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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Apeiron: una nuova collana

La casa editrice Apeiron ha varato una nuova collana chiamata Pensieri.
La dirige Eleonora Adorni (in foto) laureata con lode in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna con una tesi di ricerca condotta presso l’Acquario di Genova sulle implicazioni etiche e antropologiche dell’esposizione museale di essere viventi.
È membro del comitato editoriale di "Animal studies", rivista italiana di antispecismo e di "Relations. Beyond Anthropocentrism", collabora alle pagine culturali del quotidiano “il Manifesto”.

Il primo volume della collana è dell’etologo Roberto Marchesini ed è intitolato Pensieri sul cane e altri animali.
L’autore è stato ospite di questo sito in occasione di due precedenti sue pubblicazioni: Etologia filosofica e Il cane secondo me.

Quest’agile librino contiene una serie di riflessioni filosofiche su di noi e sul rapporto fra noi umani e gli altri animali.
Eccone qualche esempio.

L’antropocentrismo è spesso una smania di controllo, il bisogno d’avere tutto sotto le nostre mani. Anche l’affettività spesso è una forma di controllo. Talvolta vorrei diventare pungente come un porcospino, urticante come una medusa, incandescente come il fuoco, tagliente come un rasoio, abrasivo come l’asfalto… ai compulsivi della carezza.

Se il bambino cade nella gabbia del gorilla, se i caprioli scortecciano i vigneti, se i cinghiali scorrazzano per i boschi, se i daini sono troppi, se le nutrie minacciano gli argini, i lupi aggrediscono gli armenti, se l’orso rincorre il fungaiolo… c’è sempre un mezzo sicuramente efficace: sparare. Mi sembra tratto da un film di Sergio Leone. Se un animale incontra un umano quell’animale è già morto.

L’essere umano fa fatica a comprendere la socialità sia del gatto sia del cane, per cui impropriamente dà dell’opportunista al primo e dell’ossequioso al secondo. Il problema è sempre lo stesso: non siamo la misura del mondo.

Se portassi un gatto con me lo sfrutterei, se lasciassi a casa il cane lo maltratterei. Non si tratta di dare diritti universali ai diversi, ma di riconoscere diritti alla diversità.

Roberto Marchesini
Pensieri sul cane
e su altri animali
Pagine 62, Euro 5.00
Apeiron


Archivio letterario del Touring


Tra le novità apportate da Franco Iseppi (in foto) da quando ha assunto la presidenza del Touring Club Italiano c’è quella di pubblicare all’inizio di ogni anno un librino, con temi legati al viaggio e all’ambiente presenti nell’imponente archivio di scritti di cui è fornito il Club.

Ad esempio, si sono avuti testi che vanno da Italo Calvino (“Castelli di delizie e castelli del terrore”) a Valentino Bompiani, (“Le cose assenti”); da Dino Buzzati (“Grandezza e miseria dei viaggi”) a Giulio Carlo Argan, (“Roma - le ragioni di una visita”); da Paolo Volponi (“ Attraverso l’Italia”) ad altri ancora.

Scrive Iseppi nella presentazione del testo di quest’anno: Desideriamo proporre di leggere un contributo (del nostro fondatore, Luigi Vittorio Bertarelli) che non ha un particolare valore letterario, anzi, la lingua dell’epoca non facilita una lettura veloce, mentre è un significativo testo di riflessione. Siamo nel settembre del 1917, la prima Guerra mondiale è ancora in pieno svolgimento e le sorti, per l’Italia, non sono molto favorevoli. Poco dopo verrà Caporetto. Il Touring lancia una nuova rivista mensile. Si tratta di “Le vie d’Italia”, un periodico che vivrà ininterrottamente per almeno cinquant’anni spesso raggiungendo tirature da record.

Nella stessa prefazione, Iseppi propone un’idea che nasce dalla constatazione del cospicuo valore della documentazione dell’Archivio storico del Touring, già frequentato da molti studenti per tesi di laurea in materie umanistiche.
Iseppi fra l’altro dice Non nascondiamo l’auspicio che qualche storico sia interessato a scrivere in forma completa la nostra storia […] Finora il il Toring non ha ritenuto di farlo per non gettare, magari ingiustamente, un’ombra di parzialità, di sottintesa volontà agiografica.

Luigi Vittorio Bertarelli
da “Le vie d’Italia”
Touring Club Italiano
Pagine 16, s. i. p.


Mi ricordo


Tra le opere di un protagonista della cultura europea qual è Georges Perec spicca “Mi ricordo” (Je me souviens, 1978), testo poi trasposto per il teatro da Sami Frey. Quell’opera è generata da un’altra come s’apprende in esergo dove Perec scrive: «Il titolo, la forma e, in certo qual modo, lo spirito di questi testi s’ispirano a “I remember” di Joe Brainard».
Quelle poche righe contribuirono a far conoscere Joe Brainard che era poco noto all’epoca e ancora oggi è un nome che, pur meritando maggiore fama, pochi ne sanno.
Nato a Salem (Massachusetts), l’11 marzo 1942 è stato un poeta, scrittore e pittore.
La sua opera include assemblaggi, collages, disegni e dipinti. Trascorse la sua infanzia a Tulsa in Oklahoma. Durante gli anni del liceo, collaborò con l’incarico di art director alla rivista letteraria ‘The White Dove Review’. Dopo aver terminato il Dayton Art Institute, riprese a frequentare gli amici del White Dove, riscuotendo un buon successo con le sue opere sino ai primi anni '80.
Il suo lavoro più conosciuto resta, però, un libro, proprio “I remember” pubblicato nel 1970, otto anni prima di suscitare il susseguente testo perecchiano.
Si ritirò dalla scena artistica nei primi anni Ottanta e morì di Aids a New York il 25 maggio del 1994.

La versione italiana di Mi ricordo, con una prefazione di Paul Auster, si deve alla casa editrice Lindau che l’ha stampata nel 2014 (… a proposito di Lindau, in questa Giornata della Memoria, consultate il suo sito web: contiene utili suggerimenti di lettura); l’anno dopo Lindau pubblicherà, dello stesso autore, Autoritratto.
Brainard concepì “Mi ricordo” nell’estate del 1969 e subito lo comunicò alla poetessa Anne Waldman: «In questi giorni sono eccitatissimo per un pezzo che sto ancora scrivendo, si intitola Mi ricordo. Mi sento molto Dio che scrive la Bibbia. Cioè, mi sembra di non essere io a scriverlo, ma che sia attraverso di me che viene scritto. Penso anche che parli di tutti quanti, oltre che di me. E questo mi piace. Cioè, mi sento come se fossi tutti. Ed è una bella sensazione. Non durerà. Ma me la godo finché posso».

Ma in quale cosa consiste il fascino di questo testo?
È una macchina che in forma letteraria restituisce frammenti di memoria letterale.
In massima parte nello spazio di un rigo solo che sempre comincia con due parole. “Mi ricordo”.
Una folla di persone ignote e personaggi noti, immagini, sensazioni, lampi visivi o sonori che illuminano o rabbuiano la vita trascorsa di chi scrive (Brainard: Mi ricordo la Coca-Cola alla ciliegia, Perec: Mi ricordo le pillolette “Carter” per il fegato).
Ricordi personali scanditi da altri collettivi (Brainard: Mi ricordo quando i negri dovevano sedersi in fondo all’autobus, Perec: Mi ricordo la bomba atomica).
Ricordi, tanti ricordi, e tutti appaiono come relitti che galleggiano dopo un naufragio, là un vecchio lume, lì un gingillo, più oltre un ormai inutile salvagente.
Eppure quella frammentazione della memoria riesce a ricostruire il percorso di un’esistenza e l’ambiente storico e sociale nel quale gallegiano quelle memorie minime.
Un libro non per tutti (chi vuole trame e storie si rivolga altrove), ma che tutti possono scrivere secondo Perec il quale vuole che il suo “Mi ricordo” si concluda con la seguente frase: “Su richiesta dell’autore, l’editore ha lasciato qui di seguito qualche pagina bianca dove il lettore potrà annotare i ‘Mi ricordo’ che, come ci auguriamo, gli avrà suscitato la lettura di questi”.

Paul Auster nella prefazione scrive: “Questo libro resta nuovo, strano e sorprendente perché, per quanto breve, Mi ricordo è infinito, uno di quei rari libri che non si esauriscono mai”.
Thais Siciliano, traduttrice di Brainard: “Mi ricordo è un libro tenero, commovente, ma anche spassoso e arguto, ricco di esperienze più o meno imbarazzanti, di fantasie, di riflessioni e pensieri che prima o poi sono venuti in mente a chiunque. Brainard si mette in gioco senza vanità, e senza risparmiarci davvero nulla: insomma, se vi scandalizzate facilmente state alla larga da questo libro".

Joe Brainard
Mi ricordo
Traduzione di Thais Siciliano
Collaborazione di Susanna Basso
Prefazione di Paul Auster
Pagine 170, Euro 14.00
Lindau


Giornata della Memoria


“Le epoche di fervorose certezze eccellono in imprese sanguinarie”, diceva Elias Canetti.
Un’ondata di cruente certezze fu tra le cause dell’Olocausto.
Oggi, invece di consegnare alla storia universale dell’infamia quei tragici avvenimenti, assistiamo da più parti all’avanzare di tenebrosi revisionismi oppure a stanche ritualità commemorative che di certo non aiutano a capire e interpretare quei fatti.
La data per la “Giornata della Memoria” che si celebra oggi fu scelta per ricordare il 27 gennaio 1945, quando le truppe dell'Armata Rossa, nel corso dell'offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la città polacca di Oświecim (nota con il nome tedesco di Auschwitz).
Lì scoprirono l’atroce campo di concentramento e liberarono i superstiti. La scoperta d’Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l'orrore del genocidio nazista, della Shoah. Shoah, in ebraico significa “annientamento”; indica lo sterminio di oltre sei milioni d’ebrei ed è da preferire questo termine a “olocausto” per eliminare qualunque idea di perniciosa, e sviante, religiosità insita in quest’ultimo.

I nazisti non furono soli nel commettere quel crimine contro l’umanità, furono aiutati da molti governi collaborazionisti e, prima ancora, dal fascismo italiano che il 6 ottobre 1938 promulgando le leggi razziali determinò la perdita dei diritti civili per 58mila italiani, parte dei quali poi deportati in Germania e 8mila di loro morti nei lager.
Infamia che discendeva dal ‘Manifesto della Razza’, pubblicato il 14 luglio dello stesso anno, firmato da 10 scienziati italiani, sorretti da altre 329 firme; per sapere chi erano e come agirono consiglio la lettura di un volume che segnalai tempo fa in queste pagine web: I dieci.
Del resto, perché meravigliarsene? Il nostro è un paese in cui l’ex presidente del Consiglio dei Ministri Berlusconi alla vigilia di una Giornata della Memoria raccontò barzellette sui lager e ha definito “luoghi di villeggiatura” i paesi in cui il fascismo confinò gli oppositori.

Ho ricevuto parecchi comunicati che segnalano molti spettacoli e tante mostre in Italia in questo giorno, citarne alcuni potrebbe significare escludere altri.
Allora scontento tutti e qui troverete 9 immagini di un’opera - Yolocaust - pubblicata dall'ottimo webmag Exibart. E' dell'autore satirico tedesco-israeliano Shahak Shapira autore che ha agito sul tema della Shoah legandolo a una triste moda dei nostri giorni.


Tre appuntamenti alla Ragghianti


La Fondazione Ragghianti di Lucca (in foto uno scorcio) – è dal giugno scorso diretta da Paolo Bolpagni che, pur nel solco della tradizione di quell’istituzione lucchese, non trascura lo scenario dei nostri giorni; ricordo, ad esempio, la mostra da lui curata, proprio alla Fondazione Ragghianti, "Sguardi Paralleli”.
È tra i primi storici dell’arte a usare i nuovi media e, infatti …nel 2011 ha creato il canale YouTube “Regola d’arte”, realizzando, fino al 2015, venticinque video in cui ha raccontato l’arte, i suoi protagonisti, i movimenti e le tendenze in “puntate” della durata di pochi minuti (a tutt’oggi il canale ha totalizzato oltre duecentomila visualizzazioni da più di cento paesi del mondo).
Non sorprende, quindi, che abbia ideato un ciclo di proiezioni – è intitolato I maestri del cinema interpretano la storia dell’arte – su di un tema di grande interesse investigato da autori quali Arnheim, Panofsky, Ejzenstejn, Rohmer.
Un tema che dimostra come il medium video-cinematografico possa diventare uno strumento di interpretazione critica e di divulgazione, secondo l’esempio pionieristico fornito da Carlo Ludovico Ragghianti con i suoi critofilm.
Nome di Ragghianti che troviamo ovviamente anche in questo scritto di Ninni Radicini: “Negli anni ’50 un certo numero di artisti scelgono di entrare in modo diretto nell'ambito cinematografico. I fondatori di Forma 1 frequentano il Centro Sperimentale e uno di loro, Mino Guerrini, diventerà regista, girando varie pellicole tra gli anni '60 e '80. Negli anni '60 arriva la Pop Art e il rapporto tra arte e cinema cambia ancora. Soprattutto, si afferma la televisione che incide in maniera definitiva sul modo si costruire l'immagine e di relazionarla con lo spettatore.
Sul rapporto tra macchina da presa e opera d'arte le valutazioni differivano. Ad affermarsi fu lo stile di Luciano Emmer in cui l'opera veniva adattata agli standard cinematografici. Non mancarono gli storici dell'arte passati alla regia, come Carlo Ludovico Ragghianti, che tentò di realizzare una sintesi tra il purovisibilismo viennese e la sua formazione crociana, e Roberto Longhi, una delle personalità più influenti nello sviluppo teorico del cinema degli anni '50 e '60”.

Alla Fondazione, in collaborazione con l’Associazione Terzopiano, il programma prevede:

Sabato 28 gennaio 2017, ore 17
Luciano Emmer: Leonardo da Vinci, 1952, documentario, 52 minuti

Sabato 4 febbraio 2017, ore 17
Michelangelo Antonioni: Lo sguardo di Michelangelo, 2004, cortometraggio, 15 minuti
Carlo Ludovico Ragghianti: Michelangiolo, 1964, critofilm, 78 minuti

Sabato 11 febbraio 2017, ore 17
Mario Martone: Caravaggio, l’ultimo tempo, 2005, documentario, 41 minuti

Si inizia, quindi, con il documentario a colori Leonardo da Vinci, diretto da Luciano Emmer nel 1952, mentre l’appuntamento di sabato 4 febbraio è animato da un originale abbinamento che vede protagonisti Carlo Ludovico Ragghianti e Michelangelo Antonioni, entrambi alle prese con l’analisi dell’opera di Michelangelo Buonarroti, un’interpretazione storico-critica e una visione poetica a confronto, in un percorso all’insegna della fascinazione per uno dei massimi geni dell’arte rinascimentale. Il ciclo chiude sabato 11 febbraio con un omaggio a un altro protagonista dell’arte italiana, Michelangelo Merisi: Caravaggio, l’ultimo tempo (2005), raccontato dal regista napoletano Mario Martone.
Gli incontri, a ingresso libero, con inizio ore 17.00, saranno introdotti da Alessandro Romanini e da Paolo Bolpagni

Ufficio Stampa: Elena Fiori, elena.fiori@fondazioneragghianti.it

I maestri del cinema interpretano la storia dell’arte
Fondazione Centro Studi sull’Arte Ragghianti
Via San Micheletto 3, Lucca
Info: tel. +39 0583 - 46 72 05


Vent'anni con l'Ateo


Fra gli anniversari di quest’anno ricordo con gioia che ricorrono trent’anni dalla nascita dell'Uaar e il suo organo di stampa (il bimestrale "L'Ateo" ben diretto dal tandem Francesco D’AlpaMaria Turchetto) nel più recente numero (109) festeggia i suoi vent’anni di vita.
I condirettori chiedono ai lettori d’intervenire sul tema “cartaceo o digitale” circa il futuro della rivista.
In breve: edizione cartacea affiancata da indici on line per autore e argomento (Turchetto); sistema misto: base cartacea espansa in Rete (D’Alpa).

Da lettore del bimestrale, rispondo al quesito dicendo che mi sembrano due buone proposte, ma, qualsivoglia sia la scelta, un consiglio ce l’ho: accorciare gli articoli. Intendiamoci, sono sempre interessanti e scritti bene, trattano argomenti sia storici sia d'attualità difficilmente reperibili altrove, ma, forse, gioverebbe loro una meno lunga estensione.

L’Ateo n. 109 presenta un interessante inserto “speciale libri” – intitolato con goduriosa malizia Index Librorum Legendorum – recensendo volumi dei quali mai ne sentirete sulla stampa, alla radio o in tv; un raro e prezioso contributo alla conoscenza di notevoli pubblicazioni laiche

Vignette e lettere dei lettori, contribuiscono ad arricchire le pagine.

La rivista "L'Ateo" è in vendita nelle seguenti librerie al prezzo di 4.00 euro

QUI la lista delle biblioteche in cui è possibile leggere la rivista.


Nuove chiavi di lettura


Tra le collane della casa editrice Zanichelli, ha incontrato gran favore di pubblico e di critica (meritandosi per ben due volte il premio Galileo per la divulgazione scientifica) Chiavi di lettura.
Si tratta di piccoli libri scritti da scienziati di riconosciuto valore. Affrontano temi di rilievo per la realtà contemporanea con un linguaggio chiaro, esatto, rapido. Mettono in risalto il collegamento tra la storia delle idee e i confini della ricerca, e aiutano a capire come la scienza e la tecnologia influenzano il nostro modo di vivere e di pensare.

La collana è a cura di Lisa Vozza (in foto).
Biologa e scrittrice, è Chief Scientific Officer dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC). In passato ha lavorato per le edizioni europee di Scientific American.
Fra i suoi libri, in questa collana: “Nella mente degli altri” con Giacomo Rizzolatti (2007), “I vaccini dell’era globale” (2009, Premio letterario Galileo 2010), “Come nascono le medicine”, con Maurizio D’Incalci (2014), “Piccoli equivoci tra noi animali”, con Giorgio Vallortigara (2015), “Il gene riluttante” insieme con il genetista Guido Barbujani che ha lavorato alla State University of New York a Stony Brook (New York), alle Università di Padova e Bologna, e dal 1996 è professore di genetica all'Università di Ferrara.
Oltre a quest’ultimo titolo, in Chiavi di lettura è uscito “Batteri spazzini e virus che curano” scritto dal virologo Giovanni Maga che studia da anni i meccanismi di duplicazione del DNA nei virus e nelle cellule animali e insegna virologia molecolare all’Università di Pavia.

A Lisa Vozza, ho chiesto un profilo delle due pubblicazioni.
“Il gene riluttante” ha per sottotitolo «Diamo troppe responsabilità al DNA?», questo perché titoloni incauti ci parlano del gene della timidezza, dell’intelligenza, della prosperità, ma perfino un carattere semplice come il colore degli occhi è influenzato da almeno una ventina di geni; e non basta individuare una variante del DNA per sapere che cosa sarà scritto su una cartella clinica fra un anno o fra dieci.
Abbiamo sottovalutato i comprimari? Molecole che si attaccano e si staccano dal DNA; regolatori che accelerano o bloccano l’attività dei geni; zuccheri e grassi che “decorano” quasi ogni superficie biologica. Per non dire dei miliardi di microbi che albergano nel nostro corpo, e del mondo là fuori.
Trascurando tutto questo, è facile farsi un’idea esagerata del potere dei geni e del destino di chi li porta. È impervia l’esplorazione della vita che sfugge al controllo dei geni: scarsi gli automatismi, ci si muove da artigiani goffi su impalcature disagevoli, da cui s’intravedono però panorami che ampliano l’orizzonte biologico oltre la genetica.

Per quanto concerne “Batteri spazzini e virus che curano”, anche qui voglio ricordare il sottotitolo: «Come le biotecnologie riscrivono la vita».
Le biotecnologie sono tra noi e non se ne vanno. Con equilibrio fra il facile entusiasmo e il rifiuto a priori, conoscerle conviene. Sono attività umane che modificano un organismo biologico, il più delle volte nel suo DNA.
Nascono così gli OGM che vanno ben oltre i cibi geneticamente modificati. Comprendono batteri “spugne” che assorbono il mercurio e altri metalli pesanti nell’ambiente; piante che producono farmaci; virus disarmati che introducono pezzi di DNA curativo in cellule malate.
Gli ottimisti che nelle biotecnologie vedono la possibilità di migliorare la nostra vita scopriranno in questo libro che cosa è possibile fare e che cosa non lo è ancora. I pessimisti che vi sentono una minaccia per la natura e l’umanità troveranno il modo di confrontare le proprie opinioni e soprattutto di tranquillizzarsi – i mostri evocati non esistono
.

Guido Barbujani – Lisa Vozza
Il gene riluttante
Pagine 160, Euro 11.50

Giovanni Maga
Batteri spazzini e virus che curano
Pagine 208, Euro 13.50

Zanichelli


Cani & Gatti

Apro questa riflessione su di un libro di Editoriale Scienza con Ode al Cane di Pablo Neruda.

Se portassi un gatto con me lo sfrutterei, se lasciassi a casa il cane lo maltratterei. Non si tratta di dare diritti universali ai diversi, ma di riconoscere diritti alla diversità.
Così scrive l’etologo Roberto Marchesini.
Nelle nostre case vivono sette milioni di cani e sette milioni mezzo di gatti.
Ancora più numerosi gli animali acquatici, tra pesciolini rossi ed esemplari più esotici, nei nostri acquari ci sono non meno di trenta milioni di esemplari.
Almeno 13 milioni gli uccellini ospitati dalle famiglie italiane. E i roditori? Quasi due milioni. E ancora: tra iguane, tartarughe e serpenti, è stata calcolata l’esistenza nelle case di un milione e mezzo di rettili.
Queste sono cifre che estraggo dal più recente rapporto Assalco-Zoomark, redatto alla fine del 2015, è possibile, quindi, che, viste le tendenze illustrate in quel rapporto, quelle cifre possano essere a oggi approssimate per difetto.
Siamo un popolo che ama gli animali? Più sì che no, ma non mancano, purtroppo, molti episodi di crudeltà. Alcuni dovuti alla voracità di profittatori che importano o esportano animali in condizioni terribili, altri in quei circhi equestri che non rispettano le leggi previste, o, ad esempio, da delinquenti che organizzano combattimenti fra cani, per non dire della tormentata questione della vivisezione.
Cose tutte che sono il doloroso risultato della dottrina cristiana sugli animali di Cartesio che ha determinato lo specismo, termine coniato dallo psicologo Peter Singer in “Le sofferenze inflitte agli animali” (1973).
Ancora una cosa sul tema di queste sofferenze. Molti stupratori e serial killer hanno sfogato durante l'infanzia il loro desiderio/bisogno di torturare animali; ecco un interessante intervento su queste angosciose vicende.
Come fare per evitare che tutto questo accada?
Ancora una volta, è la scuola ad essere coinvolta anche in questo còmpito.
Non la “buona scuola” renziana, in parte naufragata e in parte riproposta senza vergogna dal governo di Gentirenziloni, ma una scuola vera, seria, che abbia coscienza dell’importante ruolo che ha nella società, ruolo che è onorato solo da tantissimi, malpagati, insegnanti.

Un grande aiuto alla scuola e, visto il tema di cui ci stiamo occupando, sul nostro rapporto con gli animali non umani, può essere fornito, tra i media, dall’editoria.
Còmpito ben svolto da Editoriale Scienza di cui oggi segnalo Cani & Gatti sotto la lente della scienza.
Questo libro – pubblicato in occasione dell’Expo parigina “Chiens & Cats” – è collegato ad una serie di audiovisivi realizzata da Antonio Fischetti.
Dei nostri amici (affinché tali siano) sono illustrate abitudini, comportamenti, segnali vocali, altre comunicazioni talvolta molto sottili perciò di difficile interpretazione.
Merito del libro è anche quello di chiarire un ricorrente equivoco: considerare il cane e il gatto animali domestici che avendo quattro zampe abbiano gli stessi caratteri. Niente di più sbagliato. Sono diversissimi. Vanno, quindi, capiti e trattati in modi assai diversi. Il libro – consigliato da 9 anni in su – è un ottima guida per educare noi stessi ad essere buoni compagni di quei cari quadrupedi.

Avviandomi alla conclusione di queste righe, mi piace citare, come ho fatto in apertura, un altro pensiero di Marchesini: L’essere umano fa fatica a comprendere la socialità sia del gatto sia del cane, per cui impropriamente dà dell’opportunista al primo e dell’ossequioso al secondo.
Il problema è sempre lo stesso: non siamo la misura del mondo
.

E, per chiudere, ecco, ancora come in apertura, altri versi di Neruda in Ode al Gatto.
Stavolta, se chiuso, aprite l’audio del computer perché i versi sono recitati.

Antonio Fischetti
Cani & Gatti
ill. di Sébastien Mourrain
traduzioni di Hèléne Stavro
pagine 64, euro 16.90
Editoriale Scienza


Realtà Virtuale al Macro

Ne è passato di tempo dall’epoca del Sensorama che può essere considerato l’antenato delle tecniche le quali permettono oggi la realtà virtuale.
Realtà che propone non solo nuove esperienze sensoriali, non soltanto teorie estetiche, ma agisce anche temi filosofici attinenti alla coscienza, alla percezione, all’alterità.
Nell’area del pensiero post-umanista (si pensi, ad esempio, a Nick Bostrom, David Pearce, Eric Drexler, Max Moore) sorgono sul tema le riflessioni più vertiginose mentre Kevin Warwick, autore del Cyborg Project, dall'Università di Reading, sostiene che se ci sarà un prossimo passaggio dell’evoluzione più non apparterrà ad un libro di biologia ma d’informatica.
È stato detto – non ricordo la fonte, e perciò mi scuso di non citarla – che nella realtà virtuale più non ci sono un oggetto e un soggetto, è l’interattività che li sostituisce: l’individuo diventa la rete.

Un’occasione per fruire di tale tecnica immersiva è data dal Macro di Roma che martedì 24, alle 17.30 propone per un solo pomeriggio una rivisitazione della mostra (chiusa il 2 ottobre 2016) Dall'oggi al domani. 24 ore nell'arte contemporanea curata da Antonella Sbrilli e Maria Grazia Tolomeo che interverranno insieme con Pasquale Enrico Stassi responsabile della comunicazione per il Macro, Marisa Giurdanella dell’Ufficio Cultura della Provincia autonoma di Bolzano Alto Adige; Alessandro Rizzi per lo sviluppo della Realtà Virtuale; Nicolette Mandarano, digital media curator per musei e istituzioni culturali; Paola Castellucci docente di Documentazione / Storia e teoria dell’informazione alla Sapienza, Francesco Palumbo, Direttore generale del Turismo al Mibact.
L’iniziativa è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con il patrocinio del Dipartimento di Storia dell’arte e Spettacolo della Sapienza Università di Roma.
Questa visita alla mostra in versione realtà virtuale, sarà esplorabile attraverso appositi visori Oculus Rift che consentono di muoversi negli spazi dell’esposizione, girare intorno alle installazioni, fermarsi sulle pareti, avere una visione d’insieme e di dettaglio di circa venti opere fra quelle esposte. Un percorso che consente di ricollocare ogni opera nel luogo in cui si trovava, di coglierne le relazioni di vicinanza con le altre. Una connessione che l’esplorazione virtuale può di nuovo suggerire, ponendosi come veicolo attraverso cui serbare la memoria di un evento temporaneo, come appunto una mostra.

Va ricordato che realizzata in collaborazione con la Ripartizione Cultura della Provincia Autonoma di Bolzano, la versione in Realtà Virtuale della mostra romana è visitabile presso il Centro Trevi di Bolzano, fino al mese di maggio 2017, all’interno dei progetto multimediale Il Cerchio dell’Arte, giunto alla IV edizione con mostre modulate fra reale e virtuale, che propongono continue sperimentazioni sugli scambi fra arte, tecnologie, comunicazione e didattica, con utilizzo di proiezioni immersive, tavoli touch, tablet e realtà virtuale.
La mostra in corso fino a maggio 2017, intitolata Tempo & Denaro (a cura di Antonella Sbrilli e Maria Stella Bottai, realizzata in collaborazione con Macro e Dipartimento di Storia dell’arte e Spettacolo della Sapienza), indaga un ulteriore aspetto del tempo nell’arte contemporanea, legato al denaro e alla finanza, creando un ideale dialogo a distanza tra le due sedi espositive del Macro di Roma e del Centro Trevi di Bolzano.

Un’idea da sostenere è da tempo espressa da Antonella Sbrilli che suggerisce di curare per le mostre – specialmente quelle di lunga durata e largo impegno economico – una versione in realtà virtuale che consenta di serbare e offrire memoria dell’avvenimento anche a distanza di tempo dalla chiusura di quelle esposizioni.

La realizzazione tecnica in VR a Bolzano e nella trasferta romana è a cura di Smart3K di Trento con Practix S.r.l. di Rovereto

Ufficio Stampa Zètema Progetto Cultura; stampa.macro@comune.roma.it
Patrizia Morici: T. +39 06 82 07 73 71 / M. +39 348 54 86 548 p.morici@zetema.it
con Federica Nastasia: f.nastasia@zetema.it ; T. +39 06 82 07 74 29


Meditazioni sullo Scorpione

Era il 1984 quando la casa editrice Adelphi cominciò, a cura di Giovanni Pacchiano la pubblicazione delle opere del critico, saggista e poeta Sergio Solmi (Rieti, 16 dicembre 1899 – Milano, 7 ottobre 1981).
Il primo dei sei libri succedutesi negli anni, si apriva con le seguenti parole: «Con questo volume diamo inizio alla pubblicazione delle Opere di Sergio Solmi, impresa che si propone non solo di presentare sotto un’unica veste scritti che hanno molto sofferto per la dispersione dei luoghi in cui apparivano, ma vuole soprattutto rivendicare l’opera di Solmi come una delle più alte e durature di tutta la nostra letteratura del Novecento».
Solmi, laureato in legge a Torino (lavorerà per tutta la vita come avvocato e consulente giuridico alla Banca Commerciale Italiana), formatosi nell’ambiente gobettiano, collaboratore della ”Rivoluzione liberale”, parteciperà alla Resistenza e dall’esperienza della detenzione che patì nascerà “Aprile a S. Vittore” una delle espressioni più intense della poesia partigiana.
Ora Adelphi ripubblica le prose Meditazioni sullo Scorpione dove accanto a una sensibilità razionalmente governata, cifra inconfondibile anche nella sua opera di critico, scatta talvolta un’aspra indignatio.
“Meditazioni sullo Scorpione, forse il suo libro più sincero (vale a dire il meno letterario)” – come ben scrive Dario Lodi – “riflette il suo stile di scrittura al servizio di riflessioni radicali, onoranti la figura umana. Lo scrittore si rivela un elzerivista impeccabile, capace di provocare rare suggestioni intellettuali, ancora più raramente scontate”.

Qualche perla.
La mia vita passò in una luce ferma di tramonto, accogliendo le mute confidenze delle statue, più commosse d’ogni umana parola, e fu simile a un’astratta fanciullezza, che si perpetuava nell’oblio dei giorni.

Spesso si trovano riferimenti al sonno, al sogno e all’insonnia.
Il ritmo dialettico della vita si riduce ai termini di veglia e sonno, accogliere e rifiutare. In ogni nostro pensiero ci addormentiamo e svegliamo insieme, accogliamo qualcosa e perciò tutto il resto rifiutiamo.

Il libro di Adelphi è accompagnato da una nota di Domenico Porzio che scrisse: «Queste prose di varia materia e ispirazione, scritte dal 1925 a oggi e che hanno, stando all'avvertenza dell'autore, come filo unitario il loro carattere ambiguo, “oscillante tra l'asciuttezza dell'aforisma e il pieno abbandono del colore”, sono senza dubbio, per nitore formale e magia delle illuminazioni che le sorreggono, tra le pagine più belle donate in questi ultimi anni alla nostra letteratura. Bisogna pensare, come modelli, a certe prose di Valéry e di Alain, per ritrovare un uguale gusto di scelta, di invenzione e di stile; bisogna, inoltre, riferirsi a certe “variazioni” di Borges per cogliere un esempio simmetrico di trasparenza linguistica e di calcolate distillazioni di contenuti fantastici e morali».

Sergio Solmi
Meditazioni sullo Scorpione
Pagine 157, Euro 12.00
Adelphi


Uno spadaccino ultracentenario


Si tratta del Cyrano uscito col suo lungo naso dal calamaio del poeta e drammaturgo francese Edmond Rostand. Questi nacque a Marsiglia il 1º aprile 1868 e morì a Parigi il 2 dicembre 1918.
Se Cyrano avesse da spegnere oggi le candeline sulla torta di compleanno sarebbe impresa polmonare non da poco perché su quel dolce se ne conterebbero 120.
Il Cyrano, infatti, fu rappresentato per la prima volta il 28 dicembre del 1897 al Théâtre de la Porte-Sain-Martin di Parigi, avendo come protagonista un celebre attore del tempo, Benoît-Constant Coquelin che lo aveva commissionato a Rostand non senza sprezzo del pericolo perché quell’autore era reduce da un colossale fiasco avvenuto alla Comédie-Française con il lavoro intitolato “Le deus Pierrots”.
Coquelin, però, vide premiato il suo coraggio, il Cyrano ebbe successo arrivando addirittura a 410 repliche e il suo autore venne poi insignito della Legion d'onore ed eletto membro dell'Académie française.
Una curiosità: Il Cyranno di Rostand ha un tenebroso coetaneo, Dracula, nato, infatti, nel 1897 dalla fantasia dell’irlandese Bram Stoker.

Cyrano, è uno di quei personaggi anfibi perché dalle due vite: una storica ed una di fantasia. Arrossisca, quindi, su di una guancia sola (e non per effetto di una cinquina) quel qualcuno che pensa Cyano come un’invenzione di Rostand; in realtà è figura storica, il suo nome per esteso fu Savinien Cyrano de Bergerac, nato a Parigi nel 1619 (ma questa data proprio sicura non è) e morto a Sannois nel 1655.
Temperamento bizzarro e fantasioso, discendeva da un'antica famiglia parigina di piccola nobiltà. Stabilitosi a Parigi, lesse le opere di filosofi e artisti in odore di eresia come Campanella, e ancora il Moro, il Castiglione e Luciano, che costituirono anche la base e l'ispirazione delle sue opere fantastiche. È ritenuto, infatti, un precursore della fantascienza specialmente per i suoi libri “L'altro mondo o Gli stati e gli imperi della luna” e “Gli stati e imperi del sole”.
Fin dai vent’anni fu valente spadaccino ma morì in casa di un cugino per le ferite riportate non durante un duello bensì per la caduta di una trave.
Wikipedia così riassume la sua figura controversa: “è stato considerato alternativamente un martire del libero pensiero (Paul Lacroix), uno scienziato incompreso (Pierre Juppont), un libertino senz'arte né parte (Frédéric Lachèvre), un razionalista militante (Weber) e perfino un alchimista e un iniziato (Eugène Canseliet).


Oggi a distanza di 120 anni, nella sua versione originale in versi, il dramma di Edmond Rostand torna in scena a Roma al Teatro Stanze Segrete.
A proporre il lavoro, partendo dalla versione originale, è Darkside LabTheatre Company di Matteo Fasanella, regista e in scena con Virna Zorzan, Gianpiero Botta, Antonio Coppola, Michele Prosperi, Leonardo Iacuzio.

Dal comunicato stampa.
“Una compagnia under 30, che già si è fatta notare negli anni passati con progetti di qualità e che inaugura il 2017 con una vera e propria sfida: riportare in scena il Cyrano De Bergerac nella sua versione originale in versi.
A farla da padrone, ovviamente - forte della poetica narrazione in versi - è una delle storie d'amore più belle che la letteratura abbia mai creato: l'amore, il genio, le virtù, l'uomo.
La lucidità del personaggio maschile, viene ingannata dall’amore, che mette a nudo le fragilità di un uomo quasi perfetto, aldilà delle sue famigerate carenze fisiche. "Chi la vide sorridere conobbe l'ideale": un ideale che porta Cyrano alla consapevolezza della sconfitta, ed egli affida il suo genio a un uomo che è in grado di soddisfare tutti i suoi sogni.
"Se mi par che vi sia di speranza un'ombra, un'ombra sola": la speranza, meravigliosa e vana, induce Cyrano a rendere questo amore, forse unico, palpitante. Egli utilizza tutte le sue virtù senza però mai slegarsi dalla maschera che lo protegge. Ne rimane talmente vincolato che, anche quando la verità viene a galla, preferisce immolarsi e concedersi alla sua vera musa ispiratrice: la libertà”.

Ufficio Stampa HF 4
Marta Volterra: marta.volterra@hf4.it ; 340 - 96.900.12

Cyrano De Bergerac
di Edmond Rostand
Regia di Matteo Fasanella
Produzione: Stefano Sbarluzzi.
Teatro Stanze Segrete
Via della Penitenza 3, Roma
Info e prenotazioni: 06 - 6872690
Dal 20 gennaio al 19 febbraio


La cultura in trasformazione


D’innovazione e trasformazione della cultura, dei suoi nuovi contenuti, delle ricadute sulla creatività e la produttività, se ne parla parecchio, se ne scrive altrettanto, non pochi i convegni di studio sull’argomento, ma, nella grande maggioranza dei casi, gli interventi soffrono di solipsismo, ciascuno racconta esperienze settoriali che si esauriscono in un pernicioso soggettivismo.
La prima caratteristica, invece, del lavoro culturale dei nostri giorni è proprio l’interdisciplinarietà, la miscelazione dei saperi, la contaminazione dei vissuti operativi.
In Italia, si è posto il problema di analizzare la produzione culturale per renderla pratica di vita e di mercato l’Associazione cheFare nata nel 2012 come bando da 100.000 euro per progetti culturali innovativi.
Dal 2014 è un’organizzazione indipendente non-profit, fondata da Tiziano Bonini, Marianna De Martin, Francesco Franceschi, Giacomo Giossi, Marco Liberatore, Bertram Niessen, Valeria Verdolini.
Dal dicembre ’14 cheFare si occupa di “produrre e aggregare pratiche concrete e riflessioni teoriche sui mutamenti culturali in corso e su quelli ai quali andremo incontro nei prossimi anni”.

Ora minimum fax ha pubblicato La cultura in trasformazione L'innovazione e i suoi processi a cura dell’associazione.
Il libro è nato dopo 5 anni di lavoro sulla trasformazione culturale; 3 bandi nazionali; 1.800 partecipanti e 170.000 votanti da tutta Italia; 350.000 euro di premi alle organizzazioni culturali innovative; centinaia di articoli pubblicati su www.che-fare.com e altrettante centinaia d’incontri con le realtà grandi e piccole che producono cultura sui territori.
L’hanno scritto Alessandro Bollo, Roberto Casati, Paola Dubini, Vincenzo Latronico, Gianfranco Marrone, Ivana Pais, Christian Raimo, Jacopo Tondelli, con l’introduzione di Marco Liberatore e Bertram Niessen.

Il volume ha una struttura in tre parti.
Nella prima (“Raccontare l’innovazione culturale”), sono agite idee attinenti il giornalismo e l’editoria.
Nella seconda (“Riflessioni sullo stato della cultura”) si ragiona sul pressapochismo specialistico, sul ruolo – talvolta incerto – delle università, sulle nuove figure professionali, sulla rivendicazione dei valori artigianali della cultura.
Il libro nella terza e ultima parte (“Nuove mappe per nuovi mondi”) esplora i confini magnetici della trasformazione in atto.
Una trasformazione che, mi sembra, passi per il polo identità-alterità e la cui possibilità di rendere virtuosa quell’opposizione ci proviene originalmente da Hans-Georg Gadamer (1900-2002), il fondatore dell’ermeneutica filosofica.

Mi piace qui riportare un passaggio dall’Introduzione di Marco Liberatore e Bertrand Niessen.
«Chi ha bisogno di un fotografo professionista, quando in rete si trovano archivi sterminati di immagini gratuite o a basso prezzo? E perché affidarsi a costose agenzie di comunicazione, quando per poche centinaia di euro è possibile indire gare su piattaforme di crowdsourcing che permettono di scegliere tra una pletora di designer affamati e pronti a offrire prezzi stracciati?
L’intellettuale, inteso come figura critica, organica alle industrie culturali e alla politica, è qualcosa di ormai molto lontano nel tempo. Tra quanti si muovono fra le vestigia delle industrie culturali del Novecento proliferano nuovi tentativi di denominazione, da “operatore culturale” a “lavoratore cognitivo”. Si tratta di figure che operano nel mondo della cultura sempre più spesso come freelance, passando di progetto in progetto senza necessariamente identificarsi con i committenti. Sono percorsi imprevedibili che portano ad acquisire continuamente competenze interdisciplinari, in movimento tra le dimensioni della comunicazione e della riflessione critica».

A cura di cheFare
La cultura in trasformazione
Pagine 145, Euro 11.00
minimum fax


Manganelli, o l'inutile necessità della letteratura (1)

Da appassionato lettore di Giorgio Manganelli (Milano, 1922 – Roma, 1990), ho letto anche vari saggi su quel grande scrittore, eppure poche volte ho ricevuto tante illuminazioni su quella magmatica scrittura quante ne ho ricavate dal libro Giorgio Manganelli o l’inutile necessità della letteratura.

Se amate il Manga (qui in un ritratto di Tullio Pericoli), o se poco lo conoscete, non fatevi mancare quel libro, mi ringrazierete.
Nel primo caso capirete meglio ancora le ragioni di quell’amore, nel secondo sarete spinti a leggere altre opere ancora non lette di Manganelli.
L’autrice di quelle pagine è Anna Longoni.
Affianca percorsi di ricerca nell’ambito della cultura medievale a studi sul Novecento letterario.
Tra i suoi lavori, l’edizione critica del Liber scale Machometi (BUR, 2012) e la pubblicazione degli scritti di Ennio Flaiano, a partire dai due volumi delle opere curati con Maria Corti (Bompiani, 1988-90), seguiti dall’epistolario Soltanto le parole, (Bompiani, 1995); per Adelphi: “Opere scelte”, “Il gioco e il massacro”.
Si registra, inoltre, la curatela di singoli testi per diversi editori.
Questo sito ospita sue riflessioni sul profilo letterario di Flaiano in un’intervista apparsa in occasione della pubblicazione adelphiana “Lo spettatore addormentato”.

Come scrissi in un’altra occasione, Manganelli sta in una posizione da equilibrista su filo teso fra nuvole; lo amo soprattutto perché a proposito della narratività esercitò la sua vena ironico-umoristica specialmente in “Centuria” - ‘Cento piccoli romanzi fiume’, recita il sottotitolo di quel suo volume – che entusiasmò Italo Calvino.
Vena ironica che si condensò in uno dei suoi più famosi aforismi: «Ogni libro che abbia sulla copertina la parola 'romanzo' nasconde qualcosa di losco».
Questo saggio della Longoni – poderoso come pochi, tengo a ripeterlo – attraversa i testi manganelliani viaggiando in una cartografia nella quale le coordinate geografiche servono a identificare univocamente luoghi smarriti, ne illuminano la sua scrittura musicale che va dall’Improvviso al Capriccio.

Dalla presentazione editoriale.
“Protagonista della vita intellettuale del secondo Novecento, impegnato su più fronti come traduttore, recensore, corsivista, consulente editoriale, e per alcuni anni anche professore di Letteratura, Giorgio Manganelli si rivela fin dal suo testo d’esordio (Hilarotragoedia,1964) uno scrittore unico per l’originalità con cui rivisita i generi letterari, per la sorvegliata intensità espressiva delle sue pagine e per la forza della riflessione che accompagna costantemente la pratica della scrittura. Prendendo le mosse da alcuni nodi della biografia, il volume ripercorre i diversi capitoli della sua produzione: i momenti teorici dedicati al gesto sacro e menzognero dello scrivere (e del leggere); la sperimentazione e le provocazioni delle pagine creative; lo sguardo sul reale dei corsivi e dei racconti di viaggio. Ne emerge il ritratto di un autore che, nutrito dell’«amara sapienza dell’ombra», ha saputo trasformare la fatica dell’esistere nel gesto rituale da offrire al dio ridicolo e sconcio della Letteratura, e con lui ridere di sé e del mondo”.

Segue ora un incontro con Anna Longoni.


Manganelli, o l'inutile necessità della letteratura (2)


Ad Anna Longoni ho rivolto alcune domande.

Sei una studiosa della cultura medievale e della cultura letteraria del ‘900.
Com’è avvenuta in te questa duplicità d’interessi fra epoche tanto lontane fra loro?

Sulle orme di Maria Corti, indimenticata maestra, che nei suoi corsi passava da rigorose lezioni sulle fonti filosofiche di Dante alle provocazioni linguistiche e musicali degli Skiantos: il suo lavoro di ricerca si è sempre mosso su percorsi paralleli che, da una parte, la portavano a indagare autori e testi del passato e, dall’altra, la vedevano attenta osservatrice del presente letterario da cui, diceva, ci si deve sempre fare interrogare perché, e questo è stato un importante insegnamento, compito di ogni studioso è sempre quello di capire (e aiutare a capire) il proprio tempo.

Veniamo al tuo recente libro su Manganelli.
Che cosa ti affascina delle sue pagine tanto da dedicargli un così cospicuo saggio?

Le pagine di Manganelli sono attraversate, come scrisse Luciano Anceschi dopo la lettura di «Discorso dell’ombra e dello stemma», da “un’intensità verbale veramente rara”; alcune sue opere sono costruite come un erudito saggio barocco, altre sono segnate da un alto tasso di visionarietà: ma formalismo ed erudizione, surreale e dimensione onirica, affondano le loro radici nell'autenticità di una biografia che, seppur sotto mentite spoglie, è sempre riconoscibile nella sua scrittura, ed è questo che lo rende scrittore così straordinario. La sua pagina si rivela, per usare un'immagine a lui cara, la superficie di uno specchio che riflette la profondità dell'esistenza (dell’autore e del lettore). È raro trovare un cosi rigoroso formalista che abbia tanto "sporcato" di vita le proprie pagine.

Al titolo “Manganelli” segue “o l’inutile necessità della letteratura”?
Perché hai scelto quel sottotitolo?

Si tratta di uno dei molti ossimori che accompagnano (e sostanziano) le riflessioni di Manganelli. Proclamare l'inutilità della letteratura era per lui l'unico modo per garantirle il massimo della libertà: la filosofia, la morale, la scienza, sono discipline "utili" perché, scriveva, danno risposte precise a domande precise. La letteratura, al contrario, non deve servire a nulla, non deve dare risposte: solo così infatti può sottrarsi alle categorie di vero/falso, bene/male, che la imprigionerebbero in una gabbia ideologica; solo così può mantenersi libera e può continuare a parlare ai lettori, che non smetteranno mai di interrogarla grazie al fatto che le domande che le rivolgono non troveranno risposte definitive. La letteratura è necessaria perché le parole di cui è fatta sono le sole che permettono di attraversare quello specchio di cui si è detto prima: una volta arrivati al di là, si potrà vivere la propria esistenza come una cerimonia, un rito che, pur non svelando il suo mistero, e soprattutto pur non cancellando il dolore, impedisce alla sofferenza di "sbriciolare” la vita.

Perché – come scrivi – “dalla lettura dei suoi testi non si esce mai uguali a come si è entrati”?

Il lettore di Manganelli si trova spesso a fare i conti con una indubbia difficoltà interpretativa, che non si risolve scoprendo il significato di un raro arcaismo o una fonte nascosta. Le sue pagine sono segnate dall'oscurità propria dell'enigma: il lettore, se non trova la chiave per scoprirne il significato, nell'affrontare la sfida della sua risoluzione scopre legami inaspettati tra le cose del mondo (questa è la definizione, ben nota al nostro autore, che Aristotele dà dell'enigma: dire cose reali collegando cose impossibili).
Manganelli era affascinato dalla tecnica pittorica dell'anamorfosi: come accade di fronte a quel tipo di disegno, che si rivela solo se chi lo guarda trova il giusto punto di osservazione, la lettura dei suoi testi, se non ci svela verità (al massimo menzogne) ci avverte della necessità di fare un passo di lato e (condividendo la medesima funzione che Manganelli riconosceva alla psicanalisi) ci costringe a cambiare il nostro punto di vista sul mondo e su noi stessi
.

Anna Longoni
Giorgio Manganelli
Pagine 264, Euro 25.00
Carocci Editore


Nuova ristampa di "Orlando" (1)


“L’opera più intensa di Virginia Woolf, una delle più originali della nostra epoca”.
Così Jorge Luis Borges la pensava su Orlando di Virginia Woolf (Londra 1882 – Rodmeil 1941, QUI la sua biobibliografia), pure autrice di altre opere importanti nella storia della letteratura del XX secolo quali “Gita al faro”, “La signora Dalloway”, “Le onde”.
Scrisse anche saggi di grande spessore, tra questi “Immagini del passato” e il maiuscolo “Una stanza tutta per sé”, acuta interpretazione della condizione femminile, che dà il titolo ad un saggio di Luciana Martinelli, docente di letteratura italiana all’Università di Cassino, la quale così scrive: “Virginia Woolf osserva che alla donna manca una stanza tutta per sé. La stanza è un termine polivalente: da una parte è il luogo fisico in cui isolarsi per scrivere, dall’altro è il simbolo della propria interiorità. Nella scrittura l’uomo rivela uno sguardo verticale, rivolto al di fuori; la donna invece nella letteratura vuole ritrovare le sue verità, approfondire gli stati d’animo".
La Woolf fu pure protagonista del Circolo Bloomsbury che sebbene principalmente conosciuto come gruppo letterario, vide i suoi aderenti attivi in diversi campi: dalla letteratura alle arti plastiche, dalla musica all’economia, dall’arredamento ai costumi, influenzando la vita intellettuale britannica dal 1905 fino alla vigilia della seconda guerra mondiale.
Ha scritto di lei Pietro Citati: “Non poteva tollerare che la penna, tra le sue mani, diventasse uno «strumento rigido», che disegnava linee rette […] voleva essere, contemporaneamente, nitida e cangiante come le ali di una farfalla”.
Scrisse nel suo Diario: Perché mai è così tragica la vita; così simile a una striscia di marciapiede che costeggia un abisso. Guardo giù, ho le vertigini; mi chiedo come farò ad arrivare alla fine.
Una curiosità sulla Woolf è riportata da Jhumpa Lahiri nel suo “Il vestito dei libri” (Guanda) a proposito delle copertine ideate dalla sorella Vanessa Bell che "… disegnò una serie di copertine – ormai iconiche – per quasi tutte le prime edizioni che Woolf pubblicò per la Hogarth Press. Questa casa editrice indipendente fu fondata nel 1917 proprio per poter pubblicare i libri di Woolf, di suo marito Leonard, e dei loro amici e conoscenti al di fuori dei meccanismi commerciali dell’editoria e al riparo dalla censura. I libri erano stampati inizialmente a mano, il torchio da stampa poggiato sul tavolo da pranzo, a casa.
Le copertine di Bell sono potenti, poco convenzionali, moderniste. Esprimono perfettamente il distillato sperimentale delle opere di Woolf. Eppure di solito Bell non leggeva nemmeno il libro per intero. Glielo raccontava Woolf in modo che sua sorella potesse creare un’immagine corrispondente. Bastava un dialogo tra l’autrice e l’artista. Il critico S. P. Rosenbaum definisce le copertine di Bell “eco ottiche” del testo, citando un’espressione di Henry James".

Ora la BUR ha ristampato Orlando della Woolf nell’edizione di anni fa che si avvale della traduzione di Alberto Rossatti e della prefazione di Viola Papetti.
Alberto Rossatti, recente vincitore del Primo Premio di Voci nell’Ombra per la sua interpretazione in audiolibro delle Memorie di un pazzo, ha tradotto molti classici della letteratura inglese tra cui, per la BUR, “If ” e poesie scelte di Rudyard Kipling.
Viola Papetti ha insegnato Letteratura inglese all’Università di Roma Tre ed è autrice di saggi sul teatro e la cultura britannica.

“Orlando” fu pubblicato per la prima volta nel 1928.
Dal libro è stato tratto nel 1992 l'omonimo film realizzato da Sally Potter.

Dalla presentazione editoriale.
“Un romanzo epocale, avvolgente e ambiguo come il/ la protagonista: nell’Inghilterra di fine Cinquecento, Orlando è un affascinante nobile dai lineamenti androgini che, dopo un’intensa storia d’amore con la figlia dell’ambasciatore russo, parte per una missione diplomatica in Asia. Ma lì cade in un misterioso letargo, e al risveglio scopre, senza stupirsene, di essere diventato una donna. Orlando sceglie di restare per un periodo fra gli zingari, dove può vivere con libertà la sua nuova identità femminile. Quando infine torna in patria si dedica alla letteratura e narra la propria vita in un romanzo che vede la luce nel 1928, lo stesso anno in cui fu pubblicato Orlando.
Nel suo testo forse più coraggioso e ispirato, Virginia Woolf sperimenta forme narrative di spiazzante originalità e illumina con straordinaria sensibilità quanto la soggettività e l’identità di ciascuno di noi, all’apparenza immobili, siano in realtà mutevoli e cangianti”.

Segue adesso un incontro con Alberto Rossatti.


Nuova ristampa di "Orlando" (2)


Ad Alberto Rossatti (nella foto) ho rivolto due domande.
Immaginiamo che tu debba redigere una sintetica nota per illustrare “Orlando”.
Che cosa scriveresti?

Scriverei: Orlando è la biografia burlesca di un giovane androgino che si reincarna rocambolescamente in varie forme attraverso cinque secoli della storia inglese, dall'epoca Elisabettiana al '900. Ispirata e dedicato a Vita Sackville West, l'eccentrica aristocratica dalle bellissime gambe con cui la Woolf ebbe una lunga relazione amorosa. La biografia è un divertissement letterario in cui la W. gioca con vari stili e generi letterari (biografia, saggio critico, romanzo vittoriano, lirica romantica, intermittences proustiane, stream of consciousness joyciano). L'esito è un denso tessuto narrativo fatto di copiosi rimandi linguistici e tematici, assonanze, ripetizioni, ritornelli, variazioni sul tema, citazioni, digressioni, simboli.

Quale la particolarità che propone la traduzione di questa ritenuta la più sperimentale delle opere della scrittrice inglese?

Per tradurre Orlando, oltre a penetrare il lirismo stratificato di Virginia Woolf, occorre intercettare e decodificare i fitti rimandi intratestuali che costituiscono la densità tematica e strutturale della sua scrittura. Omettere alcune ripetizioni o variarle arbitrariamente, o semplificare alcune strutture sintattiche peculiari, addomesticarle, smussarle, limarle, per ricondurle a uno stile più polito, più consono ai canoni stilistici vigenti nella letteratura della lingua d'arrivo, significa tradire l'intento al quale la scrittrice affida molta dell’efficacia del suo progetto sperimentale e innovativo. Sulla traduzione incombe comunque il rischio quasi inevitabile del fallimento. “La traduzione è un processo di mutilazione” – avverte la Woolf parlando della traduzione inglese dei grandi romanzi russi – “Una volta che tu abbia cambiato ogni parola di una frase dal russo all'inglese, e tu abbia di conseguenza alterato
un poco il senso, il suono, il peso e l'accento delle parole, non resta nulla tranne una rozza e grossolana versione del senso. Ciò che resta dei grandi scrittori russi dopo un simile trattamento, - al pari di uomini che un terremoto o un incidente ferroviario abbia spogliato non solo dei loro abiti ma anche di qualcosa di più sottile e importante, i loro modi e le idiosincrasie del loro carattere – è qualcosa di molto potente e suggestivo, ma è difficile escludere con certezza, a seguito delle mutilazioni subite, che non siamo noi a imputare a loro, a leggere in loro una forza che in realtà non esiste”.
Nel tradurre “Orlando” ho cercato d’essere ascoltatore il più possibile attento a quella raccomandazione che ho appena citato
.

Virginia Woolf
Orlando
Traduzione di Alberto Rossatti
Prefazione di Viola Papetti
Pagine 288, Euro 11.00
Bur


Sex and Violence (1)


Ciò che è pornografia per qualcuno, per altri è il riso del genio, scrisse un giorno D. H. Lawrence. Oggi quel riso non affiora solo sulle labbra del genio, ma anche di persone non necessariamente geniali, ma che grazie a una nuova visione e a un nuovo vissuto sessuale, approdano a risultati di felicità personale e di particolare comunicazione collettiva.
Sono in molti a sostenere che la pornografia nasce con l’avvento della borghesia. Fino allora, le civiltà classiche prima e il Medioevo e l’era moderna poi, non avevano ritenuto che esistessero produzioni letterarie o d’immagini destinate alla sola, esclusiva, finalità d’eccitare sessualmente. L’arte classica nel mondo greco-romano (prima della comparsa delle tenebre cristiane), era immediatamente legata alla vita, alla gioia del piacere, ai riti della fertilità; nel Medioevo e nel Rinascimento la riscoperta del nudo femminile è un fatto esclusivamente estetico (anche se costretto a sfuggire all’occhiuta censura cattolica).
E’ nell’Inghilterra del ‘700 che nasce un’industria della carta stampata destinata specificamente, scientificamente, all’eccitazione sessuale e John Cleland, con “Fanny Hill”, ne è il magnifico capostipite.
L’800 e gli inizi del ‘900, oltre alla letteratura si affidano progressivamente ai nuovi mezzi emergenti: dalla fotografia al fumetto al cinema… il cinema, ecco che segnalo un libro imperdibile che è la storia – e, come vedremo, non soltanto la storia – del cinema erotico e violento; l’ha pubblicato la casa editrice Lindau.
Il titolo: Sex and Violence Percorsi nel cinema estremo.
Ne sono autori Roberto Curti e Tommaso La Selva.

Autori che oltre a tracciare una storia di quel cinema, la sua valenza psicoestetica e simbolica, aiutano anche a capire com’è cambiato nel corso di un secolo il rapporto fra natura e corpo, identità e rappresentazione, tra media e società.
Roberto Curti è redattore di «Blow Up» e collaboratore de «Il Mereghetti».
Per Lindau ha pubblicato “Italia odia. Il cinema poliziesco italiano” (2006); “Stanley Kubrick. Rapina a mano armata” (2007); “Demoni e dei” (2009); “Fantasmi d’amore” (2011); e con Alessio Di Rocco “Visioni proibite. I film vietati dalla censura italiana” (2 voll., 2014-15).
Tommaso La Selva si occupa di rapporti tra mass media e società. È ideatore di laboratori d’interazione culturale, tiene corsi di storia e antistoria delle arti visive.
Ha collaborato con «Nocturno Cinema» e con altri periodici specializzati.

Dalla presentazione editoriale.
“Torna in una nuova edizione, aggiornata e ampliata, Sex and Violence, un viaggio in tutto ciò che è estremo al cinema, dai primordi ai giorni nostri: immagini e pellicole oscene, immorali, violente, scioccanti, proibite.
Con un approccio trasversale e curioso, privo di pregiudizi e aperto a riflessioni sociologiche, gli autori analizzano cinema d’autore e di genere, arte e pornografia, Occidente e Oriente: l’America puritana e moralista del Codice Hays e la nascita degli horror splatter, l’esplosione dell’hardcore e le provocazioni di autori come Robbe-Grillet, Zulawski, Borowczyk, figure di culto come Jesús Franco, Alberto Cavallone e Jos. Mojica Marins, il cinema italiano dell’eccesso e scandalosi capolavori come “Salò o le 120 giornate di Sodoma” ed “Ecco l’impero dei sensi”, le derive più sconvolgenti del cinema orientale, i documentari shock, gli snuff movie.
Per interrogarsi infine sugli orizzonti futuri di un laboratorio filmico in perenne mutazione, dai contorni ambigui e spesso indecifrabili”.

Segue ora un incontro con Roberto Curti e Tommaso La Selva.


Sex and Violence (2)

A Roberto Curti e Tommaso La Selva ho rivolto alcune domande.
Li sentirete rispondere con una voce sola: prodigi della tecnologia di cui è provvista a bordo Cosmotaxi.

Qual è la vostra definizione di “cinema estremo”? Quali le sue caratteristiche?

Quella di “cinema estremo” è una definizione che si fa via via più sfuggente, per una categoria di immagini in movimento ormai presente e intercettata dappertutto: al cinema, certo, ma con insistenza e pervasività sempre maggiori anche in televisione, e soprattutto in rete. Sesso e violenza, apparsi per infrangere “il patto di non-belligeranza con lo spettatore”, cioè per sparigliare codici e interpretazioni, oggi sono ovunque e da nessuna parte, come a creare un “corpus” bulimico da “eterno ritorno”. Nel contempo l’estremo si è concettualizzato e mercificato, ridotto a caricatura postmoderna da letture oscillanti fra il dilettantistico, l’astratto e la pura provocazione. Mai però, nell’incessante interazione fra rappresentazione, immaginario e realtà, ha smesso di parlare della società in cui nasce.

Nello scrivere “Sex and Violence” quale la prima cosa che avete deciso d’evitare e quale la prima da adottare?

Data la complessità della materia, la prima cosa da evitare è stata senza dubbio quella di risultare pedanti, prolissi, noiosi, eccessivamente rivalutativi nei giudizi e nelle riflessioni. È un “modus ad excludendum” che si è fatto strada man mano che il testo prendeva voluminosa forma, proponendo una serie di difficoltà difficilmente superabili se non ci fossimo calati prima possibile nei panni di un lettore astratto e lontano dalle nostre fissazioni, non necessariamente appassionato di immagini sgradevoli; un lettore al quale non si poteva chiedere eccessiva benevolenza.
La prima cosa che abbiamo deciso di adottare è stato un metodo di ricerca di carattere interdisciplinare in grado di superare le frontiere, spesso artificiali, che separano e distinguono le varie discipline. È chiaro che la pretesa di esaustività, una certa idea di “completismo” irrazionale e infantile, l’abbiamo schivata e rigettata fin da subito
.

Nel volume, leggendo l’Indice dei film si contano ben 50 pagine fitte fitte di titoli.
Perché al cospetto di tanta produzione non corrisponde un’altrettanta attenzione critica a questo tipo di cinema estremo.

La nostra è stata anche una ricerca che si potrebbe definire di tipo “speleologico”, con inclusioni e ritrovamenti da ricerca pura al di là dell’analisi critica o dei giudizi di valore. Certi titoli, nemmeno pochi, sono citati nel libro non solo perché esistono (esistono e non chiedono nulla, tantomeno di essere considerati buoni film), ma perché sono importanti per motivi non strettamente cinematografici, legati a urgenze di comparazione letteraria, filosofica, sociologica, politica. Si tratta di ciò a cui facevamo riferimento sopra: il carattere interdisciplinare della ricerca spesso “forza la mano” e chiede con insistenza l’inserimento di oggetti cinematografici che per altri aspetti sarebbero trascurabili. Non è che dobbiamo sempre scoprire qualcosa, o considerare la maggior parte dei critici, anche del passato, degli sprovveduti: forse ogni film merita un tentativo di onesta valutazione, ma per parlare di “attenzione critica” nei riguardi di un fenomeno (il cinema) che è innanzitutto di tipo industriale, ci deve essere un motivo, o più d’uno.

Che cosa ha significato per questa tipologia di cinema l’esplosione del pornosex su Internet?

Non è semplice rispondere con un minimo di serietà a questa domanda. Le immagini pornografiche sono una caratteristica riconoscibile della cultura popolare da molto tempo prima della nascita di internet e della multimedialità. Oggi semmai la differenza si misura in termini di qualità, quantità, accessibilità e significazione di un’offerta ampliata a dismisura dalle tecnologie video e digitali: la pornografia audiovisiva contemporanea, macrogenere proliferante a ogni livello, è una forma culturale complessa che dialoga con diverse discipline e che richiede di essere studiata e compresa più che in passato (i cosiddetti “porn studies”). Probabilmente, come si può leggere nell’introduzione al volume “Il porno espanso. Dal cinema ai nuovi media”, cui abbiamo prestato un contributo, “l’horror contemporaneo è la forma che meglio si adatta a raccogliere e a rielaborare la «tracimazione» della pornografia, per una sorta di prossimità generica che avvicina tra loro due prodotti culturali considerati (se pur per ragioni diverse) estremi”. È solo uno spunto, i rapporti tra cinema estremo e “pornosfera” sono molteplici e tutti degni di essere approfonditi.

Come scrivete presentando questa nuova edizione di “Sex and Violence”, rispetto alla prima del 2003, vi siete trovati di fronte non solo nuovi titoli ma un mondo cambiato (con nuove, feroci truculenze: attentato alle Torri gemelle, crimini dell’Isis, stragi di migranti).
Quale futuro si prospetta per le immagini del cinema estremo?

Al cinema la violenza è dappertutto e forse in nessun posto, anche perché si è concettualizzata all’inverosimile, ma non per questo, lo dico con convinzione, ha smesso di parlare della società in cui nasce. Certo, Tarantino ne ha fatto fumetto, ma ben prima di lui Sergio Leone l’aveva resa astratta, materia da dettaglio, con immagini che avevano, parafrasando, “qualcosa a che fare con la morte”. Tutto ciò nei decenni è entrato nei codici di interpretazione, fin dentro il dna dello spettatore, addirittura in un qualsiasi film episodio di “Star Wars”: e un film come “Salò”, oggi che lo riproiettano al cinema, un giovane lo rifiuta. Non è che non lo sopporta perché preso da disgusto: non lo capisce proprio, lo percepisce come provocazione fine a se stessa, con una genesi irrimediabilmente legata a tempi remoti. E allora viene da pensare che il cinema, prima di posizionarsi ai margini, sia invecchiato non prima di essere diventato adulto; direi fin troppo adulto. In seguito, con l’estremo cosiddetto “da festival”, si è fatto anche cinico e furbo.

Roberto Curti
Tommaso La Selva
Sex and Violence
Pagine 676, Euro 34.00
Lindau


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