Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.
venerdì, 29 settembre 2017
Donne in fuga (1)
Oggi Cosmotaxi ospita una grande medievista: Maria Serena Mazzi. Professore ordinario di Storia medievale, ha insegnato nelle Università di Firenze e Ferrara. Tra i suoi libri: «Prostitute e lenoni nella Firenze del Quattrocento» (Il Saggiatore, 1991); «Toscana bella» (Paravia, 1999); «Gente a cui si fa notte innanzi sera» (Viella, 2003); «Come rose d’inverno» (2004); e «I labirinti del potere» (2010), entrambi per Nuovecarte; per il Mulino In viaggio nel Medio Evo (2016). E, ancora per il Mulino, adesso è nelle librerie Donne in fuga Vite ribelli nel Medioevo. Libro prezioso sia perché illumina figure femminili ribelli in un’epoca che le vedeva schiave delle leggi maschili e sia perché è pubblicato oggi quando, pur non essendo possibile per plurali motivi paragonare la condizione della donna al Medio Evo, registra numeri impressionanti. Negli ultimi 5 anni sono avvenuti in Italia 774 casi di omicidio di donne, una media di circa 150 all'anno. Significa che ogni due giorni (circa) viene uccisa una donna. Né mancano discriminazioni sui luoghi di lavoro, nel ritardo delle carriere. Siamo lontani dagli anni in cui il femminismo (anzi, i “femminismi” come alcuni identificano le varie forme di quel pensiero e di azione politica) si opponeva e proponeva, oggi quel pensiero e quell’azione politica sono da tempo in crisi Credo che molti arretramenti del ruolo delle donne nella società italiana siano dovuti a una cultura cattolica integralista che, scorrendo in fiumi carsici, ha trovato consensi in più di un’area politica – sinistra non esclusa – portatrice di idee sessiste sulla stampa, nella Rete, nei palinsesti radiotelevisivi inclusi quelli cosiddetti pubblici,.
“Donne in fuga” si avvale di una scrittura scorrevole, avvincente nel raccontare – in modo assolutamente documentaristico, esclusa quindi ogni perniciosa forma di fiction – casi e avventure di creature coraggiose le quali hanno attraversato storie sconosciute oppure oscurate che l’autrice ricostruisce magistralmente. Scrive Maria Serena Mazzi: «Si può fuggire inseguendo un miraggio, una speranza di vita e di lavoro migliore. Si voltano le spalle a mariti violenti. Si schiude il battente di un convento nel quale non si voleva entrare e dove ogni giorno impone la sua pena. Si tenta di andare lontano da creditori e sfruttatori. Si scappa dalle case altrui, dalla servitù e dalla schiavitù, dalle mani rapaci dei padroni, dalla mancanza di diritti. Oppure si abbandona una casa, una famiglia, per tentare la sorte in un altrove indefinito, per un richiamo di curiosità, per non rimirare ogni giorno lo stesso limitato orizzonte» Dalla presentazione editoriale. Nel Medioevo le donne vivevano in una rigida sottomissione. Non assecondare la volontà della famiglia, non ubbidire agli uomini, padri, mariti o padroni, manifestare indipendenza di giudizio o di comportamento facevano di loro delle ribelli. Ma non sono mancate sante, regine, badesse, semplici monache, umili contadine, serve, schiave, eretiche, streghe, prostitute che hanno scelto di sottrarsi a destini segnati, resistendo, opponendosi, fuggendo. Donne decise a viaggiare, conoscere, insegnare, lavorare, combattere, predicare. O semplicemente a difendersi da un marito violento, da un padrone brutale. O a salvarsi la vita, scampando ai roghi dell’Inquisizione. Da Margery Kempe a Giovanna d’Arco, da santa Brigida a Eleonora d’Aquitania, alle tante ignote o dimenticate donne in fuga verso la libertà. Per consultare l’Indice, cliccare QUI. Segue ora un incontro con Maria Serena Mazzi.
Donne in fuga (2)
A Maria Serena Mazzi (in foto) ho rivolto alcune domande. Perché i pareri sull’inizio e sulla fine del Medioevo sono talvolta discordanti?
Per rispondere in poche parole: ciò dipende dall’importanza attribuita a un evento o a un fenomeno piuttosto che a un altro. Con una riflessione meno sintetica potrei dire che periodizzare è un’esigenza antica già avvertita dagli storici greci e latini, abituati a suddividere la storia in varie età. Il Medioevo è stato definito, alcuni secoli fa, come il periodo dal V al XV secolo, un millennio ritagliato artificiosamente, un’età di mezzo, senza autonomia, intesa come una parentesi fra due epoche: il mondo antico e la civiltà moderna. Le date prescelte per l’inizio e la fine sono state per lungo tempo, e per convenzione, il 476, identificato con l’anno della presunta “caduta” dell’impero romano, e il 1492, scoperta delle Americhe da parte di Cristoforo Colombo. Il progredire delle ricerche ha arricchito le prospettive di identificare punti di snodo da un’età all’altra e sono state avanzate proposte di datazione diverse, in base a fattori economici, sociali, demografici, culturali, politici. Anche sostituendo altre date si rischia di creare cesure ed epoche artificiali. L’”invenzione” del Medioevo resta comunque un’operazione di comodo. Scrive Umberto Eco: “In un periodo così lungo non c’è stata solo un’epoca”. Tutte quelle epoche, però, sono state attraversate dall’obbedienza delle donne a norme sociali e giuridiche volute dal potere maschile oppure no? Aggiungerei al concetto di tempo anche quello di spazio. Luoghi diversi, civiltà differenti. E’ difficile rispondere per un arco cronologico così ampio, che richiederebbe sottigliezza di analisi e non generalizzazioni. Proverò intanto separando le due parti: obbedienza e norme volute dal potere maschile. L’obbedienza non è mai stata uguale, totale, assoluta, come testimoniano le “Donne in fuga”. Norme e principi sono stati messi in discussione e violati. Però è vero che legislazioni e regole sociali sono state determinate dal potere maschile nei secoli, senza che le donne sapessero, potessero o talvolta volessero opporsi. Faccio un esempio: il 18 marzo 1496, predicando a Firenze nell’ambito dei suoi progetti di riforme morali, Gerolamo Savonarola, propose di affidare alle donne il progetto statutario che le riguardava. Ebbene, il giorno seguente il frate si era già pentito delle proprie parole e le disconosceva, il ceto dirigente maschile dichiarava : “si vuole che li uomini ordinino li statuti e lor li faccino” e persino le gentildonne sollecitate alla discussione affermavano che non sarebbero riuscite a mettersi d’accordo, avrebbero detto mille “pazie” e comunque nessuno avrebbe osservato regole dettate da loro. Le fonti dalle quali lei ha tratto l’abbondante documentazione presente nel libro sono prevalentemente maschili? Sì, sono prevalentemente maschili. Questo non vuol dire che le donne non abbiano lasciato tracce documentarie o carte scritte in prima persona. Se pensiamo a “intellettuali” come Ildegarda di Bingen, Margherita Porete, Eloisa, Christine de Pizan, e altre ancora, ci troviamo di fronte a scrittrici di libri colte e consapevoli. Margery Kempe scrisse le proprie vicende, Dhuoda un testo per l’educazione del figlio, Trotula trattati medici, molte altre lettere importanti. Ma al di là di queste pur numerose testimonianze, per quanto concerne la storia delle donne e della condizione femminile, la documentazione prevalente resta di mano maschile. Sono uomini i legislatori che redigono leggi, statuti, decreti; e così i compilatori e gli estensori degli atti amministrativi. Uomini i religiosi e gli inquisitori da cui scaturiscono i verbali dei processi, e i giudici e i notai che redigono gli atti. A scrivere cronache e storie, trattati di comportamento, libri di famiglia, libri di conto e di commercio sono ancora uomini. Nei riguardi del maschio, esisteva una differenziazione fra le donne appartenenti alle classi elevate e quelle povere? Sì, esisteva, anche se generalizzando si corre il rischio di essere superficiali. Le donne aristocratiche, appartenenti al patriziato anche se non nobili, avevano strumenti di ricchezza, di potere, di relazioni per combattere ingiustizie, soprusi, sopraffazioni e per non essere completamente sottomesse. D’altra parte dobbiamo ricordare che i vincoli di parentado, di alleanza familiare, di educazione al proprio ruolo erano così stringenti da rendere difficile ribellarsi. Nei confronti dell’ esterno la donna privilegiata conservava comunque una posizione di prestigio che la salvaguardava. Le donne più povere erano indifese nei confronti degli uomini, socialmente fragili e impotenti spesso a far valere le proprie ragioni e ad avere giustizia. Perché fra tante proibizioni imposte alle donne fu permesso loro il ruolo della medichessa? Nel mondo greco e latino le donne medico non erano rare né un fatto insolito. Per il medioevo occorre forse sottolineare che le donne non frequentavano università e scuole mediche ufficiali, in cui conseguire titoli riconosciuti, se non in misura ridottissima. Pochi esempi, come quello di Trotula e della sua presenza alla Scuola salernitana, al limite con il leggendario, e altri documentati, non diventano la norma. Tuttavia fu permesso anche alle donne esercitare. Del resto l’arte della cura delle persone ammalate è sempre stata prerogativa femminile. Alle donne era affidato il compito di “curare” il corpo ammalato, in accordo con i pareri dei medici se i loro uffici erano stati richiesti oppure in alternativa se non se ne poteva pagare il prezzo, con medicamenti trasmessi dalla tradizione e ricavati dalle erbe medicinali, bagni, applicazioni di unguenti. Tutto questo era affidato alle loro mani ed era non solo consentito ma atteso. La cura specifica delle malattie femminili o la sfera della fertilità, delle gravidanze e dei parti, aprivano altri spazi alle “donne-medico”. L’attenzione al corpo femminile ampliava i propri confini fino a includere, oltre alla salute, la bellezza e il benessere. Ciò detto bisogna considerare il modo e la scarsa frequenza con cui le donne riuscivano ad esercitare comunemente, talvolta solo affiancando un padre o un marito medico. Perché nel Medioevo troviamo qualche donna guerriera, tante donne medico, e troviamo solo pochissimi esempi di donne artiste? Al di là di miniaturiste, come Ildegarda di Bingen che fu anche tale, e rare facitrici, sia pure di buon livello, di stole paramenti e arazzi? La donna, nel Medioevo, è destinata al matrimonio, che definisce il suo ruolo nella società, oppure alla vita claustrale. Molte di loro sono diventate artiste all’interno dei monasteri, decorando con preziose miniature codici e manoscritti, dipingendo, creando capolavori di ricami e arazzi. Alcune hanno trovato espressione artistica, al di fuori dei conventi, nelle arazzerie che rifornivano le corti signorili. Altre forse hanno imparato l’arte della pittura o della scultura, senza diventar famose, affiancando un marito o un padre nella bottega d’artista. Ma dipingere, scolpire, affrescare richiedeva estro, doti naturali, inventiva geniale e insieme tecniche, apprendistato presso maestri, vita nei cantieri d’opera, viaggi e soste presso ricchi committenti: una vita di solitudine o, al contrario, di promiscuità, di indipendenza poco immaginabile per le donne. Coltivare le proprie capacità artistiche era quasi impensabile per loro. Scrive Tommaso di Aquino: “La donna è in rapporto con l’uomo come l’imperfetto ed il difettivo col perfetto. La donna è fisicamente e spiritualmente inferiore (…) essa è addirittura un errore di natura, una sorta di maschio mutilato, sbagliato, mal riuscito. In ogni caso la donna serve solo alla propagazione della specie”. Queste parole, tratte come sono dalla “Summa Teologica” di S. Tommaso d’Aquino, potrebbero essere pronunciate da un integralista islamico? Possiamo dedurne che ogni integralismo religioso - specie se monoteista – è per sua stessa natura un nemico del sesso femminile? Non definirei san Tommaso un integralista e neppure saprei paragonarlo a un integralista islamico. E’ un Dottore della Chiesa, un teologo, sulle cui opere, insieme a quelle di altri Padri, la Chiesa medievale ha basato la propria dottrina. Tutte le religioni strutturate o le credenze che sostengono e promulgano una concezione distorta della donna hanno la responsabilità di influenzare la cultura e la società, senza che si possa definirle integraliste, pur se esistono visioni estreme. Per la Chiesa medievale la donna rappresenta la tentazione e l’impurità, l’imperfezione e l’inferiorità. Ma, attraverso il culto della Vergine, anche la virtù e la grazia da preservare e tutelare. Una dicotomia non semplice da armonizzare. L’atteggiamento nei confronti delle donne si lega nelle religioni a una visione alterata della sessualità. Il corpo della donna, oggetto di desiderio e di peccato insieme, frutto proibito, da nascondere, ma di cui godere e da possedere e da utilizzare per la sua funzione riproduttiva. Riunire corpo e mente, considerare persona una donna, rispettarla senza rinchiuderla nella prigione di un abito o di una casa, desiderarla senza violenza, accettarne le scelte e l’autonomia sarà mai possibile, considerato che il Medioevo è finito da secoli? Maria Serena Mazzi Donne in fuga Pagine 184, Euro 14.00 il Mulino
mercoledì, 27 settembre 2017
L'esercito dei robot
Volete costruire in casa un robot? Passate in libreria e acquistate L’esercito dei robot Un mistero con tanti robot tutti da costruire. Non vi garantisco che ci riuscirete, ma potete provarci. È un libro, pubblicato da Editoriale Scienza che vede protagonisti i piccoli Nick e Tesla in compagnia dello strampalato zio Newt. Per venire a capo di alcuni misteri, dovranno far ricorso a una serie di robot: quello camminatore e quello bottiglia, il robot insetto e l’angelo volante. Nel racconto sono contenute istruzioni corredate da disegni per costruire quei quattro esseri meccanici. Gli autori del volume sono ”Science Bob” Pflufelder e Steve Hockensmith. Il primo, insegna scienze nella scuola primaria di Newton, Massachusetts. Il secondo, scrive racconti di avventure a Alameda, California. Se il libro non dovesse piacervi, adesso sapete dove andare a cercarli. I robot. Una delle punte più avanzate dei successi della tecnologia. A proposito di tecnologia, per capirne le origini e il presente, torna assai utile un libro per giovanissimi lettori pubblicato, con la consueta brillante cura sia contenutistica sia grafica, proprio da Editoriale Scienza intitolato: Breve storia della tecnologia. I robot. Già, da dove viene quella parola? Il termine deriva dal termine ceco “robota” (per la corretta pronuncia: roobòt), che significa lavoro pesante o lavoro forzato. Lo si deve allo scrittore ceco Karel Čapek, il quale lo usò per la prima volta nel suo dramma teatrale fantascientifico R.U.R. (“I robot universali di Rossum“) andato in scena nel 1921. “Uomini sempre più artificiali. Robot sempre più umani. La vita va ripensata” afferma il fisico americano Sidney Perkowitz. Noi umani, cioè, c’integriamo da tempo, e sempre più accadrà, con apparati tecnici che già fanno, e vieppiù faranno, parte del nostro corpo, a volte perfino invisibili allo sguardo di chi ci osserva: by-pass, protesi, implantologia ossea, cuore fegato reni artificiali. Dall’altro lato le macchine vanno assomigliando sempre più ad esseri viventi perché integrate con materiali biologici. Anni fa i robot svolgevano azioni meccaniche semplici, oggi si parla di psicologia robotica. In Italia, ad esempio, è il campo di cui si occupa Domenico Parisi. Tra allarmi e promesse ci avviamo verso il postumanesimo di cui uno dei massimi rappresentanti è Ray Kurzweil premiato con la prestigiosa National Medal of Technology dal presidente Bill Clinton e fondatore dell’Univerità della Singolarità finanziata da Google e dalla Nasa. “Tra una ventina d’anni” – dice Kurzweil – “robot migliaia di volte più piccoli dei globuli rossi, «nanobot», saranno inviati all’interno del corpo umano per distruggere i germi patogeni, eliminare le cellule cancerose, rimuovere le scorie”. Non solo robot per usi medici, industriali, domestici, ma li troviamo anche nel godimento estetico, si pensi, ad esempio, a Yumi che al Teatro Verdi ha diretto l’Orchestra Filarmonica di Lucca in tre brani di Pietro Mascagni, Giacomo Puccini e, dulcis in fondo, «La donna è mobile» dal Rigoletto interpretata da Andrea Bocelli; il Maestro Andrea Colombini ha dichiarato: “Yumi ha un gesto e una fluidità di movimento elevate, una morbidezza ed una nuance espressiva incredibili". Esistono pure robot per usi erotici – sia in forma androide sia ginoide – con caratteristiche interattive sia di movimento sia vocali, siamo lontanissimi, quindi, dalle bambole gonfiabili di un tempo (peraltro allora solo di forma femminile), i più evoluti di questi esseri meccanici, d’origine giapponese, costano, infatti, suppergiù quanto un’automobile. Per finire questa veloce carrellata sui robot, segnalo che, dopo il film, è in arrivo una serie tv Westworld, in un mondo in cui sono i robot, e non l’uomo, a meritare comprensione; ecco l’intrigante trailer. Naturalmente non mancano coloro che, con varie obiezioni, vedono pericoli in queste creature meccaniche. Tralasciando quelle catastrofiste e fantascientifiche, le osservazioni più sensate riflettono sul fatto che i robot possono (la cosa già avviene oggi) sostituire gli umani in molti lavori favorendo un aumento della disoccupazione. Questo, però, è stato vero anche in passato quando con la rivoluzione industriale si passò dal sistema agricolo-artigianale-commerciale al sistema industriale moderno caratterizzato dall'uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica e dall'utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate. In questi cambiamenti epocali, però, nascono nuovi mestieri e professioni. Fino a pochi anni fa chi avrebbe previsto l’esistenza del webmaster? Del programmatore informatico? Dell’analista di data base? Si tratta, quindi, di fare di un’emergenza un’opportunità. In altri paesi europei, la disoccupazione – specie giovanile – non è alta come in Italia, e pure là sono arrivate le nuove tecnologie. Via, non diamo tutta la colpa ai robot! Ma anche ad una politica che non favorisce investimenti, ad una scuola non aperta a nuovi mestieri e professioni. Tornando a “L’esercito dei robot”, per leggere il primo capitolo: CLIC! Età consigliata: da 8 a 12 anni ”Science Bob” Pflufelder Steve Hockensmith L’esercito dei robot Traduzione di Mara Pace Illustrazioni di Scott Garrett Pagine 240, Euro 12.90 Editoriale Scienza
martedì, 26 settembre 2017
Nuove pagine di Pino Caruso
Per la felicità dei suoi lettori, Pino Caruso ha pubblicato con l’Editrice Alpes due nuovi libri dai titoli di lunghezza quasi settecentesca: Se si scopre che sono onesto nessuno si fiderà più di me e Il senso dell’umorismo è l’espressione più alta della serietà. Titolazioni che annunciano frizzanti riflessioni di moralità laica e folgoranti aforismi. Non a caso Indro Montanelli su di lui scrisse: “Tra ammicchi felpati e improvvisi guizzi d'intelligenza, Pino Caruso distilla il suo io più vero, ossia un'ulteriore maschera teatrale: quella dello scrittore che si compiace di paradossi, veloci calembours intrisi d'irridente e aerea follia”. Tanti i godibilissimi titoli da lui pubblicati – dopo un libro di poesie “Dissolvenze” – (cito in ordine non cronologico) “L'uomo comune”, Palma d’oro al Festival dell’umorismo di Bordighera; “I delitti di via della Loggia”; “La Sicilia vista da me”; “Un comico urgente in via Cavour”; “Il venditore di racconti”; “Ho dei pensieri che non condivido”; “Nasco improvvisamente a Palermo” e non escludo di aver trascurato qualche volume. Caruso è attore che ha praticato tutte le aree dello spettacolo: dal cinema al teatro, dalla radio alla televisione (attraversando più generi) e su ognuna di queste ne ha padroneggiato il linguaggio. Vale a dire che senza snaturare il suo stile lo ha sapientemente declinato alle opportunità offerte dai vari mezzi. Prima cosa fra tutte, i tempi. Ecco, quell’esperienza maturata sulla scena, sul set, negli studi radiofonici e televisivi è così trasfusa in lui che l’ha trasferita sulla pagina dove, dall’aporìa alla consonanza, dall’aggettivazione alla punteggiatura, tutto è disposto in una progressione ritmica che giunge con efficacia al traguardo dell’indignatio. Sdegno dove serietà e sberleffo coesistono fra belligeranza e pace. Questi libri, insomma, ci restituiscono attraverso feste della pagina momenti di allegria non scissa da un pensiero vigile e critico su noi umani e, inoltre, lo fa con l’arte più difficile da praticare: la brevità. Pino Caruso “Se si scopre che sono onesto nessuno si fiderà più di me” Pagine 114, Euro 13.00 “Il senso dell’umorismo è l’espressione più alta della serietà” Pagine 126, Euro 13.00 Edizioni Alpes
Di Maio fa rima con Guaio
Il M5S che aveva dato a una parte di elettori – fra i quali chi scrive questa nota – qualche sia pur piccola speranza di uscire da anni d’incubo politico e dagli arroganti raggiri politici renziani, sta franando in un precipizio d’imperdonabili errori e sempre più assume comportamenti che lo rendono simile ai tanti Partiti esistenti. Non dimentico le buone cose praticate, prima fra tutte la rinuncia ai soldi pubblici elargiti dallo Stato ai Partiti, la lotta ai vitalizi, la battaglia per il reddito di cittadinanza, le plurali denunce delle malefatte del Pd, degli alfaniani, verdiniani, leghisti e italoforzuti, ma poi… Già tempo fa udii sinistri scricchiolii: Grillo che, improvvisatosi oncologo, discetta sulle mammografie ritenendole consigliate più del necessario; Carlo Sibilia, onorevole 5S, sostenitore delle scie chimiche; la capogruppo Lombardi che rivaluta un ignoto “fascismo buono”… sono un bevitore e tendo a perdonare chi ha alzato un po’ il gomito. Quando, però, si annullano risultati di elezioni interne perché sgradite al Boss, quando leggo che si mobilitano contro i vaccini, eh no, qui non siamo alla sbornia o ai postumi della stessa, ma a una colpevole sobrietà. Sabato scorso, poi, l’apoteosi dell’Obbrobrio. Conclusione di una campagna elettorale per eleggere sul web il Premier e capo politico del M5S. Campagna tutta a favore di un uomo solo: Di Maio, in agguato dietro l’uscio… no! non aprite quella porta!! E, invece, è stata spalancata per permettere al giovane statista avellinese di guidare i pentastellati e avere la possibilità di diventare Premier. No, non lo voterò. Più che le Primarie, ha vinto le Solitarie. Visto che nisba avversari. Inoltre, avrò pure il diritto di avere un Presidente del Consiglio che non sbagli i congiuntivi, conosca la storia contemporanea e non dica Pinochet venezuelano, che non parli, come ha fatto, di una “lobby dei malati cancro”, non baci l’ampolla con il sangue di S. Gennaro? Questo sito, con i suoi collaboratori, si occupa di arti visive, letteratura, cinema, teatro, radiotv, nuove tecnologie, in una parola: cultura. Ebbene, termino questa nota, invitandovi a cliccare QUI dove nei vari settori del programma del M5S – fondato da un uomo di spettacolo – le caselle riferite a cultura e editoria sono eloquentemente vuote.
lunedì, 25 settembre 2017
Elements di Quodlibet
La casa editrice Quodlibet ha varato una nuova collana plurilinguistica di libri in cartaceo ed e-book: Elements. QUI i nomi di coloro che la dirigono e di quelli che compongono il comitato scientifico. Tra i volumi pubblicati, segnalo oggi Fiction, propagande, témoignage, réalité Cinq micro-essais sur la représentation de la guerre civile espagnole en Italie, presentata (QUI notizie) giorni fa a Liegi. La guerra civile spagnola, combattuta fra il 1936 e il 1939, fu vinta dai fascisti spagnoli solo grazie – lo ricordo a beneficio dei più giovani lettori – all’aviazione e ai mezzi corazzati inviati da Hitler e da 50.000 uomini spediti laggiù da Mussolini. Seguì una sanguinosa repressione e fu instaurata così la dittatura di Francisco Franco che opprimerà la Spagna per 35 anni. Dice lo storico Angel Vinas, autore di uno studio sull'arricchimento di Franco durante le stragi della guerra civile: "Non aveva una peseta nel 1936, uscì dalla guerra civile nel 1939 con 34 milioni di pesetas di fortuna personale, l'equivalente di 388 milioni d'euro di oggi". Autore di “Fiction, propagande, témoignage, réalité” è Luciano Curreri, ordinario di Lingua e letteratura italiana all’Università di Liegi. Ha pubblicato: Pinocchio in camicia nera; D'Annunzio come personaggio nell'immaginario italiano ed europeo; Le farfalle di Madrid; con Fabrizio Foni Un po' prima della fine? Ultimi romanzi di Salgari; con le matite di Giuseppe Palumbo una deliziosa graphic novel L'elmo e la rivolta. A Curreri ho chiesto un flash su questo suo nuovo libro. Si tratta di 5 micro-saggi, 5 meteore birichine che non vogliono esaurire il problema della ricezione e rappresentazione della guerra civile spagnola in seno alla cultura italiana. In questo senso, fin dall’avant-propos, faccio anche autocritica, rispetto al mio volume precedente, di 300 dense pagine, Le farfalle di Madrid, del 2007 tradotto in spagnolo, nel 2009. Insomma, stavolta si punta su una raccolta ‘leggera’ che mira a ‘rilanciare’, con diverse pagine inedite e qualche vecchia pagina rielaborata e ri-argomentata, i miei passi sparsi dopo Le farfalle di Madrid, per un pubblico francofono e internazionale a un tempo, via la strategia collettiva e plurilingue evocata in quest'intervista. Mi piace pensare, infatti, che il lavoro non sia mai solo mio ma un portato collettivo della collana che ho la fortuna di co-dirigere con Pippo Traina e Gabriele Fichera presso Quodlibet. Tornando a “Fiction, propagande, témoignage, réalité“, voglio aggiungere che mentre nel libro del 2007 erano i narratori italiani ad essere al centro di un discorso storico-culturale di ampio raggio che su di essi convergeva in maniera centripeta, oggi il romanzo è affiancato in prima istanza e in maniera centrifuga dal reportage, dalla testimonianza, ma anche dal fumetto, dal cinema dal teatro, oltre che dal pamphlet e dal saggio… sempre via uno spirito interdisciplinare che si è fatto più acuto, mi pare, negli anni, e meno pesante, meno attaccato a sé stesso, in astratto, e molto più alla materia che scappa da tutte le parti e di cui è fatto. Luciano Curreri Fiction, propagande, témoignage, réalité Edizione cartacea: 128 pagine, Euro 10.00 E-book epub: 4.49 Quodlibet
venerdì, 22 settembre 2017
I dubbi di Salaì
Come sanno quei generosi che leggono queste mie cronache, da molti anni non recensisco romanzi né poesia stampata, (ma quella videorock sì), chi volesse sapere perché, basta che clicchi QUI. Esistono libri, però, che pure recando impresso in copertina la parola “romanzo” – facendo dire giustamente a Manganelli “Ogni libro che abbia sulla copertina la parola 'romanzo' nasconde qualcosa di losco" – si distaccano da quella famiglia di carta imbrattandola d’inchiostro con studiata monelleria pur muovendosi da rigorose ricerche storiche. Una coltissima birbonata di tal specie, di cui consiglio vivacemente la lettura, l’ha pubblicata – e molto va lodata per questo – la casa editrice Baldini&Castoldi . Titolo: I dubbi di Salaì, autori Monaldi & Sorti. Ai più distratti va ricordato che dietro quella sigla da “premiata ditta”, non si nascondono ma ben si palesano Rita Monaldi e Francesco Sorti, moglie e marito, che vivono con i loro figli a Vienna. C’è di più. Questa coppia è stata protagonista di un clamoroso caso fra letteratura e politica. Il loro libro “Imprimatur”, dopo una fugace apparizione nel 2002, sparì misteriosamente dalle nostre librerie mentre vendeva centinaia di migliaia di copie all’estero in 60 Paesi e 26 lingue diverse. Saltò fuori che si trattava di un complotto censorio nato in Vaticano poiché il libro, basandosi su documentazioni inoppugnabili, era imperniato sul tradimento di Innocenzo XI ai danni della Chiesa cattolica la cui storia, in Occidente, sarebbe stata in modo voluto falsamente rappresentata. A quel caso editoriale hanno dedicato spazio, per quanto ne sappia, sia Simone Berni (“Il caso Imprimatur”, Biblohaus, 2008) sia Luca Scarlini (“I libri maledetti”, Cairo Editore, 2014), avendoli io entrambi recensiti.
Salaì, personaggio rozzo e arguto, che ha per patrigno un noto Leonardo, dà titolo ed è protagonista attraverso 68 missive, cui mai avrà risposta, di questo nuovo Capriccio a quattro mani della birichina quanto valorosa coppia: un papa Borgia chiacchieratissimo, un’ascia assassina, un testo tacitiano disperso e ritrovato, invenzioni della birra e teorie sulla purezza della razza che anticiperebbero i deliri di Alfred Rosenberg sono shakerati in un’avventura slapstick in lingua cinquecentesca. Festa di pagine e di lettura, “I dubbi di Salaì” riflettono quel pensiero di Einstein che, non a caso, leggiamo in epigrafe: “Quando parla il sapiente, la gente ascolta la verità. Quando parla il buffone, la capisce”. Dalla presentazione editoriale. «Roma, primavera 1501. Salaì, apprendista pittore, scapestrato e sciupafemmine, scrive a un ignoto destinatario lo sgrammaticato resoconto del suo viaggio nell’Urbe. Il giovane è arrivato da Firenze al seguito del patrigno, un vecchio frustrato e squattrinato dalla testa zeppa di strane invenzioni che non funzionano mai: Leonardo da Vinci. Ufficialmente Leonardo è venuto nella Città Santa per studiare dal vivo l’antica architettura romana. In realtà è stato chiamato per un’indagine delicatissima: dovrà scoprire chi sta spargendo voci calunniose e infamanti sul pontefice, Alessandro VI Borgia. Il bel Salaì, rozzo ma dal cervello fino, a sua volta ha ricevuto dalle autorità fiorentine l’incarico di spiare il patrigno: Da Vinci, che è anche ingegnere militare, è sospettato dai suoi concittadini di cospirare con potenze straniere. Durante la caccia ai calunniatori di papa Borgia, Leonardo e Salaì s’imbattono in un brutale assassinio: uno scrivano pontificio è stato massacrato a colpi d’ascia nel suo letto. L’omicidio conduce a una lobby di tedeschi residenti a Roma: finanzieri, artisti, prelati e letterati, tra cui i potenti banchieri Fugger e il capo del cerimoniale vaticano, Giovanni Burcardo. Con una serie di peripezie esilaranti e inquietanti, dove delitti e suspense si mescolano a roventi avventure amorose e fughe rocambolesche, Leonardo e Salaì risaliranno dalla morte dell’anonimo scrivano fino a una colossale frode, destinata a cambiare il mondo. Perché anche dietro ai piccoli misteri c’è una grande bugia, e per salvare la pelle, come insegna Salaì, bisogna sempre chiamare le cose con il loro nome. Ancora una volta Monaldi & Sorti ci conducono per mano nei meandri della Storia, costruendo sulle fonti storiche originali un racconto dallo humour scintillante, di straordinaria originalità stilistica e che – come sempre – ci parla del nostro presente». Altri titoli di Monaldi & Sorti in catalogo Baldini&Castoldi: Imprimatur - Dissimulatio - Malaparte. - Mysterium. Per il sito dei due autori: CLIC! Monaldi & Sorti I dubbi di Salaì Pagine 416, Euro 22.00 Baldini&Castoldi
martedì, 19 settembre 2017
I ribelli degli stadi (1)
“Non c’è un altro posto del mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio”. Così diceva lo scrittore francese Albert Camus (1913 – 1960), premio Nobel nel ’57. Nonostante siano trascorsi tanti anni da quell’affermazione e il calcio sia molto cambiato da allora, sia in senso tecnico sia in senso sociale, ancora oggi in tantissimi sono ancora felici di trovarsi in uno stadio a seguire un pallone in architetture aeree e rasoterra tracciate da 22 uomini e da una deità chiamata Caso che maliziosamente spesso interviene a determinare un risultato. Da poco è in libreria un libro pubblicato da Odoya intitolato I ribelli degli stadiUna storia del movimento ultras italiano. Ne è autore Pierluigi Spagnolo. Giornalista professionista, nato a Bari nel 1977, dal 2012 vive a Milano. Dopo aver lavorato al Corriere della Sera, a City e al Corriere del Mezzogiorno, adesso è un redattore della Gazzetta dello Sport. Ha scritto il romanzo L'estate più piovosa di Milano (Meridiano Zero 2015) e il saggio Nel nome di Bobby Sands (L’Arco e la Corte 2016).
Tanti i libri sul calcio (a me è carissimo Addio al calcio di Valerio Magrelli), pochi i libri di cui disponiamo sugli ultras. Il testo di Spagnolo ha una singolarità che lo renderà utile anche quando altri autori studieranno il fenomeno di questi tifosi che spesso riempiono le cronache, quasi mai gloriose, dei media. Mantiene, infatti, le promesse del sottotitolo facendo una storia delle varie supertifoserie corredata con date, nomi, e analisi delle leggi – non sempre indovinate – generate dall’esistenza di quei gruppi. Tutto questo senza trascurare il dato sociale che connota gli ultras e pure la letteratura, la discografia, la cinematografia di riferimento. Spagnolo afferma che “non sono santi né diavoli” tracciandone la psicologia che li anima giudicata talvolta da un giornalismo troppo sbrigativo. Ricorda anche che episodi di violenza si sono verificati in anni lontanissimi e meno lontani: da una storica sassaiola, Nerone regnante, avvenuta nel 59 d. C. in uno spettacolo per gladiatori a Pompei, alla morte del tifoso viareggino Augusto Morganti ucciso da un colpo di pistola esploso da un carabiniere nel 1920. Dalla presentazione editoriale. «C’è chi li etichetta come teppisti e facinorosi. E chi li dipinge come sostenitori colorati e passionali. Come i padroni violenti del calcio, oppure come gli ultimi romantici in un mondo che ha perso gran parte della sua genuinità. Nel bene e nel male, gli ultras degli stadi hanno scritto pagine importanti nella storia del calcio italiano. Rappresentano, purtroppo, anche di episodi di teppismo e violenza. Per cercare di comprendere cosa siano gli ultras, bisognerebbe innanzitutto abbandonare la zavorra dei pregiudizi e considerarli come un’aggregazione spontanea, trasversale ed eterogenea, con una forte connotazione ribelle e antagonista al sistema, che incarna le logiche di una dicotomia forte che filtra il mondo attraverso le lenti della contrapposizione amico/nemico. Un multiforme insieme di uomini e donne che amano follemente una squadra e che, insieme alla squadra, amano la città che quella squadra rappresenta, la maglia e i colori che i giocatori portano addosso. Questo volume racconta e spiega il mondo delle curve italiane, mescolando le esperienze dirette con l’analisi di saggi e studi sul movimento ultras, proponendo le autorevoli opinioni di chi ha già studiato il fenomeno e mescolandole con le voci dei protagonisti. Con rigore storico e un pizzico di passione». L’Indice. La nascita del tifo organizzato • Sciarpe, cori, coreografie • La conflittualità tra i tifosi L’influenza degli hooligans • Gli ultras come sottocultura • I gruppi principali • Gemellaggi e rivalità • La politicizzazione delle curve • Slogan e striscioni leggendari • La violenza: i dati • Le leggi speciali • 2016: fuga dagli stadi • Brani e gruppi musicali di riferimento • Filmografia Prima di passare a un incontro con Pierluigi Spagnolo che seguirà a questa nota, voglio ricordare una disperazione di Borges tratta da “Esse est percipi” (1967): “Come? Lei crede ancora al tifo e agli idoli?... Ma dove vive, Don Domeq?… Non esiste punteggio, né formazioni, né partite. Oggi le cose succedono solo alla televisione e alla radio. La falsa eccitazione dei locutori non le ha mai fatto sospettare che è tutto un imbroglio? L’ultima partita di calcio è stata giocata tanto tempo fa… Da allora il calcio, è un genere drammatico, interpretato da un solo uomo in una cabina e da attori in maglietta davanti al cameraman”.
I ribelli degli stadi (2)
A Pierluigi Spagnolo, (in foto ), ho rivolto alcune domande.
È un caso che la nascita degli ultras avvenga nel ’68 oppure avviene perché si respira l’atmosfera sociale di quel famoso anno? No, il movimento ultras italiano non nasce nel ’68 per caso. C’è un collegamento diretto tra i movimenti studenteschi e la formazione dei gruppi. Il tifo organizzato in Italia è un fenomeno degli anni 50 e 60. Già in quei decenni i tifosi si riunivano in club per sostenere e seguire la squadra. Penso ai Fedelissimi Granata del Torino, ai viola club Settebello e Viesseux della Fiorentina, ai primi Inter club nati su suggerimento diretto dell'allenatore Helenio Herrera. Ma il movimento ultras, così come lo intendiamo oggi, possiamo farlo partire proprio dal 1968, quando a Milano nasce la Fossa dei Leoni del Milan, pochi mesi prima dei Boys-Le Furie Nerazzurre dell'Inter (poi arriveranno gli ultras di Sampdoria, Torino, e nel ‘71 le Brigate Gialloblù del Verona, i primi gruppi dell’Atalanta). Non è un caso che avvenga nel clima turbolento del ‘68. Gli ultras ne sono un effetto diretto. Le contestazioni giovanili di quegli anni, la crescita della partecipazione politica e dello scontro generazionale hanno un effetto chiaro anche sugli stadi: trasformano i tifosi in ultras, i club in gruppi, riproducendo sugli spalti lo stesso scenario di contrapposizione forte che si respira nelle piazze. Ecco: gli ultras non hanno mai perso quello spirito ribelle e antagonista, quella propensione al conflitto, tipico di una sottocultura che vive secondo regole e codici propri. Nato a sinistra, come la milanista "Fossa dei Leoni", i primi ultras in Italia, il movimento si è spostato progressivamente a destra. È esistita una studiata strategia in questo fenomeno? Negli anni Settanta la maggior parte dei gruppi ultras neonati hanno una formazione tendenzialmente di sinistra. A Roma e a Milano accade che le due tifoserie, grosso modo, abbiano una visione politica opposta: tendente a sinistra quella di Milan e Roma, tendente a destra Lazio e Inter. Poi, negli anni Novanta, molte tifoserie “neutre” o di sinistra si spostano politicamente a destra. Tra loro c’è quella della Roma. E sempre negli anni 90, molte tifoserie del Nord, da Brescia a Bergamo, subiscono l’effetto della Lega Nord. I gruppi politici della destra radicale capiscono che le curve sono un luogo importante per fare proselitismo e hanno l’abilità di sfruttare questa occasione a loro favore. Meno ci si riconosce in un’ideologia più ci si identifica in una maglia. Che cosa ti dice questo? Perché avviene? Direi che il progressivo crollo delle ideologie politiche può aver contribuito alla crescita dell’identificazione con le squadre di calcio e le maglie. Il processo è lo stesso: la militanza nelle curve e nei gruppi ultras in alcuni casi ha sostituito la militanza nelle formazioni politiche giovanili, andata scemando negli ultimi decenni. Non è un caso che oggi le curve siano il luogo di aggregazione più frequentato dai giovani italiani, più di oratori, partiti, associazioni, sindacati. Dalle tue pagine affermi che gli ultras non sono santi né diavoli… Gli ultras sono il nostro vicino di casa, il nostro istruttore della palestra, il nostro amico assicuratore o l’edicolante sotto casa. È il posto più eterogeneo e trasversale che esista, quindi ci si trova di tutto: il medico e il pregiudicato, l’insegnante e lo spacciatore, lo studente di Giurisprudenza e l’operaio. Tutto e il contrario di tutto, come in una festa di paese, come nel vagone affollato di una metropolitana. Ci trovi anche la violenza, ma anche tanta socialità e umanità. A volte ci soffermiamo molto sui pessimi elementi che si annidano nelle curve e tralasciamo diversi pessimi elementi che ci sono nelle stanze dei bottoni del calcio. Sarà che la gente tatuata, e con i capelli lunghi o molto corti fa più effetto dei pessimi elementi in giacca e cravatta. Gli ultras, come scrivi, stanno conoscendo un progressivo declino in coincidenza con la trasformazione del calcio (tv, interessi di borsa, nuovi stadi). Vedi all’orizzonte qualcosa di nuovo sorgere in quegli ambienti? La reazione al calcio degli affari e delle pay tv è già cominciata. Prende la forma del calcio popolare, una realtà che si sta sviluppando in tante città (Roma, Firenze, Napoli, Bari), che riporta il calcio ad una dimensione pura e romantica, senza denaro e con tanta passione e sudore. Un fenomeno destinato a crescere e ad aggregare sempre più tifosi, nonostante la categoria (Prima, Seconda, Terza Categoria) non offra uno spettacolo calcistico di alto livello. Ma l’aggregazione e lo spirito ultras degli anni Settanta lì rinasce e si sviluppa libero. Pierluigi Spagnolo I ribelli degli stadi Prefazione di Enrico Brizzi Volume illustrato Pagine 288, Euro 16.00 Casa editrice Odoya
lunedì, 18 settembre 2017
Energia per l’astronave Terra
Non sembri strano che questo sito, dedicato a riflessioni sulla letteratura, il cinema, il teatro, le arti visive, si occupi oggi di un libro sull’energia. Perché non c’è campo delle attività di noi umani che non sia investito da questo tema. Anche, quindi, quelle solitamente trattati da Cosmotaxi. Stampare un libro, girare un film, mettere su uno spettacolo teatrale o una mostra sono azioni che richiedono e consumano energia. Non solo espressiva. Va aggiunto, inoltre, che il tema energetico è diventato un problema: per la salute, per l’economia, per la politica, per la produzione sia di beni di prima necessità sia per i voluttuari. Tutto questo, oggi più di ieri. Basti pensare solo alla notte. Un tempo vedeva la stragrande maggioranza dei lavori fermarsi e adesso no, ma anche il traffico terrestre e aereo, tanti servizi e commerci, l’industria del divertimento, continuano ad agire nelle ore notturne cosa che appena un secolo fa era impensabile. Ed ecco un libro – edito dalla Zanichelli nella collana Chiavi di lettura Chiavi di lettura – che aiuta a capire che cos’è l’energia, usata, senza neppure accorgercene, in ogni momento della nostra giornata. È intitolato Energia per l’astronave Terra, è meritatamente arrivato alla terza edizione che presenta dati aggiornati: la scena energetica globale oggi, i tentativi di accordi internazionali per la salvaguardia del clima (poco salvaguardato da un certo signor Trump), il declino dell’energia nucleare, i più recenti progressi delle energie rinnovabili. Il volume, nel suo medagliere oltre al successo riscosso nelle librerie può vantare il “Premio Galileo” per la divulgazione scientifica. Gli autori sono Nicola Armaroli e Vincenzo Balzani.
Armaroli, è dirigente di ricerca del CNR, studia nuovi materiali per la conversione dell’energia solare, la luminescenza e la catalisi. Ha pubblicato oltre 200 lavori e 6 libri ed è consulente scientifico d’istituzioni internazionali sui temi dell’energia e delle risorse. Dirige “Sapere”, storica rivista italiana di divulgazione della scienza. Balzani, è professore emerito dell’Università di Bologna e Accademico dei Lincei. Ha pubblicato oltre 600 lavori e 10 libri scientifici o divulgativi. Ha studiato le reazioni chimiche provocate dalla luce, in particolare la fotosintesi artificiale, e ha inventato dispositivi e macchine molecolari. Alla ricerca scientifica affianca un’intensa attività di divulgazione sul rapporto fra scienza e società e fra scienza e pace, con particolare riferimento ai temi dell’energia e delle risorse. Due studiosi di primo piano sull’energia che spendono i propri talenti al servizio di quelle rinnovabili, cioè generate da fonti che per loro caratteristica intrinseca si rigenerano o non sono esauribili e, per estensione, il cui utilizzo non pregiudica le risorse naturali per le generazioni future. Sono dunque generalmente considerate "fonti di energia rinnovabile" il sole, il vento, il mare, il calore della Terra. Forte opposizione, quindi, all’energia nucleare e a certe false tesi messe in giro come, ad esempio il cosiddetto carbone pulito. Il tutto spiegato con un linguaggio comprensibile anche per chi finora non si è occupato di questo tema e delle sue plurali derivazioni, fra queste – scusate se è poco – le guerre. Vi consiglio questo video in cui i due autori dimostrano quanto ho detto il rigo sopra. Nicola Armaroli – Vincenzo Balzani Energia per l’astronave Terra Pagine 296, Euro 13.90 Zanichelli
sabato, 16 settembre 2017
Michele Zaccagnini
Questo che segue è un intervento di Zaccagnini che, su nostro invito, doveva figurare nella Sez. Nadir. Varie calamità che riguardano la redazione di Nybramedia, ci costringono, per non rimandare troppo in là questa interessante produzione, a immetterlo nella Sez. Cosmotaxi che dal 9 settembre funziona con regolarità quotidiana. Prossimamente, questo stesso servizio sarà replicato con corredo di foto nella Sez. Nadir di questo sito e avrà, come sempre lì avviene, un'esposizione della durata di 3 mesi. Ecco testo e links ricevuti da Michele Zaccagnini.
Sono un compositore e programmatore audio. Ho studiato clarinetto al Conservatorio S. Cecilia ed Economia all'Università La Sapienza a Roma. Mi sono trasferito negli Stai Uniti nel 2004 dove ho conseguito un dottorato in Composizione all'Università Brandeis di Boston. Ho ricevuto commissioni da ensemble statunitensi ed italiani sia per pezzi acustici che per pezzi elettro-acustici. Al momento lavoro con un gruppo di ricerca di San Francisco (Consciousness Hacking: www.cohack.life) per lo sviluppo di algoritmi di sonificazione di sensori. La mia ricerca si focalizza sulla creazione di paesaggi sonori statici, osservando come la percezione della musica cambia in relazione ad oscillazioni nel livello di complessità della tessitura, in particolare attraverso la stratificazione di elementi musicali semplici per creare tessiture complesse. Per comporre uso tecniche algoritmiche che ho sviluppato negli anni. In particolare, le mie tecniche si focalizzano sulle strutture ritmiche: utilizzo simulazioni di movimento di oggetti in spazi limitati o pattern come “cellular automaton” (https://en.wikipedia.org/wiki/Cellular_automaton). Ho deciso di rendere le mie composizioni interattive attraverso l'uso di sensori come l'elettroencefalogramma, lasciando che sia l'ascoltatore a determinare l'andamento della tessitura musicale in termini di attività ritmica, consonanza, eccetera. Più recentemente ho iniziato a fare degli esperimenti di percezione musicale aggiungendo delle rappresentazioni robuste e coerenti degli elementi musicali in spazi virtuali 3d: mi interessa osservare come la rappresentazione visiva influenzi la percezione del dato musicale. Il video rilevabile al link https://youtu.be/P8W6UwVhp5I è un esperimento più che un pezzo vero e proprio e contiene diverse sezioni di una tessitura audio-visiva. Quello che mi interessa di esplorare, più che il lato estetico della musica o delle immagini, è il modo in cui le due sono connesse: la stretta relazione tra il dato auditivo e quello visivo e il modo in cui interagiscono al livello percettivo. Non si tratta di un lavoro completo ma piuttosto una illustrazione di una direzione verso cui mi sto dirigendo. Il mio sito verrà aggiornato con nuovi esperimenti e pezzi di questo genere continuativamente.
venerdì, 15 settembre 2017
Annegare il pesce
Non so se Mario Lunetta ha fatto in tempo a vedere il suo ultimo libro, pubblicato dalle edizioni Oltre, Annegare il pesce Resoconti e spiate, una splendida raccolta di racconti. Giovedì 6 luglio, infatti, ci ha lasciati più soli. Era nato a Roma, nel popolare quartiere Garbatella, il 23 novembre 1934. Narratore, poeta, saggista, organizzatore e agitatore culturale è stato anche presidente per anni del Sindacato Nazionale Scrittori. Ci conoscemmo, in uno studio della Rai, nei primi anni '70. Nacque allora un’amicizia punteggiata negli anni da incontri tutti connotati da scambi d’idee che sembravano continuare un discorso interrotto il giorno prima, invece era trascorso semmai un anno dalla volta precedente. Troverete QUI una nostra conversazione nella sezione Enterprise di questo sito. Conversazione che ebbi con lui parecchio tempo fa, ma che, per merito di Mario, non ha perso d’attualità. Tanti i ricordi che molti gli hanno dedicato, troppi per citarli tutti, mi limito a uno solo: lo speciale del webzine «Malacoda»: Omaggio a Mario Lunetta.
Sue opere più recenti. Poesia: Roulette occidentale (2000); Magazzino dei monatti (2005); Bacheca delle apparizioni, con quattro liografie di Luigi Boille (2005); Mappamondo & altri luoghi infrequentabili (2006); Nitroglicerina per ermellini, con cinque acqueforti-acquetinte e un rilievo di Bruno Aller (2007); Videoclip, con tre acquerelli e un rilievo di Cosimo Budetta (2007); Cartastraccia (2008); La forma dell’Italia (2009); Formamentis (2009). Narrativa: Montefolle (1999); Soltanto insonnia (2000); Figure lunari (2004); I nomi della polvere (2005); La notte gioca a dadi (2008). Saggistica: Et dona ferentes: sindromi del moderno nella poesia italiana da Leopardi a Pagliarani (1996); Le dimore di Narciso (1997); Invasione di campo: progetti, rifiuti, utopie (2002); Liber Veritatis (2007); Depistaggi (2011). Suoi libri sono tradotti in diversi paesi del mondo. È stato due volte finalista al Premio Strega, nel 1977 e nel 1989. Nel 2006 gli è stato conferito il Premio Alessandro Tassoni alla carriera. Annegare il pesce, come dicevo in apertura, è una raccolta di racconti. Come sanno quei generosi che leggono queste mie cronache, non recensisco poesie e romanzi. Riservo solo un interesse per i racconti perché è arte difficile, scrivere sul corto è roba tozza, altro che scrivere grossi tomi. Non è un caso che nelle riflessioni sulla letteratura il racconto occupi largo spazio. Da Claude Bremond a Julien Greimas, da Tzvetan Todorov a Genette, ad altri ancora. Insomma i racconti m’interessano, mica tutti, solo in quelli in cui vi scorgo braci dell’immaginazione, estri magnetici della mente. Questo libro di Lunetta possiede queste virtù e un’altra ancora di non poco momento: è spesso divertente con pagine attraversate da lampi di umorismo nero. Pur avendo navigato valorosamente, con ampi riconoscimenti critici, in più generi, dal romanzo al teatro, dalla saggistica allapoesia, credo che sia proprio nel racconto che si trovano – almeno per i miei gusti – le pagine in prosa più alte di Lunetta. Il racconto: l’arte scrittoria più difficile, perché lì nulla può essere sbagliato, neppure una virgola, mentre sul lungo a uno scrittore si perdona perfino qualche pausa. Lunetta, nel racconto è un maestro, e “Annegare il pesce” ne è una luminosa testimonianza. In questo suo ultimo .libro (ultimo in tutti i sensi) accade poi una cosa che avrebbe affascinato Bobi Bazlen. L’ultimo rigo dell’ultimo racconto così termina: E poi, senza nostalgia, fissando allo specchio la mia faccia scontenta: “Sì, ora è proprio il momento di andarsene”. Sarà un caso?... ma sì, certamente… un caso. Mario Lunetta Annegare il pesce Pagine 366, Euro 18.00 OltreEdizioni
giovedì, 14 settembre 2017
Prossimamente
La sezione Cosmotaxi di questo sito, fra alcuni giorni ospiterà Donatella Alfonso (in foto), autrice di Un’imprevedibile situazioneArte, vino, ribellione: nasce il Situazionismo per le edizioni Il Nuovo Melangolo.
Alfonso, giornalista per la Repubblica, ha pubblicato “Animali di periferia. Le origini del terrorismo tra Golpe e Resistenza tradita” (2012); “Fischia il vento. Felice Cascione e il canto dei ribelli” (2014), entrambi per Castelvecchi. Genovese, racconta in questo suo recente libro la nascita, avvenuta a Cosio, sulle Alpi Marittime, del gruppo che aveva in Guy Debord il suo iniziatore. Lo fa attraverso brani di diari, lettere, interviste, in un volume impreziosito anche da fotografie dell’epoca. Sono trascorsi sessant’anni dalla nascita dell’Internazionale Situazionista e quelle idee protagoniste internazionali del ’68 e poi del ’77 ancora trovano eco ai nostri giorni in “un’altra ricerca di felicità”. Dal quarto di copertina. «E sono le foto, adesso, a tramandare questa storia alla gente del paese che si chiama Cosio, lassù sulle Alpi Marittime dove il mare di Liguria lo senti quando arriva una folata di vento, ma subito sopra c'è la neve e, se ti giri a sinistra, sai che c'è la Francia. La gente: quella che è rimasta insomma, perché quassù la nebbia arriva anche a giugno e il mare è lontano persino per i tedeschi. La gente allora si rende conto che quel gruppetto di pazzi amici di Piero, lui sì amico di tutti, lui sì del paese, non erano venuti lì per una baldoria, ma per un'avventura che poteva nascere solo così, perché se sei lettrista o psicogeografico o immaginista, se hai vent'anni o anche se non li hai più, ma sai che l'idea più urgente è quella di cambiare il mondo, ecco che sei chiamato a inventare una cosa sola: l'Internazionale Situazionista». Prossimamente, su Cosmotaxi in viaggio verso la taverna spaziale dell’Enterprise.
Polizie speciali (1)
La casa editrice Laterza ha pubblicato un gran bel libro: Polizie specialiDal fascismo alla repubblica. Ne è autore Vittorio Coco. Dottore di ricerca in Storia contemporanea, insegna all’Università di Palermo. Per Laterza ha pubblicato nel 2013 La mafia dei giardini. Soria delle cosche della Piana dei Colli.
"Polizie speciali", massiccio ma scorrevolissimo, ha due principali meriti. Il primo è che illustra con rigorosa documentazione la continuità dei criteri nella composizione degli organici e mentalità degli stessi fra epoche diverse che vanno dallo stato liberale al fascismo fino all’alba della prima repubblica. Il secondo, ma non per importanza, è che quelle pagine illuminano non soltanto l’argomento già dichiarato nel titolo, ma permette di capire parte delle origini dell’atmosfera respirata in tante, troppe, ore oscure dei nostri anni. In un “Post factum” è dedicato uno spazio a vicende ancora alla ribalta in aule giudiziarie e sui media, questo mi fa sperare in un nuovo libro di Coco su avvenimenti che tormentano i nostrii giorni. Dalla presentazione editoriale . A partire dal 1942 il confine orientale italiano fu il teatro di una violentissima repressione antipartigiana. Protagonisti ne furono gli uomini dell’Ispettorato generale di pubblica sicurezza, che contribuirono a spargere il terrore in tutta la regione. Non si trattò di una violenza improvvisata ed estemporanea, ma l’estremo risultato di una consumata esperienza maturata sul campo. Negli anni Trenta, infatti, molti di loro avevano già fatto parte di organismi che avevano efficacemente contrastato la mafia siciliana e il banditismo sardo. Si trattava di corpi speciali di polizia, che il regime fascista aveva creato sul modello delle contemporanee strutture di indagine politica come l’Ovra, ma di cui si potevano ritrovare dei precedenti già nella Grande Guerra e nella tarda età liberale. Fu proprio in queste circostanze che cominciò a formarsi quel ristretto gruppo di specialisti che, tra utopie d’ordine e ambizioni personali, nel corso dei rivolgimenti politici di un trentennio seppero imporsi come riconosciuti professionisti del settore. Dopo il crollo del fascismo, infatti, nonostante un passato di compromissioni con il regime, li ritroveremo ancora una volta in Sicilia, per fronteggiare la rinnovata emergenza dell’ordine pubblico. Dall’Introduzione Durante la seconda guerra mondiale a Trieste c’era un luogo conosciuto come «villa Triste». Si trattava di un edificio, ora non più esistente, di proprietà di una famiglia di imprenditori ebrei, che nel 1942 era diventato la sede dell’Ispettorato generale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia. In tal modo la villa si era trasformata nel cuore di una delle più feroci esperienze di lotta del fascismo al movimento di resistenza, prima di quello sloveno e croato, poi anche di quello italiano. Infatti, a dispetto dell’ameno indirizzo della sua sede – via Bellosguardo – il personale che vi operava si distinse non soltanto per la messa in pratica di una spietata azione antiguerriglia nei confronti delle bande partigiane del territorio circostante, ma anche per l’utilizzo di una violenza efferata e indiscriminata sugli arrestati, che venivano sistematicamente sottoposti a tortura. Indubbiamente la repressione si rivelò efficace, tant’è vero che l’organismo fu riproposto anche dopo l’8 settembre 1943 dalla Repubblica sociale italiana (Rsi), in stretta collaborazione con le autorità naziste, che lo ritennero strumento utilissimo per il mantenimento di una politica del terrore durante l’occupazione. QUI l’Indice del volume. Segue ora un incontro con Vittorio Coco.
Polizie speciali (2)
A Vittorio Coco ho rivolto alcune domande.
Quali le motivazioni che ha avuto per occuparsi delle polizie speciali in Italia e, in particolare, del periodo indicato dal sottotitolo? Il primo nucleo di questa ricerca si può ritrovare in quelle da me condotte negli anni precedenti sulla storia della mafia siciliana, e in particolare sulle due stagioni repressive a cui furono sottoposti i gruppi mafiosi dal fascismo. In quelle circostanze, infatti, ho potuto studiare da vicino l’azione di alcuni degli apparati e dei funzionari (come Cesare Mori e Giuseppe Gueli) che sono poi i protagonisti di questo libro. A partire da questo primo nucleo, il discorso si è poi allargato alla contemporanea repressione di altre forme di criminalità e poi anche di opposizione politica. Per contrastarle un regime centralizzatore come quello fascista si affidò sempre ad uno stesso tipo di modello, che era appunto quella dell’organismo centralizzato e sganciato dalle influenze delle autorità periferiche. Indubbiamente l’intervento di carattere straordinario era stata una costante della storia italiana fin dagli anni successivi all’Unità, ma con la Grande guerra e poi con il fascismo si intraprese un percorso ben preciso. Nelle sue pagine si sottolinea come negli apparati di polizia ci sia stata una continuità fra lo stato liberale e quello fascista e fra quest’ultimo e l’alba dell’Italia democratica. Da che cosa è stato determinato questo perverso meccanismo? Il meccanismo va ricondotto al tema della cosiddetta “continuità dello Stato” che è in parte autonoma, o comunque è scandita da tempi diversi, rispetto ai cambiamenti di regime politico, perché le modifiche e le evoluzioni all’interno del personale e delle strutture amministrative sono molto più lente rispetto ai primi. Nel nostro caso, tra l’altro, il meccanismo è accentuato dal fatto che il fascismo, soprattutto in settori come la polizia, preferì continuare ad affidarsi soprattutto a funzionari statali piuttosto che a uomini “di partito” e che poi, alla sua caduta, non ci furono né una vera epurazione né una riforma del corpo. Dunque potremmo dire che la maggior parte del personale di polizia che operava nell’Italia fascista, e mi riferisco soprattutto agli anni Venti, era quello formatosi nella tarda età liberale. Invece, fino agli anni Cinquanta, pur all’interno di tutt’altro contesto politico e culturale, il personale era soprattutto quello che era entrato nell’amministrazione durante il ventennio fascista. Le responsabilità di molti dirigenti e funzionari della polizia italiana, come il suo libro bene illustra, sono state gravi e, talvolta, hanno superato quelle dei nazisti. Perché in Italia non c‘è stata una Norimberga? Chi non l’ha voluta? La questione è complessa, perché vi concorrono più ragioni e non si può dare una spiegazione univoca. Certamente una delle motivazioni più forti è data dalla situazione in cui si venne a trovare l’Italia alla fine della seconda guerra mondiale, che era difficilissima. Lo sfondo era quello della crisi economica, dei rivolgimenti politici, delle rivendicazioni sociali e anche di una recrudescenza della criminalità organizzata. Più in generale, com’è tipico di un paese uscito da tanti anni di guerra, si assistette ad un complessivo aumento del tasso di violenza. In questo contesto la priorità delle classi dirigenti era quello di ristabilire l’ordine pubblico e garantire il funzionamento della macchina statale, per cui i progetti di un più profondo rinnovamento nel personale e nelle strutture vennero messi rapidamente da parte, anche perché intanto si stavano definendo meglio gli schieramenti della “guerra fredda”. Ovviamente questo non fu un problema soltanto italiano, però l’Italia aveva vent’anni di fascismo alle spalle. Qual è l’importanza del Generale Dalla Chiesa nella storia della polizia italiana? Quali le sue innovazioni investigative? L’importanza di una figura come quella di Dalla Chiesa è ovviamente grandissima e meriterebbe ben altro spazio rispetto a quello che gli viene dedicato nel libro. Io ho soltanto accennato ad alcuni dei caratteri della sua azione nella parte conclusiva per potere evidenziare meglio, sul periodo più lungo, alcune delle continuità e delle rotture. Le pratiche investigative di Dalla Chiesa sono il punto di arrivo nel quale confluisce non soltanto, secondo la linea da me seguita, molta parte della tradizione di super-poliziotti alla Cesare Mori, ma anche quella dei carabinieri, che ancora non è stata adeguatamente studiata, anche per la difficoltà di reperire la documentazione su cui costruire le ricerche. Un grande rilievo viene dato all’infiltrazione, che consentiva di spaccare i gruppi dall’interno, rendendoli più deboli e dunque attaccabili. Nella storia dell’Italia repubblicana Dalla Chiesa è stato uno dei primi ad avere capito che fenomeni “speciali” quali la mafia o il terrorismo politico necessitavano di strumenti altrettanto “speciali” per essere combattuti. Bolzaneto – come ha affermato di recente anche il capo della polizia Gabrielli – ha dimostrato che sono possibili ancora oggi comportamenti efferati da parte della polizia. In Italia è un’utopia pensare l’esistenza di una forza pubblica che agisca non in contrasto con i principii democratici? L’inserimento in una cornice democratica, anche per i meccanismi di lungo periodo di cui si è detto, non è di per sé una garanzia. In ogni caso, va detto che nel corso del periodo repubblicano, anche secondo alcune analisi riprese ora da ricerche attualmente in corso, sempre più con il passare del tempo (ossia con la fine della fase “scelbiana”) si è visto in azione un corpo di polizia progressivamente più allineato ai principi di uno Stato di diritto. Tuttavia, la possibilità che si verifichino episodi come quelli di Genova nel 2001, forse anche per la natura e le funzioni di un corpo di polizia, è sempre dietro l’angolo. E certamente è grave non soltanto il fatto che tali eccessi si siano verificati, ma è forse ancora più grave che a certi livelli ci sia stato un riconoscimento soltanto a tanti anni di distanza. Su questo la ricerca storica potrebbe forse interrogarsi guardando ancora alle dinamiche di lungo periodo. Vittorio Coco Polizie speciali Pagine 234, Euro 22.00 Laterza
lunedì, 11 settembre 2017
La radio disegnata (1)
"La radio non è soltanto una formidabile sveglia delle memorie, delle forze e degli antagonismi arcaici, ma anche una forza pluralistica e decentrante, come l'energia elettrica e tutti i suoi media in generale". Così scrive Marshall McLuhan in "Capire i media. Gli strumenti del comunicare". Oltre un secolo fa, nel 1901 si affacciò timidamente questo nuovo mezzo di comunicazione quando fu trasmesso il famoso segnale da Poldhu, Regno Unito, a St. Johns, Terranova.. Invenzione non priva di contestazioni, ma sia come sia la radio nacque. C’è stato un progenitore – come spesso accade ai media – anche della radio, lo trovate ben illustrato da Gabriele Balbi in La radio prima della radio. Sono esistiti pure detrattori di quell’invenzione, e siccome anche grandi cervelli possono dire delle baggianate eccone due famose. “La mania della radio? Si estinguerà in tempo” (Thomas Alva Edison). “Ho previsto la completa sparizione della radio Confido infatti che tutte quelle brave persone che oggi si divertono ad ascoltarla riusciranno a trovare quanto prima un passatempo più intelligente” (Herbert George Wells). Ci ha visto giusto, invece, Rudolph Arnheim: “La radio organizza il mondo per l’orecchio” In Italia la prima trasmissione è del 6 ottobre 1924, cliccando QUI potete ascoltare quello storico annuncio per anni erroneamente attribuito a Maria Luisa Boncompagni mentre la voce fu di Ines Viviani Donarelli. La radio, a dispetto dei suoi detrattori, è ancora oggi ben viva tra i media e in tutto il mondo, grazie anche agli aggiornamenti tecnologici intervenuti, è tenuta in gran conto da milioni di ascoltatori. Solo la radio pubblica italiana non se la passa bene perché a Viale Mazzini è considerata la sorellina povera e cieca della tv. Cammina zoppa tenuta per mano da esponenti dei partiti politici tutti, ma proprio tutti tuttti, ben coinvolti nella spensierata dirigenza Rai. Un gran bel libro sulla radio l’ha pubblicato Mimesis, è intitolato La radio disegnata Ipotesi per una filosofia dell’ascolto. La bravissima autrice è Laura De Luca Giornalista professionista, scrittrice, autrice radiofonica e teatrale, disegnatrice e producer di progetti discografici, ha insegnato regìa e linguaggio radiofonico. Lavora da anni al recupero dello storico format delle interviste impossibili, per la radio e per il teatro, curandone anche diverse edizioni librarie. Alla radio ha dedicato due saggi: “Tu piccola scatola”, 1993 (insieme con Walter Lobina) e “Ti amo piccola scatola", 2006. Per più diffuse notizie: clic sul suo sito web. Scrive nell’Introduzione il sociologo Mario Morcellini preside della Facoltà di Scienza della Comunicazione alla Sapienza di Roma: «La radio, come spiega la De Luca, passa attraverso il vuoto, le pause, il silenzio, nonostante sia ftta di suoni, rumori, voci e parole che però è possibile distinguere e capire fino in fondo, soltanto attraverso la messa in ascolto, l’attenzione all’altro, la testimonianza. Una dimensione unica nel suo genere che se vissuta, è in grado di svelarci molto di tutto ciò che è nascosto dietro un’esistenza». Dalla presentazione editoriale. “… uno studio sulla coerenza e sull’universalità del linguaggio radiofonico nel corso degli anni, e su una specificità che affonda nella sfera originaria dell’oralità, svelando l’inedita e perfino rivoluzionaria missione della radio, attuale ancora e soprattutto oggi: rieducarci all’ascolto reciproco, ricondurci al valore delle relazioni interpersonali. Si delineano così gli elementi di una inedita e innovativa filosofia della radio, un nuovo modo di guardare, ovvero di “disegnare” la realtà che ci circonda e che a sua volta ci guarda». Segue ora un incontro con Laura De Luca.
La radio disegnata (2)
A Laura De Luca (in foto) ho rivolto alcune domande. “La radio disegnata”. Perché quel titolo? Perché è un ossimoro, perché la radio è nata come un paradosso (lontana e vicina, potente e semplicissima, penetrante eppure leggera, effimera e persistente) e poi perché è diventata un medium freddo, che ci invita cioè a partecipare, a "immaginare altro”, infine perché è un transgender, oggi sempre più spesso corredata per esempio di immagini e contenuti extra, all'opposto della sua originaria natura monosensoriale. Ma poi anche perché mio padre ascoltava sempre la radio mentre disegnava (era il solo legame col mondo di un artista solitario) e oggi io mi ritrovo a disegnare mentre "faccio la radio": durante le interviste non posso resistere alla tentazione di indagare le psicologie degli interlocutori anche attraverso un tratto di matita. (In fondo al libro, c'è un'appendice con una selezione di questi ritratti, equiparati a veri appunti di lavoro). Nello scenario dei media quale ruolo ritieni debba avere la radio oggi? Ho scritto il libro proprio per rispondere a questa domanda. Mi piacerebbe che fosse vero quello che ritengo io, ovvero che la radio avesse il ruolo della coscienza, della voce di dentro, del grillo parlante poco saccente, dell'accompagnatore discreto ma pensante, aerea e densa nello stesso tempo, autorevole e alla buona, insomma che contribuisse educatamente al ripristino della civiltà, alla nascita di una specie di neoumanesimo, riaddestrandoci al silenzio. Sì, precisamente al silenzio, il grande assente. Dopo il dibattito fra “radio come mezzo” e “radio come fonte” abbiamo, in questi più recenti anni, un nuova riflessione semantica su “radio di flusso” e “radio sperimentale”. Quale la differenza che operi fra le due forme? La prima non mi piace, anche se stanno quasi per costringermi a farla: mi sembra l'esatto contrario di quella che sogno io. È la radio cialtrona e ormai antiquata che produce per lo più rumore di sottofondo, anche attraverso voci apparentemente portatrici di messaggi, in realtà sempre più spesso portatrici di vuoto. Futilità, falso senso del ritmo, omologazione, volgarità, riciclaggio della chiacchiera da treno. (E li pagano pure?!) Invece la radio è sprecata se non è sperimentale, ovvero se non si reinventa ogni giorno. Quando devi "bucare" attraverso un senso solo, come puoi non sentirti in una continua sfida emotiva, intellettuale, progettuale? E' la radio in sé, come mezzo poverissimo, che chiede di essere sempre più ‘sperimentata’. Ma in questo senso... nessuno la “sente”! Nessuno di quelli pagati per fare i programmi o dirigerli, intendo. Quelli che li ascoltano, sono costretti a sorbirsi ciò che passa il convento. Negli anni 2000 abbiamo una confluenza fra ICT (Informatica e Telecomunicazioni) e radiotelevisione. Quale conseguenza ha avuto tale convergenza sulla radio? Una inevitabile mutazione genetica. Vedi sopra. La radio è diventata qualcos'altro rispetto al vecchio apparecchio da salotto, è cambiato il suo consumo, sempre più onanistico, ubiquo, bulimico e soprattutto acritico. La convergenza multimediale ha inventato nuovi oggetti, ibridi e seducenti, urlanti e indispensabili: i piccoli grandi fratelli nascosti nei nostri smartphone hanno eroso la maggiore virtù dell'ascoltatore radiofonico puro, ovvero l'attitudine a un ascolto selettivo e pensante, la capacità di scelta e di pausa. Per questo la radio che oggi va di moda è di flusso, perché siamo tutte persone ..."di flusso", programmate proprio per non fermarci mai: non c'è mai una sospensione nella nostra giornata e nelle nostre cosiddette connessioni. Siamo sempre on air, o meglio on line. Ecco, la convergenza ci ha reso incapaci di spegnere l'interruttore e anche di capire se un programma non ci piace. La cosiddetta “radiovisione” (si pensi, ad esempio, a RTL 102.5 che è stata la prima a praticarla in modo massiccio), a tuo avviso snatura la radio oppure è la radio del futuro? E chi lo sa. Una delle tesi del libro è che non esista la radio in sé, dotata di un immutabile identikit. I media sono in perenne evoluzione, dunque a rigore non è nemmeno giusto parlare di una radio transgender, modificata. Modificata rispetto a che? Ogni tempo ha la radio e i mezzi di comunicazione che si merita. Dunque nulla snaturerà mai nulla, anzi. Fosse poi così facile determinare il futuro semplicemente appiccicando un'immagine dove prima non c'era. Io non credo che aggiungendo sgocciolatoi o falpalà all'ombrello si possa cambiare la sua funzione specifica. Ma se l'ombrello del futuro avrà sgocciolatoi e falpalà, beh... ce ne faremo una ragione. Comunque secondo me non serve immaginare la radio del futuro o il futuro della radio: abbiamo invece l'occasione di costruire in concreto un futuro più decente con un uso più pensato degli strumenti che abbiamo. Siano codici o automobili, bisturi o telescopi, picconi, ombrelli o radio... Alla Rai, a parte Radio 1 dal contenuto giornalistico che si pone al primo posto nelle classifiche d’ascolto, le altre due antenne vedono Radio 2 faticosamente difendersi ma comunque superata da alquanti network privati, per non dire di Radio 3 di cui in quelle classifiche si perdono le tracce. Come spieghi questo declino della radio pubblica? Alll'origine c'è la necessaria omologazione al basso, imposta dalle leggi di mercato. Che poi alla fine non pagano neppure, a quanto pare. Il mercato ha sempre le stesse leggi elementari, mentre invece i bisogni delle persone evolvono, o... sarebbe bene che evolvessero e in nome di un miglioramento globale. Per una radio pubblica dovrebbe essere questo l’obbiettivo primario. Ai miei figli raccomandavo sempre di non avere a cuore, a scuola, la conquista del bel voto, ma solo il gusto di imparare. Il voto sarebbe venuto di conseguenza. E mi sembra impossibile che oggi, dirigenti di una radio pubblica si preoccupino prima degli ascolti (del voto, in tanti sensi!) che della circolazione delle idee e del risveglio dei cervelli. Laura De Luca La radio disegnata Introduzione di Mario Morcellini Pagine 156, Euro 14.00 Mimesis
|