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Questa sezione ospita soltanto notizie d'avvenimenti e produzioni che piacciono a me.
Troppo lunga, impegnativa, certamente lacunosa e discutibile sarebbe la dichiarazione dei principii che presiedono alle scelte redazionali, sono uno scansafatiche e vi rinuncio.
Di sicuro non troveranno posto qui i poeti lineari, i pittori figurativi, il teatro di parola. Preferisco, però, che siano le notizie e le riflessioni pubblicate a disegnare da sole il profilo di quanto si propone questo spazio. Che soprattutto tiene a dire: anche gli alieni prendono il taxi.

Balthazar: ovvero, perché il male?

Di animali parlanti ne è pieno il mondo, molti di loro, politici di professione, ci parlano ragionando su argomenti che rigorosamente ignorano; quelli fra loro che hanno frequentato la scuola dell’obbligo, addirittura scrivono leggi.
Esiste poi un mondo di animali non umani che sono stati dotati del nostro linguaggio da narratori, sceneggiatori, dialoghisti. Dissuasivo è per lunghezza elencarli tutti, credevo che non ci fosse animale che rientrasse in qualche nostra professione… mi sbagliavo: esiste anche un granchio non solo parlante (come “Millo” ideato da Riccardo Garia o quello che agisce nel i videogioco ”Worms Revolution”), ne esiste anche uno parlante e violinista.
L’ho appreso leggendo Balthazar ovvero perché il male? pubblicato dalla casa editrice ETS.

.
L’autrice è Maria Giacometti , filosofa e psicoterapeuta, vive a Venezia. Fra le sue pubblicazioni: saggi filosofici su Habermas e Althusser, traduzioni di opere di Freud, il romanzo filosofico: Bianca e Friedrich. Una storia d’amore, di cannocchiali e di fili d’erba, Kimerik, Patti, 2015, il racconto lungo: Avvinazzamento, o no?, Europa Edizioni, Roma, 2018.
Il granchio di quelle pagine è monologante? Per niente.
Intreccia un dialogo coltissimo con l’asino Balthazar (il nome gli deriva dal film di Robert Bresson "Au hasard Balthazar" del 1966) e discorrono di etica ed estetica, religione e scienza, filosofia e linguistica.

Dalla presentazione editoriale
«L’asinello Balthazar (B) e un granchio violinista (G) si incontrano su una spiaggia. B. ha perduto il suo padrone e, aspettando che ritorni, si intrattiene con il granchio leggendo e discutendo sul tema del male nel mondo.
Così il lettore si ritrova a contatto con i filosofi che, nell’arco del tempo e dello spazio, del male si sono occupati. La forma del dialogo tra i due animali permette una esposizione non eccessivamente pesante e il più possibile chiara di un argomento senz’altro pesante e che non si potrà mai finir di chiarire. Lo sguardo con cui vengono esposte le diverse dottrine filosofiche è laico, a volte irriverente, spesso animalista. Il testo è intervallato da argomenti collaterali che consentono al lettore una pausa distensiva.
Letteratura e psicoanalisi, così, vengono in soccorso alla filosofia: il Voltaire filosofo incontra il Voltaire dissacrante del Candide. La poesia di Leopardi viene accostata all’Ecclesiaste della Bibbia. Freud, sollecitato da Einstein, cerca nella natura pulsionale dell’uomo la ragione della guerra. Alcuni capitoli portano alla luce il dolore inferto agli animali; tra essi è paradigmatico il racconto di Kafka Relazione per un’accademia».

Attraversiamo così il pensiero di Socrate e Platone, Plotino e l’ultimo filosofo pagano Proclo, Agostino e Tommaso, Hume e Kant, Nietsche e Dostoevskij, una maratona per niente faticosa perché condotta con una scrittura scattante, leggera e, a tratti, con lampi umoristici.
Due animali parlanti non possono evitare il discorso su quanto male noi umani facciamo loro. Anche per trarne esempio onde straziare altri umani (dopo averli chiamati, ad esempio, “maiali” quasi a giustificarne l’esecuzione).
E il Giglio violinista ricorda che “L’industria della carne suggerì ad Henry Ford, molto apprezzato da Hitler, l’idea della catena di montaggio nelle fabbriche automobilistiche. L’organizzazione scientifica del lavoro ad Auschwitz, a Treblinka sarebbe inconcepibile senza quei modelli già in uso in America”… E poi nelle società schiavistiche le pratiche di controllo degli animali non umani erano le stesse usate per gli umani: castrazione, marchiatura, incatenamento, taglio dell’orecchio”.

Scrive Maria Giaciometti; “Del male tratta questo libretto.
E’ comune trovare animali parlanti nella storia della letteratura e della filosofia. Ho adottato l’espediente di far disquisire di cose non facli un asino e un granchio. E’ non solo un espediente, se il destino dei viventi è identico, sulla loro comune Terra. Se la differenza tra animali umani e non umani sta nella parola e nel pensiero discorsivo, probabilmente non vi è una grande distanza sul piano delle emozioni, con gradi diversi a seconda della complessità funzionale
.

Le pagine sono scandite da belle Illustrazioni (si suol dire “tavole fuori testo”, qui, invece va detto “tavole assolutamente nel contesto”) di Maria Turchetto, epistemologa e direttrice del periodico “L’Atea”.

…………………………………

Maria Giacometti
Balthazar: ovvero perché il male?
Pagine 128, Euro 122
Edizioni ETS


Rosa Luxenburg


Quanti ibri – molti anche interessanti – sono stati scritti sulla Luxenburg https://it.wikipedia.org/wiki/Rosa_Luxemburg (1871 - 1919). Eppure, quello che presento oggi – pubblicato dalla casa editrice Mimesis ha plurali particolarità a partire dalla firma dell’autrice: Hanna Arendt.
Ebrea tedesca (Hannover, 1906 - New York, 1975), fu allieva di Heidegger e Jaspers. Abbandonò la Germania nel 1933, dopo l’avvento del nazismo si rifugiò a Parigi e, in seguito, negli Stati Uniti, dove divenne docente dell'Università di Chicago e dal 1968 della New School for Social Research di New York. Tra le sue opere principali: “Le origini del totalitarismo” (1967), “Sulla violenza” (1971), “Il futuro alle spalle” (1981), “Sulla rivoluzione” (1983), “Politica e menzogna” (1985), “Ebraismo e modernità” (1986).

Plurali ragioni muovono l’entusiasmo della Harendt per la Luxenburg e quello dei lettori per questo libro, ma uno su tutti spicca: si tratta, difatti, di una biografia non marxista, non interessata a stabilire rapporti di fedeltà (o, peggio, di sudditanza) di Rosa al marxismo.

Conclude il saggio, una preziosa, postfazione di Rosalia Peluso che ricorda quanto voluto da Rosa: Malgrado la neve e il gelo, la solitudine, noi - le cince e io – crediamo nella primavera che viene, E se per impazienza non dovessi vederla, non si dimentichi che sulla mia tomba non ci deve essere scritto niente altro che il loro verso zvi-zvi.


Dalla presentazione editoriale-

«Nata in una famiglia di socialisti ed ebrei assimilati, Hannah Arendt crebbe nel culto di Rosa Luxemburg. La stesura del suo capolavoro, Le origini del totalitarismo (1951), e del saggio Sulla rivoluzione (1963) fu l’occasione per avviare un confronto inedito con l’opera di Rosa Luxemburg, che le rivelò tasselli sconosciuti della sua poliedrica personalità. Lo scritto arendtiano, qui riproposto in una nuova traduzione, evidenzia la relazione tra le idee di queste due “donne in tempi bui”: la diffidenza nei confronti dei movimenti di emancipazione femminile, i limiti dell’internazionalismo di fronte all’emergere della questione nazionale, il maniacale bisogno di protezione della sfera intima, l’esigenza di stabilire metri di equità nel mondo, la necessità di confrontarsi con Marx, l’ansia di preservare l’autentico spirito rivoluzionario insieme al dovere storico e politico di indicare limiti e criticità della prassi rivoluzionaria del XX secolo».

Hanna Arendt
Rosa Luxenburg
Traduzione e postfazione di
Rosalia Peluso
Pagine 138, Euro 10.00
E-Book 6.99
Mimesis.



Il teatro contemporaneo (1)

Autore di un importante testo intitolato Il teatro contemporaneo Presente e futuro dell’arte scenica è Francesco Ceraolo.

Ceraolo (Roma, 1980), è professore associato in Discipline dello spettacolo, L-ART/05. Dottore di ricerca in studi teatrali, ha svolto attività didattica e di ricerca in diversi atenei italiani e stranieri. Tra le sue pubblicazioni: “Il teatro contemporaneo. Presente e futuro dell’arte scenica” (Il Mulino 2022), Teorie dell'evento. Alain Badiou e il pensiero dello spettacolo (cur., Mimesis 2017), Cinema, pensiero, vita. Conversazioni con Fata Morgana (cur., Pellegrini, 2016), Verso un'estetica della totalità. Una lettura critico-filosofica del pensiero di Richard Wagner (Mimesis, 2013), L'immagine cinematografica come forma della mediazione. Conversazione con Vittorio Storaro (Mimesis, 2012), Registi all'opera. Note sull'estetica della regia operistica (Bulzoni, 2011). Ha curato la traduzione e edizione italiana degli scritti sullo spettacolo di Alain Badiou (Rapsodia per il teatro. Arte, politica, evento, Pellegrini 2015) e di György Lukács (L'anima e l'azione, Pellegrini 2020). È stato relatore a numerosi convegni in Italia e all'estero. Nel 2015 è stato insignito dalla Fondazione Teatro La Fenice di Venezia del premio "Arthur Rubinstein - Una vita nella musica" (categoria miglior studioso under 45). È membro del comitato direttivo della rivista “Fata Morgana” (Fascia A, area 10/C1) nella sua versione cartacea e web. Fa parte del comitato scientifico di Apulia Film Commission e della riviste "Biblioteca teatrale" (Fascia A, area 10/C1) e "Il castello di Elsinore" (Fascia A, area 10/C1).

Oggi, il teatro seppur sovrastato dalla capacità di rappresentare storie e personaggi del cinema e della nuova serialità televisiva, rimane un modello per ogni altra pratica della cultura e dello spettacolo. Dalla nascita della regia al concetto di performatività, dall’invenzione del grande attore a quella dello show business, Francesco Ceraolo ci conduce dietro le quinte, tra gli attori, sulle scene e tra il pubblico, alla scoperta di un’arte ancora in grado di dare sostanza al vivere comune.
Il teatro è una pratica antica quanto l’uomo. Insieme alla filosofia e alla matematica, è all’origine della cultura occidentale. Per secoli andare a teatro ha significato consumare un rito culturale e politico attorno al quale si sono costruite classi sociali e formate intere coscienze nazionali.

Segue ora un incontro con Francesco Ceraolo.


Il teatro contemporaneo (2)


A Francesco Ceraolo (in foto) ho rivolto alcune domande.

Nell’affrontare il vasto tema del libro, che cosa hai giudicato di fare assolutamente per prima e quale per prima assolutamente da evitare?

Ho voluto principalmente evitare giudizi valutativi. Quello che intendevo fare era fornire al lettore un panorama il più possibile completo della produzione teatrale contemporanea. O comunque una sorta di mappa per orientarsi all'interno di questo immenso e complesso orizzonte di esperienze. Ho dovuto forzatamente fare delle scelte, dettate dalla loro "emblematicità", ovvero dal loro essere, almeno a mio giudizio, esemplificative di un discorso più ampio. Sarebbe stato impossibile, anche se avessi avuto a disposizione mille pagine, parlare di tutti gli artisti e gli spettacoli contemporanei. In queste scelte mi sono basato però su un principio ermeneutico, non necessariamente sul valore intrinseco degli artisti di cui parlo. Certo, se parlo di certi spettacoli e non di altri vuol dire che hanno colpito in primo luogo la mia attenzione di spettatore. Però la mia intenzione era quella di fornire uno strumento il più possibile esaustivo che fosse utile ad un’ampia platea di lettori. Ci sono numerosi artisti che amo molto che ho dovuto escludere, ma non potevo fare altrimenti.

Maurizio Grande in un suo intervento si chiese: “Ma chi è l’attore: un corpo promosso a figura? Una maschera promossa a persona? Un sostituto promosso a originale?”
Tu come risponderesti a tali domande
?

È una domanda difficile a cui rispondere. L'attore è l'essenza stessa del teatro, senza cui non può esistere. Il teatro non è un'arte impersonale come il cinema, in cui il corpo e l'ambiente sono sullo stesso piano. Si può realizzare un'intera sequenza, persino un intero film, senza neanche un attore. A teatro a un certo punto qualcuno deve entrare in scena, sarebbe impossibile altrimenti (anche se è vero che esperimenti di spersonalizzazione del teatro a partire dal Novecento sono stati fatti). A teatro l'ambiente è "destino" diceva un grande filosofo come Lukács. Vuol dire che a teatro tutto ciò che non è umano è pensato in funzione dell'umano, non può cioè vivere di vita propria. Anche qui, è un discorso complesso perché una parte significativa del teatro contemporaneo ha cercato di rovesciare persino questo aspetto fondamentale. Ma la domanda cruciale è: un attore sulla scena che significato ha? Il punto è che l'attore è una presenza, in carne e ossa, ma è anche un tramite, cioè il veicolo di un discorso ideale che lo precede. La complessità dell'attore teatrale risiede esattamente in questo: deve esserci ma anche scomparire per dare corpo al discorso di cui è portatore.

Che cosa ha significato per la scena contemporanea l’avvento della “performance” ?

L'avvento della performance è l'evento più significativo del teatro a partire dalla seconda metà del Novecento. Si tratta di un discorso lungo e complesso. In breve, a un certo punto all'inizio del Novecento la strada del teatro e quella del dramma si sono separate. La ragione è legata al fatto che il dramma non è stato più in grado di rappresentare la realtà in quanto tale nella forma dell'azione, come aveva fatto fino a quel momento. A un certo punto della modernità la vita si è intellettualizzata e interiorizzata, ha scritto un importante studioso come Szondi. La vita è diventata "antiteatrale". Questa separazione ha portato alla nascita della performance. La performance è il teatro senza rappresentazione, il teatro come pura presenza rituale. Si tratta, come dicevo, dell'aspetto che definisce maggiormente la contemporaneità teatrale.

“Accanto alle pratiche performative”, scrivi – “per superare il concetto di rappresentazione” abbiamo il “reenactment”. Che cosa propone? Perché è importante?

Il reenactement è insieme alla performance uno dei modi in cui il teatro ha cercato di superare il concetto di rappresentazione. La performance l'ha superata attraverso la pura presenza, come dicevo prima. Ovvero il corpo non è più il tramite di alcunché ma è un puro significante con i suoi movimenti, suoni, ecc. Nel reenactement la rappresentazione viene superata invece attraverso la riproposizione sulla scena della realtà stessa. Pensiamo a un autore importante come Milo Rau e al suo tentativo di riproporre la vita sulla scena in modo diretto. In uno spettacolo recente come "Familie" ha chiesto a una famiglia di rivivere l'ultima sera di vita di una famiglia di Calais morta suicida senza un'apparente ragione. Ha costruito sulla scena una casa come quella del grande fratello, tutta vetrata, con schermi e telecamere che seguono gli attori al loro interno. Nessuno recita ma semplicemente vive. La madre mette a posto la cucina, le figlie guardano la tv, il padre è sdraiato sul divano. È, come dicevo, il tentativo di riproporre la realtà stessa senza la mediazione della rappresentazione, del dramma teatrale. Ma come nel caso della performance esiste un residuo di rappresentazione che il teatro non può in alcun modo evitare. Per quanto tu possa o voglia escluderla esisterà comunque.

Largo spazio hai dato nel libro al pubblico teatrale.
Quale la differenza fra il pubblico tradizionale e quello dei festival e del teatro sperimentale
?

Ho scritto che il pubblico tradizionale consuma a teatro un rito principalmente culturale. Si va a teatro per vedere "Pirandello o Shakespeare". In alcuni casi è la volontà di assistere alla performance di un attore o un'attrice famosa (nei casi peggiori del teatro commerciale magari vista in televisione o altrove). Ma la maggioranza delle volte il pubblico tradizionale concepisce il teatro come un luogo di cultura. Questo è specialmente la situazione dei cosiddetti teatri stabili. Il teatro dei Festival o quello sperimentale invece richiama un pubblico diverso. Qui lo spettatore recupera il significato di un'esperienza sociale e artistica. Artistica perché è un pubblico di appassionati e non generico che segue le proposte del teatro contemporaneo. Sociale perché, come nell'Ottocento o nel mondo classico, il teatro è inteso come un luogo di riconoscimento sociale in cui si costruisce una comunità.

Che cosa ha significato il Covid per il teatro? Quali segni ha lasciato nei danni e nell’innovazione?

Il Covid non ha fatto altro che accelerare processi già in atto di mediatizzazione dell'evento teatrale. Esistono, e continueranno a esistere, nuovi oggetti mediali del teatro che si affiancheranno e non sostituiranno l'esperienza dal vivo. Si pensi alle esperienze di Martone all'Opera di Roma, solo per fare un esempio. Il teatro si sta trasformando nel senso che sta affiancando sempre più alle sue procedure tradizionali nuovi tipi di esperienze riproducibili. Non come il teatro filmato degli anni '60 o la semplice ripresa dello spettacolo dal vivo, ma vere e proprie opere autonome e originali. Ripeto, questa cosa accadeva già prima del Covid, ma è indubbio che gli ultimi anni hanno accelerato i processi. Detto questo il teatro rimane un'imprescindibile esperienza dal vivo, un'arte umana fatta di un incontro fisico in carne e ossa tra attore e spettatore. Non è un caso che, dalla riapertura dopo la pandemia in poi, i teatri sono tornati a riempirsi mentre i cinema sono mezzi vuoti, almeno in Italia. L'esperienza dal vivo a teatro è insostituibile.

Siamo alla conclusione del nostro incontro.
Dimmi, con sincerità, che cosa ti fa venire la scarlattina quando la noti su di un palcoscenico

Parecchie cose! Diciamo che il teatro può essere l'arte più emozionante che esista ma bisogna saperla fare! Spesso assistiamo a spettacoli noiosi, inutili, vuoti. Sono la negazione del teatro ed è la cosa che mi infastidisce di più.

Francesco Ceraolo
Il teatro contemporaneo
Pagine 152, Euro 12.00
e-book Euro 6.49
il Mulino


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