprende danza, musica, ritmo, estetica, sacrificio e cerimonia. Una maschera assume il suo significato completo, infatti, solo nel momento in cui è indossata da un particolare individuo, che esegue determinate azioni, in un preciso contesto. In Africa spesso le maschere rappresentano gli antenati mitici o gli animali totemici. Gli spiriti e le forze incontrollabili della natura vengono rappresentate in forme stilizzate, quasi astratte, perché, in quanto concetti incorporei, prendono vita attraverso la maschera.
L’esposizione, già avviata nel 2022 a Varese e Como e curata da Debora Ferrari e Luca Traini con Marco Castiglioni e Sara Conte, ricercatrice del Politecnico di Milano, è realizzata da Musea Trarari TIPI in collaborazione con Museo Castiglioni di Varese, insieme a vari partner territoriali -liguri e varesini- che ne hanno apprezzato il valore.
“Grazie all’incontro con il Museo Castiglioni e con il Comune di Varese, che hanno messo a disposizione una collezione di maschere africane di rara bellezza” - dice il sindaco Monica Paganini – “la mostra si arricchirà di suggestione e mistero nell’incessante percorso di ricerca della nostra comune origine”.
È in questo luogo, testimone del tempo, simbolo della nostra identità e storia, che Walter Tacchini, il nostro Walter, con la sua straordinaria potenza espressiva e la sua arte che si eleva da radici profonde e arcaiche verso orizzonti inesplorati, ha trovato lo spazio per far vivere le sue maschere, “Archetipi Danzanti” capaci di condurci in un fluire di emozioni potentissime che proiettano i nostri vissuti ancestrali”.
Per visitare la Torre occorre prenotarsi scegliendo giorno e ora di visita sul form del sito www.museotorrediarcola.it perché ogni visita, della durata di 45 minuti, è permessa a un massimo di 5 persone per volta.
All’interno della Torre il pubblico troverà materiali e brochure gratuite».

Accompagna la mostra un catalogo edito da TraRari Tipi Edizioni.

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MAP Museo Arti e Paesaggi
Alla Torre Pentagonale Obertenga di Arcola
Archetipi Danzanti
Piazza Ugo Muccini, Arcola (Spezia)
Informazioni:
Tel: 0187 - 95 28 30
Mail: segreteria.sindaco@comune.arcola.sp.it
Fino a giugno 2024


I promessi paperi


Nella collana dedicata alle grandi opere letterarie in edizione a fumetti la casa editrice Giunti-Disney presenta un nuovo volume verbovisivo.
Esce in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dalla scomparsa di Alessandro Manzoni.

Dalla presentazione editoriale

«Il volume propone il racconto illustrato e la storia a fumetti, in cui si fondono il classico storytelling del fumetto e il racconto più poetico dell'autore Augusto Macchetto. I disegni sono della coppia di artisti Giada Perissinotto e Lorenzo Pastrovicchio. Alla magia del colore la maestria di Andrea Cagol. L'inedito racconto, illustrato e colorato, descrive un immaginario episodio di vita di Alessandro Manzoni che, nell'infanzia, potrebbe essere stato fondamentale per creare il seme per il suo capolavoro letterario.
Alessandro (Paperino) e l'amico Tonio (Paperoga) osservano una foglia che dall'albero sembra non voler proprio cadere. "Sarà magica?" si chiedono. L'avventura è da scoprire nel libro! Il racconto si chiude con una frase presa da I Promessi Sposi: "Una delle più gran consolazioni di questa vita è l'amicizia".
La storia a fumetti è I promessi paperi, la prima e celebre parodia del romanzo I Promessi Sposi, scritta da Edoardo Segantini e disegnata da Giulio Chierchini.

Età di lettura: da 8 anni
Pagine: 128; Euro 14.90
Data di pubblicazione: 17/ maggio /2023».


Debord: un complotto permanente contro il mondo intero


Il Situazionismo, movimento che ha acceso luci e braci del ’68, ebbe in Guy Debord (1931 - 1994) il suo ideatore. Nel celebre libro La società dello spettacolo è raccolto il suo pensiero.
Quel movimento nacque in un piccolo paese ligure: Cosio d'Arroscia
Lì si riunirono, su invito del pittore Piero Simondo e di sua moglie Elena Verrone, Guy Debord e la sua compagna Michèle Bernstein, l’artista danese Asger Jorn, Pegeen Guggenheim, figlia della famosa collezionista d’arte americana, l’appassionato di fotografia Ralph Rumney, il musicista Walter Olmo, il pittore e performer Pinot Gallizio.
Nel giro di poco tempo i situazionisti finirono con l’espellersi l’un l’altro dal movimento. “Perché” – scrive Donatella Alfonso in “Un’imprevedibile situazione’ – in realtà, solo Guy Debord, e con lui Michèle Bernstein, avevano chiaro che cosa fosse la nascita dell’Internazionale Situazionista. Un superamento dell’arte come intesa fino a quel momento, la nascita di un qualcosa di talmente nuovo che poteva essere anche una rivoluzione politica”
La prima edizione del libro “La Societé du spectacle” (Ed. Buclet-Chastel) è del 1967
Debord muore nel1994 nella sua casa di Champot-Bas, tirandosi una pistolettata al cuore.
Alcune sue frasi celebri.
- La noia è sempre controrivoluzionaria. Sempre.
- La vittoria sarà di coloro che avranno saputo provocare il disordine senza amarlo.
- Il vizio pervade ogni aspetto della nostra vita. Ieri ho sorpreso il giardiniere a respirare.

La casa editrice Mimesis ha pubblicato Guy Debord Un complotto permanente contro il mondo intero
Ne è autore Anselm Jappe (1962)
Filosofo di origine tedesca, ha studiato a Roma, dove si è laureato con Mario Perniola, e a Parigi. Insegna Estetica all’Accademia delle Belle Arti di Frosinone a ha fatto delle conferenze in molte Università europee e latinoamericane. Ha pubblicato nel 1993 la prima monografia su Guy Debord e ha continuato ad occuparsi dei situazionisti, nonché dell’opera di Karl Marx soprattutto attraverso l’interpretazione data dalla “critica del valore” come esposta nel libro.Le avventure della merce.
Il bersaglio di Debord non era solo la televisione e il mondo dei mass media:
“Spettacolo” - scrive Jappe – “è ogni sostituzione del vissuto con una sua rappresentazione, ogni occasione in cui la contemplazione passiva di un'idea, di un'immagine, non necessariamente visiva, sostituisce il vivere in prima persona. L'infatuazione per un attore può essere un meccanismo spettacolare allo stesso titolo del culto di Che Guevara, ma anche degli integralismi e nazionalismi, dello sport o del terrorismo, dei sindacati e dei partiti. Lo spettacolo è dunque la forma più perfetta dell'alienazione”.
E ancora: “I situazionisti avevano superato le precedenti avanguardie artistiche e stavano evolvendo verso un movimento rivoluzionario proprio nella misura in cui volevano collegare uno sforzo personale di liberazione con un’azione collettiva, rivolta alla società tutta intera.

Dalla presentazione editoriale

«Un complotto permanente contro il mondo intero” era la definizione che Guy Debord (1931-1994) aveva dato alle edizioni Champ Libre che lo pubblicavano. Fondatore dell’Internazionale situazionista, autore della Società dello spettacolo, inventore di tecniche artistiche come il détournement o la psicogeografia, nel corso della sua vita Debord ha fatto di tutto per dispiacere ai suoi contemporanei, eppure, dopo la sua morte, è stato trasformato in un’icona.
In questa raccolta di saggi, Anselm Jappe, autore nel 1993 della prima monografia consacrata a Debord, si propone di salvare il radicalismo della critica che l’autore francese oppose alla società capitalista. Esaminando la fine dell’arte e della politica, la lettura di Marx, l’analisi del rapporto tra tempo e storia, i parallelismi possibili (oppure no) con Theodor Adorno, Hannah Arendt e Jean Baudrillard, Jappe ci fa riscoprire l’estrema attualità di questo originale filosofo contemporaneo».

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Anselm Jappe
Guy Debord
A cura di Afshin Kaveh
Pagine 176, Euro 17.00
Ebook: Epub
Mimesis


Lo tsunami degli anglicismi (1)

Lo sapete che in viaggio ferroviario in caso di necessità invece che al capotreno dovete rivolgervi, come l’altoparlante avverte, al train manager?
Quando sento quell’annuncio la mia salute riceve un duro colpo. E quando leggo wine bar invece di enoteca o vineria, allora morbillo, scarlattina e varicella mi assalgono contemporaneamente nonostante la mia avanzata età. Non vi dico che cosa mi succede quando leggo italian food… sento vicina l’agonia.
Prima non ho virgolettato o messo in corsivo i termini inglesi che ho scritto perché ormai sono tanto penetrati negli scritti e nel parlato che… insomma, ci siamo capiti.
Perciò amo coloro che difendono la nostra lingua dal proliferare degli anglicismi.
Precisazione d’obbligo: senza esagerare. Mi limito al mestiere che faccio: se dico in moviola al montatore “facciamo un ritorno al passato” o un’analessi invece di “flashback” quello giustamente chiama il pronto soccorso psichiatrico. Se incontro la parola “mainstream” per indicare un insieme di moda estetica e successo di mercato non svengo, né vengo meno se il tecnico suggerisce di fare un “loup”.. Quando però vedo scritto in locandina “Light designer” sul mio cuore scende un velo di mestizia perché si può dire benissimo “Disegno luci” oppure “Luci di” facendo seguire il nome Tal dei Tali.
Insomma, facciamoci guidare dal buon senso senza fare crociate contro l’inglese (amare esperienze del passato ce lo consigliano), ma non cadiamo preda dell’itanglese una parlata che finisce con l’essere un tic da periferia dell’Impero.

La casa editrice goWare ha pubblicato Lo tsunami degli anglicismi Gli effetti collaterali della globalizzazione.
L’autore è Antonio Zoppetti (in foto).
Ha curato il riversamento del primo dizionario italiano digitale, il Devoto-Oli in cd-rom del 1990. Si occupa dell’interferenza dell’inglese nella nostra lingua, un tema su cui ha già pubblicato “Diciamolo in italiano” (Hoepli, 2017), “L’Etichettario” (Franco Cesati, 2018), oltre ai numerosi articoli e progetti in Rete da “attivista dell’italiano” come ama definirsi. Ma le cose non finiscono qui perché va detto che Zoppetti – in Rete noto anche col nome Zop – è laureato in filosofia e si muove a tutto campo nel mondo dell'editoria: da autore a editore; suoi sono vari progetti multimediali e ipertestuali. Nel 2000 ha fondato il sito linguaggioglobale.it, con il quale, nel 2004, ha vinto il "Premio Alberto Manzi" per la comunicazione educativa. Dal 2002 scrive e orchestra giochi letterari e di scrittura collettiva in Rete. Nel 2004 ha pubblicato il romanzo combinatorio “Laura immaginaria” (Palomar, 2004) e nel 2006 “Gentile editore... io non demordo” (RGB). Un suo rifacimento-contaminazione su web degli "Esercizi di stile" di Queneau, ha coinvolto oltre duecento blogger, ed è stato premiato al concorso 'Scrittura Mutante' nel 2003. Dal successo di quella esperienza ha tratto il libro “PerQueneau? La scrittura cambia con Internet”, Luca Sossella editore, 2003… non vi basta? E allora ecco come Zop alias Zoppetti, o viceversa, nel solco della sua critica agli anglicismi così immagina nel libro “Diciamolo in italiano” un famoso brano della nostra letteratura in versione itanglese.
Quel ramo del lago di Como sud coast oriented, tra due catene non-stop di monti tutte curvy, a seconda dell’up-down di quelli, divien quasi a un tratto small-size e a prender un look da fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera overside; e il ponte, che ivi linka le due rive, par che renda ancor più friendly all’occhio questo effetto double face, e segni lo stop del lago e il restart dell’Adda, fino al remake del lago dove le rive, sempre più extralarge, lascian lo spread dell’acqua rallentarsi in un relax di nuovi golfi curvy?.

Ora basta. S’è fatto tardi.
È ora d’incontrare Antonio Zoppetti nella prossima nota. Mi separa da lui un solo pass... pardon, step.


Lo tsunami degli anglicismi (2)


Goodbye Tony!

Ah, cominciamo bene…

Nello scrivere “Lo tsunami degli anglicismi” qual è la cosa che hai deciso di fare assolutamente per prima e quale quella assolutamente per prima da evitare?

Per prima cosa ho pensato di accendere il “computer” per poter scrivere. Mi sono rammaricato del fatto che quando ho iniziato a lavorare si chiamava “calcolatore”, mentre oggi lo stesso strumento in “italiano” si dice per forza in inglese, e non lo potevo di certo evitare. Dunque mi sono ripromesso almeno evitare tutti i luoghi comuni, gli stereotipi e le mistificazioni che sulla questione dell'inglese sono diffusi tra giornalisti, intellettuali, e l'intera nostra classe dirigente, compresi molti linguisti.

Quale la causa, o quali le cause, della grande diffusione degli anglicismi in Italia?

Le tante motivazioni superficiali spesso additate non stanno in piedi o sono al massimo concause: la presunta sinteticità dell'inglese, la pigrizia nel tradurre legata alla velocizzazione del mondo, la moda, il fascino e il prestigio dell'inglese... Il libro spiega invece i veri perché in modo profondo. Alla base c'è un nostro complesso di inferiorità e un enorme servilismo di fronte all'angloamericano. Sono il rovescio della medaglia di una mitizzazione di tutto ciò che è a stelle e strisce e di una globalizzazione del mondo che coincide sempre più con la sua americanizzazione. Questi processi sono stati sollecitati storicamente in modo molto potente attraverso pressioni politiche ed economiche (a partire dal Piano Marshall e dalla sua gigantesca propaganda) e culturali (il cinema, più tardi il piccolo schermo e oggi la Rete sono formidabili strumenti di americanizzazione).
Gli anglicismi sono solo un effetto collaterale di tutto ciò, e infatti sono un fenomeno mondiale, legato all'espansione delle multinazionali e al progetto di fare del globalese la lingua della comunicazione mondiale, della scienza, del lavoro.... Questo disegno spacciato come “necessario” o “ineluttabile” nasconde interessi economici e di potere incalcolabili. L'inglese non è una soluzione etica come lo sarebbe per esempio l'esperanto, né prende il posto del latino medievale del sapere come si dice a vanvera…

… e allora?

… è, invece, la lingua dei popoli dominanti che la impongono a tutti gli altri godendo degli introiti spropositati che ciò comporta: i vantaggi comunicativi, il controllo dei flussi dell'informazione e dell'intrattenimento mondiali, il non dovere sobbarcarsi i costi (ingentissimi) dell'apprendimento di altre lingue. Dunque si tratta di un progetto neocolonialista – per chiamare le cose con il loro nome

Qualche esempio del passato?

Pensa al latino della Roma imperiale che imponeva i propri costumi e la propria lingua ai popoli sottomessi. Oggi si salta la fase delle armi ma le dinamiche sono le stesse. Il problema, venendo all'Italia, è che queste inarrestabili e titaniche pressioni esterne non sono controbilanciate da resistenze interne opposte che le arginano. Anzi, con l'alberto-sordità di un “Americano a Roma”, che però ha perso la componente comica e si è fatta tragica e seria, agevoliamo dall'interno questo processo cannibale preferendo gli anglicismi, inventandoci i nostri pseudoanglicismi e anglicizzando le nostre eccellenze (dal Made in Itay all'italian design) e le nostre denominazioni, in una riconcettualizzazione della nostra cultura storica rimpiazzata dalle categorie d'oltreoceano. È la strategia degli Etruschi che si sono sottomessi alla romanità senza guerre di conquista sino a esserne inglobati e scomparire. La verità è questa e bisognerebbe avere il coraggio di gridare che il “re è nudo”.

Spesso chi difende l’italiano contro gli anglicismi viene accusato di fare una cosa che ricorda la lotta del Regime fascista all’uso di parole straniere.
Vuoi sinteticamente spiegare la differenza fra quegli infausti provvedimenti e l’attuale battaglia culturale da te e (pochi) altri intrapresa
?

Curiosamente se qualcuno volesse introdurre i dialetti nelle scuole non verrebbe etichettato come “antifascista”, anche se che proprio il fascismo contribuì alla loro estromissione che successivamente ha portato alla scomparsa di alcuni. Né avrebbe senso dare dal “fascista” a qualcuno che proponesse di bonificare una palude. Dovremmo buttare via i paraocchi e questo modo di pensare. La lotta ai barbarismi non è stata certo inventata dal fascismo, anzi bisognerebbe raccontare che è uno dei punti di forza del “purismo” che dal Cinquecento al Risorgimento è stato uno dei principali modelli che hanno orientato la Crusca, le grammatiche, i dizionari, gli scrittori e ha preservato per secoli un italiano letterario che ha preceduto l'unità d'Italia e si è conservato e unificato fino a diventare un patrimonio di tutti solo nel Novecento.

E il purismo oggi?

Oggi il purismo è morto e sepolto e anche gli approcci contro i barbarismi del ventennio non c'entrano nulla con la situazione attuale. Il problema non sono né i forestierismi né un italico orgoglio che si declina nei nuovi sovranismi per motivi di autarchia linguistica. Il problema sono gli anglicismi, e solo quelli, e per una questione di numeri, di frequenza, di velocità e profondità di attecchimento. Il problema è una creolizzazzione lessicale che proviene dall'agloamericano che sta cambiando i connotati della nostra lingua, così ammirata nel mondo e così bistratta in patria.

Spesso tu accenni nei tuoi interventi a una “ecologia linguistica”

Si, perché la nuova questione della lingua, e delle lingue del pianeta, trovo che sia proprio quella dell'ecologia linguistica. Se le balene rischiano l'estinzione non si può allargare le braccia e dire che in fondo le specie si “evolvono” come è sempre successo, e che è normale anche alcune scompaiano. Tutto ciò è causato dagli scompensi introdotti dall'uomo, e l'inglese globale è una delle principali causa dell'estinzione di molte lingue minori e del depauperamento delle altre. Abbiamo il dovere morale di tutelare le lingue più deboli che rischiano di essere schiacciate in un “far west” dove la lingua del più forte entra in conflitto con quelle locali.

Come spieghi che la Sinistra, pur avendo avuto grandi studiosi della lingua (e dei dialetti) che ne hanno rilevato importanza e centralità storica, da Gramsci a Pasolini, abbia trascurato una difesa della lingua italiana dagli anglicismi – tranne in qualche polemica giornalistica - apparsi perfino in documenti istituzionali?

La sinistra dovrebbe capire che difendere e diffondere la dittatura dell'inglese significa stare dalla parte dei “padroni”, e dovrebbe pensare di più ai più deboli e alle masse. Dopo la caduta del muro di Berlino e con la fine della logica dei due blocchi, si è americanizzata in un modo imbarazzante. Un tempo aveva un atteggiamento critico sano, che qualcuno tacciava di antiamericanismo, come se essere “critici” e “anti” fossero la stessa cosa. Se alcune delle vecchie prese di posizione contro l'imperialismo americano erano viziate da pregiudizi ideologici beceri, il nuovo americanismo acritico e senza riserve è diventato un credo ancora più becero. In un passaggio dal Pci al pc (nel senso del computer) c'è stata una gara a chi si mostrava più filoamericano, per ostentare l'avvenuto cambiamento di pelle verso il post-ideologico. L'attuale “Partito Democratico”, preso appunto dalla denominazione dei progressisti statunitensi è il trapianto di quei modelli e di un'americanizzazione della politica (non solo a sinistra) che ricalca l'immagine kennediana, le primarie, il personalismo, le convention... e gli anglicismi come il Jobs act con cui si è edulcorata l'abolizione dell'articolo 18 sono solo la spia di allarme che si accende sul cruscotto. La verità è che il Pd non è più una forza di sinistra, personalmente lo considero un partito di destra moderata, che ha rinnegato le proprie radici.

Si abusa di anglicismi come giustamente fai rilevare anche in questo tuo più recente libro, ma accogliere delle parole straniere (non esclusivamente inglesi ma anche tali) nel nostro vocabolario escludi che possa creare, anche con neologismi, fruttuosi angoli di meticcia espressività?

Quali “angoli”? Quali “parole straniere”? La somma di tutti forestierismi provenienti da ogni lingua del mondo, inclusi i francesismi che ci hanno influenzati per secoli, non raggiungono nemmeno la metà degli anglicismi che abbiamo importato solo negli ultimi 70 anni. Mentre una città multietnica come Milano accoglie una folla di cinesi, africani, arabi, ispanici, slavi, romeni, albanesi... che mediamente imparano l'italiano e cercano di integrarsi, che impatto ha tutto ciò sulla nostra lingua? Nessuno. Gli italiani non conoscono una parola di questi idiomi, a parte qualche vocabolo gastronomico come falafel, zighinì o kebab. Bisogna studiare e pesare ciò che sta avvenendo invece di contrabbandarne un'immagine distorta. Gli angolini di “fruttuoso meticciato” sono poco rilevanti e ben limitati, quanto ai “neologismi” vorrei ricordare che le parole del nuovo Millennio sono per circa la metà in inglese crudo, stando alle marche dei dizionari. Dunque il problema è l'esatto contrario: tutto ciò che è nuovo si esprime quasi solo in inglese, e persino i neologismi italiani sono irrilevanti e sempre meno formati dalle radici latine e greche che un tempo caratterizzavano le neoconiazioni.

E le altre culture?

Le altre culture sono piuttosto invisibili e non producono granché, quello che emerge è un inglese totalitario che si sta rivelando un processo sottrattivo che non ci arricchisce ma ci impoverisce: gli anglicismi non si aggiungono, ma fanno come il cuculo, le cui uova depositate nei nidi altrui fanno piazza pulita delle altre. Gli anglicismi sono esattamente il contrario del plurilinguismo, sono “monolinguismo”. C'è una bella differenza tra il meticciato inteso come una reciproca mescolanza di due culture e la colonizzazione e la creolizzazione che risultano da processi in cui una lingua dominante schiaccia e snatura quella più debole.

Che cosa pensi sull’uso dello “schwa” o dell’asterisco reclamato da parecchi in nome dell’inclusività di genere?

In italiano si chiamerebbe “la scevà”, al femminile (è un simbolo ebraico), anche se tutti preferiscono la versione in voga in inglese; introduce un suono estraneo all'italiano e diffuso appunto nella lingua inglese, e soprattutto è compatibile con la lingua inglese, ma non con quelle romanze, dove con la scomparsa del neutro latino le parole si sono mascolinizzate e femminilizzate senza un perché razionale. Una della bufale linguistiche più gettonate è quella di far credere che esista una corrispondenza tra il genere grammaticale delle parole e il sesso a cui si riferiscono. Gli esempi di femminili inclusivi sono tanti: persona (femminile), sua maestà o eccellenza (persino sua santità), i nomi degli animali (la tigre, la giraffa...) o di ruoli (sentinella, guida, comparsa...) sono esempi di femminili inclusivi, e anche il dare del “lei” (e fu il fascismo a tentare di abolirlo in favore del “voi”). Ma soprattutto, il maschile o il femminile inclusivo e generico (quest'ultimo più raro) e la discriminazione sono due cose concettualmente diverse che non si possono né devono confondere.

Pensi a un’interferenza che proviene d’oltreoceano?

Sì, ancora una volta siamo in presenza di un'interferenza che da lì proviene come il politicamente corretto. L'adozione della scevà snaturerebbe completamente l'italiano. Dal punto di vista sociologico, è interessante notare come tra i più fanatici difensori del linguaggio inclusivo si annoverino proprio alcuni dei più noti sostenitori del non interventismo nella lingua, che non andrebbe né difesa né orientata. Questi descrittivisti a metà teorizzano che solo l'uso fa la lingua – facendo intendere che questo uso sarebbe un processo democratico – ma si dimenticano di raccontare che l'uso è quello imposto dalle classi dirigenti (come aveva capito Gramsci), dai mezzi di informazione, dai nuovi centri di irradiazione della lingua (per citare Pasolini) che arrivano dall'alto. Davanti agli anglicismi questi “descrittivisti” della lingua dello stivale li giustificano dicendo che non si può certo imporre alla gente come deve parlare, ma quando si vuole “educare” al linguaggio inclusivo o politicamente corretto diventano i più fondamentalisti promotori delle crociate per intervenire sull'uso dunque usano a seconda di come fa loro comodo due pesi e due misure.

Insomma, in queste forme di scrittura non ravvisi una difesa delle diversità

Sai, vorrei vivere in una società dove le donne hanno gli stessi stipendi e le stesse opportunità degli uomini, invece di essere incluse solo con questo femminismo di facciata. E dove gli omosessuali (fino a che non sarà considerato offensivo dire così invece di “gay”), i e le transessuali, bisessuali, asessuati, fluidi – e chi più ne ha più ne metta – fossero integrati indipendentemente dai loro orientamenti sessuali, invece di essere discriminati di fatto e accettati ipocritamente solo sul piano linguistico.

Bene. Ti ringrazio per il tuo intervento. Ho ben capito il problema, le ragioni che lo hanno determinato e i giusti comportamenti linguistici da adottare. So long!

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Antonio Zoppetti
Lo tsunami degli anglicismi
ebook Euro 9.99€ | cartaceo Euro 18.00
Edizioni goWare


Santarcangelo dei Teatri 2023


È giunto alla sua 53esima edizione Santarcangelo dei Teatri.
Rappresenta il più importante, e anche il più longevo, appuntamento italiano, ma non solo italiano, con le nuove forme sceniche che esplorano i territori dell’intercodice, dell’ibridazione dei generi.

La prima edizione ebbe luogo nel 1971 con il nome di “Festival Internazionale del Teatro in Piazza”, .direzione artistica del romano Piero Patino
Già nei primi anni si esibiscono Dario Fo e Franca Rame, Giorgio Gaber, Giovanna Marini, Carlo Cecchi, Memè Perlini, Roberto De Simone, Lina Sastri, Teresa De Sio, Marco Messeri, Rafael Alberti.

Dall’anno scorso la direzione artistica del festival è del polacco Tomasz Kirenczuk.

Giovedì 25 maggio si è tenuta la conferenza stampa per la presentazione del Festival.

“Cosa significa realizzare un festival teatrale in un mondo cosi incerto e iniquo come quello di oggi?” – dice Tomasz Kireńczuk – “Cosa significa organizzare un festival teatrale quando registriamo ovunque non solo limitazioni alla libertà ma anche l’emarginazione dell’arte contemporanea, indipendente e di ricerca? È prima di tutto un privilegio, perché il Festival ci permette di mettere a fuoco questioni politiche e sociali marginali nel dibattito pubblico. È un grande privilegio anche perché il Festival ci dà la possibilità non solo di immaginare un futuro più equo e giusto, ma soprattutto ci offre gli strumenti per renderlo possibile. È cosi che vedo il mio lavoro per Santarcangelo Festival, uno degli appuntamenti più innovativi del panorama europeo, casa per molte artiste e artisti. Sono consapevole che la gestione di un Festival come quello di Santarcangelo sia legata al senso di responsabilità circa lo sviluppo delle arti performative in Italia: credo che questo impegno sia particolarmente importante oggi che la comunità artistica italiana è brutalmente stata toccata dagli effetti sociali ed economici della pandemia. Le esperienze dell’ultimo anno, pieno di solitudine, ci hanno ricordato radicalmente la forza della comunità, il bisogno di essere insieme e il significato della speranza e dei sogni.”

“Tornare a vivere la magia del Festival è quello di cui abbiamo bisogno” – dichiara la sindaca di Santarcangelo, Alice Parma – “dopo le difficoltà che abbiamo vissuto a causa del maltempo. La capacità del Festival di esplorare attraverso l’arte le più attuali tematiche del contemporaneo, non ultima quella ambientale, offre al pubblico non solo una preziosa occasione di riflessione al di fuori della frenesia quotidiana, ma una vera e propria esperienza immersiva che trasforma la città nei dieci giorni della manifestazione. Alle compagnie che abiteranno gli spazi di Santarcangelo va quindi il nostro benvenuto e ringraziamento per quello che sapranno regalarci durante il Festival”.

“Anche quest’anno scegliamo di supportare con entusiasmo Santarcangelo Festival” – afferma Giuseppe Gagliano, Direttore Centrale Comunicazione e Relazioni Esterne del Gruppo Hera – “a conferma del suo valore culturale e della capacità di coinvolgere linguaggi trasversali e multiculturali. Un’edizione ricca e articolata che rinnova visione e sperimentazione creativa, affidando alle arti performative una missione importante: suscitare la riflessione sulle diversità, sull’inclusione e sull’importanza di progettare un futuro più equo per tutti. Prospettive e impegno sociale che ci accomunano al Festival e che la nostra multiutility si impegna quotidianamente a perseguire, generando valore condiviso per il territorio e le comunità servite”.

“Confronto, coesistenza e identità sono sicuramente concetti chiave per un futuro equo e inclusivo. Il tema, con cui si presenta quest’anno il Festival, apre a una serie di interrogativi” – commenta Amalia Maggioli Consigliere Delegato Commerciale, Marketing, Estero del Gruppo Maggioli – “che vogliono essere un prezioso stimolo, non solo per la condivisione di nuove prospettive, ma anche e soprattutto per la costruzione di nuove realtà. Il consolidato rapporto che ci vede al fianco di Santarcangelo Festival da anni, conferma l’importanza che il Gruppo riserva alle persone, alle comunità, al territorio e alla cultura, in particolar modo in ottica di sviluppo futuro. Per Maggioli lo sviluppo è spesso collegato alla digital transformation, al concetto di smart city e inclusione digitale, perché sono la nostra passione e il nostro business, ma alla base di tutto c’è la relazione umana, un senso di cittadinanza e di community che pervade gli spazi. Inoltre, l’attenzione che il Festival riserva al tema della sostenibilità, con il dichiarato impegno volto a ridurre sprechi e consumi attraverso un approccio responsabile, è in linea con la politica di sostenibilità portata avanti con vigore dal Gruppo Maggioli. Siamo parte essenziale di un ecosistema sociale, ambientale e digitale in cui deve vigere il rispetto dei diversi punti di vista e in cui la connettività è uno strumento di maturità sociale. L’arte è uno splendido modo per fissare e divulgare concetti fondamentali, di questo siamo grati al Santarcangelo Festival che se ne fa promotore a livello internazionale”.

Estratto dal comunicato stampa.

«Il claim enough not enough indica una possibilità di mettersi in discussione confrontandosi con il mondo in cui viviamo. Cosa non abbiamo più intenzione di accettare? Di cosa sentiamo la mancanza? Come riuscire a condividere una realtà sempre più caratterizzata da disuguaglianze, ingiustizie e sfruttamento? Partendo dalle proposte artistiche in programma – molte delle quali portatrici di narrazioni poco presenti nel panorama mainstream occidentale – “enough not enough” intende indagare i nostri limiti di consenso e i punti critici che provocano il dissenso, preludio di ogni vero cambiamento.

40 tra performer, gruppi e compagnie per un totale di 96 repliche. La rassegna multidisciplinare diffusa a Santarcangelo di Romagna, per il secondo anno diretta dal curatore, drammaturgo e critico polacco Tomasz Kireńczuk, intende trasformare per dieci giorni il borgo medievale in una “città-festival”, affidando alle arti performative un’importante funzione: quella di essere spazio ibrido e stimolante dove sperimentare visioni alternative. Il corpo, insieme oggetto e soggetto dell'attività artistica, da fonte di discriminazione si trasforma in strumento di liberazione e punto di partenza per la costruzione della propria identità, alimentando la speranza di un futuro più equo e inclusivo in cui coesistere.

La maggior parte delle proposte di “enough not enough” si muove agilmente tra diversi generi performativi – teatro, danza, musica, arte visiva e discipline trasversali – senza rientrare in categorie e pratiche ben definite e incrociando culture ed estetiche differenti. Questa eterogeneità è strettamente connessa con il modo in cui il presente viene letto e portato in scena attraverso le più innovative tendenze del panorama emergente globale e numerose presenze internazionali al loro debutto italiano».

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Ufficio Stampa:

Irene Guzman, mail: irenegzm@gmail.com ; Tel. +39 349 1250956

Matteo Rinaldini, matteo@santarcangelofestival.com ; mob. +39 360 478728
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Santarcangelo dei Teatri
Direzione artistica: Tomasz Kireńczuk
Via Andrea Costa 28 — Cap 47822
Santarcangelo di Romagna (RN)
Informazioni: +39 0541 626185
info@santarcangelofestival.com
Dal 7 al 16 luglio 2023


Tina Turner: 1939 - 2023


Ipercorpo: Marta Roberti


Questa è una notizia che annulla una notizia.
Il disastro provocato dall’alluvione ha, infatti, costretto gli organizzatori a rimandare quanto da loro previsto. Mi riferisco al Festival “Ipercorpo” che doveva tenersi dal 25 al 28 maggio di quest’anno.

Claudio Angelini direttore artistico del Festival dichiara: La tragedia che ha colpito il nostro territorio non permette in alcun modo a Città di Ebla di aprire le porte di EXATR per poter consentire a “Ipercorpo 2023” di aver luogo. Il festival è rinviato in autunno a date da destinarsi. Ora tutte le nostre energie sono orientate per dare una mano a coloro che ci sono prossimi, che a pochi metri da EXATR sono stati meno fortunati di noi e hanno perso molto, in alcuni casi tutto. Ringrazio tutti gli artisti per la comprensione e i curatori del festival per la scelta fatta. Ringrazio inoltre la squadra tecnica e organizzativa di Ipercorpo che convertirà le giornate di lavoro al festival in giornate di lavoro per aiutare la Città di Forlì a risollevarsi. Adesso occorre una presenza diversa da quella che avevamo immaginato.

A settembre per conoscere le nuove date rivolgersi al numero 320 80 19 226.

Pubblico qui la nota che era stata redatta da Cosmotaxi in previsione della partecipazione di Marta Roberti a “Ipercorpo”.

Da tempo questo sito (ma non è il solo) osserva con interesse il lavoro di Marta Roberti (in foto).
Nata a Brescia nel 1977, dopo essersi laureata in Filosofia a Verona nel 2002, ha frequentato l’indirizzo di Cinema e Video all’Accademia di Belle Arti di Brera dove si è diplomata nel 2007. Con il suo lavoro ha partecipato a numerose mostre e festival tra cui: “Visions in the Making”, Istituto Italiano di Cultura, New Delhi (2020); “Wall Eyes”, Keynes Art Mile, Johannesburg e AuditoriumArte, Roma (2019); “Something Else” Biennal Off Cairo (2018); “Portrait Portrait”, Taipei Contemporary Art Center (2016); Scarabocchio”, Kuandu Museum of Art Taipei (2014); “Regeneration”, MACRO, Roma (2012).
Ha tenuto workshop in Sudafrica e in Etiopia, seminari a Shangai e Taipei.
Qui uno sguardo al suo portfolio.

Ora è annunciata la sua partecipazione a Ipercorpo Festival Internazionale delle Arti dal Vivo organizzato a Forlì da Città di Ebla, giunto alla 19esima edizione con la direzione artistica di Claudio Angelini.

QUI il profilo del cartellone.

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Ufficio Stampa Ipercorpo
Nazionale: Sara Zolla | press@sarazolla.com | t. 346.8457982
Locale: Alberto Marchesani | alberto@tuco.info | t. 348.7646934

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http://www.ipercorpo.it | FB. facebook.com/ipercorpo | IG. instragram.com/ipercorpo

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Ipercorpo
Festival Internazionale delle Arti dal Vivo
Diretto da Claudio Angelini
Forlì


Flux Motus (1)


Un luogo d’eccellenza che custodisce tesori di arte contemporanea sta a Reggio Emilia, si chiama Pari&Dispari e lo dobbiamo all’opera competente e appassionata di Rosanna Chiessi (1934-2016), in foto.
QUI la sua biografia.
Di lei ha scritto Renato Barilli “Innumerevoli sono le grandi figure dello sperimentalismo che hanno ottenuto da Rosanna comprensione, appoggio, viva partecipazione, pur con le sue possibilità limitate, ma superate appunto per forza di una misteriosa missione ricevuta da qualche potenza superiore”.
Oltre a Barilli hanno scritto di lei Pierre Restany, Emilio Villa, Eugenio Miccini, Franco Vaccari, Valerio Dehò, Ermanno Cavazzoni, Franco Guerzoni e altri ancora
Per la storia di Pari&Dispari: CLIC.

L’opera di Rosanna Chiessi è oggi continuata dalla figlia Laura Montanari. Non a caso, quindi, protagonista nell’organizzazione della mostra in corso a Reggio Emilia Flux Motus L’avanguardia nella città a cura di Valerio Dehò (per i suoi libri QUI).

Estratto dal comunicato stampa.

«Fluxus è stato il primo movimento artistico transnazionale che ha unito Stati Uniti ed Europa, Oriente e Occidente sostenendo un’arte etica responsabile e partecipativa.
La mostra “Flux Motus” è non solo l’omaggio a Rosanna Chiessi, ma anche un modo per ricordare uno dei fluxisti storici ancora attivi che da decenni ha deciso di vivere a Reggio Emilia: l’appena novantenne Philip Corner, protagonista di una ricerca musicale e performativa che non si è ancora conclusa. Nel 1967 fu proprio Corner a ereditare la cattedra di Musica moderna presso la New School per Social Research che fu di John Cage.
Del resto, è bene il ricordare che Reggio Emilia ha vissuto stagioni importanti in cui il suo tessuto culturale ha prodotto e partecipato alle avanguardie artistiche e letterarie europee, basti ricordare Adriano Spatola e Giulia Niccolai, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta. Agli artisti Fluxus la città ha dedicato numerose mostre da Nam June Paik nel 1990, Wolf Vostell nel 1998, Women in Fluxus nel 2012, con Flux Motus si vuole far riemergere un momento importante della storia culturale della città.
Infatti, saranno esposte oltre 30 opere di Philip Corner, Wolf Vostell, Geoffrey Hendricks, Ben Vautier, Ben Patterson, Bob Watts, Giuseppe Chiari, Alison Knowles, Jackson Mac Low, Yoko Ono, Takako Saito, Nam June Paik, Charlotte Moorman che testimoniano l’ampiezza dei linguaggi espressi da questo movimento. La presenza di multipli e di edizioni documenta perfettamente un’esigenza degli anni Settanta: offrire opere d’arte che fossero accessibili da parte di un pubblico vasto. L’opera moltiplicata aveva lo scopo di divulgare idee estetiche e politiche, era una scelta di allargare i confini del mondo dell’arte in funzione di una concezione dell’arte come superamento dell’estetica borghese e decorativa, e consapevole presa di coscienza del suo ruolo nella società».

Segue ora un incontro con Laura Montanari.


Flux Motus (2)


A Laura Montanari ho rivolto un paio di domande.

Qual è stata l’importanza di Fluxus nella storia delle arti contemporanee?

Il movimento internazionale Fluxus, promosso da George Maciunas, nasce 60 anni fa con il Fluxus ”Internationale Festspiele Neuester Musik” di Wiesbaden del 1962, rivoluzionando il linguaggio dell’arte e fondendo le istanze rinnovatrici culturali, sociali e politiche in un unico fronte d'azione. Fluxus, fortemente influenzato da Marcel Duchamp e dalle idee di ì John Cage sulla sperimentazione, perviene all’ARTE TOTALE, idea fondamentale per tutta l’arte contemporanea, con la contaminazione della pratica estetica, unendo diversi media e diverse discipline artistiche, performance, musica sperimentale/rumorismo pittura, fotografia, letteratura, teatro, danza. Gli artisti di tale movimento, abbandonando ogni concezione specialistica e ogni divisione tra le ideologie e le competenze, esprimono la casualità e la quotidianità delle cose: non si basano sullo studio di oggetti privilegiati ma rappresentano l’arte attraverso un concetto ludico, non basato su valori estetici, per concentrarsi su humor e non-sense. Il Fluxus conosce una diffusione planetaria, dall’America all’Europa, dal Giappone alla Corea e si estende presto anche in Italia. Tra i principali artisti si ricordano Nam June Paik, Wolf Vostell, Daniel Spoerri, John Cage, Yoko Ono, Sylvano Bussotti, Charlotte Moorman, Al Hansen, Geoffrey Hendricks, Joe Jones, Dieter Roth, Takako Saito, Bob Watts, Dick Higgins, Alison Knowles, Philip Corner, Milan Knizak, Jackson Mac Low, AY-O, Giuseppe Chiari, Emmett Williams. Il legame tra il movimento Fluxus e l’Italia diventa molto stretto negli anni ‘70, quando gli artisti trovano collezionisti, editori, galleristi che con entusiasmo sostengono le loro produzioni. Tra questi – come hai prima ricordato – spicca la figura di Rosanna Chiessi.

Qual è l’eco di Fluxus nello scenario artistico dei nostri giorni? E dove la sua presenza più recente?

Fluxus si è diffuso tramite istituzioni culturali pubbliche e private utilizzando i diversi media. La varietà espressiva dei linguaggi degli artisti (musica, poesia, danza, ecc.), la profonda ironia, l’abbandono dei valori estetici tradizionali, costituisce un legame che oltrepassa i canali istituzionali, commerciali, archivistici ma coinvolge tutt’ora anche gli spazi privati. Questi aspetti rendono gli artisti Fluxus molto “contemporanei” e appetibili da molte gallerie private e centri culturali che con eventi propri fanno conoscere il movimento al di fuori dei circuiti museali.
Recentemente sono state numerose le esposizioni pubbliche e private, ne cito solo alcune, che si sono svolte negli ultimi 2 anni, la grande mostra retrospettiva di Alison Knowles a Berkley, l’esposizione al Museo di Villa Croce a Genova, la mostra “Arte Totale” a Napoli negli spazi di FrameArs Arte e questa reggiana “Flux Motus. L’avanguardia nella città”, inaugurata il 13 maggio 2023.
Numerosi sono anche gli eventi, concerti, performance con protagonisti i grandi maestri di Fluxus, ancora in attività, come Philip Corner. Il messaggio Fluxus ha trovato nella musica il canale probabilmente principale per diffondersi tra le giovani generazioni di artisti e musicisti e a questo proposito ricordo tre giovani interpreti che sono diventate protagoniste della scena Fluxus, Deborah Walker, Silvia Tarozzi ed Agnese Toniutti. Cito infine l’evento pubblico, promosso da Fondazione Bonotto e finanziato dal Fondo nazionale svizzero per la scienza presso l’Accademia delle arti di Berna, “Activating Fluxus: In and Out of the Archive”, del 5 maggio 2023, per rilanciare il movimento Fluxus ripartendo dagli Archivi.

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Flux Motus
A cura di Valerio Deho’
in collaborazione con
l’Archivio Storico Pari&Dispari
VV8artecontemporanea,
Via dell’Aquila, 6/c , Reggio Emilia
Info: Tel. 0522 – 43 21 03,
Orari: da martedì a sabato
ore 10.00 -13.00 e 16.00 -19.30
Fino al 30 giugno 2023


Mussolini racconta Mussolini


Ha scritto lo scrittore polacco Stanislaw Lec: “Il sogno dei tiranni: tagliare la testa ai cittadini e tenerli in vita”.
Fu anche il sogno del tiranno domestico Benito Mussolini.
Di lui diceva Piero Gobetti: “Egli non ha nulla di religioso, sdegna il problema come tale, non sopporta la lotta con il dubbio: ha bisogno di una fede per non doverci più pensare, per essere il braccio temporale di un'idea trascendente. Poteva essere il duce di una Compagnia di Gesù, l'arma di un pontefice persecutore di eretici, con una sola idea in testa da ripetere, da far entrare "a suon di randellate" nei "crani refrattari".
Mussolini… un uomo che dopo avere esaltato a parole in tonitruanti discorsi coraggio ed eroismo termina i suoi giorni fuggendo, travestito da soldato tedesco (ve lo immaginate il suo compare Hitler finire così?) portando con sé un tesoro di ricchezze sottratte al popolo italiano. Un tipo che stampava la sua immagine in gigantografie che occultavano un piccolo uomo. Quanto alla leggenda di “dittatore buono”, ecco un’altra bugia sul suo conto. Basti pensare agli omicidi di oppositori che lo videro mandante, nella vita privata l’indegna condotta tenuta con il suo figlio segreto e Ida Dalser madre di quel ragazzo. Ed i suoi uomini a caccia di ebrei mandati a morire nei lager?

Esistono molte biografie di Benito Mussolini ma mai nessuno aveva pensato di lasciare la parola al duce stesso, al racconto che della sua vita troviamo in pagine autobiografiche, tra cui molte inedite o dimenticate. Così scopriamo cosa pensava Mussolini della propria vita, come la raccontava agli altri, e come modificò questa autorappresentazione nel corso della sua esistenza.
La casa editrice Laterza ha il merito di avere pubblicato questa eccezionale testimonianza: Mussolini racconta Mussolini
L’autore è lo storico Mimmo Franzinelli
Studioso del fascismo e dell’Italia repubblicana, è membro della Fondazione “Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini” di Firenze. Tra i suoi più recenti libri, Il filosofo in camicia nera. Giovanni Gentile e gli intellettuali di Mussolini (Mondadori 2021) e L’insurrezione fascista. Storia e mito della marcia su Roma (Mondadori 2022).
Per Laterza ha curato “l’Epistolario 1943-1967 di Ernesto Rossi” (2007), “Oltre la guerra fredda” (2010); “Storia della Resistenza” (con Marcello Flores, 2019); “Storia della Repubblica Sociale Italiana 1943-1945” (2020); “Il fascismo è finito il 25 aprile 1945” edito nel 2022. “Mussolini racconta Mussolini” è del 2023).

Potete leggere QUI un’intervista rilasciata a questo sito in occasione dell’uscita del suo “Il fascismo è finito il 25 aprile 1945” (titolo al quale ha volutamente omesso il punto interrogativo).

Mussolini e le donne. Uno degli aspetti del duce che hanno avuto più eco nei racconti popolari. Ecco tre illuminazioni di Franzinelli sul tema. Le trovate in video sia QUI sia QUI e ancora QUI.

“Mussolini racconta Mussolini” un libro da leggere per sempre meglio conoscere l’abisso in cui tanti italiani scambiarono per una vetta della loro storia.
Abbiamo imparato la lezione? Pare proprio che siano legittimi molti dubbi al riguardo.

Dalla presentazione editoriale.

«Fin da giovane, addirittura dal 1911, Benito Mussolini aveva cominciato a scrivere pagine in cui raccontava la propria vita. Aveva proseguito durante la prima guerra mondiale con un diario in cui raccontava le sue avventure di cronista militare dal retrofronte. Nel 1932 aveva a lungo dialogato con il giornalista tedesco Emil Ludwig per descrivere la vita di un dittatore sotto le luci della ribalta e dietro le quinte. A raccontarci il crollo dall’altare alla polvere e il trauma provocato dalla perdita del potere, ci sono poi le numerosissime lettere e confessioni a Claretta Petacci e le riflessioni sulla prigionia dell’agosto 1943. Insomma, una documentazione straordinaria, qui raccolta per la prima volta, che mostra quanto Mussolini desse peculiare rilievo alla sua immagine, come imponesse una determinata visione di se stesso, consapevole del fatto che, dinanzi alla folla, spesso è l’abito a fare il monaco. “Mussolini racconta Mussolini” à un libro utile per riconsiderare una delle figure fondamentali del Novecento italiano, mostrandocene la psicopatologia, dalla rincorsa al potere alla gestione dittatoriale dello Stato, sino al sanguinoso tramonto di Salò. Un libro innovativo, che colma, finalmente, una lacuna rilevante».

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Mimmo Franzinelli
Mussolini racconta Mussolini
Pagine 336, Euro 20.00
Laterza


Il pollo di Marconi

No, non si tratta di un ennesimo volume firmato da chef famosi in tv, ma di un libro fra i più divertenti che mi sia capitato di leggere da qualche tempo a questa parte.
Il titolo già l’ho annunciato: Il pollo di Marconi. Il sottotitolo però indica la linea birichina delle pagine: e altri 110 scherzi scientifici.
A questo punto di solito va inserito il nome dell’autore e il suo profilo professionale, stavolta mi risparmio la fatica e faccio dire proprio a lui, cioè a Vito Tartamella tutto quanto imponendoglielo con un CLIC.
L’autore, l’avrete capito, è un tipo ben lontano dalla uggiosa severità di molti giornalisti scientifici, eccone un esempio nel modo in cui del suo libro fa il trailer.

Gli scherzi raccontati hanno la caratteristica di essere stati veramente realizzati burlandosi ora del pubblico, ora di riviste scientifiche ed ora ancora proprio di scienziati facendoli precipitare in trappole irridenti.
Una beffa, fra le più riuscite è diventata nota col nome di Stronzo Bestiale, ascoltate com’è nata e quali esiti ha avuto cliccando QUI.

Perché il libro si chiama “Il pollo di Marconi”? Perché si riferisce a una burla architettata dal giovane Guglielmo Marconi ai danni di una sua inserviente… si dirà ‘bella forza far cadere in un imbroglio una povera ragazza’, ma, come si apprende nel libro, il grande Guglielmo in gioventù si fece beffe anche di un cardinale prima di mestamente ingrigire la sua vita privata nel fascismo.
Perché il libro si chiama “Il pollo di Marconi”?... ancora?!... se racconto qui di che cosa si tratta succede che alla casa editrice Dedalo s’arrabbiano e quindi… quindi comprate il libro e lo saprete.

Dalla presentazione editoriale.

«La NASA che annuncia d’aver trovato l’inferno su Mercurio. La rivista “Nature” che pubblica uno studio sui draghi. Il fondatore di Virgin, Richard Branson, che atterra nelle campagne di Londra a bordo di un finto UFO. E poi studi firmati da cani, gatti, criceti. E dal professor Stronzo Bestiale.
Negli ultimi 150 anni riviste scientifiche, enti di ricerca e scienziati (compresi premi Nobel) di tutto il mondo hanno escogitato scherzi clamorosi. Questo libro li racconta per la prima volta: ironici e provocatori, spesso sono un modo per smascherare pregiudizi e stereotipi, portando a galla verità scientifiche (e umane) inaspettate»

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Vito Tartamella
Il pollo di Marconi
Con illustrazioni e foto
Pagine 288, Euro 17.10
Edizioni Dedalo


Il dominio dei robot

A partire dalla seconda metà del XX secolo si sono avuti i primi segnali su come il futuro avesse cambiato natura. Dapprima fisicamente rappresentato, si è sempre più dematerializzato fino ad oggi in un’alba transumana, così come sono definiti i nostri recenti anni da alcuni antropologi.
La tecnofilosofia di Max More, di Eric Drexler il pensiero di Ray Kurzweil con la sua Teoria della Singolarità (oggi studiata nell’Università da lui fondata con i finanziamenti della Nasa e di Google), la genetica, le nanotecnologie, la robotica cognitiva, l'intelligenza Artificiale, sono elementi che vanno a disegnare un futuro non più affidato all’immaginazione, ma alla realtà di laboratori dove ci sono state realizzazioni o sono in corso ricerche che cambieranno la società e le sue regole, le psicologie di gruppo e il pensiero politico, in un lontano futuro la stessa creatura umana se così ancora la si potrà definire, e in parecchi ne dubitano. Come, ad esempio Kevin Warwick il quale sostiene che il prossimo passaggio dell’evoluzione potrebbe non essere scritto in un libro di biologia ma di informatica per effetto della sempre più raffinata ibridazione Uomo-Macchina.
In un momento, come l’attuale, la figura del robot già ricopre molteplici ruoli: nell’assistenza medica (diagnosi, chirurgia, riabilitazione), nella domotica, nell’industria, nei trasporti, nello sport, nell’arte, suscitando dibattiti sociologici, etici, politici.
Le pubblicazioni che trattano le nuove tecnologie sono in larghissima parte divise fra gli apologeti del futuro e i profeti di sventure che proprio il futuro possa recapitare. Questi ultimi sono in maggioranza perché quando si parla della paura che hanno le persone nei confronti delle macchine bisogna considerare che gli esseri umani proiettano su qualunque altra individualità, artificiale o naturale, i propri errori e le proprie debolezze.
Si aspettano dagli altri quello che la versione peggiore di loro stessi farebbe.
La casa editrice il Saggiatore ha pubblicato un libro che è fra quei rari testi i quali dell’avvenire, prossimo e meno prossimo, tracciano con saggio equilibrio vantaggi e pericoli dimostrando come le stesse leggi del progresso (si legga ad esempio quanto sostiene Paul Virilio) comportino inevitabilmente il buono e il meglio insieme con il cattivo e il peggio.
Dovremmo essere contro l’elettricità perché si è avuta la sedia elettrica? O rinunciare alle telecamere di servizio che hanno permesso l’arresto di tanti criminali perché sono – ed è vero – uno strumento di controllo sociale sorvegliando tutti noi?
Titolo e sottotitolo della pubblicazione del Saggiatore: Il dominio dei rebot Come l'intelligenza artificiale rivoluzionerà l'economia, la politica e la nostra vita.

L’autore è Martin Ford.
Fondatore di un’azienda di software con sede nella Silicon Valley, scrive di tecnologia e automazione per diverse riviste, tra cui The New York Times, Fortune, Forbes, The Guardian, Financial Times, oltre a tenere conferenze sull’argomento in tutto il mondo.
Nel 2017, di Ford Il Saggiatore ha pubblicato “Il futuro senza lavoro”

“Il dominio dei robot” si sofferma principalmente sull’Intelligenza artificiale (in acronimo AI, seguendo la dizione inglese) L’Intelligenza Artificiale non è cosa nata in tempi recenti o recentissimi, per trovarne le prime tracce. dobbiamo fare un salto all’indietro sul calendario e arrivare al 1955. Precisamente al 31 agosto di quell’anno quando Marvin Minsky e John McCarthy coniarono allora il termine “intelligenza artificiale” e annunciarono un convegno a Dartmouth che segnò un radicale mutamento nel rapporto tra l’uomo e le macchine.
Intorno all’AI si sono levate molte voci specialmente dopo le dimissioni del padrino dell’Intelligenza Artificiale, lo psicologo cognitivo e scienziato informatico Geoffrey Hinton che allarmato ha detto: "I chatbot non sono più intelligenti di noi ma presto potrebbero esserlo".
Negli ultimi anni, le nuove tecnologie hanno fatto passi da giganti, dando luce al mondo del touch, della 3D alteration, degli smartphone, di app che possono, addirittura, valutare lo stato di salute dell’essere umano monitorarlo costantemente. Se parole come deep fake, chatbot, biohacking sono entrate nel lessico quotidiano di molti, la sfida dell’intelligenza artificiale è ancora tutta da giocare.
Martin Ford in “Il dominio dei robot” afferma, ad esempio, che pur trascurando catastrofisti che sconfinano nella fantascienza distopica, un problema reale è la versatilità delle nuove macchine che, per esempio, sostituiranno tanti lavori svolti da noi umani di oggi creando disoccupazione. Questo, però, è stato vero anche in passato quando con la rivoluzione industriale si passò dal sistema agricolo-artigianale-commerciale al sistema industriale moderno caratterizzato dall'uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica e dall'utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate. In questi cambiamenti epocali, però, nascono nuovi mestieri e professioni. Fino a pochi anni fa chi avrebbe previsto l’esistenza del webmaster? Del programmatore informatico? Dell’analista di data base? Si tratta, quindi, di fare di un’emergenza un’opportunità. In altri paesi europei, la disoccupazione – specie giovanile – non è alta come in Italia, e pure là sono arrivate le nuove tecnologie. Via, non diamo tutta la colpa ai robot! Ma anche ad una politica che non favorisce investimenti, ad una scuola non aperta a nuovi mestieri e professioni.
Rinunciare perciò a tanti vantaggi del progresso? No, ma studiare i modi per prendere il più possibile il meglio dal nuovo, riducendone i rischi.
Come costruire un futuro che abbia a che fare con l’intelligenza artificiale e che allo stesso tempo risulti benefico? Come includere l’intelligenza artificiale nel praticare un domani migliore che non rappresenti una minaccia? La soluzione risiede molto probabilmente nel progettare con e per le persone: L’Intelligenza Artificiale deve avere al centro l’essere umano che l’ha creata.
Il futuro non lo si ferma. Secondo parecchi futurologi, grazie all’Intelligenza Artificiale in un tempo meno lontano di quanto s'immagini impareremo codici capaci di svelare nuovi segreti della natura, passeremo la barriera dell'infinitamente piccolo, si dilaterà la concezione di Spazio, saremo capaci di percepire nuovi stati e livelli di esistenza, la nostra coscienza-mente-identità sarà più vasta e ne saremo consapevoli.
Sta a noi fare del futuro un’epoca migliore di quella presente.
Ogni passo del progresso scientifico ha comportato anche problemi pratici ed etici.

Dalla presentazione editoriale.

«Sono tra noi. Forse non avranno le fisionomie umanoidi sognate da Asimov o le inquietanti capacità rigenerative dei cyborg di Terminator, e nemmeno la volontà di potenza delle macchine di Matrix, ma i robot sono oggi una realtà: l’innovazione tecnologica ci ha permesso di costruire automobili senza conducente, app che traducono segni incomprensibili in frasi di senso compiuto, abitazioni che accendono luci e riscaldamento a nostro comando. E questo è niente in confronto alle rivoluzioni che altri dispositivi, ancora più sofisticati, stanno mettendo in atto. Martin Ford ci guida all’interno delle implicazioni presenti e future dell’evoluzione dell’intelligenza artificiale: dalla completa automazione di ristoranti e supermercati alla fabbricazione di armi capaci di uccidere senza intervento umano; dai robot disinfettanti in grado di eliminare ogni batterio da una camera d’ospedale agli algoritmi impiegati nella selezione del personale (che hanno imparato da noi a discriminare in base a genere ed etnia); dalle scoperte in ambito chimico, sanitario ed energetico rese possibili dal deep learning ai raffinati sistemi di riconoscimento facciale utilizzabili dai governi per identificare gli oppositori politici; fino alla chimera dell’AGI, l’«intelligenza artificiale generale» che, se realizzata, permetterebbe a una macchina di comunicare, ragionare e concepire idee al livello di un essere umano o addirittura superiore. Il dominio dei robot è un’affascinante narrazione scientifica che, alternando esperienze personali dell’autore, interviste a specialisti del settore e i dati delle più recenti ricerche, ci rivela il panorama delle trasformazioni economiche e sociali che affronteremo nei prossimi anni. Una riflessione illuminante, per capire se quello che abbiamo davanti è l’inizio di una nuova era o la fine della nostra. Un viaggio tra le promesse e le minacce dell’intelligenza artificiale per comprendere quale futuro i robot hanno in serbo per noi».
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Martin Ford
Il dominio dei robot
Traduzione di Alessandro Vezzoli
Pagine 320, Euro 24.00
il Saggiatore


Al rogo! Al rogo!!


10 maggio 1933. Ricorre oggi una data da non dimenticare.
Perché accadde un avvenimento dalla forza simbolica che ancora adesso impone riflessioni non solo su quel tempo lontano, ma anche sul presente.

10 maggio 1933: nella piazza del Teatro dell'Opera di Berlino i nazisti in un grande rogo diedero alle fiamme i libri che contrastavano la loro ideologia.
Contemporaneamente anche in altre città si ebbero altre pire.
Il ministro della Propaganda del Terzo Reich, Joseph Goebbels alla radio pronunciò un violento discorso, dicendo: “Studenti, uomini e donne tedesche, l’era dell’esagerato intellettualismo ebraico è giunto alla fine. Il trionfo della rivoluzione tedesca ha chiarito quale sia la strada della Germania e il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con tale scopo che vogliamo educarvi. Vogliamo educare i giovani ad avere il coraggio di guardare direttamente gli occhi impietosi della vita. Vogliamo educare i giovani a ripudiare la paura della morte allo scopo di condurli a rispettare la morte. Questa è la missione del giovane e pertanto fate bene, in quest’ora solenne, a gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato. È un’impresa forte, grande e simbolica, un’impresa che proverà al mondo intero che le basi intellettuali della repubblica di novembre si sono sgretolate, ma anche che dalle loro rovine sorgerà vittorioso il padrone di un nuovo spirito”.

Non era la prima volta nella storia di noi umani che dei libri venivano inceneriti.
QUI un parziale riassunto nei secoli di quell’infamia. Riassunto non esaustivo perché, per dirne una mica da poco, ho notato che non è ricordata la “Rivoluzione culturale” maoista durante la quale furono dati alle fiamme milioni di libri “borghesi e imperialisti”. I comunisti russi, anni prima, erano stati più efficaci colpendo fisicamente alcuni artisti e intellettuali e terrorizzando quanti non si allineavano alle direttive kominterniste fino ad arrivare anni dopo alle cosiddette purghe staliniste dove trovarono la morte tanti fra narratori, poeti, pittori, musicisti.
E ancora: in Polonia, pochi anni fa, preti cattolici hanno dato alle fiamme libri considerati blasfemi.
Insomma, i libri li bruciano tutti quelli che credono in un pensiero unico e quando in un paese si afferma un governo totalitario, di qualunque colore sia dipinto, i volumi ad esso contrario corrono gravi rischi e, subito dopo o subito prima, rischi gravi anche per i loro autori.

Sul 10 maggio 1933 esiste una buona documentazione in Rete, ho scelto il filmato che segue perché mi è sembrata una trasmissione ben condotta, troverete giovani studiosi, un affermato saggista, foto e filmati d’epoca. CLIC!


Paesi miei: Poesie catastali

Raymond Queneau (lo ricordo ai più distratti è tra i fondatori dell’Oulipo e autore di quel capolavoro intitolato Centomila miliardi di poesie) sosteneva che “il tragico greco mentre scrive i suoi versi obbedendo a regole ferree che conosce perfettamente è più libero del poeta che scrive quello che gli passa per la testa e che è schiavo inconsapevole di regole che ignora”.
Se poi quelle regole se le impone il poeta stesso, ecco che abbiamo, come è stato scritto, “Un prigioniero che costruisce la propria prigione per poi evadere dalla stessa” oppure, aggiungo io, danzarvi dentro.
Uno di questi felici prigionieri è Giuseppe Varaldo con il quale nell’aprile 2003 mi ritrovai nell’enoteca dell’Enterprise come potete verificare QUI.
Varaldo fa parte dell’Oplepo gemello omozigota dell’Oulipo ideato in Italia da Lello Aragona anni fa, quel medesimo Aragona autore del recente Elogio di sé stesso.

Il grande Gozzano ricorda “quel dolce paese che non dico”, Varaldo, invece, ne ricorda ben 20 di paesi e città nel suo recente Paesi miei Poesie catastali.
Perché catastali? Lascio a lui la parola.
«Premesso che ciascuno dei quasi 8000 comuni italiani è contraddistinto da uno specifico “Codice catastale”, costituito, nell’ordine, da una lettera maiuscola compresa fra la A e la M e da un numero di tre cifre, ho deciso di comporre venti ottave, dedicate ad altrettanti comuni italiani, nelle quali tutte le parole utilizzate rispondessero all’uno o all’altro di questi due requisiti: o avere lo stesso numero di lettere indicato da uno di quei tre numeri; o, se la lettera è una vocale, essere monovocaliche rispetto a essa, mentre, se la lettera è una consonante, essere monoconsonantiche rispetto a essa. Per usuale convenzione ho considerato 0 = 10 e, nel caso di apostrofo, il prima e il dopo come un’unica parola»

Per esemplificare scelgo una composizione dedicata a Rocca San Casciano, codice catastale H437. I nomi “Anna” e “Manu” sono rispettivamente moglie e figlio dell’autore.

Per Anna nata qui conosco ben
‘sto sito sia lezioso che dimesso,
che già Firenze ha accolto nel suo sen,
seppure oggi alla Romagna annesso:
non circoli, pro loco, tabarin,
solo tre bar modesti. Però esso
vide Manu giocare, crescer poi,
per cui insulso mai sarà per noi

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Giuseppe Varaldo
Paesi miei
18 Pagine
Sip
Edizioni Oplepo
info@oplepo.com


L'ironia del disincanto

Non è raro che artisti pur stimati da parecchi importanti nomi dello scenario culturale non pervengano al grande pubblico. Uno di questi casi è impersonato da Momò Calascibetta (Palermo 1949 – Erice 2022).
QUI un suo profilo e QUI notizie, da lui stesso commentate, della rara malattia, almeno in Italia, che lo colpì portandolo alla fine.
Fra i suoi estimatori: Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gillo Dorfles, Marco Meneguzzo, Liana Bortolon, Gesualdo Bufalino, Giovanni Quadrio Curzio, Mario De Micheli, Philippe Daverio.

Lo ricorda una grande mostra, a sei mesi dalla sua scomparsa, in corso a Marsala intitolata L’ironia del disincanto ordinata con competenza e passione dall’architetto Enrico Caruso che ha immaginato due macrosezioni scandite in dieci nuclei narrativi. Oltre settanta le opere in mostra che, dal 1983 – quando iniziò l’avventura di Calascibetta a Milano – fino all’estate del 2021, anno dell’ultima mostra al Museo Riso di Palermo, scandiscono l’arco di una vita dedicata all’arte che ha avuto inizio a Palermo, con la prima mostra a Palazzo Vescovile curata da Maurizio Calvesi nel 1976.
A proposito della Mostra a Marsala, Caruso dice: A guidarci è stato il disincanto e la denuncia di Momò che osserva un’umanità sempre meno impegnata, dove donne e uomini sono ludicamente immersi in una perenne atmosfera festaiola. Visionario e grottesco, ironico e irriverente. Fu mirabile sceneggiatore e maniaco del dettaglio di una pittura al contempo colta e pop: florida di citazioni e fiorita di sberleffi e caricature all’indirizzo di potenti e potentati.

Momò Calascibetta
L’arte del disincanto
A cura di Enrico Caruso
Convento del Carmine
Piazza Carmine, Marsala
info@pinacotecamarsala.it
Fino al 4 giugno 2023


Il viandante musicale


La casa editrice Adelphi propone nelle sue novità un interessante libro di Roberto Darrnton (“Editori e pirati”, 498 pagine, 38 euro) che tratta di un sorprendente fenomeno dell’Età dei Lumi: la pirateria nel mondo dei libri. Il volume esce nei Saggi. Nuova Serie. E proprio frugando in quella parte di catalogo adelphiano, ho colto il titolo di un autore che mi è caro di cui scrivo appresso.

Era da poco in libreria Vivere senza paura (Scritti per Mario Bortolotto) a cura di Guido Zaccagnini e Jacopo Pellegrini quando proprio il grande Guido, sempre straziante la sua assenza fra noi, mi presentò a Mario Bortolotto.
Mesi dopo a lui proposi un’intervista su questo sito web, dove ho ambientato incontri nella taverna spaziale dell’astronave Enterprise di Star Trek. La riporto QUI.

Adelphi ha pubblicato numerosi libri di Bortolotto, fra quelli ha stampato Il viandante musicale con la cura editoriale di Jacopo Pellegrini e Roberto Colajanni.
Un libro che concorre in modo maiuscolo a comporre un quadro del pensiero musicale di Bortolotto.

Dalla presentazione editoriale.

«Per oltre cinquant'anni, a partire da Chopin o del timbro, Mario Bortolotto è stato la guida indispensabile per chiunque volesse avventurarsi in quel territorio sconfinato e irto di pericoli che è la musica moderna (dal Lied romantico all'Ottocento russo e francese, all’Opera, passando per Wagner e Strauss, fino alla Nuova Musica). E lo è stato per una ragione ben precisa: la sua ineguagliata capacità – unita a una conoscenza della materia pressoché sterminata – di far parlare la musica. Qualcosa di paragonabile forse soltanto a quello che seppe fare Roberto Longhi con la pittura italiana.
All'attività di storico e musicologo Bortolotto ha affiancato per tutta la vita quella di critico, beffardo e infallibile, che ha esercitato instancabilmente in giro per il mondo. Ma questa nuova scelta di suoi scritti mostra ancora una volta, come sempre in tutte le direzioni (da Beethoven a Strawinsky, da Schubert a Stockhausen), quale fosse la sua vera e più segreta vocazione: essere un viandante – fedele soltanto a quell'arte obliqua che amava attribuire a Brahms, ma di cui lui stesso fu maestro insuperato: «l'incomparabile dono del dire le cose a metà, del dirle e non dirle, in modo da alludere o indicare sempre orizzonti che all'inizio non erano in gioco, non erano annunciati».

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Mario Bortolotto
Il viandante musicale
Pagine 518, Euro 32.00
Adelphi


Zio Igna a passo 8

John Irving: “La memoria è un mostro, tu dimentichi… essa no. Credi di avere una memoria. Ma è la memoria che ha te".
Umberto Eco: “La memoria è legata all’oblio e ha un senso solo quando è selezione”
Cesare Pavese: “Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi”.
Bob Dylan canta: "Abbi cura dei tuoi ricordi perché non puoi viverli di nuovo".
La memoria, insomma, è lo scrigno che contiene tutto di noi, tutto quanto sappiamo che ci ha preceduto e ci circonda.
Ci sono anche scienziati che studiano la maniera di cancellare i cattivi ricordi (… faccio per loro un tifo accesissimo), tanto per dire quanto la memoria sia oggetto di attenzioni scientifiche particolari oltre a quelle destinate a curare patologie neurologiche.
Tantissime poi le presenze della memoria in letteratura, per fare un solo esempio fra i molti famosi basti pensare “Alla ricerca del tempo perduto”; Proust, infatti, infatti, ripercorre la memoria di mezzo secolo iniziando dalla famosa ‘madelaine’ per poi finire, tremila pagine dopo, a una festa nella quale i personaggi “sono invecchiati e malfermi come se stessero su palafitte costruite su vite di ricordi”.
Perché oggi l’ho presa fitta sulla memoria, sui ricordi? Perché esco dalla visione di un film intitolato Zio Igna a passo 8, ne è regista Loriana Lucarini che firma anche la sceneggiatura con Lamberto Lucarini.
La Lucarini nata a Roma nel 1969, si è laureata in Lettere, indirizzo Medolologia della Critica dello Spettacolo, all’Università La Sapienza di Roma. È stata responsabile del Laboratorio Audiovisivi del Dipartimento Comunicazione Letteraria e Spettacolo dell’Università Roma Tre.
Dal 1996 in Rai è montatrice tra le più apprezzate e volute sia da programmisti interni, sia da autori esterni. Giusto per ricordare solo qualche titolo fra i più recenti: “La grande Storia"; “Correva l’anno”; “La storia siamo noi”; ”Città segrete”; per la serie ‘Gli occhi cambiano’, il premiato “Tifare” di Walter Veltroni.

Non sono il primo ad accorgersi del valore di quella pellicola (cui partecipano Stefano Bartezzaghi, Alessandro Benvenuti, Umberto Broccoli), infatti, “Zio Igna a passo 8” è stato selezionato alla 75esima edizione del Cinema di Salerno e invitato a partecipare in rassegne cinematografiche italiane e straniere.

Zio Igna (in foto), il protagonista, è Ignazio Fiocchi. Usava lo pseudonimo anagrammato del suo nome Ignazio voltandolo in Zio Igna. Si è spento a 84 anni nel 2018. Molto noto fra gli enigmisti, essendo un famoso rebussista, assiduo collaboratore della Settimana Enigmistica.
Non fu solo ambasciatore della Sfinge, ma anche un appassionato cineamatore documentando attraverso decenni, con leggerezza ed umorismo, cronache familiari (la fine degli esami universitari… il servizio militare…autoironiche gags), tic e tabù del paese Italia (la psicosi di una nuova guerra… il Totocalcio… la minigonna) avvenimenti clamorosi (la neve a Roma del ’73… l’allunaggio… il referendum sul divorzio…l’invasione della Cecoslovacchia appresa dalla radio).
Le scene e il suono provengono dalle pellicole e dalle bobine audio da lui registrate all’epoca degli avvenimenti raccontati.
Loriana Lucarini, cugina di Zio Igna, ha raccolto quelle sequenze girate in 8mm e ne ha fatto un piccolo gioiello cinematografico realizzando non solo il ritratto di un singolare, poliedrico, personaggio, ma esprimendo al tempo stesso una doppia riflessione: sul potere delle immagini di repertorio e sulla suggestione esercitata dalle schegge della memoria. Nel vedere il film – sapientemente scandito da figure di rebus – il mio pensiero andava a Georges Perec e al suo “Mi ricordo”, perché anche qui nuclei di memoria fluttuano dispersi ma non smarriti in un’esistenza là di cellulosa qui di celluloide.

Ricordi… ricordi… ricordi. Dopo avere pensato e detto tutto il bene possibile che merita il film di Loriana Lucarini, mi pongo una domanda che, forse, non riguarda solo me, ma qui a me solo ovviamente la rivolgo: ricordare tutto, ma proprio tuttotuttotutto è un bene?
E poiché ho citato Umberto Eco in apertura, lo faccio anche in chiusura. In una Bustina di Minerva di anni fa scrisse che molte guerre si combattono ancora ricordando offese lontanissime nel tempo e sarebbe stato tanto meglio che su quei ricordi fosse sceso l’oblio a cancellarli… a quando risale quella Bustina?... scusate non lo ricordo.

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Zio Igna a passo 8
di Loriana Lucarini
Produzione indipendente
Minutaggio: 67’00”


Il teschio di Mengele

Siamo abituati oggi da film e trasmissioni tv (da "Csi" a “Delitti al microscopio”) a considerare routine le indagini dei reparti scientifici delle polizie che riescono a risalire a un colpevole da minime tracce lasciate dal criminale di turno. Un tempo, però, le cose stavano diversamente. Rinvenire certezze su oggetti e corpi era molto difficile.
Un momento importante nella storia delle indagini forensi è legata alla caccia a uno dei ricercati nazisti tra i più famigerati: il dottor Mengele, l’Angelo della Morte di Auschwitz. Quella caccia si concluse nel 1986, quando i suoi resti, rinvenuti in Brasile dentro una sepoltura intestata al falso nome di Wolfgang Gerhard, vennero identificati da un gruppo internazionale di esperti forensi con tecniche particolari.
Mengele era uno dei più terribili aguzzini fra i medici nazisti. Le sue, improbabili, ricerche scientifiche portavano alla morte anche bambini, specialmente se gemelli monozigoti, dopo terribili torture che terminavano con un’iniezione di fenolo al cuore delle vittime oppure alla fine di efferati esperimenti inviati su suo ordine alle camere a gas.
Mengele sfuggì alla cattura degli agenti del Mossad guidati da Rafi Eitan perché quegli stessi uomini del servizio segreto israeliano, ricevettero l’ordine di prenderlo nei giorni in cui erano impegnati nella cattura (riuscita) di Adolf Eichmann.
L’Angelo della Morte morirà a 67 anni nel 1979 mentre nuotava.

La casa editrice Meltemi ha pubblicato un libro indicato come migliore volume dell’anno dall’Institute of Contemporary Arts di Londra: Il teschio di Mengele L’avvento dell’estetica forense.

Ne sono autori Thomas Keenan e Eyal Weizman.

Keenan dirige lo Human Rights Program e insegna Letteratura comparata al Bard College (New York). Membro del comitato editoriale e consultivo,Journal of Human Rights, Grey Room, Humanity, e Scholars at Risk Network. Curatore, Antifotogiornalismo (con Carles Guerra, 2010-11) eAid and Abet (2011). Al Bardo dal 1999.
Weizman , (Haifa, 1970) è fondatore e direttore di Forensic Architecture, insegna Culture visive e dello spazio al Goldsmiths College (Londra) ed è autore di Architettura forense (2022). Molto attiva è la sua collaborazione con ONG e organizzazioni per i diritti umani. Ha co-curato la mostra A Civilian Occupation: The Politics of Israeli Architecture, e pubblicato l’omonimo libro, entrambi censurati dalla Israeli Association of Architects, e poi confluiti nella mostra Territories (New York, Berlino, Rotterdam, San Francisco, Malmoe, Tel Aviv, Ramallah).

“Il teschio di Mengele” non ricostruisce le fasi della fuga del criminale nazista, ma come fu possibile accertare che quelle ossa appartenessero proprio a quel traditore del giuramento di Ippocrate. Eppure, l’abilità degli autori, pur descrivendo un procedimento scientifico e tracciando il profilo dei protagonisti che lo condussero, riesce a farne un racconto avvincente quanto possono essere le pagine di un giallo.
Dal libro: “I resti di Mengele, scoperti sei anni dopo la morte, subirono un processo meno clamoroso di quello di Eichmann, in un tribunale scientifico e non penale (…) L’inchiesta su Mengele aprì un nuovo filone nelle indagini sui crimini di guerra: la nascita non della prova documentale o testimoniale, ma piuttosto di un approccio forense nella comprensione del meccanismo dei crimini di guerra e contro l’umanità. Nel periodo in cui venne scoperto lo scheletro di Mengele, gli scienziati cominciarono a essere sentiti come periti di parte nei processi sulla tutela dei diritti umani, e chiamati a fare da interpreti e a dar voce a vari oggetti: spesso ossa e resti umani”.

Ai meriti del libro contribuisce una veloce ed efficace traduzione di Stefano Stoja.

Dalla presentazione editoriale

«Keenan e Weizman mostrano come l’identificazione di Mengele abbia mutato la prospettiva stessa delle indagini forensi, allargandone il campo d’azione: dalla risoluzione di casi d’individui singoli si è gradualmente passati all’esame di genocidi e uccisioni in massa, perpetrati da governi e contractor.
Il cambio di messa a fuoco dai vivi ai morti, dal testimone alle ossa o alla persona scomparsa, ha eroso anche l’altrimenti chiara distinzione tra persone e cose. I resti umani sono, infatti, il genere di oggetti da cui non è facile cancellare le tracce del soggetto vivente e il teschio di Mengele non fa eccezione. Quando comparve, alla sbarra e sullo schermo, divenne un cardine attorno al quale l’estetica forense si mise a ruotare».

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Thomas Keenan – Eyal Weizman
Il teschio di Mengele
Traduzione e cura di Stefano Stoja
Pagine 88, Euro 12.00
Edizioni Meltemi


Guido Zaccagnini

Il 5 di questo mese sarebbe stato il 71esimo compleanno di Guido Zaccagnini e, invece, eccoci senza di lui, ancora più soli. La sua assenza-presenza ci seguirà per tutta la vita così come il ricordo delle tante, tantissime cose che ha realizzato.
Curatore della prima esecuzione mondiale delle musiche di Friedrich Nietzsche, compositore di colonne per film, video, documentari Tv, sceneggiati radiofonici, protagonista di performances cageane per l’Estate Romana di Nicolini, voce storica di Radio Tre, docente al Conservatorio di Roma, i suoi libri, l’ultimo dei quali Una dilettevole storia della musica.

A Roma, la Scuola Popolare di Musica di Testaccio gli dedica un ricordo.

Estratto dal comunicato stampa della SPMT.

«Amico e maestro, musicologo e compositore, scrittore e conduttore, in radio e Tv.
Uomo inimitabile per il rigore come per l'intelligenza nello scherzare, passando da Bach a Cage, da Rossini a Zappa.
Le tante cose che è stato e che ci ha dato Guido Zaccagnini: una vita “dilettevole” tra musica e teatro.
Un pomeriggio e una serata per stare insieme pensando a lui».

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Scuola Popolare di Musica di Testaccio
Sala concerti.
Info Tel. 06 - 57 59 846
info@scuolamusicatestaccio.it
Piazza Orazio Giustiniani 4, Roma
Sabato 6 maggio. Ore 18.00


Game Designer

Che cos’è un videogioco?
Matteo Bittanti in una conversazione che ebbi con lui su questo sito così mi disse: “E’ una macchina della felicità: è appositamente sviluppato per soddisfare il giocatore per mezzo di una gratificazione istantanea. I videogiochi producono endorfine e riducono i livelli di stress, ansia ed irritabilità. Non dimentichiamo che la prassi videoludica è performativa: richiede abilità, dedizione, pratica. Il videogame si colloca a metà strada tra lo sport e la danza, tra la narrazione e l’esplorazione. Quello che mi affascina di questo medium è che contiene tutti i linguaggi e i codici degli altri, ma non è per questo una forma espressiva inferiore o minore. L’errore da evitare è di applicare al videogame i criteri qualitativi dei media tradizionali, analogici e lineari”.
Per Paola Carbone, da me intervistata tempo fa: “Il videogioco può essere inteso come un dispositivo tecnosociale, vale a dire un fenomeno sociale e culturale che deve imprescindibilmente avvalersi della tecnologia. Nato come mera sperimentazione (si ricordi, “Tennis for two”, sviluppato per oscilloscopio nel 1958), il videogioco ha sempre seguito l’evolversi della tecnologia fino a diventare oggi un vero e proprio campo di sperimentazione… un luogo della socializzazione, del consumo, dello scambio"

Il videogioco attraverso gli anni ha profilato nuove mete da raggiungere. Ho visto chirurghi addestrarsi con i videogames per manovrare robot in sala operatoria, so di piloti d’aerei militari che fanno altrettanto. Fino ad arrivare a una complessità di fini impensabili anni fa.

La casa editrice FrancoAngeli ha pubblicato Game designer Meccaniche e dinamiche di gioco della vita quotidiana.a cura di Andrea Mancini – Federica Colli – Francesco Lutrario – Fabio Viola.
Gli autori nell’introduzione affermano: “Ciò che questo volume ha voluto promuovere, sin dai primi scambi fra i curatori, è la multidisciplinarità e la trasversalità di esperienze di chi quotidianamente, nel proprio lavoro, utilizza il gioco come strumento, sia in termini di gamification sia in termini di esperienze game-based. È una visione che potremmo definire Caleidoscopica (…) la visione del game designer in questo libro è caleidoscopica: una professione in divenire, multiforme, variegata. Il comune denominatore è il gioco e le sue potenzialità, ma il vero protagonista del libro è il game designer (che, nella sua operatività quotidiana, è relegato al ruolo di regista, lasciando il ruolo di protagonista al giocatore), inteso in un’accezione nuova e più ampia: un progettista del XXI secolo in grado di disegnare esperienze ludiche per entrare in dialogo con la complessità delle organizzazioni, della società e dei bisogni di chi le abita”.

Rudy Bandiera in Prefazione scrive: Con la combinazione di blockchain e industria dei giochi, sta emergendo una nuova condizione finanziaria, ovvero la GameFi6.
Il concetto di GameFi è stato creato combinando le parole “game” e “finance” in inglese. Si riferisce all’organizzazione finanziaria dell’industria del gioco: i progetti funzionano sulla blockchain in quanto tutte le transazioni effettuate nel gioco vengono registrate in quel “non-luogo” dove i giocatori acquisiscono il concetto di proprietà.
Il concetto di GameFi è stato introdotto per la prima volta il 10 settembre 2020 da Andre Cronje, il fondatore del sistema DeFi, ovvero la finanza decentralizzata”.
E così poi conclude: “Quando parliamo di tecnologie avanzate, nuove forme di economia, strumenti diffusi di creazione, web 3, metaverso, blockchain, di enormi investimenti, d’intrattenimento e di creatività, parliamo di una sola cosa: videogame.
Ignorare o snobbare questa gigantesca e permeante rivoluzione è possibile, ma decisamente imprudente. Un libro che abbraccia i temi del game design non tratta una disciplina fine a se stessa, confinata in un campo nerd o di ragazzini che poi “cresceranno e smetteranno”, ma, di fatto, stringe a sé il futuro della socializzazione evoluta, della finanza, della creatività e della tecnologia.
Se volete guardare al futuro, sedetevi con un joypad (e questo libro) in mano”.

Dalla presentazione editoriale.
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«Il game designer vive un momento d’oro. Non più confinato al solo mondo dei videogame, è disegnatore di esperienze emozionanti e trasversali; progetta sistemi organici capaci di reagire e di modellarsi intorno alle necessità dei partecipanti. Il volume esamina le sue conoscenze, le sue skill, gli ambiti in cui può lavorare, gli strumenti che può utilizzare. Se volete comprendere il prossimo futuro, guardate al gioco e alla figura del game designer, e a come stanno già vincendo la sfida con intere generazioni».

Game Designer
A cura di
Andrea Mancin - Federica Colli
Francesco Lutrario - Fabio Viola
Prefazione di Rudy Bandiera
Pagine 228, Euro 24.00
Formato Kindle 19.99
FrancoAngeli


L'Arte incontra la Scienza


La casa editrice Editoriale Scienza da trent’anni propone un modello verbovisivo di comunicazione scientifica rivolto ai ragazzi.
Trent’anni di progetti, iniziative, collaborazioni, traduzioni che ne fanno una protagonista di questo particolare scenario editoriale.
«Gli studenti devono poter avvicinarsi allo studio delle scienze in maniera pratica, concreta. Devono poter vedere o realizzare loro stessi gli esperimenti. Per passare all’astrazione, bisogna prima toccare con mano».
Parole di Giorgio Parisi, premio Nobel per la Fisica 2021, che s’accordano con quanto fin dagli inizi, nel 1993, guida Editoriale Scienza: imparare facendo, e con divertimento.

È il caso anche di questa recente pubblicazione L’Arte incontra la Scienza con 18 attività per essere creativi.
L’autrice è Mary Auld.
Un viaggio tra colori, forme, suoni e materiali per comprendere come Arte e Scienza si miscelino in una rappresentazione interlinguistica del mondo che ci circonda.
Alessandro Bertinetto.(insegna Estetica e svolge attività di ricerca presso l’Università di Udine e la Freie Universität di Berlino) in una conversazione che ebbi con lui su questo sito, mi disse: “Ci sono pratiche artistiche in cui il rapporto Arte-Scienza è più evidente. In architettura la dimensione non soltanto pratica, ma scientifica, è evidente e necessaria. In letteratura abbiamo esempi antichi (uno per tutti: Lucrezio: “De rerum naturae”), moderni (mi viene in mente tra gli altri il Galileo de “Il saggiatore”) e contemporanei (certi racconti di Calvino per esempio); e ci sono anche diversi trattati sull’argomento: pensiamo al caso esemplare della “Lettera sopra l’uso della fisica nella poesia” (1765) di Giambattista Roberti. La pittura è un campo decisamente ben disposto per la scienza: da Leonardo a Seurat, per non dire poi di espressionismo, futurismo, cubismo, la dimensione estetica della pittura si intreccia nei modi più vari con la ricerca scientifica: per capirci, dall’anatomia alle indagini sulla chimica e la fisica del colore. Mi viene in mente, tra l’altro, un biologo-artista-filosofo come Ernst Haeckel (l’inventore del termine “ecologia”) che nell’Ottocento, sulla scorta di Goethe, applicava l’arte pittorica al servizio della sua ricerca sulla natura. Ma ci sarebbero molti altri esempi”.

Arte e Scienza dopo secoli sono tornate a far parte dello stesso territorio al quale sempre appartenute (si pensi al Rinascimento): quello della creatività umana senza perniciose partizioni.
La divisione idealistica fra i due campi del sapere è caduta, speriamo per sempre.
Ha scritto Paul Feyerabend in ‘La scienza come arte’: “Ogni opera di scienza è scienza e arte, come ogni opera d'arte è arte e scienza. Solo come spontanea è l'arte nella scienza, così spontanea è la scienza nell'arte”.
Pensiero di grande attualità oggi con l’intreccio multidisciplinare, e i forti richiami alle scienze e alle tecnologie, che sono alla base del procedere artistico in tanta parte sia delle arti visive sia della musica e perfino in letteratura dove, ad esempio, la mescolanza di suoni, immagini e testo varia a ogni riproduzione in “The set of the U” del francese Philippe Bootz, uno dei padri del sottogenere della poesia elettronica; oltre cinquecento combinazioni, invece, in “Bromeliads”, opera in prosa dell'americano Loss Pequeño Glazier, ritenuto con Bootz e lo statunitense Michael Joyce (scrittore d’ipertesti) tra i principali autori di e-Literature”.
Il futuro rispetto a secoli e perfino decenni fa ha cambiato aspetto e tempo d’inverarsi: ha cambiato natura.

Dalla presentazione editoriale di "L'Arte incontra la Scienza"
«L’essere umano, da quando è apparso sulla Terra, ha usato il suo ingegno e la sua creatività per esplorare, studiare e rappresentare la realtà, scoprendone la ricchezza e cercando di andare oltre la semplice apparenza. Le tecniche utilizzate per creare dipinti, manufatti e altri oggetti artistici hanno sempre implicato un’attenta osservazione del mondo e un alto livello di tecnologia al fine di suscitare stupore e meraviglia nell’osservatore. Allo stesso tempo, il sapere scientifico si è servito di rappresentazioni e immagini in grado di rendere chiaro ed evidente ciò che è complesso e invisibile.
Al di là di stereotipi e luoghi comuni, l’arte vive da sempre nella scienza e la scienza vive nell’arte. In ogni epoca e luogo gli artisti hanno a lungo esaminato, sperimentato e saputo utilizzare le innovazioni scientifiche per poter diffondere messaggi, stimolare emozioni e creare bellezza. Questo libro intende proprio svelare i collegamenti esistenti tra discipline scientifiche e forme artistiche per mostrare, con un linguaggio semplice e preciso, quanto la scienza sia fantasiosa e creativa e quanto l’arte sia sperimentale e innovativa».

Età consigliata dall’editore per la lettura: dai 9 anni.

…………………………………..

Mary Auld
L’Arte incontra la Scienza
Illustrazioni di Sue Downing
Traduzione di Susanna Fornili
Pagine 80, Euro 18.90
Editoriale Scienza


Ossi di sabbia


Dal 21 Aprile per Emme Record Label è in distribuzione Ossi di seppia del gruppo Jemma, la cui più recente affermazione è quella di essere stato il vincitore di LAZIOSound 2022

Scritto nella lingua antica del Portolotto, ‘Ossi di Sabbia’ anticipa l’album d’esordio “Jemma”, melting pot di sperimentazione e tradizione tra jazz, world, rock, funk e antichi idiomi

In foto: Il Gruppo Jemma in un’immagine dal loro repertorio fotografico.

Dal comunicato stampa

«Gli ossi di sabbia sono la mineralizzazione di storie umane, avventure, difficoltà e di tutto ciò che può raccontare il mare e il vento sulle nostre vite.
È questo lo spirito dell’intero lavoro di debutto degli Jemma: un originale melting pot in otto tracce di sperimentazione e tradizione che parte dal jazz accogliendone lo spirito di incessante contaminazione per arrivare a toccare sonorità world, funky, rock, il progressive e il pop.
“Jemma” nasce dall’incontro fortunato di Federico Buccini e alcuni componenti del collettivo occasionato da una jam session romana. Le serate passate insieme e la libera sperimentazione hanno sviluppato nel tempo una connessione e una sinergia tra i musicisti, da qui prende vita il progetto Jemma.
Il nome può essere interpretato come meglio si preferisce, può rimandare al concetto di “jam session” come un invito a lasciarsi trascinare dalla musica, come un nome proprio di una donna misteriosa o come una pietra preziosa. Non c’è un’interpretazione giusta né una sbagliata. Nel 2022 partecipano allo scouting di LAZIOSound risultando vincitori assoluti e grazie a questa opportunità, sono riusciti a partecipare a diversi festival internazionali aprendo i concerti di artisti del calibro di Herbie Hancock, Fabrizio Bosso, The Chemical Brothers, Max Gazzè e Stefano Di Battista.
La sperimentazione li ha portati a costruire suono dopo suono il loro primo album che si intitola Jemma proprio come il gruppo, volendo essere allo stesso tempo un manifesto e un punto di partenza. L’album parla di energia, di terra, del mare, del vento e lo fa attraversando composizioni inedite e di tradizione popolare spaziando tra sonorità e lingue diverse».

Clic QUI per un ascolto.

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Ufficio Stampa / Comunicazione GenerAzioni Giovani
Marta Volterra marta.volterra@hf4.it
Alessandra Zoia alessandra.zoia@hf4.it
Valentina Pettinelli press@hf4.it 347.449.91.74


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