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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Gallerie virtuali


La sospensione di tante attività dovute all’emergenza sanitaria ha costretto anche le Gallerie d’Arte (oltre a festival, convegni, e rassegne di cinema, danza, video) a trovare in Internet la sola via per essere visitate dal pubblico.
Ed ecco i monitor riempirsi d’immagini di tante gallerie virtuali. Meglio di niente, certo. Eppure, questa forma di visione pone temi e spunti espressivi che investono plurali aree della creatività: dall’architettura alla tecnologia digitale, dalla percezione audiovisiva alla neuroestetica (parola copyright di Semir Zeki).

Non sono sorpreso che a cogliere quei problemi, prospettare nuove soluzioni, indicare vie future per quei luoghi sia stato Mario Gerosa (1963) un protagonista negli studi sulle culture digitali, sul cinema, sulla televisione. Infatti, ha pubblicato su Artribune un “Decalogo” che innova il modo di concepire una Galleria virtuale e le possibili articolazioni comunicative da praticare già con le attuali risorse tecnologiche che possediamo.

Giornalista professionista, si è laureato in architettura al Politecnico di Milano. Dopo aver scritto il primo libro uscito in Italia sul fenomeno di Second Life, ha ideato “Synthravels”, un’agenzia di viaggi per tour nei mondi virtuali, ha collaborato alla sceneggiatura del film “Volavola” di Berardo Carboni, girato in SL, ha redatto la “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio architettonico virtuale”. Nel 2008 ha curato la prima mostra al mondo sull’arte di Second Life, tenutasi al Museo di storia naturale di Firenze.
Ha insegnato Multimedia e paesaggi virtuali al Politecnico di Milano e ha tenuto conferenze in Italia, in Francia e negli Stati Uniti sulle culture digitali e sui mondi virtuali.
Ha pubblicato una ventina di libri, tra cui “Mondi virtuali”, “Second Life”, “Rinascimento virtuale”, “Parla come navighi”. “Antologia della webletteratura italiana”, Cinema e tecnologia”.
In articoli e saggi si è occupato di turismo nei videogames, architettura virtuale, gradi di virtualizzazione, tecnomedioevo, cronologia parallela all’interno dei mondi virtuali, architettura ludica, e su AD ha pubblicato un reportage sulle case più belle di Second Life.
Ha scritto anche un romanzo, “Il collezionista di respiri”, un art thriller ambientato nel mondo dell’arte contemporanea, finalista al Premio Internazionale di Letteratura Città di Como e a Garfagnana in Giallo.
Per più di vent’anni ha lavorato in Condé Nast, dove è stato caporedattore di Traveller e dove, per più di quindici anni, ha ricoperto la carica di caporedattore di AD.

A lui (in foto) ho rivolto alcune domande.
La prima cosa da fare nell’ideare una Galleria virtuale

Una buona regola nell’àmbito delle culture digitali è di cercare sempre di fare qualcosa di originale, non limitandosi a copiare la realtà. Tutto ciò che si realizza dall’altra parte dello schermo ha una valenza diversa, è un’altra cosa rispetto a ciò che si trova nel mondo fisico, per cui non ha senso creare delle semplici repliche. E’ un concetto abbastanza intuitivo: il nostro modo di muoverci in un ambiente virtuale (attraverso i tasti e il mouse o con il visore), di immedesimarci in un’altra realtà, di dialogare e di rappresentare noi stessi non è il medesimo del mondo reale, quindi è normale che si debba pensare a qualcosa di diverso. In poche parole, c’è una sorta di genius loci, di spirito del luogo, di internet, e bisogna tenerne conto. Anche nel web si rischia l’omologazione, e lì nasce quando si importano modelli appartenenti a un’altra realtà e a un’altra cultura. Come nel mondo vero - un’immagine che ormai è sempre più sfuggente - bisogna rispettare l’identità del posto, la sua storia e le sue tradizioni. E non è solo un discorso etico o di buon senso, ma anche di coinvolgimento dell’utente. Pensiamo a una persona che vada in una città di un paese lontano e ci trovi tutti gli stessi marchi, le stesse architetture, gli stessi negozi e gli stessi musei di quelli che ha a casa propria. Sarebbe una delusione. Quindi, per arrivare al tema delle gallerie, bisognerebbe inventarsi sempre qualcosa di nuovo, che possa attrarre e coinvolgere. Di base, bisognerebbe evitare il classico “white cube”, il contenitore bianco anonimo, che è già noioso nella realtà, e poi si dovrebbe pensare a qualche particolarità che incuriosisca. Anche perché ricordiamoci sempre che il virtuale parte svantaggiato: deve sempre confrontarsi con chi gli rimprovera il fatto di non poter soddisfare tutti i cinque sensi. Nel virtuale non c’è il tatto, non si sentono i profumi e non c’è neanche il gusto.

La prima cosa da evitare nell’ideare una Galleria virtuale

Le cose da fare e quella da evitare sono strettamente collegate. Ci vuole una certa inventiva e non ci si può permettere di cadere nella tentazione della replica, perché se no la gente si stuferebbe subito e dopo una prima visita non tornerebbe più nella galleria. Aggiungerei anche che non ci si può permettere di adagiarsi, di creare un bel luogo, interessante, e poi abbandonarlo a se stesso. Nelle gallerie vere, posso allestire una bella esposizione e poi aspettare che la gente passi di lì, giorno dopo giorno, senza dover fare più di tanto. Nel caso della galleria virtuale bisogna prevedere un modello dinamico, in continua evoluzione, con la presenza di esperti, artisti e curatori che intervengono regolarmente via chat o in video call e magari con un turnover di opere che si avvicendano nel corso della mostra.

La modalità di fruizione potrebbe influenzare anche la forma degli spazi della Galleria?

Sicuramente. La visita di una mostra virtuale ha una serie di caratteristiche proprie. Parte integrante dell’esposizione sono tutti i contenuti multimediali, che si vedono anche in alcuni musei della realtà, e che qui sono assolutamente fondamentali. Ogni opera deve avere un suo corredo di video che raccontino la genesi dell’opera in questione, di pannelli su cui i visitatori possano lasciare commenti e fare domande a curatori e artisti, di strumenti per costruire eventuali esperienze interattive, del tipo “selfie nel quadro di Hopper” o “possibilità di vivere la notte stellata di van Gogh”. Questo apparato di strumenti multimediali naturalmente influenza la progettazione della galleria stessa, che deve tener conto di tutto ciò anche nella sua forma architettonica.

Scrivi di un ‘real avatar’ guidato in Galleria dal visitatore.
Quali funzioni potrebbe, o dovrebbe, avere
?

Questa è un’idea un po’ fantascientifica, da romanzo, che però forse potrebbe avere anche un senso nella realtà. D’altra parte, quel decalogo ha anche l’intento di indicare delle linee guida, che poi naturalmente vanno calate nella realtà. Praticamente si tratta di prevedere la presenza di persone in carne ed ossa nelle gallerie vere, che entrano in azione nel momento in cui un utente al computer decide di visitare la galleria virtuale. Si tratta di una “personal guide”, una guida a completa disposizione dell’utente, collegata in video call, che per mezz’ora o un’ora si muove nella galleria vera con una videocamera che riprende le opere mentre le spiega. E’ una specie di “realtà virtuale soft”, per chi è refrattario al visore e ha bisogno di un contatto più forte con la realtà. In questo modo, mentre ci si muove nelle sale della galleria virtuale, in una parte dello schermo del computer, si vedrebbe la guida che si muove in tempo reale nel museo vero. L’obiezione che sorge spontanea è che un discorso di questo genere è sopravanzato dai mondi virtuali, dove si può creare un avatar e dialogare con altre persone, anch’esse rappresentate da un personaggio di pixel. Il problema è che non si è ancora raggiunto un sufficiente gradiente di immersività: nei mondi virtuali si coglie troppo lo scollamento tra realtà e finzione, e l’esperienza ne risente. La presenza di una persona vera ha una forza tuttora ineguagliata, e forse bisognerà aspettare dei mondi virtuali con ologrammi o qualcosa del genere per colmare questo gap.
All’idea di umanizzazione del virtuale corrisponde poi un altro aspetto, altrettanto importante, che è quello relativo all’intelligenza artificiale. Una galleria virtuale dovrebbe essere a sua volta una specie di organismo vivente, che si evolve e si modifica seguendo i comportamenti dei visitatori. Anche questo può sembrare uno scenario da fantascienza, ma in verità non è del tutto così. L’intelligenza artificiale immagazzina tutta una serie di reazioni nei confronti delle opere, di percorsi nelle gallerie, di modalità di fruizione, che possono contemplare tempi e distanze. Questo bagaglio di informazioni può essere usato poi in tempo reale per modificare gli spazi della galleria e le dimensioni delle opere esposte. Se un dipinto attira l’attenzione di molti visitatori, nella galleria virtuale posso ingrandirlo, e dotarlo di un maggior numero di contenuti multimediali; se un’opera diventa protagonista di una mostra, posso anche pensare di proporre ai visitatori di acquistare il profumo di quell’opera, da ricevere a casa (si può fare, c’è chi ha già ricostruito i profumi originali di quadri del ‘500), per aumentare il grado di partecipazione all’esperienza artistica.


Connessioni remote

Il mese scorso presentai una nuova rivista che delle relazioni fra teatro e tecnologie studia storia, rapporti, attualità, mete future.
Il suo nome: Connessioni remote.
A dirigerla Anna Maria monteverdi (in foto) luminosa firma nel campo degli studi scenici intermediali; la sua più recente pubblicazione: Leggere uno spettacolo multimediale edita da Audino. A lei chiesi di tracciare un profilo editoriale della rivista. Così mi fu risposto.

È una rivista scientifica nata all’interno del Dipartimento di Beni culturali e ambientali dell’Università di Milano.
Ha come focus Artivism, Teatro e tecnologia ed è stata da me ideata pensando al lavoro artistico e tecno-politico/poetico di Giacomo Verde recentemente scomparso, a cui la rivista è dedicata. Mi affiancano come collaboratori, editori e redattori i giovani studiosi Dalila Flavia D’Amico e Vincenzo Sansone. Il Comitato editoriale oltre a noi, vede la presenza di Laura Gemini dell’Università di Urbino e di Silvana Vassallo, curatrice d’arte di Pisa: entrambe conoscevano molto bene anche il lavoro di Giacomo.
Siamo onorati di avere nel comitato scientifico personalità di rilievo come il Rettore della Statale di Milano, prof. Elio Franzini, il direttore del Dipartimento Beni culturali prof. Alberto Bentoglio, la professoressa Sandra Lischi considerata la massima esperta italiana di videoarte, e molti altri.
Il primo numero è interamente dedicato a Giacomo Verde tecnoartista: abbiamo deciso di ospitare suoi testi, una galleria fotografia, un’antologia video e alcuni omaggi di artisti e studiosi
.

Ora è in preparazione il secondo numero che uscirà a dicembre.
Ecco qualche anticipazione sui prossimi contenuti.

“Insieme al Comitato Editoriale (Laura Gemini, Vincenzo Sansone, Dalila D'Amico)” – fanno sapere dalla redazione – “abbiamo concordato il tema del nuovo numero: la parola chiave sarà Artivismo. Il testo definitivo della call è stato supervisionato da due dei massimi esperti internazionali della tematica, Tatiana Bazzichelli (Disruption Network Lab) e Aldo Milohnic (AGRFT, Ljubjana); ancora una volta è l'attività di Giacomo Verde (a cui è dedicata la rivista) ad averci ispirato. Facciamo nostro lo slogan "Azione oltre la rappresentazione" con il quale Giacomo diede vita a famose oper'azioni videoperformative e installazioni; la "cover" del nuovo numero è uno screenshot dalla sua net opera del 2001 X-8x8-X.net (ancora parzialmente attiva), da lui definita un "antiportale" per l'informazione alternativa e controculturale. intendiamo fornire una mappatura delle diverse pratiche che dalla fine degli anni Novanta a oggi, nutrono i sentieri dell’Artivismo: l'intento è quello di ricostruirne le storie e sondarne le esperienze più recenti, con particolare attenzione alle pratiche digitali e web based, intese come luoghi di osservazione privilegiati non solo delle estetiche contemporanee ma anche dei processi di connessione e condivisione fra gli artisti e i pubblici che permettono di cogliere e analizzare il portato politico delle forme odierne dell’artivismo digitale.
QUI il testo della call. La redazione accoglie proposte in forma di abstract.
Scadenza per la presentazione: 15 Novembre 2020.
Gli autori selezionati saranno contattati via mail dalla redazione e invitati a sottoporre il testo finale attraverso la piattaforma OJS registrandosi online.
Gli articoli completi dovranno avere una lunghezza tra le 30.000 e 40.000 battute, spazi, note e bibliografia inclusi, e dovranno essere inediti; i materiali inviati saranno revisionati e sottoposti al doppio referaggio cieco”.

Connessioni remote
Rivista diretta da Anna Maria Monteverdi
CLIC per contatti.


Lsd in Pgreco

La casa editrice Pgreco ha pubblicato un libro che uscì circa cinquant’anni fa e riesce ad essere oggi di grande interesse per tre motivi.
Il primo di questi consiste nel valutare i livelli scientifici con cui si guardava alle droghe psichedeliche; il secondo nel misurare le temperature sociali che intercorrevano fra cultura e individuo; il terzo, non meno importante degli altri due, è dato dalle firme che compongono le pagine, nomi che ancora oggi sono insuperati analisti delle sostanze psicotrope esaminate su vari piani: da quelli fisici a quelli politici, dai filosofici ai sociologici.
Titolo del volume Lsd La droga che dilata la coscienza.
A cura di David Solomon, giornalista e scrittore statunitense, nato in California nel 1925. Ha scritto per l’“Esquire” e per il “Metronome”, lavorando con scrittori del calibro di Aldous Huxley, Jack Kerouac, William S. Burroughs e Allen Ginsberg. Oltre a LSD: The Consciousness-Expanding Drug (1964). ha curato The Marijuana Papers (1966), Drugs and Sexuality (1973) e Coca Leaf and Cocaine Papers (1975).

La prefazione del volume è di Timothy Leary.
Gli autori dei saggi qui nell'ordine dell'Indice: Alan Watts - Humphry Osmond - Alllan Harrington - Huston Smith - William Burroughs - James Terrill - Charles Savage - Donald D. Jackson - Sanford M Unger - Jonathan Cole - Martin M. Katz - Erich Kast - Roy Grinker.

Dalla presentazione editoriale.
«Scritto prima che l’LSD diventasse illegale, questa raccolta uscì nel 1964, quando a occuparsi dell’acido lisergico erano accademici, psichiatri e chimici, e ben prima che scoppiassero negli Stati Uniti reazioni furibonde da parte dei benpensanti e dell’ortodossia scientifica. Frutto delle ricerche di scienziati, filosofi e scrittori di fama internazionale (Aldous Huxley, Timothy Leary e William S. Burroughs, solo per citarne alcuni), che sperimentarono su loro stessi gli effetti di questo potente allucinogeno, l’LSD viene presentato come possibile arma di difesa spirituale per sopravvivere all’alienazione della società e come mezzo per poter esplorare terreni sconosciuti del nostro pensiero, quali il sogno e la fantasia, ma ne vengono indagate anche le potenzialità terapeutiche (ad esempio la cura delle malattie mentali e dell’alcolismo), mettendo nondimeno in guardia contro i reali pericoli inerenti al suo uso indiscriminato».

Da un vecchio librino “Millelire” estraggo una cronaca.
Zero virgola cinque milligrammi di acido lisergico in soluzione. Tre gocce, un sorso. Si siede e aspetta. Sono le due del pomeriggio del 19 aprile 1943: il chimico Albert Hoffmann, 37 anni, da cinque impegnato in esperimenti sugli alcaloidi contenuti nella segale cornuta, ha appena ingerito la prima dose di Lsd della Storia. Aspetta e ancora non sa di avere appena socchiuso quella che Aldous Huxley, un decennio più tardi, avrebbe chiamato la porta della percezione. Ancora non sa che quella soluzione incolore – dietilamide dell’acido lisergico ottenuta per caso, provata per curiosità – vent’anni dopo avrebbe fatto il giro dei mondi, conquistato ragazzi californiani, musicisti anglosassoni, scrittori europei, sognatori viaggianti. Avrebbe creato ostinati cercatori di sé e grandi parole come Rivoluzione Psichedelica.

Chi inventò il termine “psichedelico”?
Fu Humphry Osmond (morto a 84 anni, il 6 febbraio 2004) a inventare quella parola usandola per la prima volta in uno scambio epistolare con Aldous Huxley.
Perché ciò avvenne? Scrive Massimo De Feo: “Entrambi all’epoca concordavano sul fatto che il termine ‘allucinogeno’, usato in psichiatria per definire sostanze come l’Lsd e la mescalina, non rendesse giustizia degli effetti di quelle sostanze che producono un’ampia gamma di differenti stati di coscienza; e inoltre allucinogeno connotava in senso negativo qualcosa che invece aveva gran bisogno di studi scientifici innovativi e senza pregiudizi”.

“Lsd”: un libro dai plurali sguardi su mondi scientifici, psichici, letterari e di costumi.

Chiudo questa nota con dei versi di Henri Michaux (Namur, Belgio, 1899 – Parigi, 1984)

Le droghe ci annoiano col loro paradiso.
Ci diano, piuttosto, un po’ di conoscenza.
Noi non siamo un secolo da paradisi
.

A cura di David Solomon
LSD
Prefazione di Timothy Leary
Pagine 273, Euro 20.00
Edizioni Pgreco


Carpi e Melotti alla Ragghianti


Sono in corso alla Fondazione Ragghianti due nuove mostre QUI profilate in una presentazione flash del direttore della Fondazione Paolo Bolpagni.

L’avventura dell’arte nuova anni 60-80: Cioni Carpi | Gianni Melotti vede, a cura di Angela Madesani, l’esposizione dei lavori di Carpi (Milano, 1923-2011) dedicata alle sue sperimentazioni. Figlio di Aldo Carpi, pittore e storico direttore dell’Accademia di Brera, fratello di Fiorenzo, noto musicista, e di Pinin, scrittore e illustratore per l’infanzia. Cioni inizia a dedicarsi alla pittura negli anni Cinquanta a Parigi; poi dal 1959 al 1980 realizza numerosi film d’artista, attualmente ospitati da importanti archivi, fra i quali il MoMA di New York .
Ecco .immagini e suoni da sue opere.

È Paolo Emilio Antognoli a presentare i risultati di una ricerca, ancora inedita, riguardante Gianni Melotti (Firenze, 1953) nel suo primo decennio di attività, dal 1974 al 1984, sia nel suo sviluppo storico-artistico, sia nei rapporti che egli ebbe con alcuni artisti legati da amicizia e collaborazione, quali Lanfranco Baldi, Luciano Bartolini, Giuseppe Chiari, Mario Mariotti e altri artisti quale Bill Viola legati alla sua esperienza in art/tapes/22, Studio dedito alla produzione di videotapes per artisti di cui Melotti nel 1974 diviene il fotografo. Una consistente collezione di queste fotografie è oggi conservata all’ASAC della Biennale di Venezia.

QUI un un breve viaggio nelle due mostre guidato da Madesani e Antognoli con un intervento di Gianni Melotti.

Dal comunicato stampa
«Cioni Carpi e Gianni Melotti: due artisti diversi, accomunati da una felice vena creativa, con opere multiformi realizzate con differenti materiali che ben identificano la corrente di sperimentazione dell’arte italiana tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo breve, in un percorso sfaccettato e per molti aspetti sorprendente».

Per i redattori della carta stampata, radio-tv, web:
Ufficio Stampa Fondazione Ragghianti: Elena Fiori.
elena.fiori@fondazioneragghianti.it

L’avventura dell’arte nuova
Fondazione Ragghianti
Via San Micheletto 3, Lucca
Info: 0583 – 467 205
Fino al 6 gennaio 2021


Neuroscienze delle emozioni (1)

“Tu chiamale se vuoi, emozioni…”, così cantava Lucio Battisti.
Già, ma aldilà degli esempi presenti in quella canzone (alcuni parecchio spericolati), che cos’è un’emozione? E i tempi che stiamo vivendo in quale nuova dimensione psichica hanno proiettato il concetto di emozione?
A queste domande risponde un libro pubblicato dalla casa editrice FrancoAngeli.
Titolo: Neuroscienze delle emozioni Alla scoperta del cervello emotivo nell’era digitale.
L’autrice è Michela Balconi.
È docente di Psicofisiologia e Neuroscienze Cognitive presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Brescia, presso cui dirige la Research Unit in Affective and Social Neuroscience. Fondatrice ed Editor-in-Chief della rivista internazionale Neuropsychological Trends e autrice di più di 300 pubblicazioni, perlopiù internazionali. Tra i suoi principali interessi di ricerca lo studio dei correlati neurofisiologici del comportamento emotivo e delle competenze sociali, con particolare interesse allo sviluppo di metodi innovativi di analisi del comportamento.

Dalla presentazione editoriale.

«Le emozioni pervadono ogni aspetto della nostra esistenza. Ma cosa sappiamo veramente delle emozioni? Come influenzano i nostri comportamenti? Come si comunicano e propagano sui social network? Sono proprie solo delle specie umane? È possibile una relazione emotiva uomorobot? Un viaggio affascinante attraverso le scoperte delle neuroscienze.
Questo libro vuole aiutarci a comprendere le emozioni da una prospettiva specificamente neuroscientifica, che ponga in luce il ruolo dei sistemi fisiologici implicati nell’universo emotivo. Ma non solo.
Punto di partenza imprescindibile quando si studiano le emozioni è che l’emozione è un’esperienza prima ancora che un processo. Un’esperienza in cui siamo coinvolti lungo l’intero corso della nostra vita.
A fronte dei numerosi quesiti che i neuroscienziati si sono posti – come evolvono le emozioni, come hanno origine “nel” e “con” il nostro corpo, come si “ammalano” – uno rimane cruciale: perché le emozioni continuano a esistere?
Le risposte che le neuroscienze ci forniscono parlano di empatia, intenzionalità, “mirroring” come oggetti principali con cui leggerle, scoprendo come, accanto alle nostre esperienze più intime, le emozioni siano anche un fatto eminentemente sociale e condiviso.
Ma gli universi emotivi ci riservano anche dei paradossi: le emozioni “dipendono” dalla mente e dalla razionalità, piuttosto che contrapporsi ad essa».

Segue ora un incontro con Michela Balconi.


Neuroscienze delle emozioni (2)

A Michela Balconi (in foto) ho rivolto alcune domande

Da quale principale riflessione è nato questo libro?

Due sono state le principali esigenze che mi hanno spinto a mettere mano a questa pubblicazione sul tema delle neuroscienze delle emozioni.
Da una parte la necessità di sistematizzare la mole di ricerche e anche di riflessioni teoriche attorno a quel tema; ovviamente tenendo conto che quelle riflessioni hanno una lunga storia e trovano oggi una riattualizzazione proprio sulla base del concetto di emozioni in ambiti muovi come, ad esempio, quella dei social e del mondo digitale.
La seconda ragione è data da una prospettiva scientifica che offre dei punti di vista direi alternativi a una tradizione di studi e ricerche sul tema delle emozioni. Perché le nuove scoperte in ambito neuroscientifico ma soprattutto le nuove tecnologie hanno consentito di aprire nuovi versanti di analisi; da qui la necessità di scrivere questo volume è stata anche un’esigenza nata dalla innovatività di questo nuovo approccio

Se dovesse per un dizionario, in poche parole, definire la parola “emozione”?

… sul breve?... proprio in estrema sintesi: l’emozione è un’esperienza individuale ma anche intersoggettiva che richiede la compresenza di una serie di fattori. È un modo usato per comunicare con l'altro. Un'esperienza condivisa che chiama in causa più registri di natura multimodale primo fra tutti la risposta di tipo corporeo.

Qual è stato il valore del saggio "L'espressione delle emozioni negli uomini e negli animali" di Charles Darwin scritto nel 1872?

Quel famosissimo saggio sicuramente ha costituito lo spartiacque rispetto al concetto di emozione così come era stata definita precedentemente dalle discipline affini alle neuroscienze, quella filosofica per esempio. Ulteriore valore di quel lavoro è stato quello di avere spostato l’asse d’attenzione dal piano puramente esperienziale, potremmo dire fenomenico, ai repertori comportamentali analizzabili da un punto di vista neuroscientifico.

Le emozioni hanno avuto un ruolo nell’evoluzione?

Hanno avuto il ruolo di potenziare quel registro d’esperienze di tipo interpersonale e sociale che le emozioni implicano. Hanno consentito così alla storia dell’uomo di svilupparsi favorendo quel necessario spettro d’intersoggettività e d’interazione.

Tristezza, paura, colpa, vergogna, rabbia… queste emozioni, indipendentemente dai paesi, dalle tradizioni e dai costumi dei luoghi in cui siamo nati su questo pianeta, noi umani le viviamo allo stesso modo oppure no?

Ci sono emozioni che mostrano una maggiore condivisione tra le diverse culture, ma nessuna delle emozioni… per esempio una delle più condivise com’è la paura, utile alla nostra sopravvivenza… è esente da diverse modulazioni fra cultura e cultura. Perché le emozioni, ci dicono le neuroscienze oggi, sono un fatto sociale e come tale l’incidenza della dimensione culturale è certamente centrale.

Uno dei momenti, non pochi, di grande interesse verso il suo libro l’ho provato nelle pagine in cui si sofferma sugli umanoidi e l’universo digitale.
Che cosa è cambiato nello studio sulle emozioni con la comparsa delle Reti
?

Oggi le emozioni hanno qualcosa da dirci anche sul fronte della dimensione digitale. E sul tema degli umanoidi, dei robot, sulla presenza di questi esseri, di queste entità che popolano la nostra quotidianità, perché l'universo digitale ormai fa pienamente parte della nostra quotidianità. Questo ha costretto gli studiosi a spostare il proprio asse d’osservazione dalle emozioni come costrutto prettamente soggettivo a costrutto intersoggettivo. D’altra parte, nessuna comunicazione di tipo digitale è priva di connotazione emotiva. Questo ci dice quanto anche la comunicazione apparentemente più distaccata, più neutra, remota, di fatto abbia bisogno di emozioni perché l'emozione è connaturata all’essere umano. Abbiamo, quindi, evidentemente necessità di riempire di emozioni anche la nostra vita digitale che è ormai una vita a tutti gli effetti parallela a quella, diciamo tra virgolette, “reale”.

………………………………..

Michela Balconi
Neuroscienze delle emozioni
Pagine 264, Euro 29.00
FrancoAngeli


Sopravvivenza programmata


Dall’arte cinetica al video, dall’installazione interattiva alla Net Art, dalle collezioni agli archivi, si sollevano quesiti quali: cosa significa conservare? Chi ne è responsabile? Quali sfide devono affrontare i musei di arte contemporanea? Come si può programmare la durata?
Per la prima volta in Italia disponiamo di una pubblicazione finora mancante su quei temi. Un libro che non dovrebbe mancare sugli scaffali delle biblioteche di musei, centri artistici e, ovviamente, dei critici d’arte e di chi si occupa di beni culturali .
Titolo: Sopravvivenza programmata Etiche e pratiche di conservazione, dall’arte cinetica alla Net Art a cura di Valentino Catricalà e Domenico Quaranta.

Catricalà è curatore e critico d’arte contemporanea. Dottore di ricerca presso l’Università degli Studi Roma Tre, è stato Part-Time Post Doc Research Fellow nella stessa Università. Lavora come ricercatore e come coordinatore dei programmi Arte e Media presso la Fondazione Mondo Digitale ed è direttore artistico del Media Art Festival di Roma (MAXXI). Ha svolto ricerche in centri quali lo ZKM di Karlsruhe, la Tate Modern, l’Università di Dundee. Si è specializzato nell’analisi del rapporto degli artisti e dei cineasti con le nuove tecnologie e con i media.
Su questa linea ha scritto diversi saggi, per contenuti e titoli: CLIC

Quaranta è critico e curatore d'arte contemporanea. Il suo lavoro si concentra sull'impatto degli attuali mezzi di produzione e diffusione sulle arti e sul modo in cui rispondono - sintatticamente e semanticamente - al cambiamento tecnologico. Collabora spesso con riviste e recensioni, tra cui Flash Art , Artpulse e Rhizome . L'autore di In My Computer (2011), Beyond New Media Art (2013) e AFK. Texts on Artists 2011-2016 (2016), ha contribuito a, curato o co-curato una serie di libri, cataloghi, e numerose mostre.
Maggiori informazioni QUI.

Il volume si avvale degli interventi dei due curatori e di Laura Barreca, Laura Calvi, Alice Devecchi, Roberto Dipasquale, Ben Fino-Radin, Marialaura Ghidini, Oliver Grau, Jon Ippolito, Laura Leuzzi, Rafael Lozano-Hemmer, Alessandro Ludovico, Dorcas Müller, Stephen Partridge, Davide Quayola, Iolanda Ratti, Cosetta G. Saba, Domenico Scudero, Azalea Seratoni, Elaine Shemilt, Gaby Wijers.

Ai due curatori ho rivolto alcune domande.

Come nasce questo libro?

Quaranta – Nel 2016 l’Accademia di Belle Arti di Carrara, dove insegno, mi diede l’opportunità di organizzare una tavola rotonda di una giornata sulla conservazione dei nuovi media. Discutendone con l’allora direttrice Lucilla Meloni, decidemmo di mantenere uno spettro ampio, sia in termini cronologici - coprendo un arco che va dalla conservazione dell’arte programmata alle più recenti pratiche di arte in rete - sia in termini tematici e metodologici. Abbiamo discusso di teorie del restauro e di pratiche conservative, di opere d’arte e di archivi, di conservazione e di re-enactment. Non si pensava di raccogliere gli atti e fare una pubblicazione, ma evidentemente l’assenza assoluta di un dibattito critico e di pubblicazioni in lingua italiana su questo argomento era l’elefante nella stanza. Valentino Catricalà, uno dei relatori della giornata, ha avuto il grande merito di puntare il dito, e, nei mesi successivi, di darsi da fare per trovare un editore sensibile a queste tematiche, che abbiamo individuato in Kappabit di Marco Contini. Da quel momento è stata una strada in discesa, seppur con numerosi ostacoli. All'idea iniziale di raccogliere i contributi della giornata si è affiancata l’urgenza di tradurre in italiano alcuni testi seminali sulla conservazione delle nuove tecnologie, come l’intervento di Jon Ippolito (figura determinante per l’avvio del dibattito sulla conservazione dei “media variabili” in ambito museale nei primi anni Duemila) o quello più recente dell’artista Rafael Lozano-Hemmer, una sorta di tutorial su come l’arte digitale possa essere “preparata” per la conservazione; e la necessità, altrettanto urgente, di commissionare nuovi testi a pionieri e esperti internazionali.

Il libro rimarca il ritardo in Italia – a differenza di altri paesi, ad esempio Gran Bretagna, Stati Uniti, Olanda, Giappone – sul tema della conservazione delle arti digitali.
Quale la causa culturale che da noi determina questa arretratezza
?

Quaranta – Più che da una singola causa, l’arretratezza italiana su questo fronte dipende da una serie di concause. Senza nemmeno arrivare alla solita lagna relativa al passato ingombrante che sottrae attenzione e finanziamenti al contemporaneo, vorrei puntare l’attenzione su due fatti importanti.
Da un lato, l’Italia non è mai stata in grado di dare stabilità a una scena locale della media art estremamente vivace e attiva. I festival, che in altri paesi sono diventati appuntamenti fissi e imprescindibili, in Italia hanno avuto vicende brevi e travagliate; la formula del media art center non ha mai attecchito. Se sulla loro necessità attuale potremmo discutere, è però indiscutibile che tra gli anni Ottanta e primi anni duemila siano stati gli eventi e i centri specializzati a sostenere delle pratiche creative che opponevano resistenza o avevano difficoltà ad adeguarsi al modello economico del mondo dell’arte contemporanea, e a dare forma a una cultura e a una sensibilità di cui oggi il mondo dell’arte in senso lato può beneficiare.
Su un altro fronte, tanto a livello istituzionale quanto a livello discorsivo, anche l’attenzione del mondo dell’arte contemporanea italiano per la media art si è rivelato frammentario, discontinuo e tardivo. In Europa e negli Stati Uniti, i musei di arte contemporanea hanno cominciato ad aprire posizioni di “media art curator” sin dai tardi anni Novanta. Organizzando mostre, commissionando lavori, acquisendo opere per la collezione permanente, questi curatori hanno creato le premesse perché i musei cominciassero a interrogarsi su come conservare quanto avevano acquistato. Fino a che non c’è collezionismo, la “conservazione del digitale” è una pura questione teorica. E fino a che non ci sono casi studio, anche la formazione e la ricerca non trovano appigli per evolvere. Mi è capitato di insegnare storia dell’arte contemporanea in un corso di restauro del contemporaneo, e quando portavo la discussione sulla conservazione delle nuove tecnologie, gli studenti non avevano né metodologie a cui aggrapparsi, né esempi con cui confrontarsi.

Nel sottotitolo del volume oltre a “pratiche della conservazione” c’è un richiamo alle “etiche” della stessa. A quali norme si riferisce la sostanza di quel plurale?

Catricalà – Il restauro non è materia esclusivamente tecnica, non è solo una questione di pratiche. Non esiste pratica del restauro senza un’etica, senza delle linee di comportamento più o meno specifiche: capire ciò che, secondo una visione condivisa da una determinata società, sia l’atteggiamento buono, giusto e lecito da intraprendere. Da qui, dunque, la domanda da cui siamo partiti è stata: quali sono le nuove etiche che regolano la conservazione delle opere realizzate con tecnologie? Il punto è che quando si parla di rapporto arte e media si entra in un livello diverso di complessità (tecnologica, non poetica). Utilizzare media complessi, come oggi il computer o lo smartphone, vuol dire aprire la pratica artistica a nuovi ambiti come quello dell’innovazione e della scienza, aprirsi a nuove collaborazioni con società tecnologiche e dipartimenti scientifici, lavorare in team con ingegneri e tecnici; infiltrarsi, dunque, in nuovi settori ben strutturati economicamente e utilizzare media pensati per usi sociali non artistici. Ambiti completamente nuovi per la storia dell’arte e del restauro che implicano, in primis, la ricerca di una nuova etica.
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A cura di
Valentino Catricalà – Domenico Quaranta
Sopravvivenza programmata
Traduzioni dall’inglese di Marcella Casu
Pagine 352, Euro 20.00
Edizioni KappaBit


Il borgo racconta

Chi sono i Moai?
Molti a questa domanda farebbero, come si dice, scena muta. Eppure, chissà quante volte quegli stessi che non saprebbero rispondere hanno visto un Moai in tv… no, non si tratta di Sgarbi… e neppure di Diego Fusaro, si tratta d’altri tipi.
Sono altissimi fino a 10 metri e pesano decine di tonnellate.
Breve: sono quelle statue monolitiche che si trovano sull’Isola di Pasqua presenti assai spesso sullo schermo tv quasi quanto lo è Barbara D’Urso.
Su quei lungagnoni, protagonisti di tanti documentari ripetutamente replicati, sono state fatte varie congetture su chi li ha costruiti, su quale significato abbiano, finendo di frequente per concludere – e ti pareva! – che è roba da attribuire agli alieni venuti quaggiù.
Per vedere da vicino i Moai il viaggio è un po’ impegnativo, l’Isola di Pasqua sta nell'Oceano Pacifico meridionale a qualche migliaio di chilometri dalle coste del Cile. Ma, don’t panic please!... senza spostarci dall’Italia è possibile fare quell’esperienza visiva e, se volete, tattile. Basta andare a Vitorchiano dove si trova un Moai.
Da una scheda web: «… fu creato nel 1990 da undici indigeni della famiglia di Juan Atan Paoa dell'Isola di Pasqua, invitati in una trasmissione Rai. Da un enorme blocco di peperino quei nativi maori, con asce manuali e pietre taglienti, ricavarono una scultura pesante quasi 30 tonnellate e alta circa 6 metri».
Pare che quei fantastici scultori prima di partire abbiano raccomandato di mai spostare la statua perché se trasferita potrebbe provocare gravi sciagure al paese. Quali? Perfino, Dio non voglia, una visita di Matteo Salvini.

Da domani proprio a Vitorchiano – in foto, figura nella classifica dei “Borghi più belli d’Italia' – cominciano giorni di particolare festa con Il borgo racconta un’impresa letteraria, guidata da Carola Susani, ispirata al ‘genius loci’ così come è spiegato nelle prossime righe.

Estratto dal comunicato stampa

“Dall’incontro virtuoso di realtà al femminile, PromoTuscia e Parole a Km 0, votate al rilancio del territorio e all’editoria, nasce così Il Borgo Racconta, progetto pilota che a Vitorchiano (VT) costruirà un percorso a tappe sul filo della letteratura per scoprirne i segreti, le leggende e il cibo dal 24 ottobre all’8 novembre 2020 con giornata finale il 21 novembre, attraverso i racconti di quaranta aspiranti scrittori, sotto la guida di Carola Susani. Finalista Premio Strega con Pecore Vive, la scrittrice è tutor del progetto narrativo Il Borgo racconta, nato per dare voce al borgo di Vitorchiano e raccontare storie per definirne l’identità, allo scopo di mettere in atto una conoscenza profonda del borgo sospeso, restituendola attraverso i propri racconti. Quaranta aspiranti scrittori, raccolto l’invito pubblico di PromoTuscia, con la partnership di Lazio Innova e del Comune di Vitorchiano, si sono messi in gioco per partecipare all’originale percorso letterario online, un contest che li ha messi alla prova nella produzione di racconti ispirati al borgo della Tuscia. I migliori verranno premiati in occasione della giornata finale del 21 novembre 2020, ma dal 24 ottobre ad allora sarà possibile godere di alcuni assaggi letterari in veri e propri viaggi inediti tra i vicoli e i meravigliosi scorci di Vitorchiano, guidati da alcuni dei partecipanti al progetto. I giovani quaranta scrittori condurranno i visitatori presso il Santuario di San Michele Arcangelo per raccontare la festa di San Michele Arcangelo e le tradizioni quattrocentesche legate al Santo Patrono di Vitorchiano, nel ghetto ebraico e tra i vicoli più pittoreschi del centro storico, fuori le mura alla scoperta della chiesa di S. Nicola e dei suoi numerosi affreschi di scuola viterbese, all’interno del Borgo per conoscere la storia dei Fedeli di Vitorchiano e della leggenda di Marzio. E ancora storia, miti e leggende del Moai di Vitorchiano, dei corsi d’acqua del paese e della figura dell’eretica, “la maga”, convertita da Santa Rosa mediante la prova del fuoco”.

Ufficio Stampa HF4 www.hf4.it Marta Volterra: marta.volterra@hf4.it - 340.96.900.12

Il borgo racconta
Vitorchiano
Info: www.promotuscia.it
Tel: 0761 – 30 46 43
dal 24 ottobre all’8 novembre


Uomini duri (1)

La casa editrice il Mulino ha pubblicato un libro che dovrebbe essere letto per decreto legge nelle scuole, nelle caserme, nei reparti maschili delle carceri, per la chiarezza d’esposizione sul tema trattato: la mascolinità. Che cosa rappresenta tra noi umani, il suo profilo antropologico e sociale
La virilità in questo volume è vista non solo nel suo aspetto aggressivo (qui ricordo: 51 vittime al 30 settembre 2020, senza contare le donne mandate all’ospedale dai propri “cari”); non soltanto analizzando gli ingiusti vantaggi che il cosiddetto sesso forte riscuote nella società, ma anche – e questo lo rende particolarmente originale e prezioso – sugli svantaggi inavvertiti da noi maschi d’essere (come verbo e come sostantivo) uno che pratica il predominio nella comunità terrestre. Parecchi svantaggi toccano perfino la salute dell’uomo forte e autoritario che non deve chiedere mai, per esempio non chiedere mai il numero del più a lui vicino ospedale perché quel numero gli conviene tenerlo a portata di mano per chiamare sollecitamente un’ambulanza resa necessaria per improvviso malore dovuto al fatto d'essere troppo maschio.
Titolo del libro: Uomini duri Il lato oscuro della mascolinità.
L’autrice è Maria Giuseppina Pacilli. Insegna Psicologia sociale nell’Università di Perugia.
Con il Mulino ha pubblicato nel 2014 Quando le persone diventano cose.

Che faticaccia per gli uomini duri!
Costretti a mai piangere neppure in caso di percussioni sulle loro parti intime, impermeabili come tute subacquee ai sentimenti, pronti a ogni esercizio di prestigio muscolare anche quando hanno i reumatismi, manifestare al prossimo un minuto sì e l’altro pure la loro indefettibile eterosessualità approcciando chiassosa corte anche a donne alle quali non tengono le quali se appena dicessero sì li vedrebbero risalire in disordine e senza speranza le avances che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.
Ben vengano, quindi, la satira dei Village People in “Macho Man” o la dispettosa superiorità delle donne nei confronti degli uomini vantata da Beyoncé in “Run The World”. Canzoni, sì, Perché non sono solo canzonette. Perché quelle citate (e altre ce ne sono) colpiscono la fabbrica della mascolinità in modo semplice ed efficace e, come sosteneva Umberto Eco in “Apocalittici e integrati”: «La canzone di consumo ha costituito (…) un valore indispensabile che tutte le società sane hanno perseguito e che costituisce il normale canale di sfogo per una serie di tensioni». Ne è prova la canzone di tipo macho laddove l’uomo pur professandosi supplice e adorante della sua compagna afferma ad esempio “sono un uomo / che non ha freddo nel cuore / però nel letto comando io” (Umberto Tozzi “Ti amo”, 1977). È già imbarazzante per tutti noi maschi, ma si pensi quale grandissima tragedia sarà per quel personaggio il giorno in cui gli capiterà una sia pure occasionale defaillance!
Uomini duri. Gran brutta vita la loro e di quelle donne che li incontrano!
Esistono, però, anche donne che rassomigliano a quelli lì, definite dagli psicoanalisti “donne falliche”. Gran brutta vita la loro, e di quegli uomini che le incontrano!
Chissà che un giorno Maria Giuseppina Pacilli non scriva pagine su di loro.
Mi piacerebbe molto leggerle. Come mi sono molto piaciute queste ora edite.

Dalla presentazione editoriale.
«Il tema scottante del sessismo e della discriminazione di genere è spesso affrontato da un punto di vista femminile. Questa prospettiva è più che legittima, ma risulta, soprattutto oggi, parziale. In questo volume ci viene dato un punto di vista originale e complementare: vivere in una società patriarcale e sessista può essere svantaggioso e dannoso anche per gli uomini, sebbene in modo diverso rispetto a quanto avviene per le donne. Essere uomini duri secondo i canoni della mascolinità tradizionale significa anche dover sostenere un’immagine e un’identità che dal punto di vista del proprio mondo affettivo, dei comportamenti di salute e dello stile di vita rischia di arrecare più danno che bene».

Segue ora un incontro con Maria Giuseppina Pacilli.


Uomini duri (2)

A Maria Giuseppina Pacilli (in foto) ho rivolto alcune domande.

Da quale principale riflessione nasce questo libro?

Direi che nasce principalmente dall’esperienza di formazione su questi temi che da diversi anni faccio nelle aule universitarie e dal confronto con colleghe e colleghi che lavorano in questo campo. Mi è capitato spesso di riscontrare come spesso i ragazzi sentano lontano il tema della discriminazione di genere, non avendo affatto l’impressione che gli uomini abbiano più opportunità o privilegi rispetto alle donne. Mi sono domandata molte volte da cose nascesse questo scetticismo e la prima risposta a questa domanda riguarda senza dubbio la difficoltà a riconoscere la propria condizione di privilegio: quando ci troviamo in una posizione di vantaggio sociale ci piace pensare che tale vantaggio non esista o, al limite, che derivi da nostri meriti individuali. Questo è umano ma è solo una parte della storia. Il punto è che nel dibattito pubblico, il tema del sessismo e della discriminazione di genere sono affrontati riflettendo sugli svantaggi del sessismo per le donne in termini personali, relazionali e sociali. La storia delle donne in occidente è anche una storia di discriminazione civile, politica e sociale e dunque questa prospettiva è più che legittima. Il punto è che resta parziale, soprattutto oggi alla luce delle grandi trasformazioni sociali avvenute. L’idea di scrivere questo libro nasce dal desiderio di colmare questa visione incompleta delle cose, con l’obiettivo di mostrare come vivere in una società sessista possa essere svantaggioso e dannoso anche per gli uomini, anche se in modo diverso rispetto a quanto accade per le donne.

Come lei scrive “la mascolinità è un concetto sfuggente, inafferrabile” e prova a riconoscerla oggi nell’”antifemminilità”. In che cosa consiste l’antifemminilità?

Consiste nell’allontanare dal proprio modo di sentire, dal proprio modo di pensare e dal proprio modo di comportarsi, la femminilità. L’identità maschile si organizza attorno al nemico della femminilità, un nemico pronto in ogni momento a minacciare lo status di vero uomo. La svalutazione della femminilità inizia fin dall’infanzia e passa attraverso rimproveri familiari come “Non comportarti come una femminuccia”, “Non piangere”, “Fai l’uomo”. Gli uomini imparano così molto presto e fin da bambini a familiarizzare con questo stato di vigilanza psicologica che consiste in un monitoraggio frequente del proprio comportamento per escludere la possibile presenza di imbarazzanti segnali femminili. Sebbene sia i bambini sia le bambine siano incoraggiati e incoraggiate ad assumere comportamenti tipici del proprio genere, sono soprattutto i maschi a essere puniti quando trasgrediscono questa regola, una punizione simbolica che passa ad esempio attraverso la ridicolizzazione e lo sberleffo.

L’obbligo sociale di ostentare mascolinità può fare ammalare?

Certo, e questo è confermato dai dati che ci dicono ad esempio che gli uomini muoiono prima delle donne nel mondo in generale e nello specifico nostro paese. Può sorprendere che gli uomini muoiano prima pur godendo di maggiori privilegi a livello sociale in termini di reddito, status professionale ma c’è una spiegazione molto precisa per questo fenomeno. Se si pensa alla salute fisica e psicologica, le pratiche sociali apprese dagli uomini per conservare i propri privilegi sono le stesse pratiche che possono danneggiarli in modo pesante. Lo dimostra il fatto che vivere in un paese dove è maggiore l’uguaglianza di genere si associa a più alti livelli di felicità e più bassa depressione non solo per le donne ma anche per gli uomini e questo dato resta lo stesso anche controllando per il Pil e l’indice di disuguaglianza del paese. Pensiamo ad esempio alla prevenzione. L’ideale di forza maschile spinge gli uomini che vi aderiscono a percepire la prevenzione come una roba da donne. Il risultato è che gli uomini si assumono meno precauzioni e sottostimano maggiormente i rischi che le proprie azioni possono avere per la salute.

Uso sue parole – “l’omosessualità è uno spettro che si aggira intorno alla mascolinità”.
Chi principalmente terrorizza? Perché, quell’ombra spaventa, come sappiamo da tanta cronaca, spingendo fino all’aggressione fisica contro l’omosessuale
?

Sono due gli spettri legati l’uno all’altro da una parentela strettissima che si aggirano attorno alla mascolinità eterosessuale. Il primo spettro è quello della femminilità, di cui si parlava prima, e il secondo è quello dell’omosessualità. In una visione tradizionale della mascolinità, le donne e gli uomini gay sono i soggetti altri per eccellenza. Su di loro l’uomo eterosessuale è condannato a proiettare, allontanandole, parti inaccettabili di sé collegate ad esempio alla sfera dell’emotività. Questo accade perché nella visione tradizionale della mascolinità, si parte dalla premessa fondamentale che un uomo vero è solo un uomo cisgender eterosessuale e la mascolinità è una qualità attribuibile solo a un uomo attratto esclusivamente dalle donne. Le indicazioni delle principali società scientifiche psichiatriche, psicologiche e mediche ormai da tempo chiariscono che l’omosessualità, così come la bisessualità, sono un’opzione normale dell’orientamento sessuale di una persona. In questa visione tradizionale però, continuano a essere percepite non solo come una condizione patologica, ma anche contagiosa. Per un uomo eterosessuale non basta definirsi come tale una volta per tutte. Bisogna dare agli altri prova costante della propria eterosessualità. È lungo l’elenco dei modi attraverso cui allontanare da sé il sospetto di omosessualità e nella lista, fra quelli potenzialmente più aggressivi, troviamo l’espressione di atteggiamenti omofobici. Possiamo vedere l’omofobia come la sentinella a cui è affidata la missione di presidiare i confini della mascolinità convenzionale. In questo presidio omofobico troviamo atteggiamenti e comportamenti che vanno dallo sberleffo, alla denigrazione fino alle aggressioni fisiche vere e proprie.

Se è vero – ed è vero – che l’idea tradizionale della mascolinità alligna nei movimenti di estrema destra, è pur vero che troviamo espressioni concrete di quella mentalità nei regimi comunisti oppure oggi perfino in tanti testi di canzoni trap (che nulla c’entrano col fascismo o comunismo, ma sono un’altra cosa ancora). Ma allora esiste un macho trasversale?

La relazione fra mascolinità tradizionale e politica è une tema molto interessante soprattutto se andiamo a esaminare l’ascesa dei movimenti di estrema destra, in diversi paesi del mondo oggi. Le forze di estrema destra, dagli Stati Uniti di Donald Trump al Brasile di Jair Bolsonaro, organizzano i propri programmi politici puntando spesso sulla carta della mascolinità tradizionale. Detto questo, è vero però che esiste un modello di machismo trasversale agli orientamenti politici che possiamo individuare nel rapporto paternalista con le donne o nell’idea che la competenza sia solo una qualità maschile. Basti pensare ai tanti eventi culturali da cui le donne sono sistematicamente escluse perché non riconosciute nella loro capacità di avere voce nell’arena pubblica. Il tema della competenza maschile come superiore a quella femminile è un tema davvero trasversale ai diversi orientamenti politici che si manifesta in modi più evidenti nel caso delle persone di destra e in forme più nascoste e sottili nelle persone di sinistra.

Lei chiarisce che l’ipotesi biologica che vuole il maschio così com’è nella sua peggiore, più vistosa visione sociale, è una tesi semplicistica solo in parte vera. Esiste un’interazione fra diverse aree da quella psicologica a quella sociologica che agisce nella composizione della figura maschile?

La sfida oggi è proprio quella di superare una volta per tutte il binarismo natura/cultura, che vede queste due istanze distinte e contrapposte nella spiegazione del comportamento umano, quando invece sono due dimensioni talmente interconnesse da essere inscindibili.
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Maria Giuseppina Pacilli
Uomini duri
Pagine 200, Euro 14.00
e-book € 9,99
Formato: ePub, Kindle
Il Mulino


Teo compie trent'anni

Alcune cose accadute in Italia e nel mondo nel 1990.
Esce La voce della luna, l'ultimo film di Federico Fellini; Microsoft lancia Windows 3.0; inaugurati a Milano i Campionati del mondo di calcio, li vincerà la Germania Ovest; l'Iraq invade il Kuwait, l'occupazione condurrà alla prima Guerra del Golfo; cerimonia ufficiale a Berlino per la riunificazione delle due Germanie; Occhetto presenta il nome e il simbolo del Partito Democratico della Sinistra; Garry Kasparov conserva il titolo di campione del mondo degli scacchi battendo Anatoly Karpov; l’opera rock The Wall dei Pink Floyd viene eseguita a Berlino davanti a 160.000 persone e a milioni di telespettatori.

Succedono anche molte altre cose e fra queste a Milano nasce il Museo Teo, voluto da Giovanni Bai e Teo Telloli.
Un museo senza sede e senza opere, proprio una di quelle cose che a me più piacciono, Organizza mostre di un solo giorno e pubblica Museo Teo Net Zine. .
Adesso, come tutti quelli nati nel 1990, compie trent’anni.
Per saperne di più sulla sua storia e sul suo profilo nello scenario di quegli anni c’è un denso saggio di Lucilla Meloni:CLIC!.

Auguri Teo!


La rivolta degli oggetti (1)

Il 24 marzo 1976 fu un giorno che segnò una tappa nella storia del teatro italiano sperimentale innovando la ricerca espressiva scenica.
In quella data debuttò, infatti, al famoso Beat 72 lo spettacolo – con una scheda di presentazione firmata da Simone Carella – “La rivolta degli oggetti” del gruppo La Gaia Scienza formato da Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari, Alessandra Vanzi.
Successivamente, dopo altri spettacoli – ricordo: “Gli insetti preferiscono le ortiche”, “Cuori strappati” – quel gruppo si divise.
Barberio Corsetti prese una via, un’altra il duo Solari – Vanzi.
Oggi, al Teatro “India” di Roma è possibile vedere un riallestimento operato dai tre attori registi che idearono la messa in scena di “La rivolta degli oggetti”.

In foto un’immagine dello spettacolo del 1976.

Estratto dal comunicato stampa
.
«A quarantatré anni di distanza, i tre artisti della Gaia Scienza, Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari, Alessandra Vanzi, si riuniscono per riallestire “La rivolta degli oggetti”.
La loro prima opera del 1976 passa il testimone a tre giovani performer – Dario Caccuri, Carolina Ellero, Antonino Cicero Santalena – dando vita a un incontro fra epoche, corpi ed esperienze differenti.
Lo spettacolo è frutto della collaborazione fra Teatro di Roma e Fondazione Romaeuropa, Una produzione Fattore K. 2019 in coproduzione con Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Romaeuropa Festival e Emilia Romagna Teatro Fondazione.

Nato nel clima di estrema libertà artistica della controcultura romana degli anni Settanta, l’evento – un’ora esatta di poesia, distillata tra rivoluzione sociale ed estetica, tra avanguardie storiche e arte contemporanea – si presenta al pubblico di oggi mosso dalla volontà di restituire agli spettatori proprio quello spazio utopico di creatività e circolazione del pensiero che ne aveva favorito la creazione. Specchi, sedie sospese, funi, un cappotto, un violino scordato: sono gli oggetti che si oppongono ai corpi dei performer, acrobati in esplorazione dell’universo poetico di Majakovskij – il titolo stesso è quello di un suo poema del 1913 – che si rotolano, si lanciano, si dondolano come smarriti, amplificando i versi dell’autore russo nella risonanza di una miriade di frammenti. Lo spettacolo del 1976 trovava la sua essenza in un lavoro sul corpo basato sulla gestualità, sulla parola, sullo slancio e sull’energia in una sintesi tra teatrodanza e arte visiva che fu la chiave dell’impatto emotivo sul pubblico e sulla critica, la quale non mancò di rimarcare la leggerezza con cui tutti gli elementi venivano amalgamati assieme per essere poi condivisi con lo spettatore.
Il metodo alla base del lavoro partiva infatti da una sostanziale rottura con la tradizionale divisione dei ruoli: tutto nasceva dal cortocircuito di diverse individualità artistiche che in quel momento, incontrandosi, generavano qualcos’altro, e davano vita ad un universo complesso e in costante trasformazione.
Nel 2019 questo cortocircuito è rinnovato dalla presenza dei tre giovani performer, alle cui sensibilità è affidata la creazione – ogni sera differente – su base della “partitura” dello spettacolo originario, per associazioni e dissociazioni, sguardi e movimenti. I tre performer, in dialogo con lo spazio e con il proprio tempo, incarnano così attraverso i loro corpi lo straniamento e le tensioni di un presente diviso fra la mercificazione imperante e la libertà sterminata di internet e dei media. Il risultato è uno spettacolo che, come in un gioco di scatole cinesi, concentra l’esperienza artistica di tre epoche storiche lontane fra loro – l’avanguardia rivoluzionaria russa, le cantine romane, il mondo come lo vediamo oggi – per aprire di nuovo il teatro allo stupore e alle possibilità dell’incontro, tanto fisico quanto metaforico».

Segue ora un incontro con Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari, Alessandra Vanzi.


La rivolta degli oggetti (2)

A Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari, Alessandra Vanzi ho rivolto alcune domande.
Li sentirete rispondere con una voce sola: prodigi della tecnologia a bordo di Cosmotaxi.

In foto: un momento dello spettacolo con gli interpreti di oggi.

Che cosa vi ha convinto a ripresentare quel vostro successo di tanti anni fa?

Diverse considerazioni sono alla base della decisione di riproporre un lavoro della Gaia Scienza. Ciascuno di noi nel corso degli anni ha recepito una richiesta molto forte di ‘ricostruzione di memoria’ da parte di giovani attori, che della Gaia Scienza sapevano ben poco. Da qui la volontà di una trasmissione diretta del nostro modo di lavorare e di concepire il teatro.
Non secondariamente, dopo più di trent’anni dalla nostra separazione, c’è stato il desiderio di rimetterci in gioco, per una verifica sulla tenuta di un linguaggio che avevamo costruito insieme e che - con tutte le differenze ed elaborazioni che abbiamo introdotto nei nostri percorsi dopo la nostra scissione - pensiamo ancora ancora vivo ed efficace.

Lo spettacolo è l’esatta riproposizione di quella lontana prima edizione oppure oggi c’è qualcosa di diverso? Se no, perché? Se sì, che cosa?

Dopo esserci rivisti ed aver ragionato su quale opera riallestire, abbiamo deciso per “La rivolta degli oggetti”, testo giovanile di Vladimir Majakovskij (del 1913), primo nostro spettacolo, presentato nel marzo 1976 al Beat 72. Non avrebbe potuto essere in alcun modo una ricostruzione, tantomeno ‘filologica’, in quanto lo spettacolo originario era basato essenzialmente sull’improvvisazione: ogni sera variava sensibilmente, al di là di alcune semplicissime scansioni formali, di tempi, spazio e luci. Ma il testo di Majakovskij, per la sua capacità di grande apertura metaforica, di immaginario, di orizzonti politici ed esistenziali è ancora fortissimo, e rimette in gioco un’idea di mondo, di futuro, di trasformazione - con energia, poesia ed ironia. Quando abbiamo fatto La rivolta allora eravamo ventenni e il mondo e la città erano ben diversi. Misurare lo scarto, la differenza tra l’allora e l’oggi, entrano così nel lavoro che facciamo con i tre giovani, che noi chiamiamo a ragionare sul loro vissuto e sulla possibilità o meno di una visione utopica.

Come avete selezionato i nuovi interpreti? Quale criterio vi ha guidati?

Gli interpreti sono stati scelti durante due laboratori intensivi che abbiamo tenuto a Roma, uno al Macro a dicembre e un altro alla Pelanda, nel marzo scorso. Non è stata una selezione semplice, buona parte dei partecipanti aveva una grande attenzione, partecipazione, fisicità ed intelligenza, a conferma che non è affatto vero che i giovani siano tutti rimbecilliti, anzi! In ogni caso anche in questo ci siamo trovati concordi sulla scelta. Dario, Carolina e Toni sono stati scelti esclusivamente per le loro capacità, non certo in base a somiglianze fisiche con noialtri (di allora). Non cercavamo dei replicanti o degli avatar, ma persone con le quali costruire un evento nuovo, disponibili ad aprire il loro immaginario, personale e generazionale.

Quale differenza trovate fra la scena teatrale di ricerca del 1976 e quella di oggi?

Gli anni ‘70 avevano protagonisti a livello internazionale grandissimi artisti, innovatori o rifondatori del linguaggio teatrale. Roma godeva di un’apertura culturale inedita, in particolare si andavano tessendo reti di collaborazioni tra artisti in eventi, performances, spettacoli. Noi abbiamo iniziato il nostro percorso al Beat 72, che in quegli anni, grazie a Simone Carella che ne era l’anima e la mente, rappresentò un felice punto di incontro tra teatro, poesia, musica, arti visive. L’economia era fragile a dir poco, ma esisteva una grande felicità creativa. Inoltre, tutto il sistema teatrale, per quanto sgangherato, era molto meno burocratizzato di quanto non lo sia oggi. Questo ha permesso a noi, ma anche a tanti altri nostri compagni di strada, di concepire e realizzare spettacoli o eventi che oggi è pressoché impossibile anche soltanto sognare, dall’uso dei materiali a quello degli spazi e ai tempi di prova. Nel raccontare ai ragazzi come ci muovevamo noi allora, abbiamo più volte registrato il loro stupore, la loro curiosità – come se si trattasse di due epoche distanti anni luce…

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Ufficio Stampa Teatro di Roma:
Amelia Realino: 06. 684 000 308 - 345 4465117; ufficiostampa@teatrodiroma.net

Teatro India
La rivolta degli oggetti
di Vladimir Majakovskij
regia e drammaturgia:
Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari, Alessandra Vanzi
visual Gianni Dessì, Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari
con Dario Caccuri, Carolina Ellero/Zoe Zolferino, Antonino Santalena
Produzione Fattore K
Lungotevere Vittorio Gassman1, Roma
Telefono: 06 6840 00311
Dal 20 al 25 ottobre


There Is an Elephant in the Room

La Fondazione Pastificio Cerere presenta There Is an Elephant in the Room a cura di Manuela Pacella, una personale di Marta Roberti,
Nata a Brescia nel 1977, dopo essersi laureata in Filosofia a Verona nel 2002, ha frequentato l’indirizzo di Cinema e Video all’Accademia di Belle Arti di Brera dove si è diplomata nel 2007. Con il suo lavoro ha partecipato a numerose mostre e festival tra cui: “Visions in the Making”, Istituto Italiano di Cultura New Delhi (2020); “Wall Eyes”, Keynes Art Mile, Johannesburg e AuditoriumArte, Roma (2019); “Something Else” Biennal Off Cairo (2018); “Portrait Portrait”, Taipei Contemporary Art Center (2016); “Scarabocchio”, Kuandu Museum of Art Taipei (2014); “Regeneration”, MACRO, Roma (2012).
Ha tenuto workshop in Sudafrica e in Etiopia, seminari a Shangai e Taipei.

Estratto dal comunicato stampa.

“Lo Spazio Molini della Fondazione Pastificio Cerere ha affascinato a tal punto l’artista da voler intervenirvi con alcuni lavori installativi su carta e la video animazione che dà il titolo alla mostra, There Is an Elephant in the Room del 2013. Il mondo animale, dal pavone all’elefante, vibra di una vita sotterranea e luminosa in un percorso simbolico e totemico in cui lo stesso Spazio, così carico com’è di storia industriale e resti dei bombardamenti bellici, si rende messaggero di domande di più ampio ed esistenziale respiro”.


L’esposizione si avvale di un testo, intitolato “Apparizioni” del filosofo Felice Cimatti.

«Queste righe sono scritte domenica 8 marzo 2020, poche ore dopo il governo ha dichiarato che l’intera Lombardia e altre province del nord Italia da quest’oggi sono ‘zone rosse’, cioè zone da cui non si può uscire e in cui non si può entrare. L’epidemia provocata dal virus chiamato Covid-19 sta progressivamente estendendosi, e agli umani non rimane che rinchiudersi in casa per provare ad arrestarne l’espansione. L’umano è il vivente delle gabbie e dei confini; mentre l’animale è ‘animale’ proprio perché non conosce frontiere e confini. In questo senso “There is an elephant in the room” mostra quello che è sotto gli occhi e nessuno osa vedere, gli animali ci sono, fanno quello che vogliono, quando si muovono il mondo trema. In effetti tutto il dilagante e stucchevole amore per gli animali non coglie il punto essenziale: gli animali, anche quelli industriali e dei laboratori scientifici, non sanno che farsene del nostro amore. L’animale non è mai una vittima. L’animale è tremendo.
Il fatto che all’origine di tutto questo ci sia un virus, cioè un’entità di cui gli stessi biologi non sanno se possa dirsi viva o no (senza che per questo possa neanche essere detta morta), ci offre un modo per avvicinarci ai lavori ‘animaleschi’ di Marta Roberti. Se c’è qualcosa che Marta Roberti mostra ai nostri sguardi è proprio l’animale come pura apparizione straniante. L’animale è ciò che appare, quando decide lui, come decide lui. Come appunto ha fatto il Covid-19, il virus (dal latino ‘virus’, “veleno”, l’animale è sempre velenoso semplicemente perché è animale, cioè inumano), che è apparso (forse, ma non è importante dove sia successo realmente) in un mercato del pesce in una sperduta e sterminata città cinese. Ecco, l’animale appare. L’animale è quell’entità che appare, cioè si mostra, senza essere stata invitata. In questo senso l’animale è per definizione l’”inatteso”. Di fronte all’animale siamo sempre in difetto, proprio perché non sappiamo mai nulla dell’animale, anche se crediamo di saperne tutto: homo sapiens è infatti quel vivente che ritiene di sapere tutto degli altri animali e del resto del mondo. In realtà sa molte cose degli animali, ma non sa quella essenziale, che l’animale, come il licaone che ci osserva impenetrabile e distante, è il “miracolo” del mondo (…) Ecco, Marta Roberti ci riporta al miracolo di questa apparizione. Non vuole aggiungere un’altra spiegazione, non ha niente da dirci, ci mette davanti all’evento dell’animalità. In realtà il pavone dai mille occhi che ci fissano misteriosi non è più l’animale di cui conosciamo il nome, il “pavone”. L’aspetto più interessante del lavoro di Marta Roberti è proprio questo: ci mostra un animale, ma ce lo mostra in un modo che ci costringe a dimenticarne il nome. O meglio, il nome lo ricordiamo ancora, ma è evidente che quel nome non aderisce più al vivente a cui è stato assegnato. L’animale – attraverso la peculiare tecnica grafica di Marta Roberti – è diventato diafano e sfuggente, inafferrabile proprio perché troppo leggero. Ecco, gli animali di Marta Roberti mostrano la crisi del nostro linguaggio, la sua incapacità di delimitare il mondo, di attribuire agli enti che nomina un posto e una funzione.
E così torniamo a Covid-19, alla sua brutale e spietata semplicità, che in realtà è la pura semplicità dell’animale. Come quella dell’elefante che vediamo nella breve clip “There’s an elephant in the room” che dà il titolo all’intera mostra. È un elefante, si riconosce distintamente, e tuttavia non è propriamente un elefante. La clip ci mostra un animale che è allo stesso tempo quasi immobile (si muovono solo la coda e la proboscide), e tuttavia scosso da un fremito minaccioso; un fremito che sembra quasi farlo dissolvere. L’animale è questa continua oscillazione fra movimento e quiete, sempre sul punto di muoversi anche quando è fermo, sempre pronto a fermarsi quando si muove. L’animale è questa imprevedibilità. In questo senso c’è un elefante nella nostra stanza, quella stanza che vogliamo sicura e impenetrabile, mentre l’elefante era già qui, era già dentro. L’elefante sta nella stanza da molto prima di noi. Ecco, noi siamo quella stanza, quel confine e quella paura. L’elefante, come il Covid-19, non sa che cosa sia una stanza: essere un animale non vuol dire altro, in fondo, che le stanze, cioè i recinti e le gabbie, non esistono. Le apparizioni di Marta Roberti ci costringono ad aprire porte e finestre. C’è del licaone, c’è del pavone, c’è dell’elefante. C’è del Covid-19. C’è del mondo, il miracolo del mondo: “Nel cortile splende bianca la luna autunnale. / Dall’orlo del tetto cadono fantastiche ombre. / Silenzio dimora in vuote finestre; / ed ecco affiorano sommessi i ratti” (1)»
(1) Da “I ratti” di Georg Trakl in Le poesie, Garzanti, Milano 1983.
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La mostra è realizzata grazie al supporto di Office Project Room di Milano.

Prenotazione obbligatoria. Come farla: CLIC!

Per I redattori della carta stampata, delle radio-tv, web: Ufficio Stampa: press@pastificiocerere.it

Marta Roberti
“There Is an Elephant in the Room”
A cura di Manuela Pacella
Fondazione Pastificio Cerere
Via degli Ausoni 7 – Roma
Info: +39 06 – 454 22 960
info@pastificiocerere.it
20 ottobre – 30 novembre 2020
Lunedì – Sabato 15.00 –19.00


Mio vanto, mio patrimonio


Esistono collezioni d’arte che per dimensioni e qualità sono dei piccoli musei.
Una di queste è frutto delle scelte operate durante decenni da Leone Piccioni (Torino, 9 maggio 1925 – Roma, 15 Maggio 2018).
Intellettuale finissimo, lussuoso critico letterario, è ricordato anche per essere il più sensibile interprete del poeta, amico e maestro, Giuseppe Ungaretti. Piccioni fu pure l'uomo che alla Rai rinnovò la radio pubblica facendola uscire dai sussiegosi paludamenti dei quali era prigioniera proiettandola sui nuovi scenari della società italiana nella seconda metà degli anni Sessanta.
Alla sua scomparsa, furono molti a ricordarlo sulla stampa, in trasmissioni radio-tv, sul web, fra quelle documentazioni qui propongo un intervento di Nicola Fano, autore teatrale e storico del teatro, che pubblicò in Rete un suo colloquio con Piccioni dal quale emerge sia un profilo privato sia un efficace ritratto culturale del personaggio.

Dal 29 agosto, quell’archivio del gusto creato da Piccioni con la sua collezione è possibile visitarlo in una mostra promossa dal Comune di Pienza guidato dal sindaco Manolo Garosi che ha promosso quest’esposizione sostenuta da istituzioni pubbliche e private.
In un allestimento di Fausto e Rodolfo Formichi sono ben 95 le opere proposte ai visitatori, firmate dai maggiori nomi delle arti visive italiane del ‘900, ma non mancano stranieri: dall’armeno Sciltian al francese Fautrier, all’inglese Graham V. Sutherland.
La mostra ha per titolo Mio vanto, mio patrimonio La visione dell’arte di Leone Piccioni.
Quel titolo proviene da uno scritto ritrovato, inedito, di Leone Piccioni dove si legge: "Ho un Morandi in casa. Mio vanto, mio patrimonio. E qualche altro quadro, ma quel Morandi, su tutti. Per tutti gli altri non spendo a guardarli lo stesso tempo che per quello solo. Mi siedo sul divano, l’ho di fronte".

“Mio vanto mio patrimonio” è a cura di Piero Pananti e Gloria Piccioni figlia di Leone, giornalista, che QUI traccia la storia dei rapporti fra il padre e Morandi mentre in questo video parte proprio da quel quadro (in foto) per lampi di memoria.

Il progetto grafico del catalogo è di Alberto Hohenegger.
Testi di Alfiero Petreni – Piero Pananti – Gloria Piccioni – Giovanni Piccioni – Nicola Fano – Marco Vallora.
Crediti fotografici: Alessandro Vasari.

Per i redattori della carta stampata, radio, tv, web:
Ufficio Stampa > Studio ESSECI, Sergio Campagnolo
Simone Raddi > gestione2@studioesseci.net ; tel. 049 – 66 34 99

Mio vanto, mio patrimonio
La visione dell’arte di Leone Piccioni
A cura di: Piero Pananti – Gloria Piccioni
Museo della Città – Pienza
Informazioni: 0578 - 74 83 59; 338 - 33 11 916
Fino al 10 gennaio 2021


La Stanza delle Meraviglie


Presso il Museo Civico di Castelbuono è in corso La Stanza delle Meraviglie, mostra a cura di Maria Rosa Sossai in collaborazione con l’antropologo Angelo Cucco.
L’allestimento espositivo è dell’architetto Pietro Airoldi.
Dulcis in fundo, è proprio il caso di dire, l’azienda dolciaria Fiasconaro ha realizzato per l’occasione un’opera creata con i suoi prodotti.

Ho avuto il piacere di ospitare altre volte su questo sito Maria Rosa Sossai; ricordo un nostro incontro di anni fa che per merito delle sue risposte è ancora oggi attuale, e un'altra conversazione meno lontana avvenuta quando pubblicò Vivere insieme.

A lei ho rivolto qualche domanda su “La Stanza delle Meraviglie”.

Come nasce questa mostra?

La mostra nasce da un incarico datomi dalla direttrice del museo civico di Castelbuono, Laura Barreca, la quale, in accordo con il sindaco, desiderava un progetto che celebrasse il centenario dell’acquisizione del Castello dei Ventimiglia ad un’asta pubblica, da parte dei Castelbuonesi, capitanati dal sindaco di allora, Mariano Raimondi. Per questa occasione era importante che il progetto fosse di arte partecipata, con un forte carattere inclusivo della vivace comunità di Castelbuono, contrassegnata dalla presenza di tante associazioni, scuole, confraternite, attività culturali e religiose.
Insieme ad Angelo Cucco, giovane antropologo di Castelbuono, per due anni ho organizzato assemblee cittadine e con singole persone, incontri con le classi delle scuole, presidenti di associazioni, per condividere con loro l’idea di una restituzione di questo evento storico così importante. Ho pensato che bisognasse di nuovo compiere un gesto simbolico, come il prestito di oggetti che non fossero necessariamente preziosi ma che avessero un valore simbolico per coloro che li davano in prestito al museo.

Qual è stata la risposta?

I castelbuonesi hanno risposto in modo generoso e hanno portato al castello più di duecento oggetti, che risalgono a diversi periodi del ‘900 e appartengono ad ambiti diversi della vita della comunità: economica, culturale, religiosa, ricreativa: strumenti di lavoro, abiti, cappe, abitini delle confraternite, scarpe, documenti, monili, borse, foto, insegne. Tra gli utensili esposti si creano delle assonanze inedite e dei cortocircuiti che trasformano la mostra in un laboratorio di arti e discipline comparate, da cui potrebbero scaturire nuove idee, dar luogo a laboratori, seminari, letture, eccetera. E quindi la mostra si può anche definire un archivio esistenziale che elabora un vocabolario per immagini che scaturisce dai materiali esposti, la cui eterogeneità abbraccia tutti gli aspetti della vita di una comunità.

Nel comunicato stampa si legge che nella mostra “questi oggetti vanno oltre il loro valore intrinseco per assumerne uno simbolico”.
Che cosa dicono ai visitatori gli oggetti esposti
?

Rappresentano un incredibile inventario da cui emerge un dato interessante, ovvero come nelle piccole comunità, come quella di Castelbuono, il bene comune si identifica con un attaccamento affettivo profondo alle tradizioni religiose e aggregative della comunità. In questo nuovo contesto il significato di questi oggetti quindi va oltre il loro valore intrinseco per assumere piuttosto quello simbolico di un patrimonio immateriale, costituito da una rete di relazioni, che è la sola condizione in grado di mantenere vivo il bene della collettività. Ed è questo il messaggio che la mostra vuole trasmettere ai visitatori…

… il bene comune

Sì, il bene comune, di cui l’acquisizione del castello dei Ventimiglia da parte dei castelbuonesi è uno dei primi esempi in Italia, non è mai un dato acquisito ma è un processo che continua nel tempo e che contribuisce in modo determinante a rafforzare il senso di appartenenza e di unità di una comunità.
La Stanza delle meraviglie è anche un modo per comunicare idee, desideri, promesse, un registratore di esperienze vissute, l’opportunità di condividere quel vissuto, da punti di vista diversi ma anche provare un senso di familiarità con quegli oggetti, quando questi ricordano altre comunità con un percorso simile a quello tracciato nella Stanza…

… oggetti che sono la testimonianza di qualcosa che è accaduto, vissuto

… e sofferto, e gioito. Ogni oggetto è un racconto, una storia a sé stante, inserita in una trama generale. Questo grande affresco, questo arazzo tridimensionale, ha anche una motivazione sociale nella sua funzione di testimonianza sociale e civile. Attraversare le tre stanze equivale ad attraversare un secolo di vita di una comunità e come in un film, il tempo si contrae sino a corrispondere al tempo dei passi che attraversano gli spazi, le soste, allo sguardo che si posa sugli oggetti e che li riconosce e non. Gli oggetti diventano un terreno di relazioni, capace di colpirci e di arrestare il nostro modo di sentire e di pensare.

A chiusura della mostra un’ampia documentazione con foto e testi critici sarà raccolta nel secondo numero di fuoriregistro, quaderno di pedagogia e arte contemporanea” pubblicata da Boîte Editions
In questa brochure che mi è stata data leggo che la mostra si concluderà anche incontrando gli artisti e cineasti Silvia Maglioni e Graeme Thomson.
Di che cosa si parlerà
?

Maglioni e Thomson affronteranno il tema cruciale di cosa fare, ora che dell’idea di bene comune si è appropriata la politica. Più autori di area anglosassone (un solo esempio: “The Undercommons. Fugitive Planning and Black Study”, di Stefano Harney e Fred Moten, 2013) hanno proposto, negli ultimi anni, di ‘occupare’ il concetto di bene comune e di combattere le istituzioni con le armi del sotterfugio, esercitate da coloro ai quali non viene riconosciuto nessun potere - neri, indigeni, queer, poveri, precari dell’università e altre categorie sociali marginalizzate -. Tra i tanti concetti da ‘occupare’, rilevati dai due autori, ci ha particolarmente interessato la pratica dello studio come azione collettiva, auto-organizzata e disinteressata al riconoscimento da parte dell’Istituzione. Essere nell’università e non con l’università, questo è il percorso dell’intellettuale sovversivo nell’università moderna. Può dirsi lo stesso in ambito artistico e in ambito pedagogico? Possiamo essere nell’arte e non con il sistema dell’arte? Possiamo essere nell’istituzione educativa / museale e non con l’istituzione educativa / museale? L’istituzione d’altronde, rifiuta chi si oppone, ma al tempo stesso non può rinunciarvi. Ecco il rapporto ambiguo di sfiducia e di sospetto reciproco che si instaura tra l’istituzione e la sua manodopera, costretta a essere fuggitiva per sottrarsi al controllo.
Altro concetto da occupare è quello della predizione, una pratica sotterranea ed eversiva che è propria dell’arte e della pedagogia radicale, in quanto eccede sempre ciò che è richiesto e normato dall’istituzione. Il potere predittivo quindi può essere considerato un bene comune in grado di creare uno spazio alternativo e visionario.

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La Stanza delle Meraviglie
a cura di Maria Rosa Sossai
in collaborazione con Angelo Cucco
Museo Civico di Castelbuono
Piazza Castello
Info: 0921 – 67 12 11
info@museocivico.eu
Fino al 28 marzo 2021


I rifugi della memoria


18 gennaio 1974: un corpo attraversa la finestra dall’interno verso l’esterno di una sede della Brigada Político-Social, la polizia segreta franchista, atterrando tre piani più sotto.
Succede a Valladolid, città dov’è nato quel corpo. Appartiene al 22enne José Luis Cancho, attivista del clandestino Partido del Trabajo de España e membro della Joven Guardia Roja. Suicidio? Così doveva sembrare secondo quattro agenti della Brigada che lo avevano torturato per oltre 20 ore e, credendolo morto, decisero di buttarlo giù.
Quelli erano anni in cui i militanti di sinistra pare avessero una spiccata tendenza a tuffarsi dalle finestre, voli descritti, come potete ascoltare qui da un noto cronista: Dario Fo.
Era già accaduto, infatti, allo studente Enrique Ruano, e, un mese prima di lui, al ferroviere italiano Giuseppe Pinelli anch’egli indomito volatore, ma sprovvisto delle capacità di restare sospeso in aria di cui era invece fornito il frate Giuseppe da Copertino.
Ci sono stati anche altri voli ma fermiamoci, con i piedi per terra, a quello di Cancho che, uscito malconcio ma vivo dal brusco atterraggio trascorrerà una settimana di coma, sei mesi paralizzato a letto e due anni di galera.
Tempo dopo scriverà un libro, tanto breve quanto intenso, ora in italiano pubblicato dalla casa editrice Arkadia. Titolo: I rifugi della memoria.

Nel libro viene riferito quanto è accaduto allo scrivente, ma senza indugiare troppo sulle sofferenze patite, non si tratta di un memoriale, né di un’autobiografia e meno ancora di forma romanzata di quant’è accaduto, piuttosto dell’autoritratto interiore di una creatura che attraversa età ed esperienze sprofondando nell’indifferenza e, come afferma nel libro, di “scrivere come un morto”. Del resto, ci era mancato poco.
Dopo quell’avventura terribile del defenestramento e delle dolorose sofferenze fisiche e morali, quell’uomo senza rinnegare le sue idee politiche lascia il partito: “Me ne andai civilmente. Presentai le mie dimissioni per iscritto. Semplicemente mi limitai a sparire”.
Andrà in giro per molti paesi sudamericani, non mancheranno altre peripezie sulle quali il lettore ne è informato con brevi, talvolta brevissimi, tratti. E qui è d’obbligo una riflessione stilistica su quelle pagine in cui una vita tridimensionale è riferita su di una superficie piana e quasi impalpabile. Tale leggerezza è dovuta, secondo lo stesso Cancho, a due suoi modelli: Édouard Levé fotografo (autore di “Autoportrait”) e Joe Brainard scrittore (autore di “Mi ricordo”, forma di scrittura sulla quale Perec produrrà “Je me souviens”).
Non voglio certo saperne più di Cancho, ma a me le sue pagine hanno fatto pensare di più al cinema underground americano fatto di brevissime sequenze, sfarfallìo di fotogrammi singoli, improvvise solarizzazioni delle immagini.
Scrive Andrés Barba nella prefazione: “Le memorie di Cancho (…) sono ciò che Simone Weil chiamerebbe «profilo spirituale», e Broch una «autobiografia psichica»” - e così conclude la sua presentazione – “Spero che questo piccolo gioiello riceva l’accoglienza che merita”.
Lo spero anch’io.

Dalla presentazione editoriale
«José Luis Cancho aveva 22 anni quando quattro poliziotti della Brigata Politica-Sociale lo scaraventarono da una finestra del commissariato di Valladolid. Era la mattina del 18 gennaio 1974. «Mi hanno buttato giù perché credevano di avermi ammazzato. Il fatto strano è che non solo non mi avevano ammazzato, ma non mi hanno ammazzato nemmeno buttandomi giù», racconterà in un’intervista. Passò sei mesi a letto, un anno con le stampelle e due in prigione. Da questa esperienza estrema parte la narrazione, compressa in poche e sorprendenti pagine, scritte in modo succinto, delicato, diretto e coraggioso. Una vicenda autobiografica dove l’autore fa i conti con il suo passato e il suo presente, senza costruire né un eroe, né tantomeno un antieroe. Uno sguardo che ripercorre la sua prima gioventù, la prigione e la sua ombra lunga, la lotta politica, l’insegnamento, i viaggi, le letture, la solitudine, le amicizie e che trova rifugio nell’infanzia, luogo al quale torniamo sempre, e nella scrittura, dove tutto sembra acquisire un significato».

José Luis Cancho
I rifugi della memoria
Traduzione di Marino Magliani
Prefazione di Andrés Barba
Pagine 78, Euro 13.00
Edizioni Arkadia


Matematica umanistica

Presento oggi un libro, pubblicato dalla casa editrice Gaspari che vorrei leggessero i tanti che pensano sia disdicevole non conoscere una certa poesia di Ugo Foscolo, ma sorridendo affermano senza imbarazzo che la matematica è loro estranea e neppure ricordano tutte le tabelline.
Quel volume è intitolato Matematica umanistica.
Ne è autore Claudio Facchinelli.
Insegnante di matematica, e insieme umanista ed eclettico, si è occupato di didattica delle scienze e di teatro. Fra le sue pubblicazioni, “Dramatopedia” (Edizioni Corsare) e “Dosvidania, Nina” (Sedizioni).
Per la Casa Editrice Gaspari ha curato la nuova edizione di “Voci dalla Shoah” (2019)

Quando ho finito di leggere “Matematica umanistica”, mi è tornato alla mente un aforisma di Fernando Pessoa: “Il binomio di Newton è bello come la Venere di Milo. Il fatto è che pochi se ne accorgono”.
Quel ricordo mi ha spinto a cercare altri aforismi. Fra quelli trovati, ve ne propongo due. Galilei: “La Natura è un libro scritto in caratteri matematici” (e la cosa stava per costargli ustioni di elevato grado).
Darwin: “La matematica dota una persona di un nuovo senso” (e il Vaticano lo vide come persona da invitare a cena solo se mancava l’arrosto.
Perché questo libro? Scrive l’autore nell’Introduzione: Se questo libriccino contribuirà a modificare nel lettore un atteggiamento preconcetto verso la matematica, a fargliene scoprire, oltre ad un aspetto più domestico, una dimensione culturale più ariosa e attraente, il merito sarà anche e soprattutto del mio Maestro (il riferimento è a Ettore Carruccio cui è dedicato il libro).
Facchinelli è riuscito pienamente quanto si proponeva.
Già, perché la matematica è vista da tanti come un mondo arcigno e inospitale. Eppure, tutto ciò che usiamo quotidianamente, oggi più di ieri, è fatto di numeri: dal bancomat al cellulare, dal navigatore satellitare al computer, dalle nuove attrezzature mediche ai videogames, dagli effetti speciali al cinema, agli strumenti usati nella net art, dal teatro tecnosensoriale, alla e-literature.
Senza dimenticare che sia pure non proprio popolare come i libri di Susanna Tamaro e Bruno Vespa… sigh!... esiste, nata anni fa, una valorosa sperimentazione letteraria ben legata ai numeri. Si pensi all’Oulipo che lavora su occasioni espressive derivate da strutture matematiche, famosi i Centomila miliardi di poesie di Raymond Queneau.
Chissà che forse proprio dai territori artistici possa venire un incoraggiamento a guardare con occhi amichevoli, o meno ostili, la matematica che fra le sue capacità possiede la generazione di utilità ma produce pure il divertimento. Incoraggiamento unito, ovviamente, a un modo diverso nell’insegnamento che da tempo soffoca le aule. Cioè non più gravato dal pesante indirizzo di derivazione idealistica voluta da Giovanni Gentile e Benedetto Croce che nonostante i tentativi di riforma spesso maldestri e contraddittori – scrive Facchinelli – risale agli anni Venti ed è tuttora sostanzialmente intatto.
“Matematica umanistica” apre plurali orizzonti conducendo un discorso scorrevolissimo che illumina sul come e sul perché la matematica aiuta a conoscere la complessità delle cose, a spiegare noi a noi stessi.
Concludo con un aneddoto che mi pare ben s’attagli al libro di cui fin qui s’è detto.
Un giorno il grande matematico David Hilbert notò che un certo studente aveva smesso di frequentare le sue lezioni. Quando gli venne riferito che aveva deciso di abbandonare la matematica per diventare poeta, Hilbert rispose: “Ha fatto bene. Non aveva abbastanza immaginazione per fare il matematico”.

Dalla presentazione editoriale.
«Il libro propone un’immagine lieve della matematica, diversa da quella scolastica che quasi sempre appare ostica e arida.
Una rilettura nella prospettiva storica ed epistemologica attraverso un intrigante percorso culturale che rivela l’utilizzo inconsapevole di procedimenti matematici nella pratica quotidiana di ciascuno»

Claudio Facchinelli
Matematica umanistica
Grafici e figure di Elena Terrin
Pagine 70, Euro 14.00
Gaspari Editore


L'alfabeto della scienza


Dobbiamo essere grati ad Eva che si lasciò tentare dal serpente, morse, e, secondo una nota cronaca, fece mordere ad Adamo, il frutto dell’Albero della Conoscenza che Dio aveva proibito.
Abitare nell’Eden, sì, d’accordo ma dopo un po’ ti viene a noia, ti si slogano le mascelle a furia di sbadigli. Meglio conoscere. Pure a costo che ti sfrattino da casa come capitato a quella famosa coppia birichina.
Ha scritto la grande Margherita Hack: “La colpa di Eva è stata quella di voler conoscere, sperimentare, indagare con le proprie forze le leggi che regolano l'universo, la terra, il proprio corpo, di rifiutare l'insegnamento calato dall'alto, in una parola Eva rappresenta la curiosità della scienza contro la passiva accettazione della fede”.

La casa editrice Dedalo ha dedicato una sua pubblicazione a 26 personaggi che hanno dato straordinari contributi alla Conoscenza. Ventisei figure tante quante sono le lettere dell’alfabeto, da qui il titolo L’alfabeto della scienza Da Abel a Zero assoluto 26 storie di ordinaria genialità.
L’autore è Giuseppe Mussardo, professore ordinario di Fisica Teorica alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste.
Ha scritto numerosi articoli scientifici e libri, sia di fisica sia di divulgazione scientifica, è stato direttore del Laboratorio Interdisciplinare della SISSA e autore di documentari scientifici.
A lui nel 2013 il Premio per l’Outreach della Società Italiana di Fisica

Dalla presentazione editoriale.

«Un libro che parte dalla A di Abel – talentuoso norvegese dalla vita leggendaria, fondatore di una delle teorie più affascinanti della matematica – per finire con la Z di Zero assoluto, ovvero l’appassionante sfida, tuttora in corso, di raggiungere il limite ultimo nella scala delle temperature.
Ogni lettera dell’alfabeto tocca una tappa di un suggestivo viaggio lungo i sentieri della scienza, durante il quale il lettore incontrerà vari personaggi: l’astronomo francese che rischiò la pazzia pur di rincorrere i passaggi di Venere; il fisico italiano che, per l’orrore della prima bomba atomica, abbandonò lo studio dei nuclei per dedicarsi ai trilobiti del Cambriano; l’astrofisico indiano che, giovanissimo, intuì per primo il destino ultimo delle stelle; la studiosa francese costretta a nascondersi dietro un nome ma­schile pur di pubblicare dei fondamentali teoremi sui numeri primi. E tanti altri ancora.
Ventisei storie che svelano lo spirito più autentico del mondo della scienza: la lettura di ciascuna di esse richiede giusto una manciata di minuti, il tempo di salire in treno o in metro, e scendere alla prossima fermata. Sarà il lettore stesso a inventare il proprio personale ordine di lettura dei racconti, dando luogo – per leggi matematiche elementari – a un numero astronomicamente grande di libri possibili, tutti uguali ma tutti diversi. Un testo che è quindi il compagno ideale di infiniti viaggi».

Giuseppe Mussardo
L’alfabeto della scienza
Ill. interne di Debora Gregorio
Pagine 320, Euro 17.00
Edizioni Dedalo


Retroguardia 3.0

Si è dato questo nome una rivista web (in foto il logo) guidata da Francesco Sasso.
Alcune note estratte dalla sua bio: “Nato ad Alberobello nel 1974. Si è laureato in Lettere con lode all’Università “Aldo Moro” di Bari con una tesi su Guido Morselli. Si è occupato anche della scrittura di Gesualdo Bufalino. Insegna a Milano, scrive liriche, racconti e saggi letterari.
Altri interessi di ricerca riguardano la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana”.

A lui ho rivolto alcune domande.

Quando nasce “Retroguardia 3.0” e da quali esigenze espressive ?

Tutto è iniziato con un piccolo blog sulla piattaforma Bloggers (Retroguardia – prima serie 2005-2007). Nel 2008 traslocai su WordPress e iniziai una intensa e bella collaborazione con il professore Giuseppe Panella docente alla Normale di Pisa. Insieme abbiamo lavorato costantemente, giorno dopo giorno, per dodici anni su “Retroguardia 2.0 – Il testo letterario” (seconda serie 2008-2020, quaderno elettronico di critica letteraria).
Una delle peculiarità di questo spazio web erano le recensioni ai libri di autori che non trovavano spazi adeguati su riviste cartacee e in rete. Nel corso della sua esistenza la rivista ha potuto contare sul lavoro di moltissimi collaboratori. La scomparsa del professor Panella nel 2019 mi ha visto continuare il lavoro di Giuseppe in rete e trasformare Retroguardia 2.0 in un’altra cosa.
A settembre abbiamo inaugurato un nuovo formato, con una diversa struttura e impostazione: "Retroguardia 3.0 miscellanea".
La redazione è ora composta da me (coordinatore), Antonino Contiliano, Luciano Curreri, Stefano Lanuzza, Gustavo Micheletti e da quanti vorranno collaborare con noi.

Perché la rivista si chiama “Retroguardia 3.0?

Retroguardia perché ci posizioniamo in uno spazio aperto e lontano dal dibattito culturale del momento, uno spazio aperto dove non siamo imprigionati nella nostra versione personale della realtà letteraria, distanti da ogni esigenza editoriale e di mercato, in un luogo dove proviamo a vedere, udire e sentire la letteratura.

In pratica come si realizza questo progetto?

Retroguardia offre interpretazioni di letteratura e si apre a problemi di vario genere, a più campi e discipline, in modo libero e non sistematico. Continuando ad essere una rivista capace di costruire un luogo virtuale in cui sia possibile mettere in contatto il maggior numero di giovani studiosi di discipline letterarie desiderosi di promuovere e sostenere un aperto dibattito storiografico e un confronto plurale su temi e metodologie della ricerca letteraria.

Dedichi spazio alla figura di Giuseppe Panella.
Puoi farne un sintetico ritratto
?

Giuseppe Panella era un intellettuale di vasta cultura e di estrema disponibilità. Non riesco qui a esprimere il mio sentimento per la perdita di Giuseppe. Mi mancano le e-mail quotidiane, il dibattito privato sui libri che gli autori o gli editori ci inviavano. Leggevamo tutto, ma segnalavamo solamente quei libri che avevamo apprezzato


L'incredibile storia di António Salazar


Mentre in quasi tutti i paesi del mondo divampavano le idee del ’68 e le accese manifestazioni con cui erano sostenute, scarsissima eco risuonava di quelle plurali rivolte nei confini del Portogallo dove arrivava molto poco dei suoni del mondo e quasi nemmeno quelli splendidamente acidi dei Beatles e dei Rolling Stones. Quel paese era immerso in un tempo sonnacchioso in cui lo aveva precipitato António de Oliveira Salazar (Vimieiro 1889 - Lisbona 1970), con l'Estado Novo.
Di quel caso si parla d’un fascismo portoghese, espressione sostanzialmente corretta, ma quel regime ebbe forma assai differente dai fascismi italiani e tedeschi. Quel Portogallo più che a una caserma rassomigliò a un convento. Tutto tendeva a manifestare modestia e prudenza cristiane e non autoritarismo militaresco La durissima repressione – fino alle torture e all’omicidio politico (si veda, ad esempio, il caso Delgado) era affare riservato alla PIDE, la polizia politica che poteva contare su più di 20 mila agenti e suppergiù 200 mila informatori; era diretta da Fernando Silva Pais un predestinato, secondo me, a quel ruolo già dall’anagramma del suo nome (Pais = Spia).

Quale fu il profilo di quel regime? Chi era Salazar? Quale fu la sua singolare causa di morte?
A questi interrogativi risponde un libro pubblicato dalla casa editrice Laterza intitolato L’incredibile storia di António Salazar il dittatore che morì due volte.
Ne è autore Marco Ferrari.
Giornalista e scrittore spezzino, ha esordito nella narrativa nel 1988 con il romanzo “Tirreno” (Editori Riuniti), cui hanno fatto seguito: “I sogni di Tristan”; "Alla rivoluzione sulla Due Cavalli"; “Grand Hotel Oceano” e “Ti ricordi Glauber” per Sellerio. “La vera storia del mitico undici” (con Alessandro Benvenuti) per Ponte alle Grazie; “Cuore Atlantico” e “Morire a Clipperton” per Mursia; “Le nuvole di Timor” per Cavallo di Ferro; “Sirenate” per Il Melangolo; “Un tango per il duce” per Voland; “Rosalia Montmasson. L’angelo dei Mille” per Mondadori. Con Arrigo Petacco ha firmato “Ho sparato a Garibaldi” e “Caporetto” per Mondadori. Dal romanzo “Alla rivoluzione sulla Due Cavalli” ha tratto la sceneggiatura dell’omonimo film di Maurizio Sciarra che ha vinto il Pardo d’Oro al Festival di Locarno 2001.

“L’incredibile storia di António Salazar” ha molti meriti, primo fra tutti è scritto valendosi di una fittissima documentazione su nomi, fatti, date, che dire molto attenta è dire poco. Si avvale, inoltre. di una scrittura veloce che riesce a tenere insieme la cronaca degli accadimenti con l’interpretazione degli avvenimenti descritti.
Chi era Salazar? Cattolico e nazionalista figlio di un piccolo amministratore terriero.
Uomo metodico e abitudinario. Non fumava. Pressoché astemio, beveva un decilitro di vino (per capirci, equivale a mezzo bicchiere di plastica… faccio bene io a non fidarmi di quelli lì). Amava il caffè, ma l’odorava soltanto. Detestava i viaggi. Non amava il Fado. Sul tavolo una fotografia di Mussolini. Larga parte del suo tempo (e lo fu anche dei suoi ultimi tempi) era amministrato da Dona Maria, più amministratrice che governante. Non andate col pensiero a eventuali ulteriori rapporti. Sbagliereste. Circa la vita sessuale del dittatore si sospetta che sia morto vergine dopo un voto di castità fatto in gioventù. Su quest’aspetto intimo si sofferma per più pagine Marco Ferrari, illustrando le figure delle donne con le quali Salazar entrò in rapporti. Rapporti, forse anche intensi, ma probabilmente solo platonici.

La mattina del 3 agosto 1968, il callista Augusto Hilário, come faceva ogni tre settimane, uscì di casa per recarsi a curare i sofferenti piedi di Salazar.
Non sapeva che stava per essere il solo testimone della fine di un uomo e di un impero.
Accadde che il gran capo sedutosi su di una sedia “da regista” la sfondò e cadde in terra battendo forte la testa sul pavimento.
Comincia qui una storia che dura due anni trascorrendo con movenze sceniche dal dramma al vaudeville. Ben vale il prezzo del libro per conoscerla.

Dalla presentazione editoriale.

«Dagli anni Trenta di Hitler, Franco e Mussolini, fino agli anni Settanta: tanto durò il regime dittatoriale di António Salazar in Portogallo. Ex seminarista, autore di un sottile sistema di repressione, si salvò dalla seconda guerra mondiale dando le basi delle Azzorre agli alleati e vendendo materie prime ai nazisti, creò duri penitenziari in isole remote e fortezze medioevali, trasformò Lisbona in una città di spie. Resse, fino alla fine, un immenso impero coloniale che andava dalla Guinea al Mozambico, da Timor Est a Macao finché il suo modello fascista e corporativo non venne travolto dalla Rivoluzione dei Garofani del 1974 che riportò Lisbona in Europa. Nell'anno in cui tutto avvenne, il 1968, Salazar cadde dalla seggiola del callista e batté la testa. I danni cerebrali che seguirono l'operazione indussero il Presidente della Repubblica a provvedere alla sua sostituzione. In realtà, sebbene riacquistasse lucidità a tratti, nessuno osò mai confessargli che era stato defenestrato. Così, per due anni, andò in scena la finzione del potere con riunioni ministeriali, visite di Stato e soprattutto un sistema informativo fatto su misura per lui: interviste televisive e radiofoniche e copie uniche del suo quotidiano preferito "Diário de Notícias". Una vicenda assieme tragica e surreale raccontata in modo magistrale da un profondo conoscitore del Portogallo, della sua storia, della sua cultura e delle sue atmosfere».

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Marco Ferrari
L’incredibile storia di António Salazar
Pagine 200, Euro 18.00
Laterza


L'unica regola di Netflix


Quante sono le teorie manageriali che vengono insegnate in corsi riservati, e costosissimi, da tanti guru (forse troppi) che promettono successi alle imprese? Tante.
Poi accade che il successo arride a chi non ha praticato quelle teorie.
Oggi succede più di ieri. Una ragione c’è: è cambiato il futuro. Ci raggiunge prima di anni fa e si presenta in forme inedite.
La sequenza temporale è sempre più rapida, l’estensione delle conoscenze da sequenziale è divenuta reticolare creando forme d'intercodice prima impensabili.
Non è necessario andare con la memoria a secoli passati. Guardandolo da oggi fissiamo la metà del secolo scorso (meno di un battito di ciglia per la Storia) e ci basta per notare come la scienza e le tecnologie da essa derivate abbiano fatto passi incredibili. Questo ha avuto ripercussioni sulla maniera di vivere, di comunicare, acquistare, vendere, viaggiare, e via via. Almeno nei paesi dalle economie più sviluppate. Se un tempo era necessario per il successo tenere il passo coi tempi (e già meglio si posizionavano quei pochi che riuscivano a precederli), oggi tenere il passo significa essere in ritardo, candidarsi a un possibile fallimento. Solo e soltanto prevenendo necessità ed esigenze future e, quindi, servizi futuri in grado di corrisponderle, si può puntare ad un’affermazione imprenditoriale.
Sono cambiate le regole? Oppure L’unica regola è che non ci sono più regole?
Questo l’eccitante titolo di un libro pubblicato dalla casa editrice Garzanti.
Il sottotitolo è vieppiù stimolante per la prima parola che contiene: Netflix e la cultura della reinvenzione. Netflix: il più grande successo fra i media degli ultimi anni, leader del settore on Demand. Attualmente la piattaforma conta un totale di 125 milioni di abbonati di cui oltre 56 solo negli Stati Uniti; quasi 1 milione gli abbonati italiani, dati tratti dal quotidiano “Il Sole 24 Ore”.
Il libro mantiene le promesse del titolo e del sottotitolo. Non è strano perché gli autori sono Reed Hastings e Erin Meyer.

Hastings ha co-fondato Netflix nel 1997. Potrebbe già bastare. Ma è anche attivo nel settore educativo, presente nei consigli di amministrazione di Facebook e di Microsoft dal 2007 al 2012. Laureato presso il Bowdoin College nel 1983, ha conseguito un master in Intelligenza Artificiale presso la Stanford University nel 1988.

Meyer è l’autrice di “The Culture Map: Breaking Through the Invisible Boundaries of Global Business”. Insegna all’INSEAD, una delle più rinomate business school al mondo. I suoi contributi sono apparsi su «Harvard Business Review», «Singapore Business Times».

Legittima una domanda prima ancora di sfogliare il volume: perché Hastings, cofondatore di quel colosso ha firmato il libro accompagnandosi a un altro nome?
La risposta la dà nelle prime pagine lo stesso Hastings ed è un modo per conoscerlo e capire perché Netflix è il gigante che è: Ho chiesto a una persona esterna di studiare la nostra cultura aziendale e solo dopo scrivere con me questo libro. Volevo che un esperto imparziale esaminasse da vicino come si realizza quella cultura nella realtà, giorno dopo giorno, tra le nostre mura.
Una cultura che sconvolge le tradizionali regole delle imprese, anche di quelle all’avanguardia, perché rinuncia ai valori di procedure prestabilite attribuendoli, e adattandoli, invece alle persone; fa prevalere l’innovazione all’efficienza; premia la densità di talento e non lo stakanovismo; autorizza il dissenso su decisioni dei capi invitando a indicare strade alternative; concede massima libertà agli stipendiati su di un arco di scelte che vanno dagli orari da praticare alle ferie da usare.
Principii espressi in un documento aziendale chiamato il “Netflix Culture Deck” che già nella forma diverso da tutti gli altri consimili composti altrove. Non carta stampata, non manifesto web, ma 121 diapositive. Quel particolare videotesto ha fatto dire a Sheryl Sandberg direttrice operativa di Facebook: “Potrebbe essere il documento più importante mai uscito dalla Silicon Valley”.

Tutto può essere sintetizzato in due parole: Libertà e Responsabilità.
Intendiamoci nessuna donna entra negli uffici in due pezzi e nessun uomo vestito con la sola cravatta, nessuno prende ferie per 12 mesi, né evita di recarsi al lavoro per più giorni, perché accade che quelle due parole – Libertà e Responsabilità – conducano al meglio.
Eppure, non è stato facile per Netflix raggiungere subito il successo.
Ottenuto faticosamente un appuntamento con Joe Antioco CEO di Blockbuster, Hastings e Marc Randolph, videro bocciata la loro proposta (su cui trionferà poi Netflix): ricevere per posta i Dvd ordinati su un sito web.
Due anni dopo quell’infelice incontro, però, Blockbuster dichiarò fallimento e Netflix, uscita più volte da brutti momenti, s’affermò. Antioco non aveva colto il passaggio dal noleggio (cui pure era, sia pure tardivamente, arrivato) allo streaming.
Netflix oltre a quel passaggio si spinse al lancio di propri contenuti originali affidati a studi di produzione esterni. Poi passò a produrre in studi propri, e, infine, siamo a oggi, da azienda Usa divenne azienda multinazionale agendo in 190 paesi.
Questo più recente passaggio pose Hastings davanti a una nuova scelta. Di solito le aziende che impiantano attività fuori dai confini nativi, esportano i codici di comportamento praticati in patria (si pensi alla Coca-Cola, Nestlé, ad altre ancora) incontrando frequenti conflitti con autorità locali, istanze ambientaliste, sindacati. Netflix capì per tempo che andava in parte rimodulato il suo “Culture Deck” rispettando le culture del luogo ma nulla andava cambiato circa Libertà e Responsabilità. I risultati sono noti.
Hastings ha trovato la formula universale del successo?
“Se in Netflix così si pensasse” – risponde – “sarebbe la rovina”.
Ancora una cosa.
Pare lui sia un ammiratore del comico e aforista americano Milton Berle (1908 – 2002). Scommetto che fra le tante famose battute di quella star lui preferisca quella che così suona: “Se l’opportunità non bussa, costruisci una porta”.

Dalla presentazione editoriale.
«Non è mai esistita, prima d’ora, un’azienda come Netflix. E non solo perché ha rivoluzionato l’industria dello spettacolo, o perché è in grado di fatturare miliardi di dollari l’anno, o perché le sue produzioni sono viste da centinaia di milioni di persone in quasi 200 paesi. Quando Reed Hastings ha avviato la sua attività, che nel 1997 consisteva nel vendere e noleggiare dvd per corrispondenza, ha infatti sviluppato principi radicalmente nuovi e controintuitivi: a Netflix, gli stipendi sono sempre più alti dei concorrenti. A Netflix, il punto non è lavorare tanto. A Netflix, i dipendenti non cercano di accontentare il capo. Questa originale cultura della libertà e della responsabilità ha permesso di crescere costantemente e di innovare fino a creare il colosso di oggi. In questo libro per la prima volta Reed Hastings, con l’autrice bestseller Erin Meyer, descrive la geniale filosofia alla base del suo progetto e della sua vita, e narra storie inedite su tentativi, passi falsi ed errori compiuti, offrendo l’affascinante e completa immagine di un sogno che non smette mai di reinventarsi».

Reed Hastings – Erin Meyer
L’unica regola è che non ci sono regole
Traduzione di Sara Caraffini
Pagine 346, Euro 16.80
Garzanti



L'isola ribelle (1)


La casa editrice Laterza ha pubblicato un denso saggio che riflettendo su quanto accadde secoli fa su di un piccolo territorio del nostro paese, illumina un importante tratto di storia che avvolse, e in certi casi sconvolse, molte comunità.in altri paesi generando scontri non solo verbali perché in qualche caso si arrivò al pugnale come nel caso dell’italiano Paolo Sarpi che salvò miracolosamente la vita, ma non il suo aspetto cui la chirurgia estetica, forse , ancora oggi, nulla potrebbe.
Titolo del libro: L’isola rfibelle Procida nelle tempeste della Controriforma.
L’autore è Giovanni Romeo.
Ha insegnato Storia moderna nell’Università di Napoli Federico II.
Tra le sue pubblicazioni: “Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma” (Milano 1990); “Ricerche su confessione dei peccati e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento” (Napoli 1997); “Esorcisti, confessori e sessualità femminile nell’Italia della Controriforma. A proposito di due casi modenesi del primo Seicento” (Firenze 1998).
Nel catalogo Laterza: L'Inquisizione nell'Italia moderna (2009); Clero criminale (2013); Amori proibiti (2014).

Dalla presentazione editoriale.

«Uno dei maggiori studiosi italiani dell’Inquisizione ricostruisce le secolari resistenze di una piccola isola alle imposizioni della Chiesa: a Procida i ripetuti tentativi delle autorità ecclesiastiche di introdurre le severe regole dettate dal Concilio di Trento – dalla lotta alle convivenze alla repressione delle pratiche magiche – dovettero fare i conti con una comunità ricca, vivace, aperta agli scambi e orgogliosamente attaccata ai propri modi di vita. Il quadro complessivo restò a lungo per la Chiesa di Roma fallimentare, e il libro lo documenta ampiamente. Le vicende di Procida sono l’occasione per riflettere sul complessivo esito dei tentativi di disciplinamento religioso nell’Italia moderna. Ovunque, sia in altre piccole isole, sia nelle aree rurali, sia nelle città, le reazioni furono diffuse e invitano a riflettere sulla straordinaria durata del Medioevo religioso nel paese del papa».

Segue ora un incontro con Giovanni Romeo.


L'isola ribelle (2)


A Giovanni Romeo (in foto) ho rivolto alcune domande.

Quale particolare interesse di analisi storica hanno suscitato in te questi avvenimenti di Procida tanto da dedicare loro “L’isola ribelle”?

Un forte interesse per le vicende ricostruite nel libro si è scontrato in me per molti anni con i consigli ricevuti in tante occasioni, nel corso degli anni appassionati vissuti nel mio corso di studi, presso l’Università Federico II. Ricordo in particolare il prof. Ettore Lepore, strappato troppo presto alla comunità scientifica da un male impietoso, che raccomandava a noi storici in erba di non scegliere temi di ricerca troppo legati alla nostra identità: dalla questione meridionale a Masaniello…Fedele a questa impostazione, per lunghi anni, pur studiando molto momenti e problemi della storia dell’Inquisizione e della Controriforma a Napoli e nel Sud, ho sempre cercato di collocarli nel quadro della storia europea. Perciò ho evitato a lungo di riflettere sulla suggestione dei molti inediti che delineavano un’immagine della mia isola natia singolarmente differente da quella attuale. Li leggevo, mi piacevano, li sintetizzavo o ne chiedevo la riproduzione e li accantonavo. Finché, pochi anni fa, rileggendoli tutti insieme alla luce di molte altre esperienze di ricerca sulla Controriforma, ho pensato che in quella storia travagliata non ci fossero solo curiose vicende locali, che vi si celassero tracce di questioni di più ampio respiro. Oggi ne sono convinto. L’analisi delle vivacissime resistenze di una comunità che aveva dato a lungo filo da torcere agli arcivescovi di Napoli potrebbe aprire la strada a una nuova stagione di studi mirati sulle reazioni di altre comunità cattoliche – in Europa e nel Nuovo Mondo – ai modelli elaborati dalle autorità della Chiesa all’indomani del concilio di Trento.

Quali furono i principali punti di scontro fra la comunità procidana e i dettati della Controriforma?

Quelli meglio documentati – non necessariamente, è ovvio, i più sentiti – riguardano il fidanzamento e il matrimonio. Il passaggio da un sistema che poggiava sulle scelte delle famiglie delle coppie e vedeva come il fumo negli occhi la grande novità tridentina – il matrimonio in chiesa, possibilmente dopo un fidanzamento casto – fu per le autorità ecclesiastiche, almeno per due secoli, un sogno irrealizzabile. Le raffiche di scomuniche servirono a poco. Ma anche il terrorismo sulle nascite e sulle vigilie di morte - battezzare subito tutti i neonati, vietare la sepoltura di quelli morti senza il sacramento, anticipare l’estrema unzione ai malati gravi – ottenne risultati incerti, soprattutto tra i congiunti di chi era a rischio, preoccupati sia di non togliere agli ammalati la speranza di sopravvivere, sia di evitare sgraditi lasciti testamentari al clero. Fu senz’altro più efficace, anche perché punteggiata da orrori, la battaglia sulla anticipazione dei battesimi: a metà del Settecento la distanza dalla nascita si era ridotta a poche ore…

Nella lotta della comunità procidana vi erano soltanto motivi di differenti interpretazioni della fede cattolica o si profilavano anche nuovi scenari di cultura politica?

A questa domanda non è facile rispondere, anche perché si sa poco finora della più importante battaglia politica degli isolani, che nei circa tre secoli studiati è l’adesione di molti di essi alla Repubblica napoletana del 1799. Ciò che più colpisce, anche grazie alla relativa ricchezza delle fonti archivistiche, è la lunga durata delle resistenze degli isolani ai reiterati tentativi di ‘disciplinamento’ degli arcivescovi. Tutto lascia pensare, peraltro, che una delle ‘partite’ più importanti si sia giocata, sia nell’ambito della diocesi, sia nell’Europa cattolica tutta, attorno ai modelli tridentini che modificavano radicalmente i passaggi cruciali dell’esistenza. Il confronto con ciò che capitò nel 1573 a Dubrovnik e nel 1599 nel piccolo centro agricolo di Miano (nel Napoletano) può essere istruttivo. I maggiorenti della piccola capitale adriatica si opposero alla introduzione nei registri di battesimi della data di nascita, perché così si sarebbe ufficializzata l’età delle figlie (si trattava di un dato che le famiglie intendevano mantenere riservato, perché decisivo nelle contrattazioni matrimoniali); i mastri, probabilmente analfabeti, della chiesa parrocchiale campana cercarono di opporsi con la forza al nuovo curato forestiero, perché le sue ‘carte’ non erano ‘bone’.

Fu solo un’occasione di scontro di teorie oppure ci furono pure atti violenti in quella contrapposizione?

Fu uno scontro non violento in senso stretto, ma molto aspro, in cui ebbe forse un peso non indifferente anche l’insularità. La certezza che il braccio di mare che la separava dalla terraferma, pur non particolarmente esteso, era molto temuto dai prelati, come probabilmente da gran parte delle popolazioni costiere, era un punto di forza per gli isolani. Essi sapevano bene che i controlli diretti dell’applicazione delle loro direttive erano complicati e in fondo largamente improbabili per la Curia arcivescovile. Inoltre, la mediazione di un clero locale facilmente abbordabile e ben disposto a mediare – ed eventualmente a tacere sugli abusi – fu un elemento ancor più importante a vantaggio dei resistenti e servì loro per ammorbidire le autorità ecclesiastiche napoletane e continuare a vivere con relativa libertà.

Si ha talvolta l’impressione (forse dovuta alla massiccia pubblicistica cattolica più conservatrice) che le determinazioni del Concilio di Trento siano passate tra i contemporanei di quel tempo fra diffusi consensi (escludendo il maiuscolo dissenso di Paolo Sarpi e suoi sodali). Ma è proprio così? Procida è un caso raro di opposizione?

Questa domanda coglie la questione centrale che secondo me il libro invita a porre, per la Controriforma tout court: quando e attraverso quali mediazioni, arretramenti, nuovi modelli, la Chiesa romana poté dire di aver definitivamente cancellato la religione medievale, con gli ampi spazi che essa lasciava alle eredità pagane (si pensi solo ai riti del solstizio d’estate e al peso che la magia conservava nella medicina empirica). A dispetto di una recente, lunga stagione di studi, in cui l’enfasi sui modelli dei ‘disciplinatori’ ha potuto far credere che essi si fossero imposti presto e con relativa facilità, i risultati dei miei scavi in altri archivi ecclesiastici, soprattutto nelle straordinarie ‘miniere’ vaticane, vanno in tutt’altra direzione. Le lunghe resistenze di Procida, allo stato attuale delle mie conoscenze, non sono affatto un caso isolato. La forza delle tradizioni medievali, sia sul versante sessuale e matrimoniale, sia quello delle eredità pagane, si fa sentire ovunque, almeno fino al tardo Settecento. Né è detto che nell’Ottocento, che forse fu il secolo decisivo per la ‘modernizzazione’ culturale e religiosa del mondo cattolico, la Chiesa abbia vinto su tutti i fronti. A Procida, ad esempio, la forte permanenza di pratiche magiche era ben presente nel primo Novecento, anche tra i fedeli più osservanti. Talune cattolicissime madri delle promesse spose che temevano di essere lasciate dai fidanzati non disdegnavano, ad esempio, di insegnare alle figlie a mescolare il proprio sangue mestruale nel bicchiere di vino rosso da offrire ai malcapitati per convincerli a sposarle.

-Quando su questo Cosmotaxi sale uno studioso del tuo spessore, non sfugge a una mia ricorrente domanda. Eccola.

--Piero Gobetti: “La storia è sempre più complessa dei programmi”.
“La Rivoluzione liberale”, 1924.

--Alain: “La storia è un grande presente, e mai solamente un passato”.
“Le avventure del cuore”, 1945.

--Elias Canetti: “Imparare dalla storia che da essa non c’è niente da imparare”
“La tortura delle mosche”, 1992

E per Giovanni Romeo la storia che cos’è?

Per me aggiungere qualcosa di significativo a riflessioni di intellettuali di spessore così alto non è facile, sia perché non amo trarre lezioni dalle mie ricerche, sia perché sono pienamente d’accordo con l’icastica riflessione di Canetti. Una sola cosa mi importerebbe dire a qualche giovane appassionato di storia, se volesse avviare una ricerca storica. Quasi mai, in oltre quaranta anni di studio, quando sono entrato in un archivio per approfondire qualche questione, le ipotesi che mi avevano spinto ad avviare lo scavo sono state confermate dal concreto andamento delle ricerche. In altri termini, mai affezionarsi alle proprie idee, se si spera di raggiungere qualche risultato.
…………………………..

Giovanni Romeo
L'isola ribelle
Pagine 176, Euro 18.00
Laterza


Janis

ll 4 0ttobre 1970, di cinquant’anni fa, come oggi era di domenica, il mondo perdeva una grandissima voce, quella di Janis Joplin.
Fu trovata morta nella stanza 105 del Landmark Hotel a Hollywood. Aveva 27 anni.
Overdose di eroina, questo il rapporto dell’autopsia.
Stava lavorando al suo nuovo album; il 5 ottobre avrebbe dovuto registrare le parti vocali di un brano dal titolo che, visto quanto accadde, appare decisamente inquietante: “Buried Alive In The Blues”.
L’oceano riceverà la dispersione delle sue ceneri.
Aveva debuttato nel 1967 nel gruppo “Big Brother & The Olding Company” con cui incise i suoi primi dischi e conobbe il successo.
«Sul palco faccio l'amore con venticinquemila persone, poi torno a casa da sola», così usava dire.

«Una voce» – scrive Claudio Fabretti - «appassionata e straziante, che era insieme ruggine e miele, furore e tenerezza, malinconia blues e fuoco psichedelico. Un canto unico e inimitabile in tutta la storia del rock. Uno stile che diventerà un riferimento preciso per intere generazioni di vocalist, da Patti Smith a PJ Harvey, da Annie Lennox degli Eurythmics a Skin degli Skunk Anansie».
E Riccardo Bertoncelli: «Era una musa inquietante, una strega capace di incantare il pubblico, la sacerdotessa di un rock estremo senza distinzione tra fantasia scenica e realtà».
Stefano Marcucci ricorda: “Adorava Bessie Smith, la regina nera dalla voce etilica scomparsa prematuramente: Janis le comprò una lapide.
Quando toccò a lei, a 27 anni, dopo Brian Jones e Jimi Hendrix, Jim Morrison disse: Io sarò il quarto”.
Ci prese. Morirà, infatti, a Parigi il 3 luglio 1971.

QUI Cosmotaxi ricorda Janis Joplin e uno dei suoi maggiori successi.


Trap Ebbasta (1)


Quotidiani e periodici, trasmissioni radiofoniche e tv, siti in Rete, libri, insomma più aree dei media (e del sapere) mostrano tante menti, talvolta pregevoli, che su di un tema affrontato assumono il ruolo pedatorio esclusivamente d’attaccanti o difensori di un movimento letterario oppure di una teoria scientifica, di una corrente filosofica di una tendenza di costume. Tutti presi ad esaltare oppure a demolire questo o quello. Più rari in quei testi l’illustrare innanzitutto in che cosa consistano le questioni in campo, loro origini e sostanze prima ancora del giudizio dello scrivente. Insomma a fare capire. Capire, grande verbo.
Il libro che presento oggi appartiene proprio a quel ristretto gruppo di volumi che si dà il primario obiettivo d’esporre, qui con un scrittura scattante e comprensibile per ogni lettore, di che cosa si compone il tosto e attualissimo argomento musicale esaminato: la Trap.
È intitolato Trap Ebbasta, la musica delle nuove generazioni spiegata a tutti.
Lo ha pubblicato la casa editrice Laurana.
La trap è bella?... brutta?... luminosa?... scandalosa? Questi giudizi sono stati variamente espressi sui media spessissino in modo affrettato, il titolo di cui sopra punta soprattutto a capire e far capire che cos’è. Capire, grande verbo.
L’autrice è Isabella Benaglia (1991).
Laureata in Lettere all’Università degli Studi di Parma, curriculum di Scienze dell’Informazione scritta e ipertestuale, lavora nei campi dell’editoria e del giornalismo.
Ha iniziato a occuparsi di musica nel 2016 scrivendo la sua prima recensione musicale per la webzine “Ondarock”, mentre dal 2018 intervista per “Beat & Style” artisti della scena indie-pop italiana. Lo stesso anno ha pubblicato per la casa editrice Arcana il libro Thegiornalisti. Roma, Riccione, Pamplona e altri lidi.

Ha scritto Marcel Proust: “Le canzonette, la musica da ballo, servono a conservare memorie, più della musica colta, per quanto sia bella”.
Eppure, circola spesso un’aria di sufficienza e talvolta d’ostilità, anche da parte di buone intelligenze, verso quel mondo e le canzoni. Che non sono solo canzonette.
“Nonostante l’esistenza di gente come Paoli, De Andrè, Vasco e Paolo Conte” – dice Francesco De Gregori – “I rapport fra musica e cultura sono pessimi”.
In un libro importante nella storia delle idee qual è “Apocalittici e integrati”, Umberto Eco rispondendo agli attacchi alla musica commerciale (mossi, ad esempio, anche dalla figura di un gigante della filosofia e della musicologia qual è Theodor Adorno) scriveva “…Il fatto che la canzone di consumo possa attirarmi grazie a una imperiosa agogica del ritmo, che interviene a dosare e a dirigere i miei riflessi, può costituire un valore indispensabile che tutte le società sane hanno perseguito e che costituisce il normale canale di sfogo per una serie di tensioni (…) L’incanto emotivo della canzone può costituire per il fruitore l’unica possibilità che gli viene offerta nell’ambito di un determinato campo di esigenze, là dove la ‘cultura colta’ non gli offre alcuna alternativa (…) Nella società in cui vivono, ad esempio, gli adolescenti non trovano alcuna altra fonte di modelli. O almeno, nessuna altra fonte di modelli altrettanto energica o imperativa".
Si era nel 1985. Non anni, ere geologiche fa.

Benaglia esamina come meglio non si potrebbe la musica trap e i suoi protagonisti soffermandosi non solo sul dato musicale ma anche sull’identità sociale del trapper, sull’analisi dei testi, sul complicato rapporto fra i giovanissimi fans e i loro genitori, terminando il libro con un glossario dove ci sono i termini più usati nella produzione musicale e, in particolare, in quella della trap. Ovviamente è un vocabolario composto quasi tutto di anglicismi. Pur essendo io ben convinto, e sostenitore, delle ragioni del Diciamolo in italiano valorosamente esposte e promosse da Antonio Zoppetti, se, ad esempio, i trapper li chiamassimo “trappani” finiremmo col designarli offensivamente, come a dire “cafoni” in certi dialetti del centrosud; se li chiamassimo “trappisti”, li indicheremmo quali seguaci della laboriosa e austera regola di S. Benedetto e non mi pare proprio il caso. Qui va bene trappers. Con l’annesso corredo linguistico praticato che, in questo caso, ci aiuta a capire parecchie altre cose di quel paesaggio. Un paesaggio di cui oggi la più nota località è Sfera Ebbasta, non a caso echeggia il suo nome nel titolo del libro. Ebbe il primo successo internazionale con il brano Rockstar.

Il panorama trap appare criptico specie se si cercano precedenti, o paralleli perfino nella ritenuta genitrice (ma in realtà diversa) musica rap. Lì, soprattutto negli States, ci sono slanci politici, non cercateli nella trap italiana se non in rari casi, ma non organizzati in senso strettamente e, meno ancora, rigorosamente ideologico.
Altre caratteristiche. Mai ci sono allusioni o doppi sensi, tutto è diretto ed esplicito; accanto a versi che rimandano a scene intime anche torride troviamo, senza che siano in contraddizione per l’io narrante, momenti d’innocenti ricordi autenticamente fanciulleschi; il frequente rimando all’uso di droghe non deve far pensare allo Ian Dury di “Sex and drugs and rock'n'roll” e suoi più famosi contemporanei, là motivazioni di stili ribelli qui abitudini che fanno parte di un’eccitata quotidianità di un abrasivo vivere, inoltre, ci sono droghe nuove e perfino le classiche canne non sono destinate a socialità come a un tempo, ma a fervida solitudine, felice o infelice che sia; inutili appaiono i raffronti con voci memorabili, quali quelle, per dire, di Elvis Presley o Janis Joplin, perché qui voci importanti non servono, servono personaggi, modalità di racconto da “balloon” di fumetto, e poi c’è l’autotune, strumento digitale che addirittura corregge le intonazioni oltre a produrre effetti sonori (a proposito, voglio ricordare che tale strumento fu usato per primi nel 1997 dai Daft Punk in quel successo planetario che fu Around the World); anarchia dei trappers? erore, direbbe Petrolini, questi ragazzi vogliono diventare ricchi (e alquanti lo diventano), montare su macchine lussuose, indossare gioielli costosi ed esibire tutto questo avendo accanto donne che dire trattate in modo brusco è dire poco. Già, perché la scena trap, a differenza da quella rock d’un tempo, è in grande maggioranza maschile e connotata fortemente da un (sconsolante, va detto) comportamento macho.
Tutto questo è spiegato nel prezioso libro di Isabella Benaglia che non ama particolarmente questo genere, affermando però che ogni tanto le piace ascoltarne qualche pezzo.
Capita anche a me, quella scena musicale non è la mia preferita, ma se devo scegliere un nome ce l’ho. In quella ribalta in netta prevalenza maschile, la rivolgo proprio a una donna: Chadia Rodriguez. Ha dizione di puntuale scansione, notevole presenza scenica, qualche verso azzeccato (… potrebbe averlo scritto Patrizia Valduga… poi si scopre che è proprio Valduga ad averlo scritto… certo, fosse così ci farei un figurone!), accanto, però, va anche notato, a qualche verso di colpevole candore (… fumare scopare mangiare per oggi mi basta… Chadia non mi pare che ‘per oggi’ ti sia sacrificata troppo!). Eccola in una sua hit: Fumo bianco.
Concludendo, questa musica accettatela o respingetela, siatene sostenitori o fottetevene, ma una cosa va praticata come in tante cose del mondo: capire di che cosa si tratta prima di sperticarvi in temerari elogi, oppure sparare sprezzanti giudizi, diventando un Diego Fusaro qualunque (citato nel libro) a vostra infausta scelta.

Dalla presentazione editoriale.
«Cos’è la trap? Dietro a questo genere musicale, che dà voce alle nuove generazioni e profuma di rottura col passato, c’è un mondo difficile da capire. I testi, il modo di esprimersi e di vestirsi, quello di atteggiarsi e cantare: tutto è studiato alla perfezione per portare i trapper al successo, conquistare un fan dopo l’altro, guadagnarsi i più importanti palchi d’Italia. Tuttavia, questa nuova moda è difficile da comprendere, sia per chi non apprezza i suoi beat musicali e le parole che li contornano, spesso superficiali, sia per chi, anche se vorrebbe, non ha gli strumenti per conoscerla a fondo. Il risultato è che la trap viene spesso attaccata in maniera superficiale: dopo aver letto questo libro potrete scagionarla o continuare ad attaccarla, avendo in entrambi i casi delle motivazioni forti dalla vostra parte».

Segue ora un incontro con Isabella Benaglia.


Trap Ebbasta (2)


A Isabella Benaglia (in foto) ho rivolto alcune domande.

Da dove viene, che cosa significa la parola “Trap”?

“Trap” significa letteralmente “trappola”, il termine viene ricondotto alla locuzione inglese “trap house”, ovvero “casa delle trappole”, quel luogo in cui gli spacciatori preparano e vendono droga. La trap come genere musicale nasce a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila in questo contesto di disagio, in particolare negli edifici abbandonati e degradati nei sobborghi di Atlanta (Georgia), dove aveva luogo una fervente attività di spaccio. Non a caso, “trapping” significa, nel corrente slang, “spacciare”, e non a caso la droga è uno dei temi ricorrenti nei testi trap.

Una “T” aggiunta a ‘rap’. Indica qualcosa? Un confine? Una differenza?

La trap viene spesso indicata come una evoluzione del rap, nonostante le differenze tra i due generi siano molteplici. Anzitutto, il successo della trap è molto più recente (possiamo ricondurlo al 2015), mentre il rap spopolava già negli anni Novanta.
Un’altra differenza che cade subito all’occhio è il modo di vestire: i trapper ostentano capi firmati, gioielli e in generale una cura maniacale per ogni dettaglio, i rapper hanno uno spirito più underground, che li spinge a indossare felpe e pantaloni larghi, cappelli, adottando dunque un look in generale meno curato.
Per quanto riguarda le basi, quelle trap sono più ripetitive ed essenziali, rispetto ai beat rap che risultano strutturati e complessi. C’è poi, nella trap, un massiccio uso dell’Auto-Tune sul cantato, che è peculiare di questo genere e rappresenta esso stesso il fulcro della canzone; inoltre, i ritmi su cui si fanno le rime sono diversi (4/4 per il rap e “non tempo” per la trap). Per quanto riguarda i temi, la trap ha alla base (come è normale che sia, considerato che nasce nelle trap houses) la droga e la rivincita sociale, mentre il rap parla più della strada e della sofferenza. Il rap ha un atteggiamento sociale critico, la trap è più disimpegnata.

Perché molta attenzione dei trappers alla composizione della propria immagine con tatuaggi, vistosi, collane esagerate, capigliature estrose?

Il quarto capitolo del libro, “L’identikit del trapper e del suo fan”, è interamente focalizzato su questo aspetto: si tratta di un’indagine sul modo di vestire dei trapper, l’ostentazione della loro ricchezza attraverso gioielli e capi firmati, il volere uscire da canoni e schemi già conosciuti, con tatuaggi sul viso e denti d’oro. Potremmo dire che i trapper vogliono l’eccesso a ogni costo. I motivi per cui lo fanno sono potenzialmente infiniti: non passare mai inosservati, scegliendo ad esempio di tingersi i capelli di rosa e indossare collane da migliaia di euro, far parlare di sé, dimostrare che è possibile arricchirsi con la musica mettendo in mostra abiti firmati e gioielli di ogni forma e dimensione, esternare una sorta di “strafottenza”, al contempo non lasciando nulla al caso nella costruzione della loro immagine. Ogni trapper si crea il suo personaggio, e la filosofia è sostanzialmente questa: se nella vita ce l’hai fatta tutti devono saperlo. Ed ecco, ad esempio, che Sfera Ebbasta si esibisce sul palco con due Rolex al polso. Nell’epoca in cui viviamo nulla può essere lasciato al caso, soprattutto quando si è costantemente sotto i riflettori, e in un modo o nell’altro è fondamentale essere sempre al centro dell’attenzione, e i trapper lo hanno capito molto bene.

I testi delle canzoni trap hanno ascendenze letterarie riconoscibili? Se sì da dove, se no perché?

La trap, come sottolineato, nasce in contesti di disagio, dunque i temi più ricorrenti sono la droga, in primis, e poi il desiderio di rivalsa sociale, i soldi, la violenza e l’amore in varie sfaccettature. Anche a questo tema è dedicato un capitolo del libro, in cui vengono analizzati i testi di molte canzoni trap, per cercare di capire il loro fulcro, l’aderenza alla realtà e se hanno senso le molte critiche mosse nei confronti dei toni utilizzati, spesso violenti.

Nelle canzoni dei trappers le donne se la passano piuttosto male, a che cosa attribuisci, da dove nasce quell’ostentato maltrattamento verbomusicale?

Le risposte potrebbero essere tante, i trapper stessi, interrogati su questo tema, hanno cercato di giustificarsi in vari modi. Non so se la colpa sia riconducibile al buon vecchio patriarcato, come quasi sempre accade quando la donna viene posta in una condizione inferiore rispetto all’uomo, o se si tratti di una provocazione, che rientrerebbe in pieno nell’intento dei trapper di volere sempre puntare all’eccesso. Differenziare persona da personaggio è difficile, in parecchie interviste i trapper hanno preso le distanze dai loro testi misogini, spiegando come nella realtà non trovi spazio quello che cantano, ma che sia solo un modo per mettere sul piatto un problema, usando toni violenti proprio per “svegliare” gli ascoltatori e farli riflettere. Una cosa però che non capisco è perché venga messa alla gogna solo la trap, quando testi violenti nei confronti delle donne ne sono sempre stati scritti (“Bella stronza” di Masini, per dire il primo che mi viene in mente).

Aldilà dei giudizi di valore su quel tipo di musica, il successo della trap in Italia che cosa ti dice sull’attuale scenario socioculturale della nostra società?

La trap viene ascoltata principalmente da bambini, preadolescenti e adolescenti, direi che il range va dai 10 ai 25 anni, con qualche eccezione, logicamente. Gli adulti dicono che la trap non comunica nulla, se non messaggi sbagliati e violenti, ma è un circolo vizioso che si ripete a ogni cambio generazionale. Io semplicemente penso che la musica, per funzionare, debba saper parlare al proprio pubblico. Le nuove generazioni sono più individualiste e materialiste, dunque si rispecchiano in pieno nei valori della trap. La trap ha portato, a suo modo, delle novità, dei beat freschi e ha arricchito una serie di cantanti e producers giovanissimi, oltreché svecchiato la scena musicale italiana fatta dai soliti cantanti pop plasticosi. Non sono una grande fan del genere, ma se può darci una alternativa alle solite canzoni ben venga ascoltarlo in spensieratezza, senza dovere per forza sempre cercarne il valore intrinseco, ma lasciandoselo scivolare addosso senza troppo criticare la mancanza di un messaggio o la frivolezza di un testo.

…………………………..

Isabella Benaglia
Trap Ebbasta
Pagine 192, Euro 15.90
Laurana Editore


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