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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Bau

Col titolo BAWAVES esce in nuovo numero di BAU - Contenitore di Cultura Contemporanea, con 116 autori e 92 opere firmate e numerate.

Il tema di questa edizione è “Onde” nelle sue più svariate declinazioni psico-fisico-meccaniche ma anche nelle possibili accezioni semantiche. L’edizione è in 170 esemplari con opere multiple e uniche di cm 30x30 firmate e numerate. Il cofanetto contiene stampe, disegni, dipinti, collage, fotografie, litografie, testi, documenti e brani musicali su CD. A corredo del numero vi è un catalogo redazionale di 52 pagine con testi critici, foto, riproduzioni opere e schede biografiche. Il progetto grafico è di Gabriele Menconi.
Nel comunicato che ho ricevuto manca un nome.
Ma quel nome mancante io lo conosco: Vittore Baroni.
Innanzitutto alla sua attività artistica e poi anche organizzativa e promozionale si deve la vita di BAU.

CLIC per più estese notizie.

BAU
info@bauprogetto.net
Via A. Pucci 109
55049 Viareggio
Italia


Roma 2000 anni di corruzione

La casa editrice Baldini+Castoldi ha pubblicato un libro che ancora una volta smentisce l’esistenza, nella Roma antica, di un’età dell’oro, a meno che quel metallo non sia citato quale bottino da rapinare non solo truffando privati, ma anche depredando finanze pibbliche.
Roma 2000 anni di corruzione Dall’Impero romano a Mafia capitale.
Questo il titolo del volume che porta la firma di una donna, una giornalista che ha sfidato la mafia che assedia Roma ai nostri giorni.
Si tratta di Federica Angeli.
Cronista di nera e giudiziaria, scrive per «la Repubblica» dal 1998, dove è redattrice dal 2005. Dal 2013 vive sotto scorta dopo le minacce mafiose ricevute mentre svolgeva un’inchiesta sulla criminalità organizzata a Ostia.
Tra i premi vinti, il Premio Passetti – Cronista dell’Anno nel 2012 e 2013, il Premio Donna dell’Anno (2015), assegnato dal sindaco di Roma, il Premio Articolo 21 (2015), Premio Francese (2015), Premio Piersanti Mattarella (2016), Premio Arrigo Benedetti (2017), il Premio Falcone e Borsellino (2016) e il Premio Nazionale Borsellino (2017).
Per il suo impegno nella lotta alle mafie il presidente Mattarella nel 2016 l’ha nominata Ufficiale della Repubblica Italiana al Merito.
Ha pubblicato con Emilio Radice “Cocaparty” (2008) e “Rose al veleno, stalking” (2009), è coautrice di “Io non taccio” (2015) e autrice di “Il mondo di sotto. Cronache della Roma criminale” (2016).

Questo video vi aiuterà a conoscerla meglio.

Un processo emblematico del malcostume nell’antica Roma si svolse negli anni 70 a. C. e non è un caso che l’autrice vi dedichi molte pagine
L’elenco delle rapine, delle vessazioni e dei furti a danno dello Stato commessi da Verre durante il suo governo in Sicilia e provati da Cicerone nel suo discorso di accusa è alquanto corposo: estorse ai siciliani 40 milioni di sesterzi (50 miliardi di vecchie lire), benché i siciliani (che ingaggiarono quale loro avvocato il giovane Cicerone) avessero asserito in sede di denuncia che la reale somma fosse di 100 milioni.
I discorsi accusatori di quel celebre legale si leggono ancora oggi e sono raggruppati con il titolo di “Verrine”. Cicerone riuscì a incastrare Verre che, però, se la cavò con l’esilio e il pagamento di una cifra modesta se rapportata alle ruberie commesse. Costui aveva l’abitudine di difendersi non nei processi, ma dai processi, talvolta, per esempio, dichiarandosi ammalato… a me ricorda qualcuno e a voi?
Quando il racconto arriva ai giorni nostri, la Angeli conferisce alla descrizione dei fatti una tensione che non ha nulla da invidiare ai cosiddetti “legal thriller” che passano sui nostri schermi tv.
Riesce, inoltre, quando espone il meccanismo delle leggi (a proposito, ad esempio, dell’esclusione dei caratteri mafiosi dalla sentenza a carico di Buzzi, Carminati e ai loro accoliti), a illustrarlo con chiarezza e velocità di scrittura senza che ne soffra il ritmo incalzante della narrazione.
Un libro che fa proficuamente pensare, un libro da leggere.

Dalla presentazione editoriale
«La storia di Mafia Capitale non è solo una storia visibile, territorio della politica e dell’amministrazione, né corrisponde soltanto alle vicende torbide di corruzione e malaffare che lentamente e a fatica emergono: le ragioni della sua forza e della sua pericolosità affondano nel terreno dei quartieri e delle periferie, e risalgono a una storia antichissima. Nel suo nuovo libro, che contiene uno stralcio della sentenza della Cassazione del processo Mafia Capitale, Federica Angeli indaga la lunga storia della corruzione e della mafia a Roma: dalla vischiosità della pratica clientelare in età romana alla compravendita dei voti, dalle Verrine di Cicerone alle tangenti per gli appalti, fino all’ordinanza «Mondo di Mezzo» contro Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. Una linea ininterrotta di fenomeni di concussione, di mazzette, estorsioni e comportamenti criminali che dall’Impero romano conduce fino a oggi, fino a noi. Un’inchiesta necessaria, scomoda, accurata e dirompente, che svela, passo dopo passo, come le tessere di un mosaico oscuro e vivo, il volto di una Roma di cui molti non vogliono ancora sapere nulla».

Federica Angeli
Roma 2000 anni di corruzione
Pagine 304, Euro 18.00
Baldini+Castoldi


La straordinaria storia della penna a sfera

“La necessità è la madre delle invenzioni.”
Platone 428/427 a.C. – Atene, 348/347 a.C.
Replica, a distanza di qualche annetto, Agatha Mary Clarissa Christie, Lady Mallowan, nata Agatha Mary Clarissa Miller (Torquay, 1890 – 1976), breve: Agatha Christie: “Non credo che la necessità sia la madre delle invenzioni. Le invenzioni derivano dall’ozio, forse addirittura dalla pigrizia”.
Sia come sia, la nostra vita è scandita dalle scoperte che appartengono alla Scienza e alle invenzioni dalla Tecnologia pur derivando questa dalla Scienza.
Oggi quando chiamiamo al telefono un taxi apprezziamo la tecnica che ce lo permette, ma in pochi sanno che c’entra la relatività di Einstein in quel nostro gesto perché c’entra il Gps così come c’entra con i nostri orologi satellitari, strumenti di diagnostica medica, osservazioni cosmologiche e altre molte cose e procedimenti.
Ma cos’è un’invenzione? Molti rispondono che sia un lampo che illumina la mente.
Pare non basti.
Uno che d’illuminazione se ne intende, Thomas A. Edison, così diceva: "Non ho mai fatto niente che valesse la pena di fare per caso … quasi nessuna delle mie invenzioni è stata sviluppata in questa maniera. Le ho conquistate allenando me stesso a essere analitico, a resistere e a sopportare il lavoro duro”.

L’inventore di cui si parla nel libro edito dalla casa editrice Diarkos che presento oggi ben s’attaglia a quelle parole di Edison. E anche l’uomo che di quella invenzione ne ha fatto una maiuscola società internazionale che fornisce tutti i paesi di questo pianeta.
Tiolo e sottotitolo del volume La straordinaria storia della penna a sfera Da László Bíró all’impero Bic
Ne è autore Giulio Levi.
Nato a Firenze nel 1937 risiede a Roma. Laureato in Medicina e specializzato in Neuropsichiatria, ha lavorato per 40 anni in laboratori di ricerca in campo neurobiologico e neuro-fisiopatologico a Firenze, New York e Roma. E’ stato per molti anni coordinatore della ricerca scientifica per la Fondazione Italiana Sclerosi Multipla e Membro del Consiglio Scientifico della Enciclopedia dei Ragazzi dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani.

Tanti in tutto il mondo abbiamo usato quel manufatto, tanti vi abbiamo giocherellato durante tediose riunioni, Levi ha il merito di condurre la storia di quel piccolo oggetto, la penna a sfera in modo avvincente attenendosi a una ricostruzione rigorosamente storica senza romanzerie. Inoltre, non trascura l’ambiente sociale e politico in cui si svolge la narrazione in anni in cui la persecuzione antisemita nazifascista dapprima fa la sua quasi timida comparsa per poi progressivamente mostrare la sua faccia più feroce ed assassina.
Non starò qui a raccontarvi le tante traversie trascorse dall’ungherese László Bíró (Budapest 1899 – Buenos Aires1985), i suoi tanti mestieri fatti (compreso l’ipnotista), i suoi tanti incontri e scontri perché toglierei gusto al lettore di scorrere le pagine. Né, per le stesse ragioni, lo farò con l’altro importante personaggio nominato nel sottotitolo: Marcel Bich (Torino, 1914 – Parigi, 1994) che dopo un’iniziale diffidenza verso quel tipo di penna si slanciò con tutta la forza del suo notevole ingegno nella produzione di quello strumento di scrittura facendolo affermare nel mercato mondiale superando anche rischiose, per lui, vertenze giudiziarie.
Bíró, a causa della sua incapacità di gestione imprenditoriale, a differenza di Bich non si arricchì con i guadagni della sua invenzione, gli è stato dedicato l'asteroide (327512) Biro, scoperto nel 2006.
Bich, un genio nell’organizzazione aziendale, ebbe 11 figli, di cui quattro hanno ricoperto incarichi di rilievo nell'azienda Bic. Sul muro della casa torinese di Corso Re Umberto 60 in cui Bich nacque. una targa lo ricorda come colui che “semplificò la quotidianità della scrittura”.

Ancora una cosa.
La penna a sfera più grande la si deve a un signore indiano, Acharya Makunuri Srinivasa che ha realizzato una penna a sfera lunga 5,5 metri e pesante 37, 23 kilogrammi.
È stata presentata e misurata da occhiuti giudici a Hyderabad, India, il 24 aprile 2011.

Dalla presentazione editoriale.
«Un tubicino esagonale di plastica trasparente, con dentro un altro tubicino di plastica pieno di un liquido pastoso, nero o di un altro colore. All’estremità è infilato un piccolo cono di ottone sul cui apice è incastonata una piccolissima sferetta di metallo che, fatta scorrere su un foglio di carta, lascia una traccia che non macchia, perché si asciuga subito. Insomma, avete capito: è una penna Bic, valore commerciale 20-25 centesimi.
Apparentemente non ci voleva certo molta fantasia a inventarla!
Già, però a volte l’apparenza inganna. Ci sono voluti quasi venti anni di lavoro, di tentativi, di fallimenti, di sofferenze, di procedimenti legali per arrivare a quel semplice oggetto, la penna Bic Cristal (questo il suo nome completo) dal momento in cui l’inventore concepì l’dea di usare una sferetta al posto di un pennino.
Una storia burrascosa e affascinante della cosa che ha rivoluzionato il nostro modo di scrivere, iniziata in Ungheria all'inizio degli anni '30, che si dipana in uno scenario intercontinentale con lo sfondo delle leggi razziali e della 2a. guerra mondiale, e si prolunga fino ai giorni nostri

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Giulio Levi
La straordinaria storia della penna a sfera
Pagine 138, Euro 12.00
Diarkos


Storia della solitudine (1)


La casa editrice Neri Pozza ha mandato nelle librerie un saggio che tratta un tema attraversando i secoli dall'antichità giungendo fino a noi.
Titolo: Storia della solitudine Da Aristotele ai social network.
Ne è autore Aurelio Musi.
È stato professore ordinario di Storia Moderna e preside della facoltà di Scienze Politiche nell’Università degli Studi di Salerno. È membro della Real Academia de la Historia, condirettore di «Nuova Rivista Storica» ed editorialista delle pagine napoletane de la Repubblica. Tra i suoi volumi più recenti: L’impero dei viceré (Bologna, Il Mulino, 2013), Il Regno di Napoli (Brescia, Morcelliana, 2015), Freud e la storia (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015), Mito e realtà della nazione napoletana (Napoli, Guida, 2016), La catena di comando. Re e viceré nel sistema imperiale spagnolo (Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 2017), Storie d’Italia (Brescia, Morcelliana, 2018), Masaniello. Il Masaniellismo e la degradazione di un mito (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019) e Un vivaio di storia (Milano, Biblion, 2020).
QUI una panoramica su suoi articoli.

Storia della solitudine tratta in modo esaustivo le tante declinazioni di quel sentimento sia sul piano storico sia su quello psicologico.
“Infinite sono le fonti per la storia della solitudine… fino a oggi per ricostruire e interpretare il rapporto tra solitudine e società di massa. Si può raccontare la solitudine attraverso gli epistolari (Poe, Nietzsche, Rilke, Keats, Van Gogh, Kafka, Dickinson), la letteratura, l’arte, la musica, il teatro, il cinema, la fotografia, il web, i social, i multimedia”.

Dalla presentazione editoriale
«O beata solitudo, o sola beatitudo!»: un poeta del XVI secolo esalta con questo verso il silenzio e l’isolamento di chi è in grado di mettere le ali e volare verso la solitudine: un ideale paradiso in terra. Ma la vita solitaria può essere anche una maledetta condizione negativa, anticamera della malinconia, della depressione, della follia: un inferno in terra. È un castigo degli dèi per il Prometeo di Eschilo, castigo ancor più doloroso per chi ha fatto dell’amichevole socievolezza umana la sua ragione di vita. Eroi granitici, ma destinati alla solitudine, sono quelli di Sofocle. Le tragedie di Euripide segnano poi il passaggio dalla solitudine dell’eroe alla solitudine della donna e dell’uomo. Anche la Roma antica parla ancora a noi contemporanei con i suoi personaggi storici e mitologici. Cicerone fugge dalla corruzione della politica, Seneca esalta la solitudine interiore, ma per Orazio e Tibullo essa significa spesso depressione, nevrosi, angoscia. Il Narciso delle Metamorfosi di Ovidio rappresenta la solitudine come smisurata passione di sé. La dialettica della solitudine fra il positivo e il negativo, tra il suo profilo fisiologico e quello patologico, beata e maledetta insieme, è alle radici dell’Occidente.
Questo libro ne ripercorre la storia, dalle sue rappresentazioni nell’Antichità alla società di massa contemporanea. Incontriamo così il viandante, il pellegrino, l’eremita, il sopravvissuto, il folle, il prigioniero, l’intellettuale che sceglie la pace e la solitudine per i suoi studi, il cavaliere solitario don Chisciotte, fino all’anoressico e al bulimico, al ludopatico, al tossicodipendente, al “lupo solitario” capace di gesti estremi».

Segue ora un incontro con Aurelio Musi.


Storia della solitudine (2)

Ad Aurelio Musi (in foto) ho rivolto alcune domande.

Che cosa principalmente lo ha spinto a scrivere questo saggio ?

L’occasione mi fu offerta dalla partecipazione, con una “lectio magistralis”, al Congresso nazionale della Società di Neuropsichiatria, svoltosi a Napoli nel 2018. Il tema interdisciplinare era “La solitudine”. Io trattai “la solitudine come oggetto storico”. Poi la clausura forzata della prima fase della pandemia da Covid 19 mi ha indotto ad affrontare sistematicamente la questione. Come editorialista delle pagine napoletane de “La Repubblica” durante quei mesi sono ripetutamente intervenuto sugli effetti psicologici del Covid 19, osservando livelli, esperienze diverse, storie di solitudine. Si poteva morire “in solitudine”: e tanti anziani non riuscirono a vedere e salutare per l’ultima volta parenti, figli, nipoti. Ma si poteva anche morire “di e per solitudine”, separati dal resto del mondo e della società. Il mio maestro ed amico Giuseppe Galasso mi ha insegnato a legare sempre presente e passato, a partire dai problemi del presente per ricostruire, ripensare e interpretare il passato. Così mi sono dedicato allo studio sistematico del problema storico: a partire dai tragici e filosofi greci fino alle manifestazioni della solitudine contemporanea.

Nel trattare il tema della solitudine quale cosa ha deciso di fare assolutamente per prima e quale per prima assolutamente da evitare?

Naturalmente è stato necessario documentarsi, collazionare fonti, bibliografia e letteratura sul tema, come ogni buono storico deve fare. In questo caso le fonti sono sterminate soprattutto per quanto attiene al pensiero, alla storia culturale della solitudine dall’antichità ad oggi. Più difficile è stato ricostruire la storia materiale della solitudine…

…che pure è presente nel saggio

Sì, ma alcune epoche presentano una ricchezza documentaria maggiore: si pensi al periodo romano, ma anche all’età medievale, che abbonda di storie di eremiti, pellegrini, di figure assai ricorrenti nei secoli dell’alto e del Basso Medioevo. Altra priorità è stata quella di guidare, orientare il lettore lungo la linea del tempo storico. Non a caso la collana in cui il volume vede la luce, diretta da Pier Luigi Vercesi, si intitola “Il tempo storico”. Pertanto, ho seguito la periodizzazione classica fra Antichità, Medioevo, Età moderna fino al presente storico.
Quanto alla cosa che ho cercato di evitare per prima, tengo a sottolineare che ho evitato riferimenti troppo specialistici, ho tenuto conto della preparazione di un lettore medio, utilizzando un linguaggio semplice, senza tuttavia mai scadere nel banale o nella genericità. Mi ha molto aiutato la mia esperienza giornalistica ormai più che quarantennale e la particolare sensibilità al profilo della comunicazione.

Lei scrive: “La solitudine è una condizione oggettiva e soggettiva” e spiega questo duplice aspetto. Può qui sintetizzare quella singolare caratteristica?

Una delle mie passioni giovanili è stata la linguistica. Ricordo che al primo anno di università – ero iscritto alla facoltà di Lettere e Filosofia della “Federico II di Napoli - nel lontano 1966, trascorsi un’intera estate, insieme con altri due amici, nella lettura e studio del “Corso di linguistica generale” di Ferdinand De Saussure, appena tradotto e commentato da Tullio De Mauro. Successivamente mi sono appassionato ai testi della linguistica strutturale. Il mio punto di partenza per questo libro è stato proprio l’origine, la derivazione della parola “solitudine”. La radice “se” è di origine indoeuropea: significa “separato”. Il termine si ritrova in forma simile in quasi tutte le lingue europee, sia pure con qualche variante. Proprio a partire dalla radice e dal significato originario, ho cercato di ricostruire la sua doppia cifra: solitudine maledetta e beata. La prima, quasi sempre imposta dall’ambiente, pertanto oggettiva, la seconda, dal vissuto individuale, pertanto soggettiva. Tuttavia,È questa distinzione è assai convenzionale e, per certi versi, impropria. Perché le condizioni esterne possono essere vissute in modo diverso dai differenti soggetti. L’ambiente è certo condizionante, ma la reazione individuale può amplificare o ridimensionare i suoi condizionamenti. La solitudine come “separazione” connota tutti i modi di viverla. Ma questa separazione può essere maledetta, nel senso che è vissuta come una condizione negativa di malessere, di disagio, fino a patologie più gravi, o come una condizione positiva, beata appunto, perché frutto di scelta individuale, di rifugio in un mondo interiore alla ricerca della più intima identità dell’io. Ma – e ancora una volta voglio mettere l’accento sulla schematicità della distinzione - beata e maledetta solitudine possono convivere in equilibrio instabile, in una sorta di confronto permanente tra “collusione” e “collisione”, convivenza e conflitto.

Perché, come leggiamo nelle sue pagine, la solitudine è una condizione che cambia attraverso le epoche?

Possiamo identificare tratti permanenti della solitudine che, fondamentalmente, non cambiano attraverso le diverse epoche storiche, e tratti distintivi. Tratti permanenti sono quelli che ho evidenziato prima. Ma i tratti distintivi sono altrettanto evidenti. Così nell’Antichità la solitudine è quasi sempre una condizione negativa. La pena inflitta dagli dei a Prometeo non è tanto quella della sofferenza, dell’acerrimo dolore che deve provare in eterno, quanto la solitudine a cui è destinato proprio lui che della socievolezza con gli umani aveva fatto il suo ideale di vita. Prometeo è il simbolo della solitudine dell’eroe tragico greco. Con Euripide è la solitudine, la fragilità dell’uomo che viene portata in primo piano. A Roma le donne sono sole: non per scelta, ma per costrizione. Tacita Muta è tale perché, essendo proprio come donna troppo loquace, è stata punita dagli dei col taglio della lingua. È la rivoluzione cristiana che cambia fondamentalmente, con Agostino, i termini del problema: la solitudine è la via che unisce io a Dio, un’endiadi costitutiva del Cristianesimo medievale, perseguita da eremiti e da chi sceglie “Beata solitudo, sola beatitudo”, un anagramma che è anche un chiasmo.

Che cosa la porta ad affermare che "Il percorso moderno della solitudine ha inizio con Petrarca e con l’Umanesimo"?

Il percorso moderno della solitudine ha inizio con Petrarca e con l’Umanesimo, ma si completa con il pensiero barocco sulla solitudine e sulla malinconia. Così da Petrarca a Montaigne, Shakespeare, Cervantes, Burton e Pascal le facce della solitudine si moltiplicano e al tempo stesso si sdoppiano, secondo una linea di tendenza che caratterizzerà l’uomo moderno con tutte le sue fragilità, le sue inquietudini, i suoi stati emotivi: collusione e collisione tra beata e maledetta solitudine si faranno avvertire sempre di più. L’uomo e la donna del Rinascimento sono un misto di “civil conversazione”, per riprendere il titolo dell’opera del Guazzo, di socievolezza, ma anche di rifugio nella “solitudine del dotto”, modello e stile di vita del Petrarca. Da lì parte una lunga storia che arriva fino a noi: consolazione della solitudine dell’intellettuale che attraverso quella condizione coltiva meglio i suoi studi e la sua creatività;, capacità di tornare in se stessi, di fare i conti fino in fondo con la propria interiorità; ma anche solitudine come malinconia e persino follia; solitudine del cavaliere errante don Chisciotte; solitudine del viandante, del sopravvissuto, del prigioniero, del pazzo che, liberato delle catene che lo avevano rinchiuso nell’Ospedale Generale, continua ad essere solo con la sua malattia; fino all’anoressico, al bulimico, al ludopatico, al tossicodipendente, al “lupo solitario” capace di gesti estremi.

Le nuove tecnologie – Rete in primis – alleviano o aggravano l’eventuale solitudine di chi le utilizza?

Oggi nella società di massa contemporanea prevalgono le deformazioni patologiche della solitudine. Anche in situazioni ricorrenti, non definibili immediatamente patologiche, il pendolo oscilla fra l’ossessiva ricerca dell’ottimizzazione delle performance individuali, della totale esteriorizzazione, la messa a nudo dei comportamenti che prescindono dagli stati emotivi e nascondono la propria interiorità, e la strenua difesa della ‘privatezza’ che non è il diritto alla privacy, bensì l’affermazione del proprio dominio incontrastato nello spazio del sé. Ma questa venerata e protetta autonomia ha un prezzo: la separazione dall’altro. Il pendolo della solitudine contemporanea oscilla dunque fra due estremi: l’apparenza elevata a sistema, l’esteriorizzazione spinta fino ad ottenere la valutazione ottimale dei comportamenti individuali secondo l’ideologia competitiva del merito senza se e senza ma; il rapporto narcisistico col sé che non ammette interferenze, che considera l’altro come costante pericolo. Per fermare l’oscillazione del pendolo si ricorre all’illusione dei social media. In realtà essi costituiscono solo un’apparente e illusoria relazione fra i due poli: quasi sempre, attraverso quei media, si conoscono persone in una curiosa penombra, dove ciascuno può essere immaginato come il nostro fragile io lo vuole. Cioè l’altro diventa una pura proiezione dell’io, una creazione narcisistica a sua immagine e somiglianza. Lo stato di solitudine come separazione e isolamento effettivi si aggrava: l’utopia di concepire l’altro come parte del sé e come un suo arricchimento non si realizza, il risultato è solo un ancor più solitario e separato ripiegamento narcisistico

... narcisistico?

Sì, narcisismo significa anche immersione nell’eterno presente. La condizione di solitudine è accentuata dalla sensazione di vivere in un mondo fatto di frammenti, non o poco dotati di senso, perché privi di passato, quindi di futuro, di memoria retrospettiva e prospettica: la caduta verticale della coscienza storica, della possibilità di collocare gli eventi in un tempo-spazio che li renda conoscibili e interpretabili, è uno degli aspetti inquietanti del nostro mondo contemporaneo. Solitudine vuol dire anche separazione, sradicamento dal prima, di cui ci si illude di essere riusciti a liberarsi, e dal dopo. Il tempo storico è vissuto attraverso quella che Nietzsche chiama “degustazione antiquariale”: il narcisista “guarda con occhio turistico, museale, i pezzi di storia che incontra sul suo cammino. Se vede una cattedrale medievale in una città europea, la fotografa per dire “io ero qu”i, ma gli rimangono oscure le motivazioni per cui è stata edificata. Percepisce pallide tracce del passato soltanto in quanto bene di consumo, ammantato del glamour e del senso di autenticità di cui il presente appare sempre mancante”. Mattia Ferraresi, da cui è tratta questa citazione, attribuisce la genesi della solitudine contemporanea all’individualismo moderno, che ha introdotto una “antropologia solitaria”, una certa idea di libertà e di autonomia che ha finito per isolare ancor più l’uomo. L’autore non considera il fatto che la modernità fonda anche una nuova idea di comunità, di rapporto fra l’io e gli altri.
Il selfie è la rappresentazione allo stato puro del narcisista solitario. Si fotografa o si lascia fotografare vicino ad una scultura fino a costo di provocare danni all’opera che gli interessa meno come prodotto artistico e assai più come attestato della sua compresenza con un essere inanimato: è l’oggetto-altro considerato come prolungamento del suo io presente.

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Aurelio Musi
Storia della solitudine
Pagine 176, Euro 17.00
Neri Pozza


Vivere per sempre

Il filosofo romeno Emil Cioran (1911 – 1995) ha scritto: “L'unico argomento contro l'immortalità è la noia”. Ci sono alcuni, non pochi, che, però, quella noia si direbbe non la temano. Si tratta di scienziati che mentre leggete queste righe stanno studiando i processi di invecchiamento e immaginano un mondo in cui la morte possa essere curata suppergiù come una malattia. Grave sì, ma non invincibile. Uno che si avvicina ma non s’identifica in quei gerontologi è Aubrey de Grey. Se ancora non lo conoscete, leggete QUI e capirete qual è il profilo dei suoi studi; lo cito in quanto è uno dei capifila del movimento, chiamato troppo sbrigativamente, degli immortalisti. Evitare la morte? Lo stesso de Grey lo esclude, almeno ai nostri giorni: ”L’obiettivo delle mie ricerche è semplicemente quello di far vivere la gente per molti anni in buona salute. Ci saranno sempre incidenti e malattie mortali: non saremo mai immortali” (Citato in ‘L'ombra e la luce’ di Umberto Veronesi, Einaudi, Torino, 2008).
L’ipotesi estrema, ipotizzabile in un lontanissimo futuro (ammesso che un giorno sia raggiunto da noi umani) è, forse, solo in un avvenire post-biologico quando cioè neppure si potranno definire quegli esseri quali ancora appartenenti al genere umano avendo strutture vitali e capacità che ai nostri tempi attribuiamo agli alieni in film o libri di fantascienza.

La casa editrice il Saggiatore ha pubblicato un libro che interviene sul suggestivo tema del prolungamento della vecchiaia… ops!... mi correggo subito: prolungare non la vecchiaia, ma la giovinezza fino a limiti incredibili oggi. C’è perfino chi pensa ad un’aspettativa di vita a 4 cifre.
Titolo Vivere per sempre Scenari della nuova immortalità.
La pubblicazione è a cura di Sputnik Futures.
È un gruppo di ricerca specializzato in futurologia. Da più di venticinque anni offre consulenze strategiche sulla tecnologia e sull’innovazione ad alcune delle più importanti aziende al mondo; ha inoltre fondato Alice in Futureland, una piattaforma di libri, podcast ed eventi all’avanguardia.
Il libro si apre con una dichiarazione tanto affascinante quanto impegnativa: “I libri e gli articoli che trattano il tema della longevità si aprono di solito con una lunga ricostruzione in chiave storica dell’annosa ricerca della fontana della giovinezza. In realtà noi siamo convinti che questa ricerca sia iniziata soltanto adesso. È il 2020, siamo pronti a premere il tasto «play» per dare il via libera a terapie e soluzioni diverse per rallentare e, teoricamente, invertire la marcia dell’invecchiamento. Quando ci guarderemo indietro, tra cento o duecento anni, la storia confermerà che è stato proprio questo il punto di svolta, l’anno in cui abbiamo iniziato sul serio a decifrare il codice della nostra longevità.
Ormai è iniziata la Quarta rivoluzione biologica, quella che cambierà sensibilmente il concetto di “quarta età”, dagli ottant’anni in su”

Chi scriverà quella storia immaginata da Sputnik Futures, si spera non manchi di notare che la svolta verso una vertiginosa età ebbe inizio proprio nel 2020, anno della pandemia di Covid che spezzò vite in tutto il pianeta.
“Vivere per sempre” si snoda attraverso una particolare, originale impostazione grafica che rimanda alla velocità di una clip tv e concorre benissimo a spiegare le idee di Sputnik Futures. Idee che fanno apparire il presente in un modo che il lettore lo avverta già come passato e, giustamente, il libro nella parte conclusiva attraversa i concetti della tecno-filosofia transumana e della Teoria della Singolarità .

Meravigliarsi? Stupirsi? Perché mai? Già oggi Kevin Warwick studia l'integrazione Uomo-Macchina innestando chips nel propri corpo e pensa a nuove tappe del Cyborg Project dall'Università di Reading; secondo alcuni studiosi in un tempo meno lontano di quanto s'immagini impareremo codici capaci di svelare nuovi segreti della natura, passeremo la barriera dell'infinitamente piccolo, si dilaterà la concezione di Spazio, saremo capaci di percepire nuovi stati e livelli di esistenza, la nostra coscienza-mente-identità sarà più vasta e ne saremo consapevoli…
Scrive Stefania Operto in "Ultrasoma": «Il viaggio del nostro essere umano volge al termine. È invecchiato e si avvicina la fine del suo tempo sulla Terra; “È tempo di morire”, come direbbe Roy Batty, il capo dei replicanti di Blade Runner, il film visionario del 1982. Anche il tema della morte si è modificato seguendo lo sviluppo tecnologico. Mai come nell’epoca attuale, come i replicanti, anche noi esseri umani cerchiamo di allontanare la morte, esorcizzarla, occultarla, negarla, sviluppando anche forme di tanatofobia. Generalmente da vivi non pensiamo né alla morte né al futuro della nostra identità digitale e dei nostri dati, ma le nostre identità digitali sopravvivono ai nostri corpi destinati a concludere, almeno per ora, il loro ciclo vitale».

Nel film Highlander, il protagonista, l’Immortale Connor MacLeod, dopo aver vinto furibondi duelli ottiene la tanto sospirata Ricompensa: una vita mortale, la possibilità di avere figli e il potere di consigliare per il meglio i potenti della Terra.
Ma, si sa, Highlander è solo un film.

Dalla presentazione editoriale.
«Con “Vivere per sempre” il progetto Sputnik Futures esplora le nuove frontiere dell’immortalità aperte dalla ricerca scientifica: l’invecchiamento non sarà più un destino biologico a cui i nostri corpi sono fatalmente destinati a soccombere, ma un processo che potrà essere modificato, ritardato o curato come una malattia.
Farmaci rivoluzionari, terapie genetiche radicali, fusione con le macchine:
“Vivere per sempre” è un viaggio affascinante nel futuro che ci aspetta, verso il cambiamento definitivo della nostra specie. Verso il giorno in cui spegneremo cento candeline al compleanno: non un record, ma l’inizio della mezza età».

Sputnik Futures
Vivere per sempre
Traduzione di Allegra Panini
Pagine 216, Euro 25.00
Il Saggiatore


Arte e tecnologia del terzo millennio

Dal sito della casa editrice Electa
«Tra le numerose iniziative messe in campo dalla Farnesina in occasione della XVI edizione della Giornata del Contemporaneo – la manifestazione promossa da AMACI che vede il coinvolgimento di musei, fondazioni, istituzioni pubbliche e private per raccontare la vitalità dell’arte contemporanea nel nostro Paese - il MAECI proporrà una serie di focus e di approfondimenti digitali relativi alla Collezione Farnesina, la collezione di arte contemporanea ospitata nelle sale del Ministero: oltre ad una visita virtuale della Collezione stessa, attraverso dieci video-pillole su altrettanti ambienti del Palazzo, verrà presentato il secondo numero della collana "I Quaderni della Collezione Farnesina", dal titolo "Arte e tecnologia del terzo millennio. Scenari e protagonist"i, a cura di Cesare Biasini Selvaggi e Valentino Catricalà
Il volume (disponibile gratuitamente QUI) contiene un’originale panoramica sul rapporto tra arte e nuove tecnologie a partire dagli ultimi decenni del XX secolo fino alle sperimentazioni più recenti ed è chiuso da un focus su oltre ottanta artisti italiani che operano attualmente in questo settore, in Italia e all’estero».

Fin qui il comunicato dell’Editrice Electa.
Ho invitato Cesare Biasini Selvaggi e Valentino Catricalà a una corsa su Cosmotaxi per saperne di più.
Li sentirete parlare con una voce sola: prodigi della tecnologia di bordo di questo veicolo spaziale.

Traggo dal vostro testo alcune domande che vi ponete
Dove inizia e finisce il medium (sinonimo nel libro di tecnologia) nell’arte contemporanea
?

Questa è una questione molto contemporanea e che è legata a ciò che alcuni studiosi (noi abbiamo citato Ruggero Eugeni) chiamano epoca postmediale. L'impossibilità - o l'estrema difficoltà - di scindere un medium da un altro. Pensiamoci, fino a qualche anno fa era abbastanza semplice dire cosa fosse una televisione: era quella scatola che trasmetteva immagini e suoni esperibili solo ed esclusivamente all'interno di quella scatola. Era un medium definito sia nella sua struttura (la televisione) che nei contenuti (i contenuti televisivi erano pensate e visibili solo in televisione). Pensiamo oggi, cos'è la televisione? Oggi è più vicina a un computer (smart) e i suoi contenuti possono essere visibili su un computer, su un tablet, su uno smartphone. Insomma, quali sono i confini? Questo atteggiamento è visibile anche nell'arte. Le generazioni nate negli anni '90 non hanno più una vera e propria distinzione di dove inizia e finisce un medium. i confini sfumano. Infatti, se da un lato è diventato obsoleto parlare di binomio arte e tecnologia, dall'altro oggi più che mai ci vuole una analisi di questo binomio.

Come si può distinguere un lavoro che opera con le tecnologie, da uno che non se ne serve?

Come spieghiamo nella domanda precedente, è molto complicato oggi definire. Guardiamo anche a fenomeni quali il post-internet, oppure all'utilizzo di internet e dei social di artisti che non ridurremo a net artisti o media artist. Questo è evidente anche nell'interesse che il sistema dell'arte sta mettendo su queste tematiche, quasi completamente ignorate fino a qualche anno fa. Oggi è sempre più comune vedere mostre in grandi musei sull'intelligenza artificiale, robotica, e così via, e questo è buono da un certo punto di vista, il problema è che non sempre c'è una ricerca appropriata dietro a queste mostre. Il problema dei confini è ciò che abbiamo trovato quando abbiamo fatto il Focus Italia, il primo focus con schede originali su artisti italiani. Man mano che approfondivamo aumentavano gli artisti e sfumavano i confini, chi inserire e chi no? E' ancora adesso un problema. Per questo abbiamo alla fine deciso tradurre il focus in un portale online interattivo.

Quali casi sono riconducibili allo specifico settore di arte e tecnologia, e quali no?

Il focus del libro è tutto sui nuovi trend dell'arte in rapporto alla tecnologia. Superata la classica dicotomia arte+tecnologia, i nuovi ambiti di ricerca
sono complessi e ricchi di implicazioni. Abbiamo identificato: l’iperintelligenza; il postumano fra cyborg e antropocene; l’Expanded Internet Art; dalla realtà estesa alla videogame art; la sound art; “l’artista inventore”. Pensiamo che studiare il lavoro degli artisti, comprendere le dirompenti potenzialità del loro pensiero laterale, permette di acquisire indispensabili strumenti di lettura della nostra società iper-tecnologica, anche nel campo della tecnologia e della scienza.


La mente matematica


Galilei: “Il Libro della Natura è scritto nella lingua della matematica”.
Darwin: “La matematica dota una persona di un nuovo senso”.
Prima di loro, Platone aveva fatto mettere all’ingresso dell’Accademia l’iscrizione: “Non entri chi non conosce la matematica”.
A parecchi di noi sarebbe stato vietato l’ingresso. In tanti non avremmo acquistato un nuovo senso, né mai letto il libro della Natura.
Perché? Perché la matematica è vista spessissimo come un mondo arcigno e inospitale dal quale ricevere torture mentali. Eppure, tutto il nostro mondo concettuale e sensoriale è governato dalla matematica, ma la gran parte degli umani - non solo italiani - arretra di fronte ad essa, è temuta, terrorizza.
Perché? Succede. Nonostante che tutto ciò che ci circonda e usiamo quotidianamente è fatto di numeri: dal bancomat al cellulare, dal navigatore satellitare alle macchine fotografiche digitali, dalle attrezzature mediche che analizzano il nostro corpo alle mail che ci scambiamo, dalla musica che ascoltiamo nei Cd ai film che vediamo nei Dvd e nei Blue-ray.

La casa editrice Dedalo ha ripubblicato in edizione economica un libro che in modo particolare riesce a incuriosire anche i più recalcitranti dinanzi a quella disciplina e forse addirittura amarla.
Titolo del volume La mente matematica, Premio Peano 2009 quale miglior libro di lettura matematica.
L’autore è il celebre David Ruelle.
Professore emerito di fisica matematica all’Institut des Hautes Etudes Scientifiques, in Francia, e Visiting Professor di matematica alla Rutgers University, negli Stati Uniti.
È, inoltre, riconosciuto come uno dei padri della Teoria del Caos e dei sistemi dinamici.
Perché Ruelle, come dicevo poco fa, arriva a far appassionare alla matematica?
Perché illustra – in maniera scorrevolissima – che cosa accade proprio nella mente dei matematici. La loro proverbiale eccentricità. Come nascono i lampi di genio. Gli episodi che hanno determinato vita e scoperte scientifiche da Alan Turing e Kurt Gödel, da Bernhard Riemann e Felix Klein.
Grande storia scientifica e piccoli episodi di cervelli eccellenti
Una vivacità di scrittura che è felicità di lettura.
.
Dalla presentazione editoriale.
«In questo libro stimolante e divertente, David Ruelle trasporta il lettore nel vivo della pratica matematica. Come funziona, allora, il cervello di un matematico? Per rispondere a questa domanda Ruelle ricorre all’introspezione e a una serie di vivaci racconti sui principali protagonisti della matematica del Novecento. In una girandola di excursus storici e di aneddoti personali, prende forma una rassegna delle idee matematiche più importanti, dall’antichità a oggi, delle menti che le hanno concepite e delle loro implicazioni filosofiche. Tutto ciò per dimostrare come la matematica sia il contesto più opportuno per affrontare questioni universali quali significato, bellezza e la natura stessa della realtà».

David Ruelle
La mente matematica
Introduzione di Luigi Borzacchini
Traduzione di Laura Bussotti
Pagine 224, Euro 13.90
Dedalo


A chi appartiene la mia vita?

“I suicidi sono degli impazienti" diceva Gesualdo Bufalino.
A guardare le statistiche, gli impazienti non sono pochi: nel mondo ogni anno oltre 800.000
Su questo drammatico tema la casa editrice Meltemi ha pubblicato un libro intitolato A chi appartiene la mia vita? Il suicidio nella modernità.
Ne è autore Thomas Macho, uno storico della cultura e filosofo austriaco.
Nato il 2 luglio 1952 a Vienna è direttore nella capitale austriaca del Centro internazionale di ricerca per gli studi culturali.
I suoi principali interessi di ricerca includono la storia del calcolo del tempo e della cronologia, la storia culturale delle relazioni uomo-animale, la morte e i culti dei morti, la religione nei tempi moderni, la storia dei rituali, l'estetica del mostruoso, la fantascienza e la finzione. Scrive anche saggi e recensioni per la Neue Zürcher Zeitung , Die Zeit e altre testate. Collabora con l' Austrian Cultural Forum di Berlino.
Insignito del Premio Sigmund Freud, la maggiore onorificenza per la saggistica scientifica di lingua tedesca.

Il sottotitolo, ‘Il suicidio nella modernità’, di quest’imponente saggio – imponente per qualità di pensiero e anche per mole (544 pagine) –, è sintetizzato dall’autore con le seguenti parole: “La domanda a chi appartiene la vita e se possiamo disporre d questa vita e della sua fine, probabilmente non veniva ancora formulata nelle culture paleolitiche. Presuppone infatti due concetti che prenderanno forma solo durante la rivoluzione agricola: il concetto di proprietà e il concetto di distinzione sociale, dominio e parentela. Le comunità di cacciatori e raccoglitori non possedevano ancora nulla. Quando gruppi umani, più di diecimila anni fa, cominciarono a fondare città, irrigare i terreni e coltivare cereali incontrarono spesso delle resistenze: perché qualcuno avrebbe dovuto possedere in esclusiva la terra e i suoi frutti?“.
Il libro spazia attraversando il concetto di suicidio sul piano filosofico, sociale, psicologico, soffermandosi in uno dei capitoli più vasti sul suicidio nel mondo degli artisti. Partendo dalla riflessione che nelle opere d’arte precedenti all’epoca moderna le raffigurazioni del suicidio sono rare e si riferiscono principalmente a personaggi noti: Socrate, Seneca, Aiace, Saul, Catone, Didone, Cleopatra e, spessissimo presente, Giuda. Si pensi, invece, ai nostri anni e per fare un solo, ma significativo esempio, a quella formidabile serie “The Morgue” del fotografo americano Andres Serrano (purtroppo non citato da Macho) che ritrae anonimi suicidi
Il suicidio, si sa, ha ispirato molte storie letterarie, ma anche parecchie letterali.
Sono in molti a credere, poi, che scrittori, pittori, musicisti, contino rispetto ad altre professioni il più alto numero di autosoppressioni.
Il fatto è che la storicizzazione degli artisti rende più note le loro esistenze e maggiore risalto acquista la cronaca della loro fine rispetto a quella d’un funzionario del Catasto.
Piuttosto, pare che esista un’ora che statisticamente registra il più alto numero dei suicidi: fra le 4 e le 5 del mattino. A quella tragica ora, infatti, l’autrice teatrale inglese Sarah Kane ha dedicato il suo dramma intitolato “Psicosi delle 4 e 48”.
Kane morì suicida impiccandosi. Il 22 febbraio 1999. Non si sa a che ora.
Certo è che la lista dei nomi d’artisti suicidi è impressionante. Vite stroncate “di letterati e artisti abitati da un dèmone”: Antonio Castronuovo, ha raccolto in un libro 15 tragiche storie: Suicidi d’autore. D’autore perché come egli stesso spiega “… ben firmati, compiuti da letterati e artisti, abitati da un dèmone”. O da un nume pietoso, aggiungo io.
Chissà che quegli uomini e quelle donne non abbiano beffato l’inesorabile Parca decidendo il proprio momento, dicendoci che la vita, e la morte, appartiene solo a noi e a nessun dio.
Quando il regista Mario Monicelli, sapendosi incurabile, si suicidò lanciandosi nel vuoto da una finestra dell’ospedale dov’era ricoverato, il famoso sito Spinoza.it scrisse «Monicelli, 95 anni, sfugge alla morte buttandosi dalla finestra», facendo un rispettoso omaggio laico a quel regista e tracciando al tempo stesso un affettuoso e filosofico ritratto di un uomo che, tra l’altro, era stato per tutta la vita un amante dell’umorismo nero.
“Il fascino esercitato dal suicidio nell’arte moderna” – scrive Macho – “non si esaurisce nella critica sociale ma anzi riguarda soprattutto altri aspetti: il rapporto del soggetto con sé stesso, la sua scissione e dissociazione interiori, già connesse al culto del genio”.

“La sfida di Thoma Macho in questo libro" – scrive Antonio Lucci in Prefazione – "è non solo quella di pensare filosoficamente, concettualmente, il suicidio, ma anche quello di narrarlo, di analizzare cioè le figurazioni che esso ha preso nella nostra e nelle altre culture, i modi in cui è stato tramandato e trasfigurato dai media, dalle arti, dalle teorie, dalle religioni (…) Se pure la domanda ‘A chi appartiene la mia vita?’ è destinate a rimanere senza risposte, questo libro aiuta il lettore a pensarne tutta la portata, e l’abissalità"..

Dalla presentazione editoriale
«A chi appartiene la mia vita? Il suicidio – scrive Walter Benjamin nei suoi Passages – è “la quintessenza della modernità“. In effetti, dopo che per secoli il tentativo di togliersi la vita è stato considerato un peccato o lʻespressione di una malattia psichica, e in alcuni paesi è stato addirittura sanzionato penalmente, nel XX secolo si è assistito a un profondo rivolgimento, che ha contribuito a far emergere una nuova cultura del morire. Chi si toglie la vita non vuole più solo cancellarla ma anche, in qualche modo, appropriarsene e darle un nuovo significato in virtù di un gesto che l’espressione utilizzata per il titolo tedesco del libro, Das Leben nehmen (“togliersi la vita”, ma anche “prendersi la vita”), con la sua ambiguità, trasmette immediatamente.
A chi appartiene la mia vita? è il vivo e profondo racconto della complessa storia del suicidio nella modernità. Ne esamina le radici culturali attraverso diari, film e opere dʻarte, per giungere a unʻinquietante diagnosi: viviamo in unʻepoca sempre più affascinata dal suicidio».

Thomas Macho
A chi appartiene la mia vita?
Traduzione di Monica Fiorini
Prefazione di Antonio Lucci
Corredo di 57 immagini b/n
Pagine 544, Euro 28.00
Meltemi


Sulla maleducazione (1)

La casa editrice Raffaello Cortina ha pubblicato un saggio che dal titolo può sembrare anche un manuale per evitare di cadere in rozzezze o villanie.
Erore, direbbe Petrolini. Si tratta di un’importante pubblicazione che studia la maleducazione con plurali lenti ben così spiegando quante plurali ottiche servano per capire origini, profili, attualità della malacreanza.
Titolo: Sulla maleducazione. Ne è autore Sergio Tramma.
Insegna Pedagogia generale e Pedagogia sociale e interculturale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Il suo campo di ricerca è costituito dai nessi tra educazione e contemporaneità, con uno specifico interesse per i mutamenti dei corsi di vita dei soggetti individuali e collettivi e per la problematicità degli ambienti educativi.

Ha scritto un libro prezioso che incrocia storia (anche riportando gustosi aneddoti), sociologia, psicologia, e pur non dando consigli su come comportarsi bene in società, alla maleducazione riconosce perfino “la complessità che le compete”. Senza, sia chiaro, nessuna apologia, solo per osservazione socioclinica.
Tramma procede demolendo luoghi comuni secondo i quali, per fare un solo esempio, i giovani siano non più beneducati come un tempo; cosa che ogni generazione ha puntualmente detta di quella che l’ha preceduta. Mi chiedo: erano più beneducati quelli che nella prima metà del secolo scorso prima di prendere il potere – e anche dopo – randellavano gli oppositori politici? E hanno lasciato tracce anche adesso sulla scorta di beneducati insegnamenti da parte d’adulti di oggi giovani dell’altro ieri?
Sia come sia, l’autore, nelle pagine conclusive del saggio, fotografando vari settori della società, dalle aziende alle famiglie passando per la scuola, indica nella politica molti segni sconci di cattivissimo esempio per tanti.
A me sembra, inoltre, che mostrarsi beneducati sia diventato un segno di debolezza di cui vergognarsi. Cosa questa pericolosissima perché, per dimostrare un nuovo segno d’affermazione sociale, potrebbe verificarsi un ulteriore slittamento dei comportamenti nella volgarità, nella pratica di un esercizio indecoroso e aggressivo dell’esistenza.

Dalla presentazione editoriale.
«La maleducazione, oggi, non si può più considerare come assenza o insufficienza di “buona educazione”. A differenza di quella del passato, non è espressione di subculture definibili come devianti, artistiche, antagoniste, bensì manifestazione, pur se in forme ed espressioni variegate, di culture anche maggioritarie e socialmente legittimate. Non è lo scarto, la zona d’ombra della “beneducazione”: ha vita e autonomia proprie, costituisce inoltre uno dei segni della profonda crisi, o del definitivo esaurimento, dei comportamenti e dei vincoli relazionali auspicati dalle “narrazioni” riconducibili al cristianesimo, al marxismo, al liberalismo democratico.
Il libro colloca la maleducazione (le maleducazioni) sul piano che più dovrebbe esserle proprio, quello pedagogico-educativo, per indagarne le forme e le manifestazioni, le cause, i vantaggi e gli svantaggi che procura, i processi che l’hanno generata, le esperienze che inducono le persone a essere maleducate».

Molto accurati gli apparati: bibliografia, sitografia, filmografia, discografia.
Segue ora un incontro con Sergio Tramma.


Sulla maleducazione (2)

A Sergio Tramma (in foto) ho rivolto alcune domande.

Quale la principale motivazione che ha fatto nascere questo saggio?

Il tentativo di restituire alla maleducazione la complessità che merita, non considerandola solo la mancanza di buone maniere o il non sapersi comportare in determinate circostanze. Io insegno Pedagogia nel corso di Studi in Scienze dell’educazione, quindi al centro della mia riflessione è collocata l’educazione, e uno dei suoi significati socialmente più diffusi riguarda proprio il “sapersi comportare”, cioè l’avere fatto proprie alcune norme che, in determinato contesto, regolano i rapporti tra le persone. Ovviamente questa definizione è riduttiva, l’educare è faccenda molto complessa, ma una tale concezione rivela quanto sia ritenuto importante il sapersi comportare soprattutto nelle situazioni pubbliche. Il libro è nato proprio con l’intento di analizzare la maleducazione e il suo correlato, cioè la zona d’ombra della beneducazione, gli aspetti più problematici e le sconfitte dell’educare.

La maleducazione è mancanza di buona educazione oppure è pianta da vita autonoma?

La maleducazione ha molti significati. Può essere considerata mancanza di buona educazione, ma anche un insieme di valori e comportamenti diversi rispetto a quelli auspicati, quasi una sorta di “altra educazione”.
La maleducazione è definita tale da chi ha il potere di etichettare, di stabilire le regole, di indicare cosa è opportuno e cosa no. Alcune volte sono stati considerati maleducati, piuttosto che grossolani o volgari, i comportamenti delle persone appartenenti alle classi meno abbienti. Ma un tale giudizio maturava in quei gruppi sociali, in quelle classi che si sono arrogate il diritto di giudicare quali sono i comportamenti appropriati e quali no. Nello stesso tempo, la maleducazione ha una sua autonomia, soprattutto quando coloro che la praticano non ritengono che possa essere definita tale, per esempio i comportamenti da alcuni considerati maleducati, da altri, invece ritenuti espressione di ricerca artistica, piuttosto che l’intenzione di vivere relazioni in modo più sciolto e spontaneo.

Esiste la possibilità che quanto considerato maleducato in un paese non lo sia in un altro e viceversa? Se sì, ciò a che cosa è dovuto?

Certamente, e ciò è di particolare importanza nei periodi e nei luoghi nei quali persone provenienti da paesi diversi, con delle culture diverse in fatto di buona o cattiva educazione, interagiscono tra loro. È sicuramente il caso dei processi migratori attuali, ma anche di quelli del passato, pensiamo ai processi migratori dal Sud al Nord del Paese o a quelli internazionali che hanno visto gli italiani nel ruolo di migranti verso altri Paesi. Culture diverse che si incontrano, si scontrano, si rifiutano, si modificano reciprocamente, in tutto ciò la diversità, soprattutto quella esibita grossolanamente, può essere considerata il prodotto di una cattiva educazione. Ma la questione non è relativa solo alle differenze tra un Paese e un altro, riguarda anche le diverse generazioni che si affacciano sullo scenario sociale. È frequente, anzi direi scontato, che le generazioni più anziane considerino maleducate quelle più giovani, e questo può essere dovuto al fatto che una certa liberalità e una maggiore spontaneità relazionale può essere percepita e vissuta come maleducazione. Nello stesso tempo può essere dovuta a una idealizzazione dei tempi passati, tempi nei quali le persone, per definizione, erano “più educate”, “l’aria era migliore” e “c’era meno individualismo”. E questo riguarda ogni generazione
.
Come lei nota nella parte finale del libro, in Italia, a differenza del paludato mondo politico di un tempo, allora con l’aspro scontro Dc-Pci, oggi la maleducazione segna i rapporti fra i politici, travasa nei media, contagia la società. Si può stabilire quando è avvenuta quella frattura? Ci sono protagonisti? In caso affermativo, è possibile indicarli?

Questo è uno degli aspetti più delicati e importanti. È innegabile che i comportamenti politici del passato, quelli praticati dalle generazioni che hanno subito la guerra e ricostruito l’Italia erano molto, ma molto più educati di quelli attuali. Personaggi del calibro di De Gasperi, Nilde Iotti, Berlinguer o Tina Anselmi potrebbero essere accusati di tutto ma non certo di essere delle persone maleducate. Oggi la situazione è sicuramente diversa, ma sarebbe un errore fare di ogni erba un fascio e accusare di maleducazione l’insieme delle persone che fanno politica. Ci sono delle differenze anche molto profonde, ma non si può sottacere che una parte importante del personale politico è volgare, sguaiato, sessista. Potrebbero essere citati molti esempi, ma è inutile, sono episodi che tutti conoscono. Ma forse il vero problema non è tanto la maleducazione di alcuni, anche di segretari e leader di partiti, ma il fatto che una tale maleducazione paghi in termini di consenso, sia vista come “antisistema” o ritenuta soltanto un peccato veniale. La maleducazione in politica aumenta l’audience, viene considerata come un modo di essere genuini, lontani dai formalismi delle élite, dei “radical-chic”, più vicini ai sentimenti e ai modi di essere del cosiddetto popolo. E in questi modi la parte meno riflessiva e meno dotata di strumenti di analisi culturale e politica di tale popolo può ritenere di trovare finalmente la possibilità di esprimersi e di riconoscersi.

E ancora: che cosa, a suo avviso, l’ha determinata?

L’ha determinata lo scollamento tra politica e idealità, tra politica e visione del mondo, la svalutazione della capacità e della necessità di costruire un quadro di riferimento culturale e un progetto per il futuro. Una parte rilevante del personale politico non è in grado di andare oltre il presente, ambisce solo a un successo immediato e questo successo può essere favorito, e non poco, da atteggiamenti e comportamenti diretti e, diciamo così, non intellettualistici. Se a tutto questo aggiungiamo l’aumento delle possibilità di comunicare generate dalle nuove tecnologie, si coglie immediatamente quanto sbraitare, insultare, aggredire possa risultare pagante. Le possibilità di comunicazione connaturate al Web hanno reso possibile e legittimato un modo di esprimersi accusatorio, tranchant, belluino, banalizzante. Sicuramente più “sincero”, non c’è che dire, ma in ogni società la sincerità, così come l’espressione delle proprie emozioni, è regolata formalmente e informalmente

Mi riferisco adesso all’ultimo paragrafo del capitolo conclusivo del suo saggio e le chiedo che cosa intende con due espressioni lì da lei usate: “beneducazione sostenibile” e “maleducazione compatibile“

Significa che della maleducazione e della beneducazione dovrebbe essere valorizzato il meglio di loro stesse. Valorizzare la spontaneità, gli atteggiamenti poco cerimoniosi, le componenti di joie de vivre e, nello stesso tempo, la cura della relazione con gli altri, il tentare di mettere a loro agio, praticare dei modi nei quali l’esibizione di sé sia controllata, non utilizzare la capacità di comportarsi in determinate situazioni come pratica discriminante. In fondo, tutto potrebbe essere riassunto nella frase finale del film “Miracolo a Milano”, quando si avvia il volo verso un regno dove «buongiorno vuole dire veramente buongiorno»: un augurio sincero, non formale, attento all’altro, ma anche attento a sé perché può essere piacevole formularlo.
……………………………………
Sergio Tramma
Sulla maleducazione
Pagine 190, Euro 14.00
Raffaello Cortina Editore


Marta Roberti 1 e 2


Mentre alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea è in corso la mostra Io dico Io, altra occasione per vedere un lavoro di Marta Roberti è data dall’esposizione “Ladder to the Moon” alla Galleria Monitor.
Testimonianze queste del crescente interesse sulla sua attività con infittirsi sia di mostre sia di scritti critici su pagine della stampa specializzata e sul web.
Anche dall’estero arrivano riconoscimenti, quali ad esempio inviti a seminari tenuti a Johannesburg, residenze a Taipei e Shangai negli anni pre-pandemia. Ne troviamo tracce in quest'intervista dove è delineato anche un suo ritratto stilistico.

Nell’immagine: Marta Roberti: “Piangere dal terzo occhio”, 2021
Disegno, grafite e pastello ad olio su carta dello Yunnan, 200x100
Foto di Giorgio Benni
Courtesy l'artista e Monitor Roma Lisbona Pereto

Estratto dalla presentazione della mostra

«Ladder to the Moon è il titolo di un dipinto realizzato da Georgia O’ Keefe nel 1958, conservato al Whitney Museum di New York. Viene considerato per lo più un dipinto astratto, ma di astratto non ha assolutamente nulla. Sullo sfondo di un cielo latteo/acquamarina si staglia una rudimentale scala tesa verso un quarto di luna; molto basso, quasi un accenno, il paesaggio di Gost Ranch, nel New Mexico, con la montagna Pedestal. È un dipinto fortemente evocativo, essenziale, primitivo, quasi mistico. Si legge che nella cultura del Pueblo, che la O’ Keefe ha studiato a lungo, la luna rappresentava il congiungimento con le forze ancestrali e superiori.
Ladder to the Moon è anche il titolo scelto per questa nuova mostra da Monitor, che vede una partecipazione tutta al femminile,
Protagoniste: Lula Broglio - Giulia Mangoni - Eugénia Mussa - Marta Roberti.
Ladder to the Moon può esser interpretata come una indagine, parziale, appena accennata, ed assolutamente non esaustiva del panorama che riguarda la pittura figurativa attuale ed alcune delle artiste che lo rappresentano. Artiste appartenenti a diverse generazioni e provenienze culturali. Artiste apparentemente molto diverse, per tecnica pittorica e genesi del lavoro ma accomunate da un’unica tensione che sottende la ricerca dell’altro da sé, delle memorie ancestrali od oniriche, o semplicemente, appartenenti alla storia di un passato ignoto e lontano ma che viene sublimata e fatta propria.»

Lula Broglio (Sanremo, 1993) apre la mostra, con la sua atmosfera surreale, i colori accesi, traslazione di una città che si inizia ad esplorare senza appartenervi e in cui ci si sente “come un palazzo degli anni Cinquanta, quelli con i lampadari di vetro, grandi e squadrati, che quando ci passi sotto hai paura che ti caschino in testa […] quegli edifici con gli ingressi ricercati, accoglienti e silenziosissimi con quella moquette fané e polverosa, ma nonostante tutto con un bel colore vivace e felice (ATPdiary, 2020)”.

Nella stessa sala, fanno da contraltare dei piccoli, squillanti camei di Eugénia Mussa (Maputo, Mozambique 1978) artista di origine africana ma di stanza a Lisbona, che usa immagini tratte da filmati amatoriali di varia provenienza e periodo – famiglie in piscina, signore ad una parata, cheerleaders, giocatori di golf – trasformandole attraverso l’uso di colori fluo, in scene di appagante tranquillità. Colori che, fugacemente portati dalla televisione o dalle riviste allo sguardo dell’artista bambina, contrastavano il grigiore di una vita in un paese tormentato dalle guerre civili, rappresentando l’unico mezzo di comunicazione con la normalità.

L’italo-brasiliana Giulia Mangoni (Isola del Liri, 1991) dopo un decennio in Brasile torna nella sua cittadina natale, riprendendo il legame con “le storie e le mitologie rurali, feudali e post-idustriali, utilizzando dispositivi rappresentativi come un modo per metabolizzare e negoziare queste influenze stratificate (Mangoni)”. Le opere esposte in galleria, vedono il recupero di antiche iconografie locali sotto forma di statuette decorative, realizzate da un artigiano di Sora con il quale l’artista ha uno scambio durevole e costante.

Marta Roberti (Brescia, 1977) negli ultimi sette anni, ha compiuto diversi viaggi in Oriente, dimorando principalmente a Taiwan. Più volte l’artista nelle sue interviste ricorda di aver lasciato molto presto i luoghi della sua infanzia, i cui paesaggi e natura ritornano spesso nei suoi lavori frammisti alle suggestioni delle atmosfere taiwanesi. Nelle sue opere Roberti indaga il rapporto tra Occidente ed Oriente ed in particolare modo come scrive: “come l’identità occidentale si costituisca a partire da ciò che ritiene essere altro da sé: dagli animali alla natura, a tutto quello che è considerato diverso ed esotico.

Ladder to the Moon
Galleria Monitor
Via Sforza Cesarini 43, Roma
Telefono: 06 3937 8024
Fino al 26 marzo 2021


Il computer come Studio d'artista


Con un CLIC si raggiunge il sito in Rete di Domenico Quaranta (in foto).
Critico e curatore d'arte contemporanea.
Il suo eccellente lavoro si concentra sull'impatto degli attuali mezzi di produzione e diffusione sulle arti e sul modo in cui rispondono - sintatticamente e semanticamente - al cambiamento tecnologico.
Collabora con riviste tra cui Flash Art , Artpulse e Rhizome.
Autore di In My Computer (2011), Beyond New Media Art (2013) e AFK. Texts on Artists 2011-2016 (2016), ha contribuito, curato, o co-curato, una serie di libri, cataloghi, e numerose mostre.

Ora una sua nuova impresa è segnalata su Artribune da Valentina Tanni.

Anche qui CLIC per sapere quanto annunciato nel titolo di questa nota.


Il sogno e la ragione (1)


Torna gradito ospite di Cosmotaxi Daniele Biacchessi..
Ricordo ai più distratti che su questo sito, infatti, già lo incontrai l'anno scorso in occasione della pubblicazione di Un attimo quarant'anni.
Ora la casa editrice Jaca Book ha pubblicato un nuovo libro di Daniele intitolato Il sogno e la ragione Da Harlem a Black Lives Matter.
Molto bella la copertina che è opera dell’illustratore.Giulio Peranzoni.

QUI la biografia di Biacchessi e QUI il sito web da lui condotto in Rete

Dalla presentazione editoriale.

«Il sogno è quello dei neri d'America di liberarsi dalle catene del razzismo, dalla discriminazione, dalla repressione e la violenza degli apparati dello Stato. La ragione è quella messa in campo nel corso della Storia da una parte consistente del popolo americano nero e bianco, attraverso la protesta. Dal primo conflitto razziale del 1935 ad Harlem alla rivolta di Filadelfia del 1964, ai fatti di Watts del 1965, all'insurrezione di Detroit del 1967, alle marce di Martin Luther King e alla sfiorata guerra civile successiva alla sua uccisione, fino alle sommosse della Kitty Hawk del 1972, di Miami del 1980, di Los Angeles del 1992 e alle grandi manifestazioni del movimento «Black Lives Matter», in America e in tutto il mondo, seguite all'uccisione di George Floyd. Un secolo di storia dei movimenti di protesta che si battono per i diritti civili e la loro influenza sui cambiamenti degli assetti della politica americana».

Segue ora un incontro con Daniele Biacchessi.


Il sogno e la ragione (2)

A Daniele Biacchessi - in foto – ho rivolto alcune domande.

Esiste una causa (storica? sociale? economica? culturale?) che ritieni sia quella prevalente nel determinare l’odio razzista in tante società e paesi pur lontani e diversi fra loro?

Il suprematismo bianco torna ogni volta che un Paese affronta crisi politiche, economiche, sociali, sanitarie epocali. Vale per gli Stati Uniti, vale per tutti.
"America first", prima l'America, era scritto nel giuramento degli aderenti al Ku Klux Klan creato da Simmons, è stato così nell'America di Donald Trump.
Non è questione di ragionare con la pancia o con la testa, come qualche desueto analista vorrebbe farci credere. Il proletariato urbano è diventato sottoproletariato. Il sottoproletariato si è trasferito sotto i tetti e ancora di più ai confini della società. La middle class è in parte scesa negli inferi del proletariato. Sono diminuiti i diritti per tutti e le differenze tra chi ha la pancia piena e chi non riesce neanche a portare a casa un pezzo di pane per i propri figli si sono allargate a dismisura raggiungendo record mai visti.
Ecco che negli Stati Uniti, come del resto in Europa, sembra prevalere il modello culturale sovranista che affascina perché propone uno schema collaudato: il pezzo di pane lo dobbiamo dare prima a noi, e gli altri muoiano di fame. Trump non ha fatto altro che rispolverare questo vecchio modello che ancora prevale, nonostante l'esito elettorale.

Nello scrivere questo libro qual è la cosa che assolutamente hai deciso di fare per prima e quale assolutamente per prima da evitare?

La trappola ideologica. Un narratore scrive storie, è un testimone che riporta agli altri ciò che vede, sente, conosce, scopre, impara, diffonde.
Un narratore non segue una idea preconcetta, quindi trova tutte le connessioni possibili, anche quelle che non ci sono, per dimostrare una tesi.
È la mia disciplina di scrittura. Questo non significa essere indifferente, non prendere parte. Vuol dire indagare negli angoli della Storia anche quando ciò che si scopre non è politicamente corretto.
Insomma, uno scrittore rafforza il contatto con il suo pubblico quando si muove quanto più possibile libero da schemi.

Biden: 81 268 930 voti (51,3 %). Trump: 74 216 159 voti (46,8 %).
Che cosa ti suggeriscono queste cifre
?

Quello che scrivo nel libro. Se ne va Donald Trump, ma restano i trumpisti.
Ma attenzione. Metà di quei oltre 74 milioni di voti non sono l'espressione di quelli che hanno assaltato il Capitol Hill, anche se da un recente sondaggio, metà di loro pensano che ciò che è accaduto il 6 gennaio 2021è stato "montato" dalla sinistra per criminalizzare Trump.
Poi bisogna analizzare anche quelle cifre che da sole così non dicono nulla.
Analizzando i voti popolari e postali puoi notare come una parte consistente, anche se non maggioritaria del voto degli ispanici sia finita a Donald Trump. Penso alla comunità cubana di Miami e di altre zone della Florida. Trump guadagna quasi 200.000 voti rispetto a quattro anni fa solo a Miami-Dade. Anche a Osceola, a sud di Orlando, Trump dimezza il proprio svantaggio, passando dal 24,8% del 2016 al 13,7% del 2020. In Texas vince Trump, seppur con un margine inferiore rispetto al 2016 (da +9% a +5,8%), ma guadagna voti soprattutto in diverse contee al confine con il Messico (Hudspeth, Starr, Hidalgo, Cameron), dove la popolazione di origine ispanica costituisce una larga maggioranza.
Gli afroamericani, risultati determinanti per la prima vittoria di Barack Obama nel 2008, si sono nel tempo allontanati dalle urne. Sull’onda del movimento “Black Lives Matter” si rivelano invece un elemento chiave per la vittoria democratica. Infatti, Biden conquista l’87% degli afroamericani, il 65% dei latini e il 61% degli asiatici. Aumenta anche l’affluenza fra i non-bianchi, considerando che gli elettori ispanici al voto passano dall'11 al 13% e gli afroamericani dal 12 al 13% rispetto al 2016.
Altre minoranze si sono sentite tagliate fuori dai giochi e hanno alimentato le file del
partito dell'astensione, e altre ancora sono rimaste semplicemente a guardare, in attesa dell'evoluzione degli eventi. Penso che le differenze passino anche da queste tendenze politiche che rispecchiano lo stato sociale di quelle che oggi chiamiamo minoranze, ma domani potrebbero rappresentare numericamente, dunque anche politicamente, la maggioranza del Paese.

Credi che Biden sul tema del razzismo riuscirà a cambiare le cose?

C'è ancora molto da fare, ma Biden può cambiare lo stato delle cose.
In pochi giorni Biden ha già cambiato il volto degli Stati Uniti. Non solo perché attraverso decreti sta pian piano smantellando la struttura sovranista e suprematista bianca di Trump. Penso alla naturalizzazione degli immigrati, al muro tra Stati Uniti e Messico, al ripristino dell'Obamacare e Medicaid per le persone indigenti.
A mio avviso l'avvio della vaccinazione di massa, la costruzione di una task force formata da eccellenze, un nuovo approccio non negazionista…

… scusami se t’interrompo ma, a proposito di negazionismo voglio ricordare una frase di Trump detta il 6 marzo 2020: «Ho parlato con molta gente e ritengo che il numero sia molto al di sotto dell’1%. Molte persone che contrarranno il virus si riprenderanno rapidamente, senza neanche il medico». Se non ci fossero, finora, oltre mezzo milione di morti negli Stati Uniti, quelle parole potrebbero figurare in uno sketch del varietà

… … proprio vero!... dicevo che un nuovo approccio non negazionista dovrebbe portare, almeno in teoria, ad un contenimento sostanziale della pandemia in breve tempo: aumento dei test di tracciabilità, obbligo dell'uso delle mascherine, controllo dei distanziamenti. Poi ci sono le questioni economiche: forte riduzione della disoccupazione, nuovo piano sanitario, aiuti straordinari per le famiglie in difficoltà, un pacchetto di stimoli fiscali quantificato in 2300 miliardi di dollari, 900 miliardi mirati all'aiuto di famiglie e imprese. Un’enormità. Si tratta del piano più corposo messo in campo dagli Stati Uniti dal dopoguerra ad oggi. Come un piano Marshall. Ma la vera sfida di Biden sarà la pacificazione del Paese, rimasto diviso sul piano politico e culturale dopo la tornata elettorale, soprattutto dopo l'assalto fascista al Capitol Hill. Vuol dire ripristinare l'anima di una nazione, smussando la polarizzazione, e offrendo al mondo una nuova immagine internazionale degli Stati Uniti, diciamo un “New Deal” moderno.

Non sarà facile

Non sarà facile, perché Biden non è Roosevelt, ma qui si misurano davvero le reali capacità di uno statista. Poi il cambio di amministrazione ha portato nei palazzi una generazione di giovani radicali neri. La spinta dovuta alla vittoria del ticket Joe Biden-Kamala Harris inserisce nelle stanze parlamentari anche il frutto migliore di una generazione di afroamericani che ha guidato nelle strade e nelle piazze americane una stagione di lotte politiche e sociali. Non solo il movimento "Black Live Matter", la cui azione è stata a mio avviso determinante per l'affermazione democratica, ma anche una rete capillare di associazioni, di organizzazioni sparse nei territori che fanno della politica dal basso una buona pratica. Penso a gente come Stacey Abrams in Georgia, la sindaca di Atlanta Keisha Lance Bottoms, Andrew Gillum in Florida, a Chivona Newsome, ma come loro ce ne sono altre migliaia sparse per il Paese. Questa classe politica non spunta all’improvviso. È il risultato di decenni di lavoro: nel partito democratico, nei movimenti, nei gruppi di pressione, nelle università, nel sindacato,
nelle associazioni per i diritti civili. È da decenni che in vasti settori delle comunità nere si mettono in discussione i modelli più tradizionali della politica afroamericana: quella di Jessie Jackson, di Al Sharpton, di Charles Rangel. Questa nuova generazione si dovrà ora confrontare con la sfida della gestione del Governo. Non sarà facile passare dalla radicalità alle stanze del Potere, ma nutro la speranza che possa almeno favorire la costruzione di un nuovo modello di sviluppo basato sull'etica, sulla sostenibilità ambientale, soprattutto sulla responsabilità. Se vince questa idea di mondo, vale per gli Stati Uniti e anche per l'intero Universo

Non credo che esistano due cose uguali fra loro, nella migliore (o peggiore) delle ipotesi possono essere simili. Biden e Trump non mi sembrano neppure simili. Eppure, in parte della Sinistra, in occasione delle recenti elezioni americane, sono tornate voci sostenitrici dell’equivalenza fra i due e dell’inutilità dei distinguo. Tu come la pensi?

Credo che non conoscano nulla di Storia americana.

Forse non è un caso che tu abbia scelto di mettere in grande evidenza, nelle prime pagine, la dichiarazione del regista Spike Lee che invita, in modo deciso, ciascuno di noi (e cita l'Italia) a non distrarsi guardando al razzismo statunitense, ma a guardare anche il razzismo che c'è nella “propria nazione, la propria città, il proprio quartiere”. Pensi che in Italia c'è speranza che ciò avvenga?

Spike Lee ha ragione. Il razzismo attraversa tutte le società contemporanee e diventa sempre più accentuato, man mano che diminuiscono le sicurezze economiche, le protezioni sociali. Nella sostanza la vulnerabilità del sistema capitalistico evidenziato dalla pandemia ha allargato le distanze tra ricchezze e povertà, determinando differenze sociali sempre più marcate. Tra quelle differenze si annida il razzismo.

……………………………..

Daniele Biacchessi
Il sogno e la ragione
192 pagine, 20.00 Euro
Jaca Book


Quaderni di Oplepo


Passa il tempo e più mi rattrista entrare in una libreria e trovarla invasa da Moccia, Vespa, Tamaro e consociati. Mentre, sia pure faticosamente, si stanno superando le difficoltà scientifiche e organizzative nell’agire il vaccino anti-Covid, si dispera di trovare un vaccino che ci salvi da certi libri. Perciò replico quanto scrissi qualche tempo fa.
Tra le sciagure che colpiscono il nostro tempo c’è l’alluvione di romanzi che affoga le librerie. Mentre leggete queste righe, chissà quanti sono alacremente al lavoro su personaggi, trame, dialoghi. Sordi all’ammonimento di Giorgio Manganelli: «Basta che un libro sia un "romanzo" per assumere un connotato losco».
Ma, don’t panic please! per fortuna esistono anche altre pratiche letterarie così risparmiano fatiche alla marchesa che ancora tanti si ostinano a farla uscire alle 5. Esce, ma non sa dove andare, l’età non le permette amanti, le amiche sono morte da tempo… un disastro!
Delle macchine contemporanee, non è un caso che mi piace il karaoke. Noi crediamo di parlare, ma veniamo parlati.
Bene ha scritto in due righe Brunella Eruli (e quanto ci manca!) richiamandosi a Queneau: “... il tragico greco che scrive i suoi versi obbedendo a regole che conosce perfettamente è più libero del poeta che scrive quello che gli passa per la testa e che è schiavo di regole che ignora”.

Lavora in questa direzione l’OPLEPO (Opificio di Letteratura Potenziale) fondato nel 1990 a Capri da da Raffaele Aragona, Ruggero Campagnoli, Domenico D'Oria.
L’Oplepo – gemello del francese Oulipo – organizza convegni, incontri con autori, pubblicazioni. Fra queste I Quaderni una collana di testi vicini all’area della letteratura potenziale, realizzati in centoventicinque esemplari, numerati da 1 a 125, oltre a 36 copie fuori commercio, numerate da I a XXXVI. I singoli Quaderni di Oplepo sono in vendita fino a esaurimento copie.
I più recenti numeri: “Zoologia fantastica”, “Oooh, OPLEPO!”, “perdurante”.

Per informazioni e richiedere una copia: scrivere a info@oplepo.com oppure a info@inriga.it indirizzo dell'editore.


Basquiat


La Compagnia editoriale Aliberti ha mandato nelle librerie il racconto di un episodio finora sconosciuto della vita di Jean-Michel Basquiat (New York 22.12.1960 – ivi 12.8.1988).e di un suo particolare quadro dipinto in Italia.
Prima d’illustrare quell’episodio, qualche nota biografica su Basquiat.
Con disegni elementari e alfabeti indecifrabili dava forma visiva alle lacerazioni interiori che si manifestano in un segno furioso ricco di cultura suburbana e citazioni dal jazz e dai fumetti.
Pochi sanno che Basquiat venne due volte in Italia condotto da Emilio Mazzoli, grande gallerista di fama internazionale, che lo portò a Modena per la sua prima mostra in Europa.
In uno di quei periodi Basquiat conosce Rossana Sghedoni, assistente di Mazzoli, e le fa un ritratto.
La figlia della Sghedoni, Anna Ferri è l’autrice del libro cui accennavo in apertura. Lo ha intitolato Basquiat Viaggio in Italia di un formidabile genio.
Giornalista e autrice modenese, classe 1982, ha lavorato per diverse testate giornalistiche. Nel 2019 ha pubblicato il racconto “Opera struggente a Modena di un formidabile genio: Basquiat" edito da Il Dondolo in eBook.
E quel particolare quadro? L’incipit chiarisce «Da qualche parte, nel mondo, c’è un enorme quadro che ritrae mia madre con un casco di banane, fatto da Jean-Michel Basquiat – sì, proprio lui – che vale milioni di dollari».
Quel quadro è scomparso.

Dalla presentazione editoriale
«Quella contenuta nel libro è una storia straordinaria e mai raccontata prima. L’ha scritta Anna Ferri, giornalista e autrice modenese che, mettendo insieme aneddoti, interviste esclusive, articoli e testi biografici, ricostruisce le giornate vissute nel nostro Paese dal più celebre e controverso artista visivo degli ultimi decenni. Una narrazione che parte dalla notte di San Valentino, nel 1981 a New York, quando il giovane artista – allora conosciuto come Samo – espone le sue opere alla mostra “New York/New Wave” di Long Island, entrando nella storia dell’arte. Lì viene notato dal gallerista italiano Emilio Mazzoli, che pochi mesi dopo lo porta a Modena per la sua prima personale in assoluto. In quegli anni, la giovane assistente di Mazzoli era Rossana Sghedoni, madre dell’autrice, che divenne prima amica e poi modella di Basquiat. E proprio dal ritratto della madre, Anna Ferri inizia un viaggio nel passato, che ripercorre i due soggiorni di Jean-Michel Basquiat a Modena – nel 1981 e nel 1982 – tra arte, ragazze, iconiche coroncine disegnate sui muri della città, serate nei club. Ma dove sarà, ora, quel quadro? La ricerca di Anna Ferri si tinge di giallo».

Scrive in Prefazione Rodrigo D’Erasmo (violinista, dal 2008 membro degli Afterhours): “… vediamo il giovanissimo JMB annoiarsi nella provincia italiana, fregarsene se la prima mostra non viene capita e tornare un anno dopo da star della scena internazionale (…) un capitolo tutto italiano della storia di JMB che fino a ora nessuno aveva mai potuto osservare così da vicino”.

Anna Ferri
Basquiat
Prefazione di Rodrigo D’Erasmo
Pagine 196, euro14.90
Compagnia editoriale Aliberti


Pene d'amore


Oggi, 8 marzo, voglio segnalare un gran bel libro firmato da un’autrice. Si trova nella collana Le Boe della casa editrice Baldini+Castoldi; è un volume vivace, intelligente, che castigat ridendo mores. Motto che s’addice a una penna che dà insegnamenti morali attraverso forme letterarie satiriche.
Titolo: Pene d’amore (manuale illustrato di sopravvivenza agli ex).
Lo firma Amalia Caratozzolo (AmaliaC).
Nata a Messina nel 1983, si è diplomata nel 2004 in Fumetto alla Scuola Internazionale di Comics, e nel 2007, a Roma, in Illustrazione all’Istituto Europeo di Design dove ha insegnato Incisione su linoleum dal 2010 al 2017.
Ha lavorato per Castelvecchi, Edizioni Anicia, Elliot, Human Foundation, La Stampa.
Dal 2013, illustratrice per Il Corriere della Sera.

Queste brevi note biografiche ben spiegano l’origine compositiva di quel testo cui accennavo in apertura, che è di forma verbovisiva dove il furibondo segno b/n fa risaltare ancora di più le derisorie parole cui s’accompagna e viene accompagnato perché c’è un pregevole equilibrio semantico fra immagini e frasi. Frasi. Già, ma che cosa dicono quelle frasi? Riportano incontri sfortunatissimi con tanti uomini avuti dall’io femminile narrante. Perché sì, d’accordo con Gianna Nannini, com’è difficile sentirsi in due, ma all’autrice di “Pene d’amore”” dice proprio zella! Ne incontra uno peggiore dell’altro. E qui non lasciatevi ingannare dal tono umoristico (spesso irresistibile) dei ritratti dei maschi che sfilano nelle pagine, perché Caratozzolo scherzando scherzando traccia figure in 3D di tipi per niente immaginari.
“Dalle categorie più classiche” – scrive Selvaggia Lucarelli nella prefazione – “quali il narcisista patologico, il Peter Pan irrecuperabile, il traditore seriale a quelle più improbabili (il mostro dello Stretto spicca sugli altri), nella galleria di Amalia si trova di tutto ed è un tutto che evoca incontri propri o racconti di amiche, un po’ come in quei mercatini dell’usato in cui si riconoscono soprammobili identici a quelli di casa o oggetti visti in appartamenti altrui. Non illudetevi però. Nella mappa di Amalia c’è anche un’ironica agiografia di donne che sa di velato biasimo, una lista di «sante creature votate al martirio» e per martirio si intende quella spiccata e suicida propensione tutta femminile a intraprendere relazioni sentimentali con esseri tra lo spregevole e il raccapricciante. Questo libro non è un libro femminista, quello di Amalia, è un libro «femminile». Perché è spietato con gli uomini e per nulla assolutorio con le donne”.

Insomma, pagine godibilissime a cominciare da quel malandrino titolo che mi ha fatto pensare ai tre versi finali di un sonetto di Gioacchino Belli:
Cuer vecchio de spezziale
disce Priàpo; e la su’ mojje pene,
seggno per dio che nun je torna bbene
.

Ancora una cosa, una domanda alla quale il libro di Caratozzolo fa pensare: ma se tanti esperimenti che fa la protagonista di “Pene d’amore” vanno tutti così male, non è perché (hai visto mai?) oltre alla cattiva presenza maschile, oltre al colpevole candore femminile, sia proprio l’amore a mancare?
Il filosofo Jacques Lacan: “L’amore è dare una cosa che non si ha a qualcuna/o che non lo vuole”.
Sia come sia, leggete questo libro, vi divertirete e, inoltre, capirete perché le brave ragazze vanno in paradiso, Amalia Caratozzolo dappertutto.

Dalla presentazione editoriale
«”Pene d’amore” non si pone come un manifesto postfemminista, né invita a una vita da eremita, bensì si può inquadrare come una chiave d’accesso a una sorta di “club”, in cui le persone afflitte dagli stessi tormenti di cuore possano ritrovarsi e sentirsi meno soli. Quale donna, sulla via dell’amore, non ha incontrato almeno una volta un vampiro energetico, un mammone, un vanesio, un infante, un passivo, un seriale, un ambiguo? Amalia Caratozzolo ha avuto la s(fortuna) di incontrarli tutti e questo libro ne è la prova. Tra sante protettrici a cui rivolgersi e consigli per sopravvivere a storie finite, scrive un libro sulle difficoltà di amare. E in fondo, sul desiderio di rifarlo ancora».

Amalia Caratozzolo
Pene d’amore
Prefazione di Selvaggia Lucarelli
Pagine 128, Euro 18.00
Baldini+Castoldi


La scommessa psichedelica

Da un vecchio librino “Millelire” estraggo una cronaca.
“Zero virgola cinque milligrammi di acido lisergico in soluzione. Tre gocce, un sorso. Si siede e aspetta. Sono le due del pomeriggio del 19 aprile 1943: il chimico Albert Hoffmann, 37 anni, da cinque impegnato in esperimenti sugli alcaloidi contenuti nella segale cornuta, ha appena ingerito la prima dose di Lsd della Storia. Aspetta e ancora non sa di avere appena socchiuso quella che Aldous Huxley, un decennio più tardi, avrebbe chiamato la porta della percezione. Ancora non sa che quella soluzione incolore – dietilamide dell’acido lisergico ottenuta per caso, provata per curiosità – vent’anni dopo avrebbe fatto il giro dei mondi, conquistato ragazzi californiani, musicisti anglosassoni, scrittori europei, sognatori viaggianti. Avrebbe creato ostinati cercatori di sé e grandi parole come Rivoluzione Psichedelica.
A proposito, chi inventò il termine “psichedelico”?
Fu Humphry Osmond (morto a 84 anni, il 6 febbraio 2004) a inventare quella parola usandola per la prima volta in uno scambio epistolare con Aldous Huxley.
Perché ciò avvenne? Scrive Massimo De Feo: “Entrambi all’epoca concordavano sul fatto che il termine ‘allucinogeno’, usato in psichiatria per definire sostanze come l’Lsd e la mescalina, non rendesse giustizia degli effetti di quelle sostanze che producono un’ampia gamma di differenti stati di coscienza; e inoltre allucinogeno connotava in senso negativo qualcosa che invece aveva gran bisogno di studi scientifici innovativi e senza pregiudizi”.

Mi è sembrata utile questa premessa per dire di un libro pubblicato dalla casa editrice Quodlibet, intitolato La scommessa psichedelica e si avvale d’una bella copertina di Adarsh Balak: “Acid test” (2015) che raffigura tre birichini che versano taniche di Lsd nell’acquedotto di una città.
Il volume è a cura di Federico di Vita. Nato a Roma, vive a Firenze.
Ha scritto di cibo e gastronomia per il portale turistico regionale VisitTuscany.com e per Intoscana.it. Collabora con diverse testate: “Esquire”, “L’Indiscreto”, “Kobo”, “Dissapore”.
È autore del saggio-inchiesta Pazzi scatenati (Tic, 2012), Premio Speciale nell’ambito del Fiesole 2013; e di “I treni non esplodono. Storie dalla strage di Viareggio” (Piano B, 2016).

Il libro è centrato sulla serie di domande che discendono da una dizione composta di due parole: Rinascimento Psichedelico. Cioè tutto quello che è avvenuto dopo la Rivoluzione Psichedelica che comportò moniti moralistici, divieti polizieschi, fraintendimenti scientifici, allarmi sociali.
"Il Rinascimento c'è, la tendenza è innegabile", risponde Giovanni Battiston riportando quanto dice Alessandro Novazio Direttore del Centro di cultura contemporanea nell'ex birrificio Metzger di Torino, ideatore e coordinatore di PsyCoRe, una rete di studiosi cui si deve tra le altre cose la seconda edizione, conclusa il 13 dicembre 2020, degli Stati generali della Psichedelia in Italia,.
Novazio: «Rinascimento psichedelico? Lo dimostra un dato: nel 2019 gli Stati Generali della Psichedelia prevedevano 40 interventi in una giornata e mezzo, quest’anno ne abbiamo avuti 80 in 4 giorni e abbiamo dovuto dire molti no. Si è avuta una sorta di fotografia dello stato dell'arte nella ricerca sugli stati altri di coscienza e psichedelia. Doveva far parte del Salone del libro di Torino, ma la pandemia ci ha costretto a cambiare l'agenda».

Ricordo che parecchi anni fa, nel 2006, fui invitato a un convegno intitolato “Lo sguardo di Dioniso” che si tenne a Perinaldo dove fra gli interventi ci fu quello di Gilberto Camilla che profeticamente avanzava un futuro che sembra adesso molto vicino.
QUI Federico di Vita il curatore di “La scommessa psichedelica” interviene alla Radio Svizzera Italiana sul profilo del volume.
Solo applausi? No. Pericoli ce ne sono e li ravvisa, ad esempio, in modo chiaro Andrea Betti fin dal titolo del suo intervento: “Perché un Rinascimento non si faccia Restaurazione”

Autori e titoli dei saggi nel libro.
Federico di Vita, Breve storia universale della psichedelia
Peppe Fiore, Il trip report come sottogenere della letteratura di viaggio
Francesca Matteoni, Piante sacre: ayahuasca, sciamanesimo e coscienza ecologica
Ilaria Giannini, Rompere gli schemi: la cura psichedelica alla depressione
Agnese Codignola, L’antidepressivo di Donald Trump
Marco Cappato, Psichedelia e politica
Vanni Santoni, Medicina per il mondo… o per i mercati?
S. Dal Dosso - N. Nicolaus, Oltre la Realtà: Internet e Memetica
Edoardo Camurri, Gnosticismo acido
Carlo Mazza Galanti, Fantadroghe e pseudorealtà.
Chiara Baldini, Tramonto al tempio. I festival psichedelici e gli antichi culti misterici
Federico di Vita, La sindrome di Stendhal nell’era della sua riproducibilità tecnica
Andrea Betti, Perché un Rinascimento non si faccia Restaurazione
Gregorio Magini, Pseudoglossario

Dalla presentazione editoriale
«È possibile immaginare un mondo in cui la depressione è risolta (in due sedute, con l’ayahuasca), anche quella resistente a trattamenti (grazie alla ketamina); dove le dipendenze sono un ricordo: la psilocibina ha lavato via quelle da alcol e tabacco, e l’ibogaina quelle da eroina e cocaina; in quel posto, la paura della morte dei malati terminali è dissolta dall’LSD; mentre il DMT ha aperto le anime a una nuova idea di spiritualità. In realtà quel mondo potrebbe essere già qui, sempre che la scommessa psichedelica venga vinta. Gli autori di questo libro tentano di farlo, domandandosi come la psichedelia definisca già oggi la realtà, provando a dire non solo cosa sono queste sostanze ma indagando cosa fanno e cosa potrebbero ancora fare. In queste pagine si cerca di capire perché, anche se sottotraccia e in modo impalpabile, queste molecole ci riguardano. A scriverle è un gruppo di intellettuali – scrittori, giornalisti, politici, raver, scienziati, critici letterari e memer – che raccontano cosa si nasconde oltre la facciata del «Rinascimento psichedelico», ovvero la serie di rivoluzionarie scoperte scientifiche degli ultimi quindici anni. Oltre a queste c’è un vero e proprio universo da mappare, con un panorama tanto vario quanto imprevedibile, svelato il quale sarà più facile sedersi al tavolo del croupier e puntare consapevolmente. In fondo si tratta di una scommessa, no?».

A cura di Federico di Vita
La scommessa psichedelica
Pagine 320, Euro 18.00
Quodlibet


Piermario Ciani al Prisma Studio

Genova. Il Prisma Studio domani inaugura una mostra, a cura di Ferruccio Giromini intitolata Forever Fun A 70 anni dalla sua apparizione e a 15 dalla sua sparizione dedicata a Piermario Ciani.

Dalla presentazione al Prisma Studio.
Fotografo, mail-artista, graphic designer, ideatore e regista di beffe mediatiche, produttore musicale, editore: Ciani (1951-2016) è stato tutto questo e molto altro ancora nel costante tentativo di dare forma alla sua smisurata e multiforme creatività. Vero artista postmoderno, molto più rilevante di quanto gli venga normalmente riconosciuto, Ciani è stato inoltre un importante connettore di scene, movimenti e generazioni differenti, intessendo una personale rete di contatti con autori e personalità artistiche sparse in tutto il mondo.
Inizialmente attivo come fotografo, Ciani dal 1980 si inserisce nel network internazionale della mail-art. Tra il 1981 e il 1987, insieme a Vittore Baroni prima e Massimo Giacon poi, passa dalla mail-art all’ideazione di TraX, ricerca multimediale capace di coinvolgere mezzo migliaio di personalità artistiche mondiali che danno vita a vinili, audiocassette, riviste, audioriviste, mostre, performance, gadget e beffe mediatiche. Questa esperienza, fa emergere in Ciani l’idea delle identità multiple, per mezzo delle quali è possibile superare il concetto di individuo per approdare a quella di «condividuo». Si attua così la prima metamorfosi dell’artista, che da produttore di immagini si trasforma in network inventore di situazioni. Risultato di tale mutamento sono le collaborazioni al Decentralized Networker Congress nel 1992 e al Luther Blissett Project nel 1994, cui segue l’invenzione di Stickerman, misterioso ideatore e «appicicatore» seriale di adesivi impertinenti. Dalla volontà di Ciani di mescolare e confondere i confini tra singolo e collettività nasce nel 2002 FUN-Funtastic United Nations. Coadiuvato da Baroni e da Emanuela Biancuzzi, Ciani si occupa della regia e della diffusione di tale realtà parallela: avviene così l’ennesima trasfigurazione dell’artista, divenuto ora costruttore di universi alternativi. La sterminata produzione artistica di Ciani, esposta in diverse città in tutto il mondo, tra cui New York, Milano, Berlino, Bruxelles, Parigi e Budapest, è in parte recuperata e ripercorsa negli spazi di Prisma Studio da Ferruccio Giromini, che lo affiancò come critico per diversi anni e che qui ne mette in evidenza varie stagioni creative e differenti modalità comunicative attraverso stampe, poster, francobolli, sticker e altri mezzi espressivi non convenzionali.

Da uno scritto di Vittore Baroni.

«Ho conosciuto di persona Piermario, dopo un paio di scambi postali di fanzine e materiali graficomusicali, nel dicembre 1980 presso l'appartamento bolognese di Fricchetti, un distributore di dischi autoprodotti. Nel corso di quel breve incontro a metà strada tra Friuli e Versilia, progettammo all'impronta la realizzazione di un'audio-rivista spartita a metà, dopo pochi mesi già pronta e stampata col programmatico titolo di "50%". La spontaneità ideativa e la rapidità d'attuazione di quella prima creazione in tandem costituirono la premessa e il modello operativo per il successivo quarto di secolo di intensive collaborazioni a distanza, senza pause significative fino alla prematura scomparsa di P. nel 2006. La nostra partnership artistica si basava su una precisa ripartizione dei compiti – in sintesi, progettavamo assieme, poi a me spettava la redazione dei testi e a Ciani il lavoro grafico – e su un'assoluta identità di vedute, un fatto che allora ci pareva del tutto naturale ma che a posteriori ha rappresentato una coincidenza d'intenti straordinaria anzichenò (mai una vera lite in 25 anni!) (…) Lo sforzo continuativo, i mesi trascorsi a correggere bozze o spedire pacchetti in tutto il mondo, erano però ripagati dal gran privilegio di poter assistere in prima fila all'evoluzione esponenziale delle capacità artistiche di P., febbrilmente intento a superare se stesso ogni giorno con nuove e mirabolanti invenzioni foto/grafiche, mordacemente ironiche oltre che sommamente iconiche, in grado di confrontarsi a testa alta coi lavori dei suoi maestri dichiarati (da Bruno Munari a Stefano Tamburini a David Carson). Una sorpresa e meraviglia che perdura tutt'ora, mista ad un velo di malinconia, ogni volta che mi capita di riaprire il cassetto dei ricordi: siamo tutti Luther Blissett, ma c'è un solo Stickerman».

Dal canto mio, non ricordo come e dove conobbi Piermario, avvenne nei primi anni ’80 perché poco dopo quel primo incontro lo invitai a produrre per Radiorai dove mi occupavo dei programmi sperimentali una sua performance acustica nel contenitore chiamato “Fonosfera”.
Ricordo, questo sì molto bene, l’allegria di quelle ore trascorse a Roma con lui in osterie, e le ore di lavorazione con i tecnici in studio dove esprimeva un’energia incredibile pur muovendosi con timidezza ed eleganza.
L’ultima volta che lo vidi era reduce da una seduta di chemio, mostrava qualche segno di affaticamento fisico ma non interiore. Chiacchiere fra un bicchiere e l’altro ma lui non bevve vino. Ci salutammo sulla soglia di un bar.

Piermario Ciani
Forever Fun
A cura di Ferruccio Giromini
Prisma Studio
Vico dei Ragazzi 14 r, Genova
Info: studioprismagenova@gmail.com
5 marzo – 3 aprile


Maria Rosa Sossai 1 e 2

Ancora qualche settimana per visitare – fino al 28 marzo – La stanza delle meraviglie a Castelbuono.
La mostra è a cura di MariaRosa Sossai (in foto) che intanto prepara l’uscita del secondo numero di fuoriregistro edito da Boîte Editions. .

A Maria Rosa, viaggiando viaggiando su Cosmotaxi, ho chiesto di parlare di questa pubblicazione. Così ha risposto.

«”fuoriregistro” è tante cose: un collettivo redazionale di sei donne e due uomini, un quaderno femminista di educazione e arte contemporanea, una forma di attivismo artistico per stare dentro il sistema dell'arte in modo attivo ma critico, un’opera curatoriale e artistica i cui protagonisti sono coloro che vivono nelle istituzioni, scuole, accademie, ospedali, carceri, ma non hanno spesso voce e rappresentanza.
Ogni numero, con cadenza annuale, avrà un nucleo tematico – teorico, con contributi e collaborazioni italiane e internazionali; e sarà la testimonianza di un’esperienza concreta vissuta ma anche l’esplorazione di forme del vivere insieme, all’insegna di una libera sperimentalità.
Pensavamo che una pubblicazione di tale genere fosse necessaria, nel panorama italiano, dove gli unici che fanno educazione all'arte sono i dipartimenti di didattica dei musei, dove in generale vige ancora una struttura verticistica.
Il primo numero, uscito nel 2019, “Feminisssmmm. Vai pure”, ha avuto come nucleo tematico la relazione sentimentale, compresa la sua eventuale fine e i modi per affrontarla, vista da un’ottica di genere. Il secondo numero in preparazione, invece, sarà sul bene comune».

Ultim'ora: Apprendo adesso che la mostra a Castelbuono è stata prorogata fino al 30 luglio.


Giordano Falzoni


Le Edizioni Mimesis hanno pubblicato gli Atti della giornata di studi tenutasi all’Università dell’Aquila il 27 marzo 2019 sull’opera di Giordano Falzoni.

Dalla presentazione editoriale.
«Il volume raccoglie i documenti del convegno organizzato da Gianluigi Simonetti e Teresa Nocita. L’incontro coordinato da Doriana Legge per il teatro e da Mirko Lino per il cinema, ha inteso concentrarsi sulla figura singolare di Giordano Falzoni, pittore, scrittore e autore teatrale, legato alla frazione romana del Gruppo 63, nonché traduttore e amico di André Breton, interprete per registi del calibro di Fellini e stretto collaboratore di Alberto Grifi, cineasta della Beat Generation».

La pubblicazione di Mimesis è a cura di Teresa Nocita.
Laureata in Filologia Romanza all’università La Sapienza di Roma e addottorata in Letterature del Medioevo presso l’ateneo zurighese. Abilitata quale professore associato in letteratura, filologia e linguistica italiana, attualmente insegna Filologia e Didattica della letteratura italiana all’università degli studi dell’Aquila. Tra i suoi primi interessi c’è la poesia volgare del Trecento, in particolare la lirica minore, e il “Decameron” di Giovanni Boccaccio; ha dedicato attenzione alla neoavanguardia, pubblicando gli scritti letterari di Giordano Falzoni (“Opere”, 2019) e alcune carte autografe inedite dell’artista del Gruppo ‘63 (“Album”, 2012).
Ha in corso alcune ricerche sugli archivi novecenteschi di Elsa Morante e Gianni Celati.

Di solito la pubblicazione degli Atti di un convegno è cosa mesta, ricorda verbali di angosciose riunioni condominiali oppure sentenze di cause per ripartire mobili domestici fra rissosi familiari del de cuius. Teresa Nocita ha ideato, invece, una vivace scansione di pagine – annunciate da una bella copertina del designer Leonardo Crudi – suddivise in quattro scattanti capitoli intitolati: Ricordi, Saggi, Testi, Rassegne.
Quattro sezioni come scrigni che contengono scritti di ieri e di oggi su Giordano Falzoni che da questa impostazione, concettuale e grafica, esce ritratto con il profilo cui ha sempre tenuto, quello di uomo-farfalla e bambulto (ossia bambino-adulto).
L’agile libro accoglie brevi testi di Falzoni e scritti di Renzo Paris, Simone Carella, Alessandro Bosco, Doriana Legge, Giacomo Ravesi, Mirko Lino, Giulio Carlo Argan, Renato Barilli, Giuseppe Bartolucci, Maurizio Calvesi, Giuseppe Selvaggi, Cesare Zavattini e, confessando un conflitto d’interessi in questa nota, aggiungo che il testo è funestato da righe da me redatte.

In un precedente incontro con Teresa Nocita (in foto) le rivolsi alcune domande.
Ne estraggo due risposte che sono illuminanti per interpretare la figura di Falzoni.

Che cosa significò per Falzoni l’adesione al Gruppo ’63?

Mi sembra che Falzoni riconoscesse nel Gruppo un’occasione fondativa per la definizione di una nuova letteratura di qualità, all’interno della moderna società di massa. Molto incline alla sperimentazione, quale lui era, l’adesione alla Neoavanguardia gli permise di spingersi oltre i limiti della scrittura tradizionale. La sua proposta più singolare fu la creazione di un nuovo genere letterario, il “Teatral-cine-romanzo”, del quale pubblicò due esempi su ‘Il Caffè’, “La bananina d’oro”, nel 1968, e “La chiromante”, nel 1969. La natura ibrida e contaminata di queste opere, per quanto cronologicamente successive alle prove del Gruppo ’63, credo che tuttavia affondi le sue radici proprio nella discussione sulle caratteristiche del romanzo, posta al centro dell’incontro di Palermo del 1965. Penso infatti che Falzoni, con l’invenzione di questo nuovo genere letterario, abbia cercato di dare una sua personale risposta al problema della crisi del romanzo della seconda metà del Novecento. La particolare soluzione narrativa adottata dal “Teatral-cine-romanzo”, che assembla elementi romanzeschi, teatrali e cinematografici, cercando di superare le barriere tra testo, immagine e film, si rivela ancora oggi di sconvolgente attualità. Questo ibrido narrativo mostra infatti una singolare analogia con l’ipertesto della nostra epoca digitale, rispondendo alla proprietà intermediale di una scrittura geneticamente collegata a immagine, suono e film.
.
Perché è importante la dimensione ludica in Falzoni?

Perché nelle opere di Giordano Falzoni si percepisce una costante ironia dissimulatrice e canzonatoria, che segna come tratto peculiare la sua scrittura. Probabilmente è un retaggio di matrice avanguardistica, legato al surrealismo e al dadaismo, ma è anche elemento dovuto ad una rivalutazione del gioco, quale strumento creativo come si legge nella tavola B12 degli “Album” di Fano: “La letteratura è gioco, libera attività creativa”. L’affermazione si richiama pure all’estetica Hegeliana, che classifica l’arte come Tätigkeit des Geistes (attività dello spirito) ed esalta la capacità produttiva dell’artista quale processo governato da meccanismi euristici di casualità, analoghi a quelli propri della prassi ludica. Per Falzoni, inoltre, il gioco è un mezzo per recuperare l’universo infantile, vero motivo ispiratore della sua poetica. Come scrive Vito Pandolfi nell’introduzione a Teatro da camera “il nucleo espressivo [..] appare chiaramente fiabesco e gentile, destinato a sollecitare il gioco dell’infanzia. [...] Conscio o meno che ne sia, Giordano Falzoni, in armonia con il rivoluzionario insegnamento di Antonin Artaud, dimostra come il teatro [...] debba dirsi una constante della psiche [e che] in questo senso vada anzitutto riscoperto e ricercato, rinnovandone la sua concreta libertà attraverso l’azione spontanea e imprevedibile». Un gioco, appunto.

…………………………

A cura di Teresa Nocita
Giordano Falzoni
Pagine 296, Euro 14.00
Mimesis Edizioni


Un robot per vincere le tentazioni (1)


La casa editrice Dedalo ha pubblicato un nuovo saggio di Paolo Gallina intitolato Un robot per vincere le tentazioni Come le macchine antiedonistiche boicottano i nostri istinti.
Gallina è professore di Robotica presso l’Università di Trieste.
Autore di numerosi articoli scientifici nel campo dell’interazione uomo-macchina e della Robotica, per Dedalo, ha pubblicato L'anima delle macchine(2015, Premio Internazionale Galileo e Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica) e La mente liquida (2019).
Nel 2011 ha pubblicato per Mondadori La formula matematica della felicità.

Per visitare un suo spazio in Rete: CLIC!

Dalla presentazione editoriale.
«Vorresti metterti a dieta, ma la tentazione dello spuntino di mezzanotte è irresistibile... E se il tuo frigo non si aprisse se non al momento dei pasti?
Ormai è un’ossessione: controlli le e-mail e i social network un numero spropositato di volte al giorno. Se vuoi liberarti di questo comportamento compulsivo, e vivere con meno stress, c’è un software che fa per te, capace di bloccare ogni connessione internet per un periodo prestabilito e costringerti a evitare qualsiasi distrazione.
Le macchine antiedonistiche (MAE) sono congegni capaci di sostituirsi alla nostra volontà, scientificamente ideati per impedire a un utente di raggiungere un piacere immediato in virtù di un beneficio a lungo termine. Tutti gli studi più recenti ne provano la validità, ma quali sono i rischi tecnologici ed etici? E gli effetti benefici per la nostra salute? In che modo possono aiutarci a combattere i nostri vizi e vincere le dipendenze? E, soprattutto, come condizioneranno la nostra vita e il nostro futuro».

Segue ora un incontro con Paolo Gallina


Un robot per vincere le tentazioni (2)


A Paolo Gallina (in foto) ho rivolto alcune domande.

Tre domande per una risposta: come, quando e perché nasce questo libro

Non ricordo esattamente quando ho preso la decisione di scrivere questo libro però ricordo che a un certo punto ho iniziato a cercare materiale che avesse a che fare con le macchine anti edonistiche e mi sono reso conto che non esisteva un saggio scientifico che si occupasse dell’argomento per esteso. Da qui la decisione di colmare questo gap, nei limiti delle mie competenze.

Che cosa sono le MAE (Macchine Anti Edonistiche)? Quale la loro funzione?

Le MAE sono tecnologie che l'uomo crea per impedirsi di provare un piacere immediato in virtù di un beneficio a lungo periodo. Faccio un esempio concreto: se io so che la notte la tentazione di fare spuntini notturni vince la mia forza di volontà, posso decidere consapevolmente di chiudere con un lucchetto a tempo il frigorifero. Il frigorifero perciò sarà di nuovo accessibile l'indomani. Il lucchetto perciò si configura in questo caso come una macchina anti edonistica, in quanto mi impedisce di provare il piacere immediato del cibo per permettermi di non abbuffarmi, e quindi, nel lungo periodo, di aumentare la qualità della vita.

Scrivi che “le tecnologie associate alle MAE si stanno sviluppando a ritmi esponenziali, ma la società non ne ha consapevolezza”. Puoi fare qualche esempio di quello sviluppo?

L'uomo ha sempre impiegato tecniche di “commitment”. Il termine indica atteggiamenti che limitano la libertà di una persona nel futuro. Esempio: se io so che quando vado in città mi lascio andare a futili acquisti, decido di mettere pochi soldi nel portafoglio. Quello che è cambiato adesso rispetto al passato è il livello di tecnologia. I sistemi digitali sono ramificati, efficiente e portatili. Ciò permette di creare macchine anti edonistiche molto efficaci. Per esempio, esistono software in grado di bloccare i social nel momento in cui io devo concentrarmi sul lavoro. oppure esistono svariate app che spronano a fare esercizi fisici. Il trend del mercato è in aumento perché la volontà del singolo individuo è mediamente molto bassa rispetto alle necessità. Sotto gli occhi di tutti è il fenomeno dell'obesità, chiaro indice dell'incapacità dell'uomo di resistere alle tentazioni

Le MAE possono essere usate anche contro le dipendenze da droghe o contro comportamenti derivati da disturbi ossessivo compulsivi?

Bisogna distinguere diverse fasi della dipendenza. Quando il soggetto sta assumendo droghe è molto difficile intervenire. Il richiamo delle droghe in una persona dipendente è così intenso che tutte le MAE operanti sul principio di ricompense deterrente sono inefficaci. In genere i meccanismi legati alla coercizione possono essere benefici. Tuttavia, quando un soggetto è uscito dalla fase acuta le MAE possono essere di ausilio. Quel che è certo è che non possono sostituirsi alle terapie di recupero tradizionali ma solo affiancarsi. Altro discorso vale per alcuni disturbi compulsivi. Io stesso ho utilizzato una MAE di mia invenzione per curare la mia onicofagia:

Un capitolo del tuo libro è intitolato “MAE, arte e creatività”. Come incontrano le MAE l’area artistica?

Beh, le MAE hanno ispirato una performance artistica. Per un mese un mio amico artista ed io ci siamo controllati i pesi delle rispettive bilance per verificare il nostro dimagrire. In realtà l'obiettivo principale era quello di “ripulire” i sensi del gusto dagli eccessi del cibo in maniera tale da fruire in maniera sublime di una cena perfetta. Infatti, come premio del nostro dimagrimento, in collaborazione col ristorante Ratanà di Milano l'associazione Slow Food, abbiamo completato la performance con una cena sublime. Il principio è molto semplice: se si mangia riso per una settimana, una pasta all'amatriciana verrà percepita dai sensi come fantastica. Il senso della performance era proprio questo: deprivare i sensi del gusto per fruire in maniera più intensa del piacere del cibo. Se l’arte è fruizione, noi abbiamo voluto intensificarla attraverso la manipolazione dei sensi.

John Cage disse: “Molti hanno paura del nuovo. A me spaventa il vecchio”...

Da sempre ci sono due forze antagoniste che guidano gli sviluppi del progresso: l'entusiasmo per l'innovazione e la paura del nuovo. Entrambe hanno ragion d'essere. Sono insite dell'essere umano perché costruiscono l'equilibrio. In particolare, temere Il nuovo permette di porre dubbi e domande ai quali scienziati e ricercatori devono dare risposte.

………………………………....

Paolo Gallina
Un robot per vincere le tentazioni
Pagine 224, Euro 17.00
Dedalo


Ippocrate è morto ad Auschwitz

“Le epoche di fervorose certezze eccellono in imprese sanguinarie”, diceva Elias Canetti.
Un’ondata di cruente certezze ha investito il secolo scorso.
Mai prima, sia chiaro, è esistita un’età dell’oro, però aldilà di armi di sempre maggiore potenza che hanno determinato un numero di vittime neppure immaginabile precedentemente, si è assistito al perfezionamento della prigionia di massa, al trionfo della malvagità espressa nel mondo concentrazionario.
Curiosamente, ma non troppo, le due maggiori ideologie del XX secolo, il comunismo e il fascismo, hanno mostrato segni che valgono quasi quanto un lapsus.
Il primo gulag apparve alle isole Solovki, vicino al Circolo Polare Artico. Entrando in quel luogo, voluto da Lenin, in funzione dal 1919, si leggeva: «Il lavoro fortifica l'anima e il corpo».
All'ingresso del lager nazista di Auschwitz, operativo dal 1940, c’era scritto «Il lavoro rende liberi». Chissà perché il Pcus non denunciò per plagio lo Nsdap alla Siae.
Forse perché i nazisti apportarono al disegno dell’annientamento brutale praticato dai sovietici degli avversari politici e militari fatti prigionieri, una maiuscola variazione su tema: la persecuzione antisemita e, perseguendo la cruenta certezza dell’esistenza di una purezza razziale, pure la strage di omosessuali, disabili, zingari.
In questa variante s’inquadra una tragedia nella tragedia: gli esperimenti clinici operati dai medici tedeschi usando i corpi dei prigionieri.
Le sperimentazioni alle quali furono sottoposti uomini, donne, bambini, è raccapricciante: simulazione di ambienti a migliaia di metri d’altezza senz’ossigeno; inoculazione di malattie quali malaria, tifo, tetano, epatite; sezionamento di arti; ferite sulle quali veniva soffiato gas mostarda; giorni e giorni senza cibo o sonno, e altre atrocità.

La casa editrice Lindau ha pubblicato un poderoso saggio che illumina in modo magistrale l’orrore che si verificò nei lager.
Titolo: Ippocrate è morto ad Auschwitz La vera storia dei medici nazisti
Ne è autore Giulio Meotti.
Giornalista del quotidiano «Il Foglio» dal 2003. Ha firmato per diverse testate internazionali, fra cui il «Wall Street Journal» e il «Jerusalem Post», ha collaborato con think tank (come il Gatestone Institute) e istituti di ricerca. È autore di molti libri, fra cui Non smetteremo di danzare (Premio Capalbio), La fine dell'Europa (Premio Capri), La tomba di Dio, Notre-Dame brucia, Israele. L'ultimo Stato europeo.

Meotti ha scritto questo volume imperdibile (in copertina una foto di Mengele) per chi voglia conoscere a fondo la storia di uno dei neri momenti vissuto dall’umanità, quel lettore troverà un’imponente ricostruzione storica corredata con nomi, luoghi, date, estratti di documenti ufficiali, verbali d’interrogatori. Tutto questo fa risaltare, purtroppo, ancora di più l’assenza di un Indice dei Nomi in questo prezioso volume.
Com’è possibile che donne e uomini che avevano prestato il giuramento di Ippocrate compissero tante nefandezze?
C’è una tremenda data all’origine del massacro. Dopo la presa del potere di Hitler nel 1933, fu autorizzata una “Corte Superiore per la Salute ereditaria”.
Così si aggravò il degrado della medicina tedesca. Perché Hitler agì partendo “da un’ideologia diffusa” – come scrive Meotti – “già all’epoca della liberale e democratica Repubblica di Weimar che distingueva freddamente tra le vite «degne» e quelle «indegne» di essere vissute”.
Molti crimini risalgono a prima del periodo bellico, quando il 15 ottobre 1939 Hitler ordinò la Gnadentod (“morte misericordiosa”) e si ebbe l’uso del gas per la prima volta a Poznan in Polonia. La criminalità nasce sempre da un terreno predisposto a farla crescere robusta.
Quale fu, terminata la guerra, il destino di quei medici che tradirono Ippocrate?
Non tutti furono puniti. In molti la fecero franca. Clamoroso il caso di tre esimi professionisti che decisero la sorte di bambini disabili. Quanti di loro furono messi a morte? “Migliaia” – riferisce Meotti – “Nessuno dei tre pagherà. Catel fino al 1960 sarà ordinario di pediatria all’Università di Kiel. Heinze morirà nel 1983 lavorando come psichiatra a Hannover. Wentzler tornerà a fare il medico fino alla morte nel 1973”.
È solo uno dei tanti esempi contenuti in questo libro bello e necessario. Necessario perché oggi invece di consegnare alla storia universale dell’infamia quei tragici avvenimenti, assistiamo da più parti all’avanzare di tenebrosi negazionismi.
Avviandomi alla conclusione di queste righe, voglio sottolineare che quando si parla di aborto ed eutanasia è necessario ben distinguere quando quegli atti sono imposti con la forza da quando sono richiesti e non concessi. Differenza non di poco momento.
Giuste, quindi, le manifestazioni di questi giorni delle donne polacche contro la promulgazione nel loro paese di leggi antiabortiste.
Circa l’eutanasia, voglio ricordare parole di Indro Montanelli: Se noi abbiamo un diritto alla vita, abbiamo anche un diritto alla morte; sta a noi, deve essere riconosciuto a noi, il diritto di decidere il quando e il come della nostra morte”.

…………….........................……..

Giulio Meotti
Ippocrate è morto ad Auschwitz
Pagine 364, Euro 24.00
Volume con corredo fotografico
Lindau


Io dico Io - I say I


Titolo della mostra che inaugura oggi a Roma alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, è Io dico Io – I say I liberamente tratto da Carla Lonzi.
È a cura di Cecilia Canziani, Lara Conte, Paola Ugolini

In foto: Marta Roberti “Abbracciando me stessa con parrucca di pangolino”
2020, disegno su carta dello yunnan, 200x135

In mostra:
Carla Accardi, Pippa Bacca, Elisabetta Benassi, Rossella Biscotti, Irma Blank, Renata Boero, Monica Bonvicini, Benni Bosetto, Chiara Camoni, Ludovica Carbotta, Lisetta Carmi, Monica Carocci, Gea Casolaro, Adelaide Cioni, Daniela Comani, Daniela De Lorenzo, Maria Adele Del Vecchio, Federica Di Carlo, Rä di Martino, Bruna Esposito, Cleo Fariselli, Giosetta Fioroni, Jacky Fleming, Linda Fregni Nagler, Silvia Giambrone, Laura Grisi, Ketty La Rocca, Beatrice Meoni, Marisa Merz, Sabrina Mezzaqui, Camilla Micheli, Marzia Migliora, Elisa Montessori, Maria Morganti, Liliana Moro, Alek O., Marinella Pirelli, Paola Pivi, Antonietta Raphaël, Anna Raimondo, Carol Rama, Marta Roberti, Suzanne Santoro, Marinella Senatore, Ivana Spinelli, Alessandra Spranzi, Grazia Toderi, Tatiana Trouvé, Francesca Woodman.

Dal comunicato stampa della Galleria
«“Io dico Io – I say I” nasce dalla necessità di prendere la parola e parlare in prima persona, per affermare la propria soggettività, componendo una sola moltitudine, una molteplicità di io che risuona di consonanze e dissonanze.
Concepita come un’indagine aperta sul presente, Io dico Io – I say I polverizza schematismi e statuti preordinati, tracciando un percorso non lineare: una narrazione che sedimenta storie, sguardi, immaginari. Un selfie, un autoritratto, un’avventura. La mostra riunisce artiste italiane di generazioni diverse che in differenti contesti storici e sociali hanno raccontato la propria avventura dell’autenticità, restituendo attraverso una costellazione di visioni il proprio modo di abitare il mondo. L’autorappresentazione, lo sguardo che mette in discussione i ruoli, la scrittura come pratica e racconto di sé, il corpo come misura, limite, sconfinamento, la resistenza all’omologazione sono solo alcuni dei temi attorno ai quali la mostra costruisce un percorso stratificato, ribaltando punti di vista, creando nuove visioni e narrazioni. Io dico Io – I say I sfugge a qualsiasi sguardo retrospettivo e sta nel presente; non inventa nuove parole, ma guarda a fondo in quella che abbiamo – femminismo – presentando modi differenti e singolari di dare corpo a questa istanza. Dal Salone Centrale, nucleo propulsore e di irradiazione, la mostra si relaziona naturalmente con Time is Out of Joint. Occupa le sale e le zone liminali del museo e si allaccia al percorso che presenta per la prima volta al pubblico i materiali dell’Archivio Carla Lonzi. Nella parte dedicata all’Archivio il pensiero radicale della critica d’arte e teorica femminista dialoga con due nuove produzioni realizzate per l’occasione da artiste italiane e con le opere delle artiste appartenenti alla collezione della Galleria Nazionale, rivelando le molteplici e inedite possibilità di lettura di una figura internazionalmente riconosciuta per la storia dell’arte e il pensiero del femminismo.
Completano il percorso i video vincitori della open call Taci, Anzi, Parla, lanciata dalla Galleria Nazionale durante il lockdown, che invitava a riflettere sulla propria voce, immagine, storia, e raccontarsi attraverso il format del video-selfie.

La mostra è accompagnata da una pubblicazione a cura di Silvana Editoriale con i contributi di: Cecilia Canziani, Lara Conte, Paola Ugolini, Linda Bertelli, Rosi Braidotti, Annarosa Buttarelli, Barbara Carnevali, Maria Grazia Chiuri, Giovanna Coltelli, Liliana Ellena, Maura Gancitano, Vera Gheno, Anna Gorchakovskaya, Massimo Mininni, Francesca Palmieri, Chiara Zamboni.

Galleria Nazionale d’Arte Moderna
Io dico Io – I say I
A cura di
Cecilia Canziani, Lara Conte, Paola Ugolini
Viale delle Belle Arti 131 - Roma
T +39 06 322981 - gan-amc@beniculturali.it
1 marzo – 23 maggio ‘21



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